Fresco dall’ombra,
il respiro d’autunno,
allevia l’afa.
Eleggono i gatti,
le siepi, a giaciglio.
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ORIGAMI
HAIKU/ STORIA
Haiku sull’origami.
Carta si piega,forme vive in volo,mani d’artista.
#haiku
L’haiku è una breve poesia giapponese composta di 3 versi di 5, 7 e 5 sillabe.
In questo caso, ho cercato di catturare l’essenza dell’origami, quell’arte di piegare la carta per creare bellissime forme geometriche. L’origami può essere visto come una danza silenziosa della carta, guidata dalla…
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Haiku - Tautogramma in Ⓖ
La proposta di Eletta Senso per questa settimana (qui) è un Haiku/Tautogramma: un testo di tre versi (5 sillabe /7 sillabe/5 sillabe) usando parole che abbiano come iniziale sempre e solo la lettera Ⓖ come Giugno.
Ecco il mio haiku-tautogramma :
Gingillandosigiugno gusta gelatigolosamente
Se volete giocare con noi, i vostri testi saranno riportati qui sotto⤵️
The proposal for this week is the…
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Poesie haiku sulla natura: doni dal Giappone
Le poesie haiku sulla natura rappresentano una delle forme più di componimento più rappresentativo della cultura orientale. Nate in Giappone, sono uno strumento di contemplazione e meditazione. In pochi righi sono capaci di trasmettere suggestioni che inducono all'introspezione.
Cos'è un haiku?
Un haiku è una forma di poesia giapponese composta da tre versi, con una struttura sillabica fissa di 5-7-5, per un totale di 17 sillabe. Tradizionalmente, l'haiku è un'immagine poetica che cattura un momento fugace della natura, spesso con una forte connessione alla stagione in cui è stato scritto.
L'haiku è spesso concentrato sulla natura o su una breve esperienza, ed è progettato per evocare un'immagine mentale o un'emozione in modo semplice ed essenziale. Un haiku classico di solito include un riferimento alla stagione o al tempo dell'anno, chiamato kigo, e un "taglio" o kireji, che separa il poema in due parti, creando una tensione o un contrasto tra di esse. Il linguaggio utilizzato nell'haiku è spesso metaforico o suggestivo, piuttosto che esplicito, e lascia spazio all'interpretazione personale del lettore.
Poesie haiku sulla natura: che scopo hanno?
Lo scopo principale delle poesie haiku sulla natura è quello di evocare una reazione emotiva o una connessione con la natura attraverso la sua immagine mentale, utilizzando poche parole e un linguaggio semplice ed essenziale.
L'haiku tradizionale giapponese si concentra sulla bellezza della natura, sul passaggio delle stagioni e sui momenti fugaci della vita quotidiana, cercando di catturare la sua essenza con la massima precisione possibile.
Oltre a rappresentare un'esperienza o un'immagine naturale, l'haiku può anche riflettere l'umore, il pensiero o l'esperienza personale del poeta, o suggerire un senso di armonia, equilibrio o semplicità nella vita.
Nella cultura giapponese, l'haiku è spesso utilizzato come forma di meditazione o contemplazione, e la sua brevità e semplicità sono premurose virtù estetiche. Oggigiorno, l'haiku è ampiamente apprezzato e praticato in tutto il mondo come forma di poesia distinta e raffinata, sia nella sua forma tradizionale che in varianti più sperimentali.
Chi ha inventato l'haiku?
L'haiku è una forma di poesia giapponese che si è sviluppata nel XVII secolo. E' stata poi perfezionata da un poeta giapponese di nome Matsuo Basho. Basho è considerato uno dei più grandi poeti di haiku di tutti i tempi. Ha scritto molti dei più famosi e iconici haiku della tradizione giapponese. La sua opera più famosa è il "Sentiero del dorso di cavallo" (Oku no Hosomichi), un diario di viaggio poetico che descrive il suo viaggio attraverso il Giappone e che contiene molti haiku. La sua opera ha influenzato profondamente la forma e lo stile dell'haiku.
Tuttavia, il formato di poesia che oggi conosciamo come haiku ha avuto origine molto prima di Basho. L'haiku deriva da una forma di poesia chiamata hokku. L'hokku una parte integrante di una forma di intrattenimento chiamata renga, in cui i partecipanti si alternano nella scrittura di una serie di versi collegati.
Il primo hokku è stato scritto nel XII secolo da un monaco buddista giapponese di nome Saigyo. E' stato Saigyo ad aver introdotto l'idea di utilizzare una descrizione della natura come primo verso di una sequenza di versi.
Chi scrive haiku?
L'haiku è una forma di poesia che può essere scritta da chiunque, in qualsiasi lingua. Tuttavia, l'haiku ha origini nella tradizione giapponese e molti poeti che scrivono haiku oggi si ispirano alla tradizione giapponese.
Nella tradizione giapponese, l'haiku è stata scritta da un'ampia gamma di autori, da poeti professionisti a dilettanti, da uomini e donne, e da persone di tutte le età. L'haiku è sempre stata una forma di poesia popolare, che è stata scritta e apprezzata dalle persone comuni.
Oggi, l'haiku è una forma di poesia molto popolare in tutto il mondo, e molti poeti contemporanei scrivono haiku in diverse lingue. Molti di questi poeti cercano di rispettare la forma e la struttura del haiku giapponese, mentre altri sperimentano con la forma e la adattano alle proprie esigenze espressive.
In generale, l'haiku è una forma di poesia che incoraggia la contemplazione della natura e della vita, e molti poeti scrivono haiku per riflettere su momenti fugaci e per catturare l'essenza del mondo che li circonda.
In copertina foto di For commercial use, some photos need attention. da Pixabay
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“Non hai idea della mia totale infelicità dal giorno in cui mi sono separato da te”. Byron a Venezia: le avventure del poeta seduttore tra Marianna (“un’antilope”), Margherita “la tigre” e la contessa Teresa, sedicenne
Poeta di Childe Harold e dei celebri “racconti turchi” che diffondono per l’Europa la ‘moda’ dell’eroe byroniano in una quasi contaminazione estetica, Byron è anche straordinario personaggio, tra i primi a capire meccanismi e risvolti del fenomeno mediatico (per dirla in termini contemporanei). Provocatore e in lotta con l’establishment di cui pure fa parte – “I was born for opposition” dichiara in Don Juan –, crea la propria leggenda di uomo-dio, dalla vita pericolosa e affascinante.
