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#Filosofia Elitaria
davidibenzion · 4 years
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«Farisei; essi godono fama d'interpretare esattamente le leggi, costituiscono la setta più importante, e attribuiscono ogni cosa al destino e a Dio.»
(Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 162.[1])
La corrente dei farisei costituisce il gruppo politico-religioso giudaico più significativo nella Giudea del periodo che intercorre all'incirca tra la rivolta dei Maccabei contro il regno seleucide (II secolo a.C.) e la prima guerra giudaica (70 d.C.). Essi, in vari momenti, si identificavano come un partito politico, un movimento sociale ed una scuola di pensiero; insieme ad esseni, sadducei e zeloti, i farisei erano il partito o filosofia di maggior importanza durante il periodo del Secondo Tempio.
I conflitti tra farisei e sadducei hanno avuto luogo nel contesto di conflitti sociali e religiosi tra ebrei molto più ampi e di lunga data, risalenti alla cattività babilonese e aggravati dalla conquista romana. Un conflitto era di ceto, tra ricchi e poveri, poiché i sadducei includevano principalmente le famiglie sacerdotali e aristocratiche. Un
altro conflitto era culturale, tra chi favoriva l'ellenizzazione e coloro che la osteggiavano. Un terzo era giuridico-religioso, tra chi enfatizzava l'importanza del Secondo Tempio con i suoi riti e servizi cultuali, e coloro che sottolineavano l'importanza di altre Leggi mosaiche. Un quarto punto di conflitto, specificamente religioso, coinvolgeva diverse interpretazioni della Torah e come applicarle alla vita ebraica, con i sadducei che riconoscevano solo la Torah scritta e respingevano le dottrine della Torah orale e della risurrezione dei morti.
Le testimonianze più note sui farisei sono costituite dal Nuovo Testamento e dalle opere dello storico Flavio Giuseppe (37 – ca. 100 d.C.), egli stesso dichiaratosi fariseo Poiché, tuttavia, l'ebraismo rabbinico o moderno (cfr. infra
) è essenzialmente derivato dal farisaismo, anch'esso ci attesta molti aspetti della dottrina e del pensiero di tale corrente spirituale. Giuseppe stimava la popolazione totale dei farisei prima della distruzione del Secondo tempio a circa 6 000 ("exakischilioi").
Affermava inoltre che i farisei ricevevano il supporto del popolino, in contrasto apparentemente con la più elitaria corrente dei sadducei:
«Per questi (insegnamenti) hanno un reale ed estremamente autorevole influsso presso il popolo; e tutte le preghiere e i sacri riti del culto divino sono eseguiti conformemente alle loro disposizioni. La pratica dei loro altissimi ideali sia nel modo di vivere sia nei ragionamenti, è l'eminente tributo che gli abitanti delle città pagano all'eccellenza dei Farisei.»
(Antichità giudaiche, 18:15)
I farisei si attribuivano autorità mosaica nelle loro interpretazioni delle Legge ebraiche (Halakhah), mentre i sadducei rappresentavano l'autorità dei privilegi sacerdotali e delle prerogative stabilite sin dai tempi di Salomone, quando Zadok, loro avo, officiava come Sommo Sacerdote. Il termine "popolo" usato da Flavio Giuseppe indica chiaramente che la maggioranza degli ebrei erano "semplicemente popolo ebraico", separandoli e rendendoli indipendenti dai principali gruppi liturgici (da lui descritti nel Libro XVIII supra). Il Nuovo Testamento inoltre fa spesso riferimento alla gente comune, al popolo, indicando che l'identità ebraica era indipendente e più forte di questi gruppi. Nella sua Lettera ai Filippesi, Paolo di Tarso asserisce che dei cambiamenti si erano verificati nelle sette liturgiche della diaspora, identificandosi tuttavia ancora come "giudeo" o "ebreo".
« circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge »   (Filippesi 3:5 [3])
Ma la posizione di Paolo di Tarso e il giudaismo è ancora in discussione.
Al di fuori della storia ebraica e relative documentazioni, i farisei sono citati nel Nuovo Testamento in conflitto con Giovanni Battista e con Gesù. Esistono inoltre numerosi riferimenti nel Nuovo Testamento a Paolo di Tarso come fariseo. Tuttavia, la relazione tra primo cristianesimo ed i farisei non è stata sempre ostile: per esempio Gamaliele viene spesso citato quale leader farisaico favorevole ai cristiani. Le
tradizioni cristiane sono state comunque causa di diffusa consapevolezza dei farisei.
[B]Le maledizioni di Gesù contro i farisei
Si radunarono attorno a Gesù e gli chiesero: «Perché i tuoi discepoli non ubbidiscono alla tradizione religiosa dei nostri padri e mangiano con mani impure?». Gesù rispose loro: «Il mangiare senza lavarsi le mani non rende l’uomo impuro. Il profeta Isaia aveva ragione quando parlava di voi: Voi siete degli ipocriti. Come infatti è scritto nel suo libro: Questo popolo – dice il Signore – mi onora a parole, ma il suo cuore è molto lontano da me. Così, in nome della vostra tradizione, voi fate diventare inutile la parola di Dio e il modo con cui l’onorate non ha valore. E di cose simili ne fate molte».
E aggiungeva: «Siete veramente abili nell’eludere i comandamenti di Dio per osservare la vostra tradizione, insegnando come dottrina di Dio comandamenti che son fatti da uomini. Mosè vi ha dato la Legge, ma nessuno di voi la mette in pratica. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte. Voi invece insegnate che uno non ha più il dovere di aiutare suo padre e sua madre, se dice loro che sono korbàn, cioè se dice ad essi che ha offerto a Dio quei beni che doveva usare per loro».
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Avete nascosto la chiave della vera scienza: voi non ci siete entrati e non avete lasciato entrare quelli che avrebbero voluto».
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?» .
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Davanti agli uomini voi fate la figura di persone giuste, ma Dio conosce molto bene i vostri cuori».
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Voi chiudete agli uomini la porta del regno di Dio perché trasgredite i punti più importanti della Legge di Dio: la giustizia, la misericordia e la fedeltà: così non entrate voi e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci».
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Vi preoccupate di pulire la parte esterna dei vostri piatti e dei vostri bicchieri, ma intanto li riempite dei vostri furti e dei vostri vizi. Fariseo cieco! Purifica prima quel che c’è dentro il bicchiere, e poi anche l’esterno sarà puro».
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Voi siete come tombe imbiancate che dall’esterno sembrano bellissime, ma dentro sono piene di ossa di morti e di marciume. Così anche voi, esternamente, apparite giusti agli occhi degli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità».
«Guai a voi, ipocriti, maestri della Legge e farisei! Innalzate belle tombe per i profeti, decorate i sepolcri degli uomini giusti, e dite: ‘Se noi fossimo vissuti ai tempi dei nostri padri, non avremmo fatto come loro, che hanno ucciso i profeti’. Così testimoniando, dichiarate, contro voi stessi, di essere discendenti di quelli che uccisero i profeti. Così facendo, voi dimostrate di approvare le opere dei vostri padri, continuate e state portando a termine quel che i vostri padri hanno cominciato: essi hanno ucciso i profeti e voi costruite le tombe per loro. Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dai castighi dell’inferno? Per questo la Sapienza di Dio ha detto: Ascoltate, io manderò a voi veri profeti, uomini sapienti e veri maestri della Legge di Dio. E voi, alcuni li ucciderete, altri li crocifiggerete, altri li frusterete nelle vostre Sinagoghe e li perseguiterete di città in città. Ma Dio chiederà conto a questa gente di tutto il sangue innocente versato sopra la terra per l’uccisione di tutti i profeti, dalle origini del mondo in poi: dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Vi assicuro che tutte queste cose avverranno durante questa generazione».
