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#La danza di una monaca
agrpress-blog · 5 months
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Un ricordo di Audrey Hepburn nell’anniversario della sua nascita La grande attrice, interprete di Vacan... #audreyhepburn https://agrpress.it/un-ricordo-di-audrey-hepburn-nellanniversario-della-sua-nascita/?feed_id=5027&_unique_id=6635de66ee333
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NAVILLERA
Un giovane con il futuro davanti a se con un progetto da portare avanti ma ancora in fase di crescita, e per questo, un vissuto tormentato. L’altro ormai anziano con un passato dietro se, la sensazione di aver perso qualcosa ma con la sicurezza che dà solo l’aver attraversato la vita. La vita davanti a se e la vita dietro se.Il fato, il destino, il caso o forse quel battito di ali della teoria…
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ilmerlomaschio · 3 years
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DIARIO EROTICO DI UN’ERETICA
Erano anni che invocavo Eros per un sogno impossibile, quello che ogni donna desidera del profondo del cuore: trovare il grande amore, con la Om maiuscola. Cioè il mantra cosmico che muove il sole e le altre stelle. Ma anche, più semplicemente, il rombo acustico che dal profondo delle viscere fa rabbrividire la pelle. Senza le collaterali rotture, s’intende, di qualsiasi vita di coppia, mutande e calzini da rammendare, o le ricorrenti flatulenze degne del peggior animale.
Ma lui sembrava non voler sentire e, a parte qualche decoroso avanzo di galera, a letto particolarmente focoso, con gli uomini normali l’argomento si è rivelato quasi sempre deludente, e oltretutto frettoloso. Tutto il resto era assolutamente noia. Storie di ordinaria routine, piccolo-borghese e senza gioia.
Limousine, ristoranti stellati, champagne cuvée e frequenti soirée nei teatri, ma sotto alle lenzuola il nulla più desolante. Un deserto sconfinato dei tartari, un’inutile attesa del niente.
A un certo punto ho pure provato ad abbassare le aspettative. Ho sceso, dando il braccio all’amore di turno, almeno un milione di gradini sulla scala sociale. Fino a quando ci ho proprio sbattuto il naso.
Dopo una sfilza di laureati, ecco arrivare i migliori tra i reputati in fatto di arte amatoria, uomini cosiddetti di fatica che, malgrado l’appellativo, a letto disdegnavano il loro compito come i vampiri con l’aglio, e senza dunque averci fatto troppi giri, rieccomi tentare la ri-monta verso il round finale di un potenziale equilibrio. Il risaputo ideale dell’impiegato, colui che la sua vita ha consacrato sull’altare di una scrivania uso ufficio. Ma forse, proprio per dispetto al suo nome, una volta trascinato a letto, anche l’esemplare più tipico della predetta categoria non faceva neanche una piega. Come se la fantasia amorosa scivolasse silenziosamente via dalle lenzuola per il timore di essere a sua volta imprigionata dalla cattiva piega che avrebbe potuto prendere una vita a tal punto ripetitiva.
Come potevo dunque realizzare il mio personale karma?
Incontrare Eros era il mio destino, ma lui si ostinava a sfuggirmi.
Poi un giorno capii, ed era pure elementare. Bastava un po’ di semplice mitologia per sciogliere i nodi che sino allora avevano tardato a venire al mio pettine. E sì che non mi mancava la giusta chioma da Valchiria, indomita e selvaggia come l’amazzone che mi scalpitava dentro.
Se aveva ragione Platone, e dunque la colpa era delle sue origini povere di cui si vergognava, Eros avrebbe cercato contesti attraenti, disdegnando vite domestiche, lavori routinari e stipendi quasi da indigenti. Lui aveva la necessità di volare, perciò per conquistarlo avrei dovuto puntare molto in alto, direttamente sino alle stelle.
Sposando un uomo spropositatamente ricco, il mio Adone si sarebbe magicamente rivelato facendosi vivo da solo, bussando un bel giorno alla mia porta con nonchalance, come un bambino alla ricerca di un aquilone.
E così, infatti, è accaduto.