Innamorato dell’Italia e di Venezia in particolare, in Italia Byron vive un periodo straordinario: con Childe Harold passa dalla stanza spenseriana all’ottava rima, legge Tasso, Boiardo e Pulci, oltre naturalmente al “gran padre Dante”, e fa propria l’ottava al punto da trasformarla, tout court, nella ‘stanza byroniana’. A Venezia conosce poi il suo ultimo amore.
Ci arriva il 10 novembre 1816, provenendo da Milano e prima dalla Svizzera, dove ha conosciuto ed è stato a lungo con gli Shelley sul lago di Ginevra. Dall’Inghilterra si è voluto allontanare in “esilio volontario” – lo dirà nelle lettere agli amici e all’editore – per la serie di scandali addensatisi con clangore di tempesta sul suo matrimonio con la rigida e devota Isabella Millbank, “la principessa dei parallelogrammi”, matrimonio finito dopo solo un anno e la nascita della piccola Ada, nonché altre ‘complicazioni’ private, la breve relazione catastrofica con la chiassosa Caroline Lamb e il legame felice ma impossibile con la sorellastra Augusta.
Il suo proposito è restare in Italia l’inverno e la primavera del 1816, quindi rientrare nell’isola. Echi della madrepatria lo raggiungeranno con le visite degli amici – Shelley, John Cam Hobhouse e altri –, ma non rivedrà più l’Inghilterra, né la figlia. Con lui resterà fino alla fine solo il fidato factotum John Fletcher.
*
A Venezia intreccia velocemente amicizie e relazioni amorose. La città gli si confà: Byron l’ama ancora prima di trovarvi asilo grazie alle letture, esperienze letterarie e libri di viaggio molto richiesti dai cosiddetti armchair travellers, i “viaggiatori in poltrona”. Venezia per lui è ancora Serenissima: l’atmosfera di libertà totale cittadina favorisce tutte le sue fantasie, dalle donne al Carnevale, dalle gite in barca alle feste e i teatri, alle bizzarrie estreme delle sfide a nuoto nel Canal Grande.
Ma a Venezia il mitico Lord anche scrive, e moltissimo: Manfred, il “poema metafisico” come lo chiama, The Lament of Tasso, il Canto IV di Childe Harold dedicato all’Italia, Beppo, A Venetian Story e l’Ode to Venice, The Prophecy of Dante, Mazzeppa e il caustico Don Juan.
È tra l’altro un puntuale, copioso, divertente autore di lettere: racconta la sua vita veneziana agli amici rimasti in Inghilterra in un furor scribendi sorprendente per il numero di epistole giornaliere (i 17 volumi dell’edizione Murray diventano 12 nell’edizione Marchand, che firma anche l’eccellente biografia in tre volumi). Una prosa torrentizia e non sorvegliata, avvincente, piena di spontaneità e senso dell’umorismo – talvolta più appunti che vere e proprie lettere – riferisce il tourbillon di amanti, feste e incontri, il ritorno a casa in piena notte con una fiaccola retta in bocca per non farsi travolgere dalle gondole, la vita grandiosa nei palazzi.
*
Alcune contengono struggenti descrizioni di Venezia, come in questa velata dallo schermo shakesperiano: “Venezia è sempre stata (accanto all’Oriente) l’isola più verde della mia immaginazione. Non mi ha deluso, malgrado la sua evidente decadenza. Ma io sono troppo abituato alle rovine per non amare la desolazione. Inoltre mi sono innamorato, il che, dopo il cadere in un canale, è la cosa migliore o forse peggiore che potessi fare. Ho trovato appartamenti molto belli nella casa di un ‘Mercante di Venezia,’ assai occupato dai suoi affari, e con una moglie di 22 anni. Marianna (così si chiama) somiglia a un’antilope. Ha occhi grandi, neri, orientali (…) pelle chiara (…) capelli ricci castano lucido…” (Byron’s Letters and Journals, BLJ 5, a Thomas Moore, 17 novembre 1816).
Marianna Segati è la prima delle sue frequentazioni femminili veneziane. All’amico Moore scrive di lei e altre amanti, del palco che ha preso alla Fenice, del Carnevale, le feste e le dame conosciute, non ultima la Contessa Albrizzi, nella cui casa ammira l’Elena di Canova. E intanto, “ogni mattina vado con la mia gondola a parlottare armeno con i frati del convento di S. Lazzaro” (24 dicembre 1816), perché vuol imparare l’armeno ma anche il veneziano, attratto dalla musicalità delle sue sonorità aperte comuni alla nostra lingua, che parla piuttosto bene:
Amo la lingua, quel dolce Latino bastardo,
Che si fonde come baci sulla bocca di una donna,
E risuona come fosse scritto sul raso,
Con sillabe che respirano del dolce sud (Don Juan xviv)
*
Al suo editore, John Murray, Byron mostra invece una Venezia spazio letterario, prisma della sua fantasia di lettore: “è un luogo poetico; e classico, per noi, da Shakespeare ad Otway” (5 dicembre 1816). La sua visione della città è nell’ossimoro “cupa allegria” e silenzio di canali, calli e campielli: “Venezia mi piace quanto mi aspettavo, e mi aspettavo molto. È uno dei luoghi che conosco ancora prima di averli visti, e che mi ha sempre affascinato (…). Amo la cupa allegria delle sue gondole, e il silenzio dei suoi canali. Né disdegno l’evidente declino della città, rimpiango la particolarità dei loro costumi passati, sebbene molti sopravvivano”. Ma poi, comunque, “Carnevale sta per iniziare” (25 novembre 1816) e lui uscirà ogni sera, “in my cloak & Gondola, in tabarrato e gondola” (ad Augusta, 19 dicembre 1816).