Ora, poiché diceva loro queste cose davanti a tutto il popolo, i farisei e i dottori della Legge dissero: «Maestro, parlando così tu offendi anche noi». Allora cominciarono a trattarlo con ostilità e a fargli domande di ogni genere, cercando di prendere da lui un qualsiasi pretesto per coglierlo in fallo in qualche sua parola uscita dalla sua stessa bocca, e trovare così il modo di accusarlo.
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svediroma · 4 years
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Il linguaggio come strumento di discriminazione – L’esempio del francese
Qualche tempo fa avevo condiviso il mio pensiero a proposito della rappresentazione delle minoranze, nell’arte e soprattutto nel cinema. Oggi vorrei rimanere su questo argomento e spiegare perché, secondo me, il linguaggio e le lingue possono essere, anche loro, veicolo di discriminazioni. Spero, in questo modo, di mostrare che le discriminazioni sono proteiformi e il risultato di un intreccio complesso di diverse dinamiche. Con “discriminazione” si intendono tutte le pratiche che mirano a tagliare fuori una persona o un gruppo di persone supponendo una gerarchia. L’esempio più ovvio mi sembra l’uso degli insulti come modo di far capire ad un’altra persona che sarebbe diversa da me/noi. Tramite le lingue, con l’espressione verbale possiamo creare delle discriminazioni.
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Se il linguaggio mi sembra un elemento importante è perché corrisponde ad uno strumento  che utilizziamo per costruire dei ponti tra di noi. Che sia scritto o orale, il linguaggio ha un’importanza, ci permette di fare parte di una società, di poter comunicare e, quindi, di essere inclus* in questo gruppo. Siamo degli esseri sociali e il linguaggio ci permette di rendere intelligibile i nostri pensieri. In altri termini, permette di tradurre quello che abbiamo dentro di noi (i nostri pensieri, le nostre credenze...) ad un pubblico esterno. Ad ogni modo la comunicazione non si limita esclusivamente al linguaggio, esiste anche la comunicazione non verbale, ed è su essa che vorrei fermarmi perché mi sembra che costituisca oggi il principale veicolo di comunicazione.
Il linguaggio ci permette, insomma, di fare parte di una comunità, di una cultura, di un paese... L’uno escludendo l’altro. In Italia questo è ancora più vero quando consideriamo gli accenti, i dialetti che permettono di dividere il paese in sotto-identità culturali. Questa ricchezza linguistica era una novità per me. Quando sono arrivata a Roma non mi aspettavo di trovare una pluralità d’italiano così importante. Eppure, mi sembra che gli usi della lingua istituzionale siano molto diversi, l’accento “puro” testimonia un’identità propria. Discutere sulle diverse lingue – che siano istituzionali o no – che compongono il nostro quotidiano, permette di capire le sfide di potere e di dominazione tra i diversi gruppi sociali
Piccola storia del francese come dimostrazione dell’impatto politico delle lingue
Oltre la dimensione culturale, il linguaggio è anche un elemento politico. Al di là del famoso detto “tutto è politico”, vorrei interessarmi al caso francese (che è quello che conosco di più) per spiegare quest’idea. In effetti, se guardiamo la costruzione del francese, è stato in primo luogo uno strumento per unificare diversi territori. Come l’Italia, la Francia era divisa in dialetti/patois che appartenevano a due famiglie distinte : le lingue d’Oc (al sud) e le lingue d’Oïl (al nord). A quest’epoca, il francese era solo il dialetto della regione di Reims (vicino a Parigi). È solo nel 1539 (ordinanza reale di Villiers-Cotterêts) che il francese diventa la lingua ufficiale degli affari pubblici. Ma la potenza politica del francese si stabilisce soprattutto nel 17° secolo con la nascita dell’Accademia Francese, che avrà come primo obiettivo quello di creare un dizionario. Soffermarsi su quest’Accademia è importante, secondo me,  perché essa ha permesso di costruire il francese come una lingua elitaria. La complessità della lingua è un elemento che è stato elaborato coscientemente per costruire delle gerarchie tra le persone/gruppi sociali. Originariamente sapere scrivere e parlare il francese istituzionale era riservato ad una élite borghese per differenziarsi dalle altre classi sociali. Ancora oggi essere capace di scrivere e di parlare un francese “corretto” permette di sottolineare una certa educazione. Un esempio molto calzante, secondo me, è la decurtazione di punti durante alcuni dei miei esami universitari se facevo troppi errori grammaticali. Quindi, ero valutata sia sulla sostanza della mia argomentazione che sulla forma.
In altri termini, mi sembra che il caso francese illustra a che punto la lingua è un artificio che ci permette di comunicare fra noi. Ma, dall’altro lato, è uno strumento politico perché ci permette di costruire un “noi” e un “loro”. Quell* che parlano la nostra lingua e quell* che non la parlano...
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La lingua istituzionale e... tutte le altre
Questo “noi” e “loro” non si è costruito solo attraverso le lingue ufficiali, ma anche all’interno delle lingue nazionali. Quest’analisi mi sembra anche molto pertinente vista la pluralità di linguaggio che è presente in Italia.
Se i termini “lingua” e “linguaggio” non sono sovrapponibili, secondo me, è perché comunque costituiscono loro stessi una forma di dominazione. Per me, la lingua corrisponde ad una codificazione verbale istituzionale. Dall’altro lato, il linguaggio risulta essere una forma meno importante, più rudimentale, svalorizzata, rispetto alla lingua. Parliamo volentieri di linguaggio degli animali, dei bebè e non di lingua. Questa differenziazione mi sembra che permette di costruire una gerarchia che, seppure tacita, è ben presente. Questa differenza tra “lingua” e “linguaggio” è solo un modo che  permette, alla fine, di gerarchizzare  i gruppi/individui/culture...
Gli esempi sono numerosi ma, per riprendere l’esempio francese, come tutte le lingue viventi, subisce delle mutazioni secondo gli scambi che hanno le persone. Ma queste mutazioni sono strettamente sorvegliate dall’Accademia Francese. Degli studi linguistici hanno mostrato che il francese attuale è una mescolanza del latino e del greco per la maggior parte. Però le parole provenienti dalle lingue germaniche o arabe sono state oggetto di un trattamento drastico conducendo a volte alla loro soppressione. Al di là della eliminazione di queste influenze “straniere”, è la storia di una comunità che è stata cancellata. Durante una conferenza TedX su questo tema, un professore di francese e un professore di filosofia hanno spiegato come questo rileva una volontà di rendere la lingua più elitaria e più “nobile”.  Così le lingue germaniche (considerate come barbare) e arabe (sinonimo di invasione ancora oggi) sono state diminuite a beneficio delle lingue morte ma “saggie”, scientifiche, che sono il latino e il greco. Come tutti gli strumenti, la lingua è costruita! Da questo punto di vista possiamo dire che può portare con sé delle gerarchie. Forse se fossimo stat* più abituat* alle sonorità germaniche, il tedesco ci sembrerebbe una lingua così più fluida e “cantante” rispetto all’italiano o allo spagnolo. Magari non avremmo lo stereotipo di una persona rigida, di una lingua che è gridata e non parlata. Perché, al di là della lingua, ci sono delle persone che sono stigmatizzate. Possiamo solo vedere i/le bambin* che imitano quello che credono essere il cinese (e per estensione tutta l’Asia) o il tedesco o l’italiano, incarnando direttamente delle posture e gestualità (occhi a mandorla forzati, gesti della mano, caricatura del saluto e di alcune espressioni naziste...). 