L’ho conosciuto ad una festa elegante, come dicevo, e pur recitando la parte della gran signora, a tratti sfuggente e altezzosa, ho subito capito che si trattava del migliore dei Casanova. Giovane e aitante, atletico e irriverente, si muoveva a suo agio tra i candelabri dei tavoli e le misteriose maschere della gente, incantando le dame col suo potere seducente. Soltanto molto tempo dopo ho scoperto che era un modello di professione che per l’arte del sesso aveva molto più che un’innata vocazione.
Il suo sguardo penetrante mi ha subito scatenato l’impossibile desiderio di un amore cocente, talmente pieno di passione da smuovere anche le vette più inaccessibili delle mie altissime montagne, che allora tenevo ben strette nel corsetto, tra pizzi e rasi, scosse da un brivido lungo la schiena. Mi sfiorò delicatamente la catena d’oro bianco e perle, ma non finì nel solito dopo cena. Si limitò a porgermi il suo miglior biglietto da visita, lasciando a me la decisione: se morire di fantasie impossibili corrosa dalla pura immaginazione, oppure abbandonarmi al prosaico reality di un’avventura amorosa, lasciandomi prendere da una sfrenata passione. Non ebbi nessuna esitazione.
Ma essendo lui un bellissimo Adone, di me senz’altro più giovane e forse gigolò praticante, il sospetto in proposito si stava insinuando nella mia limitata esperienza. Stupirlo doveva diventare la mia unica missione, legarlo a me, sebbene dissuasa da un angolo remoto di coscienza.
Dovevo conquistarlo lentamente, suonando con dedizione lieve e costante quel flauto magico rinchiuso nella cesta della sua mente, che alla fine avrebbe incantato non solo il più restio tra gli uomini, ma anche il più refrattario, maestoso serpente. Non che il suo ne avesse bisogno, ovviamente.
Un solo avvertimento, prima di iniziare i nostri giochi. Sapevo che sarei dovuta restare molto attenta. Il monito della favola di tutti i tempi raccomandava a noi fanciulle non più ingenue di rinchiudere l’uccello d’oro in una gabbia di legno. Sulle prime, l’interpretazione era sibillina. Tale appellativo non poteva attribuirsi a un paragone poco lusinghiero nei confronti della mia a-dorata vagina. Ma alla fine capii che la parabola sottendeva una nascosta, sottile allegoria: dovevo conquistarlo in sordina, con una seduzione apparentemente innocua, ma circolare e continua, fatta di carezze a spirale, musica e profumi a profusione. Per dargli l’illusione di essere finito in un harem, una specie di paradiso di cui era l’unico dio, il temuto e venerato sovrano.
Narrazioni esotiche, aromi d’incenso e cannella, massaggi di seta, poesie oniriche, pioggia di petali a catinella. Protagonisti di un paradiso erotico, ogni volta mutavamo forma, attori unici del teatro sincronico della nostra immaginazione.
Nel nostro Eden segreto io ero Cleopatra e lui Antonio, io la schiava e lui il pirata, lui il principe e io l’ancella. Ma era ancora troppo poco, volevo che la mia ipnosi fosse totalizzante e resa ancora più mirabolante, per diventare ai suoi occhi più bella trattenendolo a me, seppur nel fuggevole attimo del presente.
Pensai allora di convincerlo che era Shiva: divinamente muscoloso com’era, la mia dea interiore Shakty ne avrebbe gioito, amandolo per sempre in quel tratto che rifuggiva dal mondo.
Ma dopo appena un mese di recite a soggetto, scoprii che quel gioco era solo la replica di un copione già visto: il kamasutra vedico lo avevamo ormai esaurito, e a quel punto non ci restava che provare con le divinità dell’antico Egitto. La mia ninfa ninfomane necessitava di nuova linfa, o l’ispirazione ne avrebbe languito.
Ci voleva una nuova perversione. Un’immagine simile a una visione, che potesse rinnovare un vecchio repertorio con nuovo vigore. “Ritornare alla radice”, mi sono detta, e più non facciamo questione.
Una monaca di clausura sembrava la giusta soluzione, una figura allegorica che riportasse il mio corpo a risplendere nella più fulgente luce, magari nel mezzo di una dolce tortura. Sarei stata io, questa volta, la dominatrice. E da Sherazad che già aveva assaporato le mille e una botte, sarei ritornata totalmente pura, redenta e limpida come acqua cristallina.