Questa corrispondenza spesso si declina in vorticose girandole di arguzie: “e poi c’è piazza San Marco – e le conversazioni – e varie buffonerie…” (ad Augusta, 19 dicembre 1816); “ieri sera ero in casa del conte governatore che, naturalmente, comprende la migliore società, molto simile a raduni simili in ogni paese – e nel nostro – tranne che, invece del Vescovo di Winchester, trovi il Patriarca Venezia…”; dopo la pièce sul sacrificio di Isacco “han chiamato fuori l’autore – secondo il costume continentale – e lui si è presentato, un nobile veneziano, Mali – o Malapiero, di nome. Mala era il nome, e pessima [in italiano] la rappresentazione” (a Moore, 24 dicembre 1816). Questo al teatro Benedetto, ma “il teatro La Fenice (è) il più bello ch’io abbia mai visto …” (a Murray, 27 dicembre 1816
Solo con Augusta il canovaccio del perfetto e cinico viveur, amante imperterrito dalla sfrenata vita veneziana, si strappa a volte in sincerità: “Sciocchina mia cara – (…) non hai idea della mia totale infelicità dal giorno in cui mi sono separato da te…” (18 dicembre 1816).
*
Nel Canto IV di Childe Harold inserisce il suo inno appassionato a Venezia. L’annuncia all’editore Murray da Mira, nella campagna dell’entroterra veneziano dove trascorre il periodo più caldo dell’estate. Là, con la compagnia di amici “siamo esattamente una commedia di Goldoni” (14 luglio 1817). Al buonumore si avvicenda la serietà – “Considero Childe Harold la mia opera migliore” (15 settembre 1817) –, e la minuziosità delle note che accompagnano il Canto testimonia la sua passione per storia, costumi e carattere dei veneziani.
In versi molto noti racconta una Venezia incantata, nata dall’acqua per virtù d’incantesimo:
I stood in Venice, on the Bridge of Sighs…
Stavo a Venezia, sul Ponte dei Sospiri,
Da un lato un palazzo, dall’altro una prigione:
Vedevo sorgere dalle onde i suoi edifici,
Come al colpo d’una bacchetta magica.
Mille anni mi stendono intorno le ali di nebbia … (IV 1)
E qui Byron fissa d’ora in poi l’“atteggiamento letterario” del viaggiatore contemporaneo verso Venezia: chiunque intraprenda il Gran Tour e abbia letto questo Canto arriva a Venezia con una copia del Childe Harold sotto il braccio – scriverà Ruskin – indicando anche nel Ponte dei sospiri il centro ideale della Venezia byroniana.
E tuttavia non parla della Venezia che vede tutti i giorni, ma una città già consegnata al passato, diventata già leggenda:
A Venezia ora non sono più gli echi di Tasso;
E silenzioso il gondoliere voga senza più cantare,
I suoi palazzi si dissolvono in mare
E la musica non accarezza l’orecchio;
Quei giorni sono passati per sempre, ma la Bellezza rimane. (IV 3)
*
È la stessa operazione di Beppo, A Venetian Story: mentre ricrea una Venezia priva di abitanti vivi e reali – “Per noi lei conserverà il suo incanto più a lungo / Del suo nome nella storia…” – la popola di “ombre possenti”, i dogi del passato splendido e le figure letterarie associate a Venezia, Shakespeare e Otway, “Shylock, Otello, il Moro” (iv 4):
Gli esseri creati dalla mente non sono di polvere:
Nella loro essenza immortali, (…)
muovono l’esistenza che più amiamo (IV 5)
Sono “rifugio”, “sentimento” e“terra d’incanti”, alla pari solo con le costellazioni dell’“universo impetuoso” della Musa (iv 6). Immagini che commuovono e legano: “Le ho viste o sognate”: “arrivate come vere – sono scomparse come sogni” (iv 7).
Chiudendo sulla nota della nostalgia il Canto si ripiega in sé, come tornasse al punto di partenza:
Ho sempre amato Venezia, fin da fanciullo: mi
Sembrava una città incantata del cuore,
Fatta di mura e colonne d’acqua che salgono dal mare,
(…) dei momenti più felici
Che tramano il tessuto della mia esistenza,
Alcuni sono tinti dei tuoi colori, o Venezia! (IV 18)
*
Da sempre amante del mare, a Venezia Byron ‘scopre’ il Lido. Ne è tra i primi, entusiasti estimatori e tra le molte mode da lui “lanciate” c’è anche questa del Lido, “in tutta la gloria di un azzurro cielo italiano” (a Murray, 14 aprile 1817).
Vicino all’antico fortino di S. Nicolò tiene alcuni purosangue arabi: quasi ogni giorno e da solo, va a galoppare in riva al mare fino a Malamocco. La spiaggia è – anche oggi – oro, erbe lunghe che crescono spontanee sulle dune, ardere di tramonti viola in mare aperto.
Nel 1818 è suo ospite Shelley, che ricorderà le passeggiate a cavallo e la loro amicizia nel poemetto Julian e Maddalo. Julian è Shelley, Maddalo è Byron, e così doveva essere il Lido, agli inizi dell’800:
Cavalcavo una sera con il Conte Maddalo
Sulla striscia di terra che rompe il flutto
Dell’Adriatico verso Venezia. È una brulla spiaggia
Di dune, modellate dalla sabbia sempre in movimento,
Cosparsa di cardi ed erbe acquatiche,
Che la melma salata fa nascere dall’abbraccio con la terra;
Un luogo di mare disabitato,
Che persino il pescatore solitario, asciugate le reti,
Abbandona…
Il Lido è all’epoca una distesa brada, spezzata solo da rari arbusti, qualche legno sbiancato dal mare. Accanto, la marea crea lingue di terra piatta, “Dove ci piaceva cavalcare al crepuscolo”:
Nell’aria assolata le folate di vento
Alzavano la viva spuma marina
Fino al viso; vuoto era il cielo azzurro,
Striato in lontananza dal nord che saliva …
I cavalli con le zampe immerse nell’acqua, spruzzi tra gli zoccoli, gocce sollevate nel sole: “Quel giro a cavallo era la mia gioia”. I due vanno vicini e parlano, “e veloce il pensiero, / Intrecciato alle risate (…) volava da una mente all’altra”, come l’amore per ogni luogo “spaziato e solitario”, dove il cuore prova
La gioia di credere che quel che vediamo
È sconfinato, come vorremmo le nostre anime …
*
Nella primavera dello stesso 1818 Byron si è nel frattempo trasferito a Palazzo Mocenigo: ha bisogno di più spazio per il suo complicato e fantasioso ménage che include adesso il gondoliere Tita (Giovanni Battista Falcieri), un omone vigoroso affiancato al prezioso Fletcher, dei domestici e di lì a poco anche Allegra, la bambina nata dalla relazione-lampo con Claire Clairmont, sorellastra di Mary Shelley. Fanno inoltre parte della ‘famiglia’ molti cani, svariati uccelli, due “affascinanti scimmie”, una volpe, un lupo e “la tigre”.