Parlando del francese, non posso concentrarmi solo sulla Francia. Legato alla colonizzazione del 18/19° secolo, alcuni paesi dell’Africa hanno il francese come lingua nazionale. Ma come per i “dipartimenti d’oltre-mare”, il Canada o il Belgio per esempio, il francese utilizzato è diverso da quello della Francia. Questa ricchezza linguistica che permette di utilizzare delle parole anglo-sassoni, germaniche, creole o arabe è purtroppo molto criticata. Un esempio è quello delle canzoni di Aya Nakamura. I suoi testi sono il risultato di una mescolanza tra lo spagnolo, il francese, l’inglese, il gergo del Mali, il verlan (caratterizzato dall’inversione di due sillabe di una parola) e delle culture della strada. Cioè, mi è quasi impossibile di capire il senso dei suoi testi senza una ricerca a priori. Però mi sembra molto interessante di vedere come, in seguito ad alcune sue canzoni, certe espressioni che utilizza si sono diffuse. Uno dei motivi che può spiegare il successo delle sue canzoni sarebbe legato al suo talento di paroliera, che permette di unire delle lingue e culture diverse e varie. Così ogni persona può interpretare e comprendere queste canzoni a suo modo, ciò permette di diffondere delle parole “non francesi” nel linguaggio corrente.
Una versione in “francese alto” di Djadja è stata scritta ed è stata molto ascoltata (l’autore è stato invitato a diverse emittenti della TV). Questo esempio mostra, secondo me, a che punto siamo refrattari al cambiamento, all’evoluzione della nostra lingua. Il francese “istituzionale”, in questo caso “alto”, sembra essere il punto di riferimento ancora una volta.
Su questo tema, vorrei fermarmi un attimo sul linguaggio “popolare” basandomi sulla mia esperienza. Ho vissuto in un alloggio popolare in un quartiere in piena ghettizzazione delle persone provenienti da migrazioni (di prima e seconda generazione). Mi ricordo anche le partite di calcio (unico posto di divertimento nel mio quartiere) dove il linguaggio che parlavamo era in continuo cambiamento. Le parole dei diversi paesi del Magreb, ma anche della Turchia o della Macedonia ecc. componevano il nostro quotidiano. Utilizzavo delle parole arabe senza nemmeno conoscerne il senso. Erano solo un modo per me di comunicare e di essere integrata nel gruppo sociale del mio quartiere. Però, più il mio percorso scolastico andava avanti più abbandonavo queste parole. Per mio fratello invece queste parole sono diventate ogni giorno più comuni. Velocemente ho capito che le parole che utilizzavo con le/i mie* amic* non erano accettabili in un ambito scolastico, né nell’ambito professionale. Quindi ho dovuto reimparare una nuova forma di linguaggio e fare la guerra al gergo o al linguaggio volgare quando era utilizzato accanto a me. Mio fratello ed io abbiamo avuto due evoluzioni su due strade diametralmente opposte da questo punto di vista. Ne consegue che abbiamo, a volte, molte difficoltà per comunicare. Dobbiamo fare uno sforzo per utilizzare delle parole che l’altr* potrebbe capire. Però, non posso negare che partecipo, anch’io, a questa forma di dominazione linguistica. Iniziando da quando voglio correggere i suoi errori di francese, quando gli chiedo di non utilizzare parole che IO considero come volgari, quando trovo un sinonimo in “francese corretto” alle parole del gergo che utilizza... Dal suo lato, mi sembra che ha interiorizzato il concetto che il suo linguaggio non è quello valorizzato. In effetti, per ogni lavoro di scrittura (lettera di motivazione, CV, mail importante...) mi chiede di aiutarlo a formulare  il suo pensiero ed a renderlo più “istituzionale”. Quindi per candidarsi ad un lavoro, ad una scuola o ad altro, il nostro livello di lingua è (pre)giudicato. Ma, al di là di questo punto, ci sono degli stereotipi che sono all’opera. La cultura urbana, alla quale mio fratello si rifa, non è in nessuna maniera quella valorizzata, piuttosto il contrario. In questa prospettiva, lo strumento che abbiamo creato ritraduce le forme di dominazione presenti nella nostra società. Non è solamente il linguaggio utilizzato che è giudicato ma il presupposto dell’appartenenza ad una categoria svalorizzata/discriminata come possono esserlo i Paesi stranieri, alcune regioni della Francia (e dell’Italia), una cultura “popolare”…
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“Sarei già in seconda superiore se i libri scolastici fossero scritti in gergo”
La lingua come strumento di manipolazione
Vorrei mostrare in che modo la lingua costituisce uno strumento politico di discriminazione e di gerarchizzazione sociale. In questo senso non siamo tutt* ugual* davanti alla lingua. Come ogni strumento, può essere utilizzato per fare delle belle cose o delle brutte cose, ma non può essere condannato per l'esistenza in sé, bensì é quello che facciamo dello strumento che è importante. Una volta fatta questa premessa, mi piacerebbe affrontare il tema della manipolazione e soprattutto dell’auto-difesa intellettuale.
Se la codificazione verbale può essere utilizzata per rendere un’informazione più semplice, grazie alla pedagogia o alla volgarizzazione può anche essere usata per rendere invisibili/modificare alcune realtà. Per spiegare questo argomento vorrei prendere l’esempio della parola “femminicidio”, che entrerà nel dizionario francese a settembre. Se questo riconoscimento istituzionale è così importante per i/le militanti (dei/lle qual* faccio parte) è perché permette di non occultare più una realtà. Parlando di “femminicidio” non parliamo “solo” di un “omicidio”, l’aggiunta della dimensione di genere è importante. Così, senza la presenza di questa parola che descrive una realtà, mi sembra importante chiedersi quale spazio questa realtà ha nella nostra società. In altri termini, se gli atti di omicidio sulle donne giustamente per un motivo di misoginia non hanno un nome, questo significa che la nostra società non riconosce questa realtà.
Sempre nell’ambito del femminismo possiamo anche parlare della femminilizzazione di alcuni nomi di mestieri o di attività. Su questo aspetto mi sembra che il francese e l’italiano sono – purtroppo – simili. Se questo esempio mi sembra interessante è perché sono, in maggioranza, dei mestieri considerati “alti” nel nostro mondo che non hanno una femminilizzazione. Nel caso francese alcuni esempi potrebbero essere: pittrice, autrice, filosofa, ministro, capa, autista... Se questa “invisibilizzazione” è così importante, è perché l’Accademia Francese ha scelto deliberamente di cancellare queste parole che erano utilizzate comunemente nella società. Questo atto politico aveva lo scopo di impedire alle donne di occupare un posto parecchio importante nella società. Senza la parola le donne non potevano essere “autrice” né “ministro”... Se le femministe – tra l’altro – si mobilitano per un linguaggio più inclusivo è giustamente per fare riconoscere le diverse realtà. Dire “una persona muore ogni 2 giorni per violenze domestiche” non è la stessa cosa di parlare delle “vittime di violenze domestiche” o di “donne vittime di violenze domestiche”. Neanche dire: “i capi d’impresa del CAC 40 hanno deciso di...” o “i/le cap* del CAC 40 hanno deciso di...”, “le infermiere sono in prima linea contro il coronavirus”o ”gli infermieri sono in prima linea contro il coronavirus”. Dietro ogni esempio c’è una scelta politica, la realtà descritta non è la stessa.
Se voglio prendere degli esempi italiani, mi sembra che i termini “casalingo” o “eroina” sono interessanti. Per il primo, mettere questa parola al maschile permette di screditare la persona che sarebbe considerata come un “casalingo”, cioè che si prenderebbe troppo cura della casa. Dietro la “maschilizzazione” di questa parola c’è una forma di abbassamento. E infatti, in Francia, molte persone non vogliono una femminilizzazione dei nomi delle professioni per paura che perdano il loro valore. Per quanto riguarda la parola “eroina”, che sarebbe il femminile di “eroe”, alcune persone criticano l’uso del suffisso “ina” in quanto fa riferimento ad un deprezzamento: una cartolina, una ragazzina... Ogni volta l’uso del “ina” fa pensare a qualcosa di piccolo, carino... tutto il contrario di quello che “una eroe” (scrittura a volte scelta) dovrebbe rappresentare.