Avrei avuto carta bianca per dargliele deliziosamente di santa ragione, se solo lo avessi ammanettato a dovere, con una nuova gamma di fustigazioni. Più di cinquecento sfumature, tra quelle da catalogo e improvvisazioni.
La castità doveva diventare la nuova frontiera, in nome di una nuova religione. Sesso esclusivamente immaginario, telepatia e dominazione. Nessun amplesso dei corpi, ma solo un’eterna, infinita erezione. Vietata ogni eruzione.
Detto fatto, eccomi alle prese con le mie prime armi.
Sembro una Mistress con tutti i crismi. La frusta ruota lieve attorno al suo corpo in un’infinita danza, disegnando mandala aerei prima di approdare ad infliggergli la suprema fustigazione, l’estrema acrobazia della mia nuova, inebriante eresia.
Geme. Fremo. È vera sublimazione. Puro distillato di un sesso tangibile, ma al contempo evanescente, come se dai nostri corpi fosse di colpo evaporata, per liberarsi infine polverizzata, una nube densa di profumo e sudore, dispersa nell’etere di un cosmico stupore.
Lo vedo all’apice dello stordimento, assaporandone il liquido mai versato, per fecondare ogni mia più remota fantasia. È dunque giunto il momento di esigere un’ultima prova: la mia brama di supremazia richiede la suprema resa.
Decido di approfittare di quest’attimo di perfezione, il Kairos degli dei, se così si può dire, per porgergli un’ultima domanda. Senza via di fuga, come fosse un condannato al giudizio finale, la risposta non prevede alcuna esitazione.
Vacilla per un attimo, titubante. Mi attendevo qualcosa di inedito, la proposta di un’esibizione sinfonica, un esuberante quartetto da camera, o anche solo un trio di cui sarei stata regina.
Ma così non pare. Resto muta, avvertendo che si sente sulla soglia di un bivio. Sussurra infine esile, con un sottile fil di voce:
“Vorrei con me Livio, per il supplizio della croce”.
Sento il cuore spezzarsi in petto. Decisamente no: quest’ultimo colpo non l’ho retto.
Posso solo scappare da questo castello di sabbia che mi è franato addosso di colpo, a tradimento. Mi rivesto in tutta fretta, col desiderio di lasciarmi alle spalle il fardello di questo lacerante tormento.
Ma non faccio in tempo a fuggire dal mio peggiore incubo che l’oste mi presenta il conto dell’ultima cena, e quello di tutti i precedenti bagordi.
Cattivi tempi per noi ingordi: ahimè è molto salato. Mi domando come diavolo ho potuto.
Questa sensazione di amaro in bocca mi resterà impressa per anni, come un marchio di fuoco, segnandomi, oltre all’anima, anche il corpo. Troppo cocente, la delusione.
Potrei sempre dire che, per certi versi, mi ha fatto sentire come Nietzsche sul punto della sua più solenne dichiarazione, ma a quale prezzo?
Se Dio è morto, non credo risorgerà mai più. Non di certo per il mio stupido, carnale vezzo, men che meno per un’ultima deflorazione.
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Gabrielle Bossis, la mistica che parlava con Gesù
Pubblicato da Ares, in versione integrale, il diario Lui & io, con la trascrizione dei colloqui avuti da Gabrielle Bossis (1874-1950) con Gesù. Che chiese alla mistica francese di offrire le sue sofferenze, amare e vivere secondo la divina volontà. E una volta le disse: “Io sono l’Ostia. Tu sei l’ostensorio. I raggi d’oro sono le Mie Grazie attraverso di te”.
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di Fabio Piemonte (06-01-2020)
“Il Mio Amore segreto e tenero è in realtà per ogni anima che vive in questo mondo”, confidò Gesù stesso a Gabrielle Bossis (1874-1950), una delle grandi mistiche del secolo scorso. È questo il senso più intimo e profondo della trascrizione fedele dei loro colloqui in un diario, Lui & io, recentemente pubblicato in edizione integrale (Edizioni Ares, 2019, pp. 600), nel quale ogni dialogo di Gabrielle col Divino Maestro è puntualmente datato e brevemente contestualizzato.