Con il trasferimento a Palazzo Mocenigo termina la relazione con Marianna e inizia per lui una vita agitata in cui frequenta ancora molte donne, la più importanti delle quali è Margherita Cogni, detta “la Fornarina” o, appunto, “la tigre”.
Margherita, che frequenta il palazzo nel ruolo di “donna di governo”, è una seducente virago di 22 anni, “molto scura di carnagione – alta – viso veneziano – occhi neri molto belli – e certe altre qualità che non serve menzionare. – (…) una vera veneziana nel suo dialetto – la sua mentalità – il contegno – in ogni cosa – con tutta la loro ingenuità e l’umorismo buffonesco – e inoltre non sa né leggere né scrivere – e non può affliggermi di lettere”.
Alla giovane non mancano certo spirito o dialettica: “Quando l’ho conosciuta avevo una “relazione” [in italiano] con la Signora Segati – che una sera a Dolo è stata così sciocca (…) da minacciarla – perché i pettegoli della Villeggiatura [in italiano] – avevano già scoperto (…) che “cavalcavo spesso a notte fonda” per incontrare la Fornarina. – Margherita (…) le ha risposto in veneziano molto esplicito – “Tu non sei sua moglie; io non sono sua moglie – tu sei la sua donna – e anch’io sono la sua donna – tuo marito è un cornuto – e il mio fa il paio; – perciò che diritto hai di rimproverarmi?”.
*
Purtroppo però è anche “selvaggia”, spia le sue lettere in un crescendo di possessività, cerca più volte di stabilirsi a palazzo Mocenigo: Byron si sforza di far ragionare “la dolce tigre”, il marito viene a cercarla, la polizia interviene e lei deve “tornare da quel “becco Ettico” [in italiano], ossia il “povero uomo malato di tisi”. A lei si devono alcuni episodi formidabili, come il racconto del violento temporale che sorprende Milord in barca, verso il Lido:
“Un giorno d’autunno stavo andando al Lido con i miei gondolieri – ci sorprese una burrasca che mise in pericolo la Gondola – via volarono i cappelli – l’imbarcazione piena d’acqua – perduti i remi – mare in tumulto – pioggia a torrenti – notte imminente – & vento che cresceva ogni minuto. – Al ritorno – dopo una fiera lotta, la trovai sui gradini di Palazzo Mocenigo prospicienti il Canal Grande – i grandi occhi neri fiammeggiavano tra le lacrime e i lunghi capelli scuri le ruscellavano gonfi d’acqua sul viso & sul petto; – era completamente esposta alla tempesta – il vento che gonfiava i capelli e il vestito avvolto all’alta figura – e i lampi che le sfolgoravano vicino e le onde che le rullavano ai piedi la facevano somigliare a Medea o alla Sibilla della tempesta che le ruggiva attorno – il solo essere vivente nel canale, a parte noi. – Vedendomi salvo non aspettò di salutarmi come credevo, ma mi gridò contro: “Ah! Can della Madonna xe esto il tempo per andar al Lido? [in italiano]”, si precipitò in casa e prese a divertirsi rimproverando i barcaioli perché non avevano presagito il “temporale”. – I domestici mi hanno detto di essere riusciti a impedirle di venire a cercarmi in barca – grazie al rifiuto di tutti i gondolieri del Canal Grande di uscire in un tempo simile e allora si è seduta sui gradini nella furia della tempesta– e nessuno è riuscito a smuoverla o calmarla. – La sua gioia nel rivedermi – così mista a ferocia – m’ha dato l’idea di una tigre che stesse riacquistando i suoi cuccioli”.
L’attaccamento veemente non basta ad ogni modo a tenerla a palazzo: Margherita “è diventata ingovernabile”, constata Byron. L’ennesima lite, in cui lei impugna un coltello, porta la storia all’epilogo – con una coda inaspettata: “Se intendesse usarlo contro di me o contro di sé non so – probabilmente contro nessuno dei due – ma Fletcher l’ha afferrata per le braccia – e disarmata. – Poi ho chiamato i miei barcaioli – perché approntassero la barca per ricondurla a casa sua – assicurandosi che non combinasse altri guai nel frattempo. – Sembrava molto tranquilla e scese le scale. – io ripresi la mia cena. – abbiamo sentito un gran rumore – (…) si era gettata nel Canal Grande…”. (BLJ 6, a Murray, 1agosto 1819)
*
Agli inizi di aprile 1819, nel salotto di Isabella Teotochi Albrizzi il poeta conosce Teresa Gamba, solo sedicenne, il giorno del suo matrimonio con il Conte Guiccioli: “Mi sono innamorato di una contessa Romagnuola [in italiano] di Ravenna (…) – e ho speranze Signore – speranze – ma lei vuole che vada a Ravenna – & poi a Bologna – ora questo andrebbe benissimo se avessi certezze – ma per semplici speranze – se mi dovesse piantare – e io dovessi far “fiasco” [in italiano] – non potrei mai più mostrar la faccia in Piazza” (Byron qui scrive “if She should plant me and I should make a “fiasco”, traduzione letterale, sebbene scorretta del gergale “piantare”, “mollare”). La lettera prosegue: “il Conte è tremendamente ricco – (…) – ma ha cinquant’anni ed è bizzarro – ha due altre mogli e figli prima di questa terza – una bella ragazza bionda uscita l’anno scorso dal convento – che sta facendo il suo secondo giro di Conversazioni [in italiano] a Venezia – (…) È bella – ma non ha tatto – risponde a voce alta – quando dovrebbe sussurrare (…) – e proprio questa sera ha fatto inorridire una composta compagnia in casa della Benzoni chiamandomi con un urlo “Mio Byron”, ben udibile in una pausa di assoluto silenzio (…) – Tra i suoi presupposti è che non dovrò mai lasciare l’Italia; – non desidero lasciarla – ma non vorrei nemmeno esser spiattellato in comune Cicisbeo. – cosa farò! Sono innamorato – e stanco del concubinaggio promiscuo…” (a John Hobhouse, 6 aprile 1819).