Questi esempi mostrano secondo me il motivo per il quale mi sembra importante, ancora una volta, di moltiplicare i punti di vista. In effetti, il linguaggio dei diversi gruppi o comunità è importante perché permette di colmare le lacune della lingua ufficiale. Privarsi di questa ricchezza gerarchizzando e discriminando è solo il velo che mettiamo davanti alla realtà. La realtà è proteiforme, è normale che lo sia anche la lingua.
Però la lingua, al di là della codificazione verbale, può anche essere un’arte. Possiamo pensare alla poesia, al teatro o a tutte le altre forme che la utilizzano. Ma può anche essere usata a fini di manipolazione, di demagogia. Sapere utilizzare bene la lingua, sublimarla, può essere un elemento di dominazione sociale. Si può vedere questo, ad esempio attraverso i discorsi politici. La forma sembra anche vincere sul contenuto. La lingua non è più, in questo caso, un semplice strumento di traduzione del pensiero (quindi dall’interno all’esterno), ma uno strumento al servizio della demagogia.
In politica e nei media, più che altrove, le parole hanno la loro importanza. Le parole non sono una codificazione neutra, è quello che ci insegnano i pregiudizi sui linguaggi. Quindi è necessario essere consapevoli delle rappresentazioni che sono presenti e trasmesse attraverso le parole usate per potersi difendere contro le forme di manipolazione.
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Diversi fatti concreti possono lasciare credere che siamo in presenza di una forma di manipolazione. Ecco alcuni esempi che permettono di individuare le forme di manipolazione verbale:
 La generalizzazione che non lascia lo spazio a un’altra alternativa : “tutti gli italiani pensano che...”
Utilizzare dei riferimenti poco conosciuti che fanno credere ad una scientificità degli elementi: “questa situazione mi fa pensare alla disastrosa confederazione di Senegambia”
Mescolare gli effetti di causa e di effetto: “ho bevuto un po’ di thè e il mio raffredore è sparito”
Chiedere una cosa utilizzando la forma negativa o alcuni effetti di stile che fanno credere che sia stata detta una premessa: “Lei ha smesso di picchiare sua moglie?”, “il pianeta è davvero così malato?”, “i jihadisti sono così pazzi?”
Il falso dilemma: “quelli che sono con Bush sono contro di noi...”
Utilizzare le emozioni: la pietà, l’amore, la paura, emozioni legate ad una causa sposata, la popolarità...
Vorrei fare solo un esempio per spiegare l’importanza delle parole utilizzate e soprattutto della loro carica simbolica. È quello che hanno fatto Baptiste Beaulieu[1] et Clément Viktorovitch[2] a proposito dell’allocuzione presidenziale del 17 marzo 2020 nella quale Emmanuel Macron annuncia “siamo in guerra”. Questa dichiarazione é stata oggetto di un’analisi da parte dei due cronisti. Per Clément Viktorovitch si tratta di una esagerazione per permettere di fare prendere coscienza dell’emergenza della situazione alla popolazione francese. In altri termini, “il fine giustifica i mezzi”: il riferimento era alla quarantena e alla volontà di ridurre i rischi. Però Baptiste Beaulieu aggiunge un’altra analisi su questo elemento. Come per Clément Viktorovitch, sottolinea la dialettica guerriera che fa riferimento alle mobilitazioni generali che aveva conosciuto il paese per affrontare lo sforzo di guerra. Così le aziende hanno riorientato le loro produzioni per creare delle mascherine, dei camici, del gel idroalcolico... Peraltro, per Baptiste Beaulieu, l’utilizzo del campo lessicale di guerra tende a rendere eroico il personale sanitario che fa lo sciopero da più di un anno per la salvaguardia dell’ospedale pubblico (il 14 gennaio 2020, 1.000 cape/i di servizio si dimettono per evidenziare la situazione degli ospedali). Alla fine, riassume il suo pensiero “un eroe non chiede più personale, non chiede aiuto e non chiede neanche dei soldi”. Con l’uso del campo lessicale della guerra, è una vera depoliticizzazione totale di tutte le rivendicazioni del personale sanitario. Inoltre, questa metafora e questo effetto di esagerazione permettono di evitare di fare troppe domande sulle politiche che sono state fatte prima della crisi sanitaria. Cancelliamo il passato per concentrarci sulla crisi attuale che corrisponderebbe alla vera urgenza. Infine, come lo dice Baptiste Beaulieu “in tempo di guerra ci danno degli ordini, in tempo di crisi ci danno dei mezzi. Ma non abbiamo i mezzi”. Però, “il tempo di guerra” permette di mobilitare la gente per uno “sforzo comune”. La restrizione delle nostre libertà è anche più accettabile perché si basa su un elemento di paura, esso costruito a partire dalle rappresentazioni che abbiamo dietro il termine “guerra”.
Il libro di George Orwell, 1984, parla di quello che si chiama la “neolingua”. Questa nuova forma di linguaggio si caratterizza per un impoverimento del vocabolario e quindi una semplicazione della realtà che si può esprimere. La seconda dinamica corrisponde ad una creazione di parole che hanno un significato molto ampio “il pensiero criminale” o “il vecchio pensiero”. Per il filosofo Jean-Jacques Rosat “lo scopo è di togliere un pensiero della testa”. Nella sua analisi dell’opera di Georges Orwell, fa un paragone interessante con i/le politic*: “in politica vediamo molto bene come si applica, sono delle frasi già pronte. Un* giornalista vi fa una domanda e rispondete con degli elementi di linguaggio già pronti che costuiscono un atto di comunicazione ma certamente non un atto di pensiero, di riflessione. Il gergo, le frasi già pronte, le metafore. Tutto questo vocabolario impedisce di pensare, è un vocabolario automatico”[3]. Una prova di più che la lingua può essere uno strumento di dominazione e di manipolazione.
Se posso aprire qualche pista di riflessione, vorrei semplicemente elencare i movimenti #NotAllMen, #AllLivesMatter, gli insulti o ancora i discorsi – per esempio – politici che sono sempre un florilegio d’effetti di stile e di retorica della quale dobbiamo/dovremmo essere consapevol*.
- Barbara Sanieres
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[1] https://www.brut.media/fr/news/heroisation-des-soignants-le-coup-de-gueule-de-baptiste-beaulieu-4a96201c-382c-4c85-9a6a-77e46c19f169
[2] https://www.youtube.com/watch?v=bVH1cCr5Qik
[3] https://www.franceculture.fr/litterature/la-novlangue-de-george-orwell-un-instrument-de-domination
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aitan · 7 years
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Ma chi l’ha detto che le competenze prescindono dalle conoscenze? La didattica per competenze correttamente intesa è un approccio che tiene conto dei mutamenti della società del XXI secolo, ma non pretende di formare le nuove generazioni senza trasmettere conoscenze e senza offrire agli alunni coordinate per orientarsi nel mondo. Il presupposto è far acquisire conoscenze permanenti e incrementare le competenze degli alunni attraverso una didattica improntata sul fare. Non so se davvero la scuola italiana (elitaria, classista) sia stata mai la migliore del mondo, ma di certo quella scuola là non può essere la scuola del terzo millennio. Per molti versi (pur essendo diventata pubblica e di massa) la nostra è ancora una scuola del XIX secolo in cui insegnanti del XX secolo si affannano a formare le nuove generazioni del XXI secolo usando metodi che risalgono al 1700. Ma lei si affiderebbe a un dentista che la ospitasse in uno studio ottocentesco, con attrezzi antiquati e sanguisughe per tirarle il sangue dalle vene? Farebbe nascere suo figlio in casa tirato su col forcipe? Li laverebbe i panni con la cenere? Ecco la scuola italiana del terzo millennio fa questo, opera in ambienti antiquati, con banchi che qualche volta hanno ancora il buco per il calamaio, sedioline traballanti, lavagne in ardesia e insegnanti che entrano in classe senza una formazione specifica e ripetono ad libitum i metodi e i sistemi di insegnamento e valutazione che hanno visto usare dai loro vecchi professori, i quali li avevano visti usare dai loro vecchi professori, i quali li avevano visti usare dai loro professori, i quali… Poi ogni tanto qualcuno si sveglia o viene a sapere di cose che succedono in mondi freddi e lontani e comincia a parlare, così per sentito dire, di competenze, coding, compiti di realtà… E allora è chiaro che, senza una formazione specifica, pare tutta una moda. Fare in modo che gli alunni sappiano fare un’analisi testuale, per esempio, non può prescindere dal far acquisire loro la conoscenza dei generi letterari, delle figure retoriche, della metrica, delle coordinate culturali che ti permettono di riconoscere l’appartenenza di un autore a una determinata corrente letteraria… Ci sono prerequisiti che sono imprescindibili (il problema è studiare come far acquisire questi prerequisiti; il che non vuol dire far memorizzare nozioni, ma far incrementare l’enciclopedia personale di ogni alunno, quella che ha disponibile per sempre, e non solo per affrontare un’interrogazione orale). Peraltro, è una competenza (e non una conoscenza) anche la capacità di saper leggere le lancette di un orologio, come ci insegnavano alle gloriose scuole elementari del tempo che fu; il che dimostra che anche la vecchia scuola italiana non era tutta basata sulle conoscenze. Soprattutto il vecchio liceo classico (quello che formava la classe dirigente), non insegnava solo le declinazioni greche e latine e la vita e le opere di Cicerone e Demostene, ma soprattutto offriva agli alunni le competenze per leggere un testo in lingua latina o greca, ragionare sulla sua struttura e tradurlo in buon italiano. E anche lo studio della filosofia e della letteratura non si basava su semplici nozioni da imparare a memoria, ma tendeva a fornire capacità di ragionare sui sistemi, operare confronti, esprimere giudizi critici… Infine, non è affatto vero che “i nativi digitali sono così bravi con la tecnologia”… Dall'avvento dei social network, il più delle volte, l'uso che fa un ragazzo dell'informatica si limita alla lettura e al copia e incolla di stati su Facebook oppure a fare clic in modo più o meno indiscriminato sul tastino del “like”. Inoltre, i cosiddetti nativi digitali sono spesso incapaci di fare una seria ricerca in internet o anche di inviare una semplice mail o formattare un testo in modo chiaro ed adeguato. Usare le nuove tecnologie in ambito scolastico deve servire anche a insegnare a distinguere il grano dal loglio, a dare gli strumenti per discriminare e mettere in connessione dati ed eventi, a far capire agli alunni quanto possa essere inefficace e perfino ambiguo un linguaggio impoverito anche quando si comunica attraverso una chat, un SMS o altri servizi di messaggistica istantanea. Lo stesso coding non si limita a trovare soluzioni secondo quanto predeterminato da un programma informatico, ma implica lo sviluppo di una creatività e di una capacità personale di risolvere problemi. La tecnologia, se ben insegnata, non punta a produrre meri esecutori di programmi scritti da altri, ma a formare creatori di algoritmi che necessitano, appunto, di creatività per trovare soluzioni molteplici e diverse ai problemi che vengono via via sottoposti. Insomma, sono anch’io consapevole della crisi del nostro attuale sistema formativo. Ma credo che l’introduzione di una didattica per competenze, insieme con un uso critico e consapevole delle nuove tecnologie, serva proprio a limitare i danni. Altrimenti rischiamo di lasciare i ragazzi soli davanti a Facebook, nelle loro camere, e di fare della scuola una parallela che non si incontra con la realtà delle vite delle nuove generazioni.
La mia risposta, un po' lunga, in verità, a una lettera del prof. Girolamo su alcune delle innovazioni didattiche che si stanno introducendo nella scuola italiana. (via OrizzonteScuola.it)
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antiletterario · 7 years
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Hoka nr. 2154
Se dovessimo prendere la realtà ed assegnare la sua rappresentazione ad un solido geometrico avremmo di fronte un solido geometrico infinitamente complesso, finitamente perchè la realtà in quanto reale è per forza di cose finita, ma essendo essa legata in maniera indissolubile al piano temporale assume i contorni di una finitezza che evolve e cambia a seconda del passare del tempo, finita dunque, ma crescente, e decrescente, per nuove facce che vengono fuori altre avvizziscono e cadono, eppur non scompaiono, semmai sbiadiscono.
Per non dire poi dell’angolazione del punto di vista, per forza di cose arbitrario ed a sua volta, pur finito nelle sue modalità e declinazioni, assolutamente complesso al punto di poter pensare che siano infiniti i punti di vista possibili, a loro volta legati all’apparente ma voluminosa infinità di facce in oggette, cui poi vanno sommati altri potenziali infiniti seppur finiti aspetti, come ad esempio l’inclinazione della luce, la posizione degli astri, il sapore del caffè di stamattina o i risultati dei play off di serie B.
Stupisce dunque sempre come di fronte all’enorme complessità, peraltro intrinseca nella storia se vogliamo della conoscenza e dello studio della conoscenza, e della filosofia stessa e delle scienze medesime così specifiche da cadere nella logica dell’infinitesimale se non dell’infinito, insomma stupisce sempre che di fronte a questo magma in movimento che prostra i maroni di chiunque si affaccendi a caso ad andare a fondo ad un qualsivoglia argomento sia anche esso di comune interesse come per dire l’origine e la prevenzione del raffreddore e dopo cinque minuti normalmente e tendenzialmente molli il colpo affranto dall’inadeguatezza di studi e nozioni derivanti dalle proprie impalcature di conoscenza, e soprattutto dalla noia estrema che questa ricerca quantunque banale o di facile identificazione provochi in un tripudio di sbadigli, ecco, stupisce la quantità di risposte facilmente reperibili dappertutto che siano sprovviste a loro volta di corrette questioni alla radice delle medesime, ovvero come a fronte di un’evoluzione o quantomeno di un percorso nella ricerca del sapere nella storia umana votato alla complessità ed alla diversificazione delle aree di ricerca corrisponda una simultanea riduzione delle suddette aree di ricerca per approdare a risposte tanto univoche quanto stabili come case di cemento costruite su spiagge sabbiose senza fondamenta basali pregresse.
Stupisce la marea montante di cazzate che tocca scremare per arrivare a quel micron di ricotta che possa segnalare una direzione da intraprendere per consolidare una traccia, un’idea, un qualcosa.
Stupisce e amareggia l’assordante deriva di chiacchiericci e puttanate consolatorie per vedere le cose come vorremmo o tal altri vorrebbero che fossero, al punto che così divengono e si trasformano nella realizzazione di un ipotetico simulacro, un eidolon di presente che non è presente a sè nè a niente ma eidolon di carne in grado alla fine in effetti di essere, seppur per pochi minuti come la celebrità in un qualsivoglia talent show, prima di avvizzire muffito in una bibliografia web che non porti più ad alcuna pagina nè al ricordo della medesima.
Stupisce ed amareggia constatare come la complessità emerga solo nella noia e nel rifiuto della complessità, troppo vera per essere plausibile. Troppo noiosa per essere affrontabile, così antidemocratica nella sua elitaria tendenza alla ramificazione esponenziale.
Ad ogni modo il problema, il peccato originale non risiede nelle risposte. Il problema risiede sempre nelle domande.
Per dire.
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Avevo voglia di occuparvi la dash con un post inutilmente lungo per lamentarmi di una cosa semplice.