Così lo descrive invece lei, Teresa, nelle sue Memorie, scritte in francese molti anni dopo: “Il suo contegno nobile e squisitamente attraente, il tono della sua voce, le sue maniere (…) lo rendevano così diverso e superiore a chiunque altro avessi incontrato prima, che era impossibile non lasciasse in me una profondissima impressione. Da quella sera, durante il mio intero soggiorno a Venezia, c’incontrammo ogni giorno”.
*
In effetti la contessa “chiara come l’alba – e calda come mezzogiorno” (a Douglas Kinnaird, 24 aprile 1819) non lo “pianterà”: già il 22 aprile Byron le scriverà – in italiano – chiamandola “Carissimo il mio Bene”, che il 25 diventa “Amor Mio”, e “Anima Mia” il 3 maggio.
In giugno va a trovarla a Ravenna, a settembre lei viene a Venezia e insieme trascorreranno molto tempo nella villa di Mira, nella campagna veneziana.
In novembre Byron fa l’ultima cavalcata al Lido. Pensa di tornare in Inghilterra, poi cambia idea per un malore della piccola Allegra, che ha sistemato nel collegio di Bagnacavallo. A dicembre parte per Ravenna: vuol seguire Teresa. Fino alla partenza per la Grecia, sarà per lei “quel che qui chiamano in modi diversi – talvolta un “Amoroso” [in italiano] (…) tal altra un Cavalier servente [in italiano]” (ad Augusta, 19 dicembre 1816).
A Venezia farà sporadici ritorni, ma la sua esperienza veneziana è finita.
Paola Tonussi
*In copertina: Lord Byron nel ritratto di Richard Westall
L'articolo “Non hai idea della mia totale infelicità dal giorno in cui mi sono separato da te”. Byron a Venezia: le avventure del poeta seduttore tra Marianna (“un’antilope”), Margherita “la tigre” e la contessa Teresa, sedicenne proviene da Pangea.
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haiku about Japan, by Daniela Domenici misterious Japan ancient civilization: haiku poetry (la struttura Haiku di tre versi composti da 5-7-5 sillabe è stata da me mantenuta utilizzando, però, la divisione sillabica della lingua inglese…the Haiku structure of three verses made of 5-7-5 syllables has been maintained while using the English syllbic division… )
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Verso Tokyo 2021: L'haiku
Verso Tokyo 2021: L’haiku
L’haiku, una delle forme più importanti della poesia tradizionale giapponese, è un componimento di 17 sillabe, in 3 versi composti da tre unità metriche di 5, 7 e 5 sillabe ciascuno.
Ma, da sempre, c’è stata molta confusione tra i tre termini relativi alla poesia in giapponese, haiku, hokku e haikai.
(more…)
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Tradurre una canzone || 100daysoflanguages 5
As someone asked, I’ll translate God Rap by Eminem
(did he write the Divina Commedia wth... jk)
Just know that rap has deeper meaning and some slang words I might not get sometimes or that are though to translate so yep I leave you also this translation
Dio del Rap
(ENG lyrics)
Guarda, stavo per andarci piano con te per non ferire i tuoi sentimenti
Ma prenderò al volo questa unica possibilità
Qualcosa non va, lo sento (sei minuti. Slim Shady, sei in diretta)
Ho solo una sensazione, come che qualcosa stia per succedere, ma non so cosa
Se ciò significa, quello che io penso significhi, siamo nei casini - grossi casini-
E se lui è così fuori come dici, non correrò il rischio
Tu eri proprio come il cacio sui maccheroni
Inizio a sentirmi come il Dio del Rap, il Dio del Rap
Tutta la mia gente dalla prima fila all'ultima annuisca, annuisca
Ora chi pensa che le sue braccia siano lunghe abbastanza per tirare schiaffi?
Dicono che rappo come un robot, e allora chiamami Rapbot
Ma per me fare rap come se fossi un computer deve essere nel miei geni
Ho un portatile nella mia tasca posteriore
La mia penna spara se la carico a metà
Mi son fatto un grosso rotolo (di soldi) dal guadagno di questo rap
Mi guadagno da vivere e da uccidere da questo
Fin da quando Bill Clinton stava ancora nel suo ufficio
Con Monica Lewinsky che sentiva le sue palle
Sono ancora un MC tanto onesto
Ma anche tanto maleducato e indecente quanto tutto l'inferno
Sillabe, omicida dipendente (uccidili tutti così)
Questo hip hop viscido, beffardo e confuso
Non vuoi davvero fare a gara a chi piscia più lontano con questo rap rapido,
Che imballa un Mac nel bagagliaio di una Ac, fate i bagagli un backpack rap, sì, bla bla bla
Nello stesso preciso momento in cui mi cimento in queste bravate di versi acrobatici, mentre sto cercando di capire
Se sarò ancora in grado di rompere un cazzo di tavolo
Sulla schiena di un paio di froci e romperlo a metà
Ho appena realizzato quanto fosse ironico che io avessi firmato con la Aftermath dopo quel fatto
Come sarebbe stato possibile per me non sfondare? Tutto quello che faccio è sganciare delle C (cazzo) di bombe, senti la mia determinazione d'attacco
I rappers stanno passando dei momenti difficili, punto, ecco un maxi assorbente
A dire il vero si sta mettendo disastrosamente male
Per i deboli mentre io sto costruendo magistralmente questo capolavoro mentre
Inizio a sentirmi come il Dio del Rap, il Dio del Rap
Tutta la mia gente dalla prima fila all'ultima annuisca, annuisca
Ora chi pensa che le sue braccia siano lunghe abbastanza per tirare schiaffi?
Fatemi dimostrare come mantenere alto il livello di sta merda non sia così difficile
Tutti quanti vogliono le chiavi e il segreto per l'immortalità del rap proprio come ce li ho io
Beh, ad essere sincero il piano è semplicemente rabbia ed esuberanza giovanile
Tutti amano tifare per un seccatore
Colpire la terra come se fosse un asteroide, che non ha fatto altro che mirare alla luna da quando
Gli MC vengono portati a scuola con questa musica
Perchè la uso come un veicolo per irrompere con una rima
Ora dirigo una nuova scuola piena di studenti
Io? Sono il prodotto di Rakim, Lakim Shabazz, 2Pac N.W.A, Cube, hey, Doc, Ren, Yella, Eazy, grazie a voi, loro hanno avuto Slim
Abbastanza ispirato per farti crescere un giorno, sfondare e essere nella condizione
Di incontrare i Run DMC e introdurli nella fottutissima Rock n' Roll Hall Of Fame
Anche se entro in chiesa e mi faccio espoldere in una bolla di fiamme
La sola Hall of Fame alla quale sono stato introdotto è l'alcool della gloria,
Sul muro della vergogna
Voi froci pensate sia tutto un gioco fino a quando non cammino in un ammasso di fiamme
Su una tavola, ditemi a che cazzo state pensando?
Giovane ragazzo con lo sguardo felice
Così felice che riesco a malapena a dirlo con uno sguardo normale, ragazzo
Tu sei testimone di un massacro
Come se guardassi una congregazione in chiesa, ragazzo
Oy hey, quel ragazzo è felice, questo è tutto ciò che dicono, ragazzo
Tu ti prendi il pollice all'insù, una pacca sulla spalla
E un modo per andartene dalla tua etichetta ogni giorno, ragazzo
Hey, ragazzo, che dici ragazzo?
Io ho ottenuto un 'hell yeah' da Dre ragazzo
Lavorerò per tutto quello che ho
Non ho mai chiesto un cazzo a nessuno, levati di mezzo ragazzo
In pratica ragazzo tu non sarai mai capace
Di mantenere lo stesso livello ragazzo
Perché inizio a sentirmi come il Dio del Rap, il Dio del Rap
Tutta la mia gente dalla prima fila all'ultima annuisca, annuisca
Il modo in cui corre sulla pista, chiamatemi Nascar
Sono il Dale Earnhardt del parcheggio roulotte, il Dio del White Trash
Inginocchiatevi davanti al Generale Zod questo pianeta è Krypton, non Asgard
Così tu sarai Thor e io sarò Odin, tu rodente io onnipotente
Prima assolto poi mi ricarico immediatamente con queste bombe che sto portando
E non dovrei essere svegliato,
Sono un morto che cammina, ma sono solo un testa parlante, uno zombie che galleggia
Ma ho tua mamma che mi fa un pompino
Sono fuori di testa, non abbiamo niente in comune barboncino
Io sono un doberman, datti un pizzicotto al braccio e fammi gli ossequi, studente
Sono io, la mia onestà è brutale
Ma è comunque una onestà futile se non utilizzo ciò che faccio
Per qualcosa di buono almeno una volta ogni tanto
Quindi voglio assicurarmi che nella mia scrittura a zampa di gallina e confusa
Ci siano abbastanza rime per forse cercare di aiutare qualcuno a superare dei brutti momenti
Ma mi conservo alcune rime in caso voi senza contratto
Rappers affamati mi guardaste come se fossi il pranzo
So che c'è stato un tempo in cui
Ero il re dell'underground, ma riesco ancora a fare rap come se facessi parte del reticolo di Pharoahe Monch
Così sgranocchio le rime, ma a volte quando metti insieme
L'attrazione e il colore della mia pelle
Diventi troppo grande ed ecco che provano a censurarti
Come quel verso che ho detto in 'I'm back' nel Marshall Mathers LP
Quello dove ho provato a dire che prendo sette bambini della Columbine
Li metto tutti in fila, aggiungo una AK-47, un revolver e un nove millimetri
Vediamo se riesco a farla franca ora che non sono così grande come una volta, Ma mi sono trasformato in un immortale che viene da un portale
Tu sei rimasto bloccato nella curvatura spazio tempo del 2004
E non so cosa cazzo rappi a fare
Tu non hai senso come Raperonzolo con le fottute treccine
Tu sei tipo normale, fanculo essere normale
E io ho appena comprato la pistola a raggi X dal futuro
Per tornare e spararti come quando Fabolous ha fatto incazzare Ray J
Perchè Fab ha detto che sembrava un frocio nell'appartamento di Mayweather
Cantando ad un uomo mentre suonavano il piano
amico, oh amico, c'era uno speciale 24 ore su 24 7 giorni su 7, sul canale via cavo
E allora Ray J è andato dritto alla stazione radio proprio il giorno dopo
'Hey Fab, ti uccido'
Testi che ti arrivano ad una velocità supersonica (JJ Fad)
Uh, sama lamaa duma lamaa tu pensi che io sia umano
Cosa devo fare per farti entrare in testa che son un super uomo
Innovativo e sono fatto di gomma
Quindi tutto quello che mi dici rimbalza da me e si riattacca a te
Non affermo mai, più di quanto non abbia dimostrato
Come dare a un publico di figli di puttana la sensazione che stiano lievitando
Mai sbiadire e lo so che quelli che mi odiano staranno sempre ad aspettare
Il giorno in cui potranno dire che sono finito, faranno festa
Perchè io conosco il modo per motivarli
Facendo musica elevata, tu fai musica per ascensori
Oh, lui è troppo mainstream
Beh, questo è quello che fanno quando diventano gelosi, si confondono
Non è hip hop, è pop, perchè ho trovato un fottuto modo di fonderlo
Con il rock, rap scioccante col Dottore
Lanciare Lose Yourself e farli perdere
Non so come fare canzoni così
Non so che parole usare
Fammi sapere quando ti succede
Mentre sto stracciando uno qualsiasi di questi versi diversi come te
Sipario chiuso, ti sto innavertitamente facendo male
Quanti versi devo ammazzare per provare
Che se sei bravo almeno la metà a fare canzoni puoi anche sacrificare vergini!