Ci sono giorni, tipo oggi, in cui mi faccio schifo al cazzo. Si, davvero. Mi guardo proprio allo specchio e mi dico (con il palmo in alto, il braccio teso e il movimento lento ma inesorabile dello scannerizzare il mio riflesso): "...che fai schifo al cazzo". Ma non faccio schifo al cazzo per una banale questione estetica (l'estetica non è banale, io sono banale, questo è un altro discorso). No, no. Mi faccio schifo al cazzo moralmente. Perché? Perché sono un attivista dalle idee chiare. Non sono un attivista politico. Sono attivista di tante cose però, ma non sono un attivista politico. Non sono un attivista politico perché non credo nella politica. Una volta ci credevo. Una volta ero anche rastafari e non ci credevo per principio. Poi ho iniziato a puzzare di radical chic. Non è che non credo nella politica (anche se ho appena detto che non ci credo). Nella politica ci credo, come credo nella filosofia. È nelle persone che non ho fiducia. Non credo nei politici (e sti cazzi) e mi irritano i filosofi filosofeggianti, "i quaquaraquà" (cit. mio padre), tutta sta gente che cita gente morta dal nome altisonante perché fa figo e li fa sentire più intellettuali tre metri sulla plebe. Voglio dire, la comare Maria, il mio kebabbaro e Gianni (quello che si prende il bianchino e il caffè coretto tutte le mattine perché lui ne sa. Di cosa non è dato sapere ma lui ne sa) sarebbero in grado di demolire e ricostruire Freud, Bakunin e Marx (perché Marx è come il parmigiano: va su tutto tranne che sul pesce) mentre riuniscono le due coree sotto il sacro romano impero resuscitato. Ma non accade perché la comare Maria ha il suo orto coltivato con le sue manine sante e ti fa na salsa ca fighiu mio che bell' 'o café pure in carcere 'o sanno fa co' a ricetta ch'a Ciccirinella compagno di cella ci ha dato mammà, e mica mangia "quelle robe arabe" che chi sa che c'anno messo dentro. Gianni ga d’ander a lavurer ca cià tre figli e la moglie da mantenere, che lui sto lavoro lo fa da trent'anni. Che lavoro non si sa, ma lui lo fa da trent'anni. E il mio kebabbaro... Il mio kebbaro tra un "come va capo" e un "no piccanto?" con la crisi ha il suo bel da fare anche lui.
Ma dicevamo, mi faccio schifo al cazzo. Perché penso che i macaron siano in realtà cartone zucchero spacciato per dolci? No, perché vado contro ogni mio principio da millenial che avrebbe dovuto avere vent'anni nel 68, e anzi che scrivere una mail ad un professore per chiedergli di farmi rifare un progetto sul mio futuro professionale, per un corso da 3 crediti, intitolato: "essere efficienti sul lavoro", nel quale per la cronaca non ho imparato assolutamente niente perché è da che ho 16 anni che mi barcameno tra professioni di ogni tipo e so già come tradurre il: "Ma di a quella stro*** pu**** rompi cogli*** che se la cena glie la ficco il su per il cu** a lei, al marito e chi te muort" (si, il mio capo era un elegante signora del Trentino alto Adige) della mia titolare in un: "Non si preoccupi signora, riferirò al portiere di notte che arriverete in tarda serata e la titolare ha già provveduto ad informare la cucina di redarre un menù che possa andare bene anche per suo marito intollerante persino all'aria". Quindi si, è normale che il mio progetto finale sulle “competenze smart” (o qualcosa del genere) apprese durante il corso per essere efficienti sul lavoro sia così schematizzato.
Quindi, anzi che mandarlo a quel paese perché io sto corso l'ho inserito solo perché erano 5 lezioni sbrigative e mi davano i tre crediti che mi servivano cosa faccio? Mi abbasso ai dettami di una società patriarcale iper-capitalista ed elitaria dove morti sono tutti gli dèi e noi li abbia uccisi.
E niente, tutto questo per dire che faccio schifo al cazzo e ho voglia di giocare ad animal crossimg, ma devo aspettare il compleanno per farmi regalate la switch.
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Parigi, 1913. In un caffè su boulevard Montparnasse un giovane e squattrinato scrittore russo, Erenburg stesso, incontra l'enigmatico Julio Jurenito, che di primo acchito identifica nientemeno che con il Diavolo in persona. Affascinato, si proclama suo evangelista, destinato a tramandare ai posteri vita e miracoli dell'estroso maestro Jurenito, messicano poliglotta e gran provocatore dal disinvolto scetticismo, profeta di una non-filosofia che richiamerà al suo seguito un'assortita setta di devoti nichilisti. Un miliardario americano dall'eccezionale senso manageriale, un libertino romano, un astratto intellettuale russo, un edonista francese, un rigoroso tedesco e un giovane senegalese ancora incontaminato dalla società occidentale. A interagire con i protagonisti, sempre colti nel luogo e attimo fuggente tra gli scenari della convulsa storia mondiale di inizio secolo, le audaci comparse di personaggi reali dell'intellighenzia: da Rivera a Picasso, da Majakovskij a Chaplin. A ritmo concitato e briglia sciolta il Maestro e i suoi bizzarri discepoli attraverseranno la Prima guerra mondiale e la Rivoluzione russa del '17, aggredendo gli eventi con la propria originalissima strategia di sovversione diretta a colpire il mondo borghese e i suoi miti: religione e papato, Internazionale Socialista e nazionalismo, capitalismo americano e democrazia francese, arte elitaria e consumismo di massa, in una satira eretica e libertaria il cui sarcasmo è permeato di rara umana empatia...... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #libriusati (presso Libreria Scattisparsi)
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bongianimuseum · 6 years
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“Inside and outside the body/dentro e fuori il corpo” Presentazione di Sandro  Bongiani
La Mail Art è nata  più di 50 anni fa, nel 1962, da quando l'artista americano Ray Johnson, fondò la “New York Corrispondance School of Art” occasionalmente in contemporanea con il movimento “ Fluxus”  del lituano-americano George Maciunas (1961)  e la  Pop Art di Leo Castelli a New York (1962). Una sorta di scuola d’arte per corrispondenza nella quale gli elaborati grafici con l’inserimento di timbri e collage venivano per la prima volta spediti per posta a conoscenti e persino ignari destinatari, dando  completa autonomia alla comunicazione e rendendo questo nuovo modo di espressione totalmente libero e al di fuori di qualsiasi schema imposto e prefissato dal potere culturale e di conseguenza dal mercato ufficiale dell’arte.  Dopo Ray Johnson, anche  Gugliemo Achille Cavellini, nei primi anni 70 (1971), aveva  inventato “l'autostoricizzazione”,realizzando delle mostre a domicilio  e utilizzando i cataloghi che inviava  in visione agli artisti del Network. Questi  due artisti, per primi,  avevano  solo accennato a questa  nuova e possibile strategia di messa in crisi del sistema culturale che non permetteva nessuna intrusione se non avvalorato da un  potere forte che condizionava e controllava le proposte e le scelte al fine di regolarne il flusso  e ossigenare il mercato dell’arte. E’ stato soprattutto  Cavellini (GAC), a  compiere “il grande passo”; quello di contrapporsi ad un sistema ormai monotono; un ulteriore sviluppo verso la messa in crisi del tradizionale sistema dell’arte. Negli anni 80, precisamente nel  giugno del 1985,  l’artista giapponese Ryosuke Cohen  rimette ancora una volta in gioco le carte della sperimentazione, in  un sistema culturale antiquato che preferisce l’opera creata appositamente per essere commercializzata. Lo fa  proponendo un particolare progetto “Brian Cell” (Cervello Cellula), che lo ha visto coinvolto per oltre 30 lunghi anni, assieme a migliaia di membri  sparsi in oltre 80 paesi, in cui i singoli artisti collaborano inviando per posta a Cohen disegni, francobolli, timbri, adesivi o altro. Egli utilizzando un vecchio sistema serigrafico, chiamato ciclostile (ormai fuori produzione) fa 150 copie A3 (29,7x42). E’ un  progetto  ancora attivo che viene stampato ogni 7-10 giorni e rispedito ai rispettivi collaboratori, allegando un elenco di indirizzi di collaboratori provenienti da alcuni paesi (55 in media per opera). Sono passati già oltre 30 anni ed  è stato superato il 20 novembre 2017 il BRAIN CELL  N° 1000.  Già da diverso tempo  l’artista Cohen  rifiuta l’opera unica e concetti  consueti come l’originalità, preferendo maggiormente il gioco, la ricerca  e la libertà dell’artista volutamente collocato ai margini di un sistema culturale antiquato e passatista.
Nella pratica dell’arte postale non esiste un’unica ideologia o “ism” ben solida capace di sopravvivere  e prevalere sulle altre. Secondo Ray Johnson, “Mail Art is not a single art movement, but is quite a megatrend that insists that we change our consciousness”, quindi,   non è un unico movimento artistico ma piuttosto un grande movimento “trasversale” a tutte le altre proposte ed esperienze artistiche che ci sollecita concretamente a prendere coscienza di noi stessi. Di conseguenza, si condividono  i frammenti  di idee con altri artisti in una relazione libera da “copyright”,  utilizzando e trasformando persino le opere di altri autori in un incessante  “add and send by mail” collettivo.  Nella pratica  elitaria attuata dal sistema istituzionale ufficiale dell’arte si preferisce la concorrenza piuttosto che la cooperazione e la sperimentazione. Nella Mail Art questi concetti scompaiono per dare spazio alla creatività e alla ricerca spontanea svolta in campo in modo paritario.
Nato nel 1948 a Osaka, in Giappone, Ryosuke non è il primo  e unico artista postale giapponese, prima di lui anche Shozo Shimamoto aveva condiviso la Mail Art, tuttavia, è certamente l’autore giapponese più longevo e per certi versi, anche il più  interessante e attivo nel network internazionale di chiunque altro per la diffusione  capillare della pratica Mail artistica.  Dopo “Brain Cell”, nell'agosto 2001 ha iniziato anche un  altro progetto chiamato “Fractal  Portrait Project”, iniziato in Italia  al fine di realizzare più proficuamente il concetto di “Brain Cell”, facendo ritratti e Silhouette (face and body) agli amici artisti incontrati in questi anni nei in diversi incontri (Meetings) in tutto il mondo. Secondo Cohen, “Brain Cell” è come  la struttura di un cervello visto al microscopio, ci appare come lo schema  delle rete  con migliaia di neuroni accumulati  e ramificati insieme proprio come il Network dell’arte postale. La Mail art - scrive l’artista - “is dynamic", because you can be more of an individual free to create works of art with a new mind, being fragments of the entire network and sharing snippets of many other artists", e poi,  “la rete si espande da A a B,  da B a C, da C a D, da D a A, da C a A e così via,  è come un corpo unico con una costruzione cerebrale fatta di un gran numero di cellule nervose strutturate e complesse, sistemate in un ordine non lineare. Ecco perché ha definito questo tipo di esperienza “Brain Cell (cellule del cervello)”. Praticamente è il risultato di un complesso intreccio di cellule nervose del cervello, un progetto senza fine, aggiungendo, “ciò che nasce dal “flusso” Dada, Fluxus e Mail Art è l’unico modo per realizzare la nuova arte del domani”.
Fractal (frattale),  letteralmente significa figure simili fra loro, il nuovo concetto  è  stato utlizzato per prima dal matematico francese  B. Mandelbrot all’Istituto Watson IBM. La caratteristica principale dei frattali è “l’auto similarità”, la ripetizione sino all'infinito di uno stesso motivo  caratterizzato dall’indeterminatezza temporanea e provvisoria del suo esistere, come per esempio, gli alberi della foresta Amazzonica del Sud America che si compone di numerose specie che convivono insieme. Nel 2006 Ryosuke Cohen, scrive: “Nowadays I have come to realize that we are all part of a fractal, and that I can be a piece of that fractal, and that I can create art, in a way that extends beyond myself as an individual, in communication with infinite mail artists' ideas”,  (oggi mi sono reso conto che siamo tutti parte di un frattale e che posso essere  un pezzo di quel frattale estendendomi come individuo al di là di me stesso in una infinita comunicazione di idee con gli artisti postali).
Questa particolare concezione personalmente  preferisco chiamarla  “swarm intelligence”  traducibile come: “intelligenza dello sciame”,  è un termine più vicino a tutti gli esseri viventi coniato per la prima volta nel 1988 in seguito a un progetto ispirato ai sistemi robotici. Esso prende in considerazione lo studio dei sistemi auto-organizzati, nei quali un'azione complessa deriva da un fare collettivo, come accade in natura nel caso di colonie di insetti, stormi di uccelli, branchi di pesci oppure mandrie di mammiferi.  Secondo la definizione di Beni e Watt la swarm intelligence può essere definita come: “Proprietà di un sistema in cui il comportamento collettivo interagisce  in modo collaborativo producendo risposte funzionali al sistema”, sia ben chiaro, non inteso in senso speculativo e in funzione di un risultato economico, bensì, di una risposta partecipativa in funzione di un concreto apporto creativo “non autoritario”, proprio come avviene nella prassi collaborativa del movimento della  Mail art.
Cohen è oggi l’artista contemporaneo che non rappresenta più colui che produce un’opera d’arte secondo le vecchie idee classiciste della tradizione, ma ricopre il ruolo di mediatore e di intermediario tra la realizzazione di un’idea progettuale (la sua) e coloro che partecipano al progetto. Praticamente, egli si fa promotore di un “fare” diventando regista di un intervento provvisorio che nasce  dal contributo degli altri e  si materializza  nella collaborazione collettiva in cui tutti possono partecipare ed essere positivamente coinvolti. Le varie stampe del progetto Brain Cell realizzate da Cohen non possono essere considerate opere “finite”, intese come opere che si completano nella realizzazione della copia grafica, ma di un’opera caratterizzata dall’indeterminatezza e provvisorietà del proprio esistere insito nel suo DNA.  Di certo, se  il risultato finale di ogni stampa fosse  davvero “un’opera compiuta”,  credo che Cohen smetterebbe  di colpo di realizzare altre copie di “Brain Cell”, proprio perché svuoterebbe pesantemente il senso e la filosofia generatrice di questa  particolare pratica artistica.  
Una considerazione sul lavoro di Cohen che  è doveroso fare è quella di aver messo,  “fuori gioco”, ancora una volta,  il vecchio sistema ufficiale dell’arte,  relegando fuori dalla porta personaggi equivoci come i galleristi, i critici d’arte e persino i collezionisti di opere d’arte dal momento che  lo scambio delle opere prodotte avviene tra gli artisti del Network. Quindi, le opere realizzate non vengono trattenute e conservate dall’artista in vista di un  consueto profitto ma inviate ai rispettivi collaboratori. Con la spedizione postale delle stampe i collaboratori, utilizzano i propri archivi, diventando altresì collezionisti delle opere ricevute Spesso, con i lavori “Brian Cell” realizzati  nei vari tour che ogni anno    l’artista fa in giro per il mondo  si organizzano delle mostre come per esempio questa mostra realizzata a Pontassieve in occasione della “XXVII Rassegna internazionale “Incontri d’Arte” a cura di Alessandra Borsetti Venier.  Tuttavia, risulta quanto mai complicato e difficile organizzare tradizionali mostre con i “Fractal Portrait Project” proprio per la reale difficoltà a reperire e raccogliere concretamente le diverse opere donate nel tempo agli amici artisti rappresentati.