Bocciato a scuola, pillole dipendente,
Ma guarda i riconoscimenti che le mie abilità mi han portato,
Pieno di me stesso, ma ancora affamato,
Sono prepotente con me stesso perchè mi obbligo a farmi fare le cose che mi metto in testa di fare
E sono mille leghe superiore a te, malato quando parlo in lingue
Ma è ancora lingua nella guancia, fottiti
Sono ubriaco così Satana prendi sto cazzo di volante, sto dormendo sul sedile davanti
Pompando Heavy D and the Boys, ancora massiccio ma funky
Ma nella mia testa c'è qualcosa che strattona e lotta
Gli angeli combattono con i diavoli ed ecco quello che vogliono da me
Vogliono che elimino un pò di odio sulle donne
Ma se prendete in considerazione il pungente odio che avevo
Allora potreste essere un po’ più pazienti e più comprensivi verso la situazione
E capire la discriminazione
Ma fanculo, se la vita ti passa i limoni, fai una limonata allora
Ma se non riesco a sbattere le donne come cazzo posso fare a far loro una torta allora?
Non confonderlo per Satana
È un errore fatale se pensi che abbia bisogno di andare all'estero
E fare una vacanza con una
E farla cadere sulla sua faccia e non essere un ritardato
Essere un re? Penso di no, perchè essere un re quando puoi essere un Dio?
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Alberico Longo di Nardò alle prese col Petrarca
di Armando Polito
Dell’illustre concittadino mi sono già occupato in tempi diversi e il lettore che voglia saperne di più, prima o dopo la lettura di questo post, ha solo l’imbarazzo della scelta:
http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/
In Le Rime di M. Francesco Petrarca riscontrate con ottimi esemplari stampati e con uno antichissimo testo a penna, Giuseppe Comino, Padova, 1722, a p. CIV si legge: in fine dell’edizione del 1740, che è la prima in ordine del presente Catalogo, aggiungasi , che nella Libreria del più volte menzionato Signore Giuseppe Smit, Inglese, in Venezia, se ne conserva un esemplare, in cui si leggono traduzioni in versi latini eleganti d’alcuni de’ più celebri Sonetti del Petrarca, fatte da M. Alberico Longo Salentino ad istanza del Sig. Francesco Melchiori da Uderzo, il quale le scrisse di sua mano, ed aggiunse ancora in molti luoghi di cotesto Codice, da lui una volta posseduto, dotte ed erudite osservazioni.
in Almorò Albrizzi, Memorie storiche di Oderzo, Venezia, 1743, a p. 5 si legge: Biblioteche. Di Biblioteca trovansi competentemente provveduti i PP. Cappuccini in materia di SS. PP. e Cà Amalteo in materia di Belle Lettere di ottime Edizioni, con qualche Manoscritto antico, fra’ quali un Petrarca moralizzato manoscritto d’incerta Autrice, lodata dalla Sig. Luisa Bergalli, che la suppone Veneta. Ve n’era poi una assai insigne di Francesco Melchiori, qui a a C. 9 riferito, ed accennata dal Bonifazio , (Stor. Triv. C. 20) nonché dalli Sig. Volpi di Paova nel loro ultimo stampato Petrarca, andata, non molti anni sono, compassionevolmente dispersa, parte in Venezia fra le celebri Biblioteche Soranzo, Pisani, Zeno, PP. della Salute, e Smith, il quale ne à riportato una Edizione sì rara di essoPetrarca, che non si sà, ove trovarsene il terzo esemplare; e parte in Inghilterra.
La notizia è ripresa, senza aggiungere granché, in Gian-Giuseppe Liruti, Notizie delle vie ed opere scritte da’ letterati del Friuli, Tipografia Alvisopoli, Venezia, 1830, p. 428: E per verità, bisogna , che fosse un singolar piacere di un uomo amatore dello studio dell’Antichità, della erudizione e delle buone lettere l’andar a ritrovarlo [Francesco Melchiori] in Oderzo; dove oltre una bella abitazione con le sue aggiacenze, e la di lui gioconda, e dotta conversazione, aveano una copiosa, e scelta Biblioteca, ragunata da lui di Libri stampati , e manoscritti, lodata dal Bonifazio nella Storia di Trivigi ultimamente ristampata, e da altri, nella quale potevano divertirsi, e che ora, non sono molti anni, è andata dispersa, parte in Venezia nelle Biblioteche Soranzo e Pisani, e parte in quelle di Apostolo Zeno, de’ Padri Somaschi della Salute, e del Sig. Smith, al quale è toccato un raro Pertrarca, e parte in Inghilterra.
Un risolutivo passo avanti, invece, costituisce quanto scrive Cesare Scalon, Tra Venezia e il Friuli nel Cinquecento: Lettere inedite a Francesco Melchiori in un manoscritto udinese (Bartolini 151) in Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Villanovich, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1984, p. 625: Il Petrarca, di cui fa menzione l’Albrizzi, è un Canzoniere di Vindelino da Spira del 1470, ora nella British Library (C. 6. b.2): dopo essere stata postillata da Alberico Longo Salentino, questa preziosa edizione era entrata in possesso di Francesco Melchiori, come documentano alcune note autografe del medesimo7. E in nota 7 l’informazione più ghiotta: London, British Library, C. 6. b. 2. Sul foglio di guardia anteriore IIr di mano del Melchiori: “Questo sonetto fu tradotto da M. Alberico Longo Salentino a mia contemplatione”, “Alla dolce ombra delle belle frondi- Canzone carissima al signor Francesco Sugana, mio cognato”.
Nel catalogo del Comino si faceva riferimento a traduzioni in versi latini eleganti d’alcuni de’ più celebri Sonetti del Petrarca, fatte da M. Alberico Longo Salentino ad istanza del Sig. Francesco Melchiori, dunque a più dei soli componimenti (un sonetto e una canzone) annotati di propria mano dal Melchiori nell’edizione custodita a Londra; a meno che il loro gradimento particolare a lui e a suo cognato l’abbia indotto a non dir nulla delle altre traduzioni.
Questa premessa è indispensabile per dire che, in attesa che la British Library immetta in rete la copia digitalizzata del prezioso testo, operazione indispensabile per procedere ad un controllo senza muovere un passo e senza spendere un centesimo, quella che mi accingo a presentare è la traduzione in latino fatta dal Longo di un sonetto dell’aretino, non prima di aver detto, ad onore, una volta tanto, dell’Italia che esso è contenuto in un manoscritto (Vat. lat. 9948) del XVI secolo conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e liberamente consultabile all’indirizzo https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.9948, manoscritto del quale mi sono già servito in http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/08/nardo-alberico-longo-e-la-sua-inedita-doppiamente-versione-di-un-mito/.
Ne riproduco dalla c. 105v il dettaglio che ci interessa.
Ecco la trascrizione:
Pet(rarca) Canzo(n)iere Tradottione del so(netto) Io mi rivolgo indietro a ciascun passo.
Alberici Longi Salentini
Retrorsum aspicio passim dum corpore fesso
pes titubans proprium vix facit officium.
Tunc mi animum reficit vestris qua fertur ab oris
aura, et me querulum carpere cogit iter.
Mox mecum reputans bona quae iocondaa relinquo
quam sit iter longum quam mihi vita brevis.
Sisto gradum pavidus, nec non lachrymantia tristis
fixa diu teneo lumina nostra solo.
Interdum interb lachrymas dubius mecum ipso voluto,
quo pacto absque animo sistere membra queant.
Tunc Amor, an nescis proprium esse hoc munus amantum,
quorum hominum a reliquis longe alia est ratio.
__________
a Errore del copista per iucunda.
b Errore del copista: inter (indotto dal precedente interdum) per in.
Agli errori del copista va aggiunto quello presente nella schedatura (https://opac.vatlib.it/mss/detail/74990), dove nella trascrizione dell’incipit si legge auspicio per aspicio.
Fornisco ora la mia traduzione letterale per consentire agevolmente al lettore di fare il confronto con l’originale:
Indietro guardo qua e là mentre per il corpo stanco
il piede titubante a stento fa il suo dovere.
Allora mi ristora l’animo, dove dalle vostre contrade spira,
l’aria e mi costringe ad intraprendere un lamentoso cammino.
Poi pensando tra me i beni gioiosi che lascio,
quanto lungo sia il cammino, quanto breve per me la vita,
timoroso fermo il passo e triste i lacrimanti
occhi miei a lungo tengo fissi al suolo.
Talora in lacrime dubbioso tra me stesso penso
per quale patto le membra possano stare senz’animo.
Allora Amore: – Non sai che è proprio questo il dono degli amanti,
esseri umani la cui condizione è ben diversa da quella degli altri?
E questo è l’originale (componimento XV dell’edizione critica del Canzoniere a cura di Gianfranco Contini, Edizioni Einaudi, 1964; nella stessa edizione la canzone annotata dal Melchiori è il componimento CXLII):
Io mi rivolgo indietro a ciascun passo
col corpo stancho ch’a gran pena porto,
et prendo allor del vostr’aere conforto
che ‘l fa gir oltra dicendo: Oimè lasso!
Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso,
al camin lungo et al mio viver corto,
fermo le piante sbigottito et smorto,
et gli occhi in terra lagrimando abasso.
Talor m’assale in mezzo a’tristi pianti
un dubbio: come posson queste membra
da lo spirito lor viver lontane?
Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra
che questo è privilegio degli amanti
sciolti da tutte qualitati humane?
Spero che la mia traduzione sia riuscita a far comprendere come il Longo si sia attenuto quanto più era possibile all’originale. Non mi riferisco, però, solo all’aspetto concettuale, perché anche le scelte formali confermano la fedeltà. Mi si dirà che ai canonici quattordici endecasillabi del sonetto corrispondono sei distici elegiaci (in totale dodici versi) della traduzione. Credo che il Longo non avesse altra scelta e che proprio le caratteristiche del distico elegiaco (in cui il primo verso può variare da un massimo di diciassette ad un minimo di dodici sillabe, il secondo da un massimo di quattordici ad un minimo di dodici) abbiano determinato quella differenza di due versi, pur garantendo, a differenza di altre combinazioni metriche, un ritmo più vicino a quello dell’endecasillabo.
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ACQUERUGIOLA - HAIKU
ACQUERUGIOLA – HAIKU
acquerugiola –
festa di aquiloni
su cielo verde
Fotografia di Alberto Ghizzi Panizza: Fiori e rugiada
Questo haiku è World © di Tea C. Blanc. All rights reserved
L’haiku è un componimento breve di 3 versi e 17 sillabe, divise in 5-7-5, privo di titolo, maiuscole e spesso di punteggiatura.
Nasce in Giappone e riflette l’amore della cultura nipponica per il minimalismo e le cose semplici e…
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Un cuore gonfio,
ben pasciuto di dubbi:
umile gioia
d’innocente anima
priva di presunzione.
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KATAUTA
KATAUTA
Il Katauta è un’altra forma di breve poesia giapponese, simile all’haiku, composta da tre versi di 5-7-7 sillabe, diversa anche per il contenuto, non più naturalistico ma emotivo, spesso rivolta al proprio amore.
tornare a casa
i fiori mi aspettano
non c’è cosa più dolce
solo nuvole lì infiniti sogni per crederci ancora
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Haiku (◔▾◔)
Haiku (◔▾◔)
Eletta Senso questa settimana ha proposto un haiku sul tema della primavera. Questa forma poetica ha una struttura molto semplice: tre versi composti da 17 sillabe in totale: il primo verso ha 5 sillabe, il secondo 7, il terzo 5.
Questa è la prima volta che tento di scriverne uno:
Sparge il ventodolci petali bianchisull’erba verde
Se volete giocare con me, inviatemi i vostri haiku che verranno…
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La Primavera:
riveste gli alberi,
riempie i prati.
E pietosa, nell'erba,
nasconde le lapidi.
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Il pescatore
ha fiducia nel legno
che si fa barca,
ed è a lui bastante
per affrontar il mare.
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Lenta, l'Estate,
nel maturar del giuggiolo,
porge congedo.
Un'ostica dolcezza
per chi sa accontentarsi.
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