In mostra assieme alle  36 opere della serie “Brain Cell” (Cervello Cellula) dal numero 966 a 999,  con una speciale opera realizzata per l’occasione del numero 1000 vengono presentati tre Fractal  Portrait  Project di grande dimensione realizzati appositamente per questa mostra a Pontassieve,  progetto svolto da oltre 15 anni da Cohen nel campo della performance. In particolare vogliamo evidenziare un lato ancora nascosto e quindi poco conosciuto; mi riferisco soprattutto alle opere “Body”, alla serie delle slhouette del corpo create a partire dal 2001 in poi fino a oggi, realizzate  dall’artista giapponese  in particolari momenti collettivi unendo insieme diversi fogli Brian Cell in cui i soggetti, gli amici incontrati nei vari tour vengono invitati a farsi fare un ritratto da Cohen o a distendersi a terra sopra questi fogli Brain Cell,  con l’artista  impegnato per l’occasione a  disegnare e rilevare il contorno immediato del corpo. Una sorta di “performance collettiva”, prima di procedere alla consueta realizzazione dell’opera. Insomma, una performance “provvisoria” in funzione della realizzazione dell’opera. Tutto ciò, seppur con le dovute differenze di lavoro, lo lega indissolubilmente al suo  caro amico Shozo Shimamoto, divenendo  il naturale attivo continuatore  dell’arte di ricerca oggi in Giappone.    Sandro Bongiani  
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snapblog-blog1 · 8 years
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Lella Salvemini *campagnacultura
Come si chiama? Maddalena (Lella) Salvemini
Di che si occupa? Docente di scuola superiore
Secondo lei, quali sono le funzioni della cultura nella società contemporanea? Umanizzare l’essere vivente – noi – ancora troppo animali. Dotare ognuno di senso critico e capacità di interpretare il reale, di capire autonomamente quel che accade e costruire quel che dovrà accadere. Coltivare l’anima, lo spazio che va al di là del materiale.
E quindi, entrando più nello specifico, quali potrebbero/dovrebbero essere le funzioni della cultura a Molfetta? Per esempio, la cultura, in questa comunità territorialmente circoscritta, a quali bisogni potrebbe rispondere? Di costruire una comunità, di contribuire a creare una identità che vada oltre quella individuale, di elevare la qualità della cittadinanza.
Secondo Lei la cultura a Molfetta esercita le sue funzioni in riferimento ai ceti popolari?  Sarebbe necessario una definizione preliminare di “cultura”; per i ceti popolari le marce funebri e le processioni sono cultura. No, la mia risposta è che non esercita alcuna funzione nei confronti di tali ceti.
Quali sono i principali problemi che un amministratore della cultura a Molfetta deve affrontare per svolgere al meglio la sua funzione? Il clientelismo. Molfetta pullula di associazioni, gruppi, teatri, terze età, che in campagna elettorale non solo si schierano, ma offrono il loro contributo - il concertino, lo spettacolino dopo i comizi e cosi via. Dopo si aspettano una ricompensa, vale a dire finanziamenti, estati e inverni molfettesi e così via. Così viene meno il progetto, quale che sia e si parte con la distribuzione a pioggia di contributi. La vanagloria, che si creda un Renato Nicolini, solo per il fatto di essere assessore alla cultura. La parcellizzazione e la rivalità  fra i vari soggetti culturali. Che non abbia chiaro quale sia il suo ruolo.
Essere un operatore della cultura spesso è difficoltoso. Quali sono i bisogni di chi produce o promuove la cultura a Molfetta? E secondo Lei, qual è il principale. Ahimè, credo quello di camparci.
Focalizziamo l’attenzione sulle strutture a disposizione degli operatori, nella nostra città: ci sono, sono sufficienti, sono adeguate agli scopi? Personalmente non ho ancora superato la ferita della chiusura dell’Odeon, che ha svolto un ruolo importante per anni. Per il resto, mi pare non sia questione di mancanza di strutture, ma di progettualità e di collaborazione, di avere una visione comune.
Cosa vorrebbe che si facesse della Cittadella degli Artisti? Che la si utilizzasse appieno, è un luogo con grandi potenzialità.
Il Forum della Cultura è stato un momento quasi “rivoluzionario” per la vita culturale cittadina, almeno nelle intenzioni. Ritiene che questa realtà abbia apportato i benefici sperati? E perché? E quale sarebbe stata la rivoluzione? Io personalmente non me ne sono accorta. Il Forum non ha mai funzionato, non è stato permesso che davvero diventasse operativo, perché avrebbe portato ad una progettualità dal basso e  condivisa che né sindaco né assessore volevano accettare.
A suo avviso quale riterrebbe il principale errore che un amministratore potrebbe commettere nel tentativo di attuare politiche culturali in una città come Molfetta? Di agire e progettare pensando alla sua rielezione.
Il 2013 rappresenta uno storico spartiacque politico. Sotto il profilo delle politiche della cultura, ci direbbe cosa è cambiato rispetto al passato? E cosa si aspettava che cambiasse? Non lo ritengo uno spartiacque. Faccio fatica a individuare un cambiamento sostanziale. Mi aspettavo la stessa cosa che nel ’94, che tutte le energie fossero focalizzate nel progettare un evento che desse a Molfetta una sua distintività. Non quelle cose orribili finto medievali, ma un taglio, un’identità. Che fosse città di cultura dei bambini o città che punta alla valorizzazione degli aquiloni o qualunque cosa.
Pensa che questi cambiamenti abbiano attecchito nel nostro territorio? Ovvero: ritiene che ne resterà traccia in futuro? No
Abbiamo parlato della funzione alta della cultura in una comunità, ma Lei ritiene che una corretta strategia delle politiche culturali possa generare anche ricchezza? E se sì, pensa solo agli operatori diretti o anche ad un indotto più ampio? Si e ricchezza per il territorio tutto.
Risposta flash: la cultura a Molfetta oggi solo con tre parole
Provinciale, parcellizzata, per pochi.
Risposta flash: il suo personale maggior rammarico per Molfetta, rispetto alle politiche culturali. Che negli anni ’90 non sia stata Molfetta a proporsi per un festival tipo quello della Filosofia o delle idee, allora era possibile. Non dico che sarebbe stata la risoluzione di tutti i mali, ma un punto di partenza per generare altra cultura La chiusura dell’Odeon.
Risposta flash: ancora solo tre parole per dirci come immagina la cultura a Molfetta nel domani migliore Meno elitaria, meno provinciale, più diffusa. Potendo realizzare un suo desiderio nell’ambito delle politiche culturali, cosa farebbe a Molfetta? Più bellezza, lo so che sembra un modo di dire, ma davvero Molfetta è brutta. Ora facciamo un gioco: io le dirò delle affermazioni e Lei dovrà dirmi se le trova auspicabili o meno. Risponda in maniera secca e diretta, spiegando in pochissime parole il motivo della sua risposta.
Nel 2018 il programma culturale di Molfetta sarà inserito in un cartellone unico che parte da Barletta e arrivi a Giovinazzo. Concordo, per superare la parcellizzazione e il pensare al proprio orticello di cui dicevo prima
Con un solo ticket un turista potrà muoversi su bus e treni, dentro e fuori città. Con lo stesso ticket potrà ottenere riduzioni e sconti per spettacoli, visite museali, esposizioni, eventi culturali. Concordo
Ogni comunità del nostro SLOT (Sistema Locale di Offerta Turistica) avrà proprie specificità culturali, enogastronimiche, ambientiali e di intrattenimento da promuovere dentro un bacino attrattivo più ampio della sola Molfetta. Se queste specificità ci sono, cosa che non mi pare, non se devono essere inventate.
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