Nata nel 1874, un anno dopo santa Teresa di Lisieux, “Gabrielle non fu una monaca di clausura; visse a lungo nel mondo interessandosi di musica, di danza e di letteratura, scrivendo opere teatrali e mettendole in scena in varie parti del mondo, perfino in Palestina e in Marocco”, sottolinea padre Antonio Maria Sicari nell’introduzione all’opera.
Gesù desidera che Gabrielle scriva anche le sue preghiere e le intima di rivolgersi a Lui con parole d’amore: «Ripeti: “Che a ogni nuovo istante Tu sia il più grande amore della mia vita. Così, crescerai in Me”». E le sussurra: “Non ti fermare ai dettagli. Cammina con lo sguardo fisso sul Mio Amore. Cadi? Rialzati e guardaMi di nuovo”. La invita a essere “il Mio sorriso per tutti, la Mia voce amabile”. Allo stesso modo il Signore la esorta a pregare, mentre le confida: “Cambio le tue preghiere in preghiere Mie, ma se tu non preghi... Posso far fiorire una pianta se tu non la semini?”. Di qui le precisa: “Quando non ti parlo, vuol dire che è giunto per te il momento dell’azione. Parla con gli altri come pensi che Io parlerei con te. Ti aiuterò”.
In un appello accorato la esorta ad alimentare il suo amore per Lui: “VediMi in ogni cosa; considera ogni cosa in vista dell’eternità; esci dalle tue solite misure, amaMi di più”. In un’altra circostanza la esorta a vivere radicata nella sua divina volontà: “Sradicati da te stessa, piantati in Me”, affinché “la tua vita sia un costante raccoglimento, un’incessante conversazione col tuo Signore”. L’invito alla carità verso il prossimo è condensato nelle espressioni: “FamMi crescere negli altri”, dal momento che “quello che fai agli altri, è a Me che lo fai”. Gesù l’invita a percorrere la via dell’amore sulla scia di Maria: “Mia Madre non viveva che per Dio. Non aveva alcun egoismo, alcun ripiegamento su sé stessa. Rispondeva esattamente allo scopo del Creatore, mentre La creava. ImitaLa”.
Gabrielle pone dunque Cristo al centro della propria esistenza. E ciò, come le spiega Gesù, “vuol dire pensare a Me. Parlare con Me come con il migliore e più dolce amico. Cercare i Miei interessi. Soffrire per causa Mia. Avere cura del Mio Regno. Ricordarsi delle Mie sofferenze. Lasciar fluire il proprio amore nel Mio amore in ogni momento della vita e tutto quel che consegue da ciò”. L’unione mistica della sua anima con Cristo viene evocata anche attraverso questa bella immagine: “Io sono l’Ostia. Tu sei l’ostensorio. I raggi d’oro sono le Mie Grazie attraverso di te”.
Un amore totale richiede un amore totale. E allora, “visto che Mi do tutto intero, donati tutta intera, senza neanche pensare che potresti riservare qualcosa per te”. Ecco perché il Maestro le sussurra con amore: “Sei dunque a casa tua nel Mio Cuore, Mia piccola figlia: anche sulla terra, esso è la tua vera casa” e “famMi posto nel tuo cuore: entrerò con tutte le Mie Grazie”.
Gesù la invita spesso a un’adeguata considerazione di ogni realtà, compresa la più piccola, e di ogni suo atto: “Non essere mai sorpresa delle Mie Bontà. Quelle che puoi vedere sono minori di quelle che ti circondano”. E ancora: “Non ti ho detto che nulla è piccolo ai Miei occhi? Che tutto sta nel modo di amore con cui lo si compie?”. Di qui il motivo del suggerimento: “Metti la tua felicità nel servirMi sin nei più piccoli dettagli. Nulla è piccolo quando si tratta di amore”, in quanto “ogni piccolo sforzo, un vostro minimo gesto, Mi incanta, come una madre è gioiosa quando il suo piccolino assume una nuova espressione”.
In relazione alla compartecipazione di Gabrielle alle sofferenze di Cristo, Egli le ripete: “Sopporta le spine di ogni giorno per amor Mio. Questo prepara la tua anima alla virtù eroica. Comprendi che l’unione con Dio altro non è che fare la volontà di Dio”. Il Signore non è un giudice severo, ma un Padre misericordioso che si identifica metaforicamente con il personaggio biblico di Sansone allorquando le rivela: “Perdo la Mia forza di giudice quando un’anima Mi esprime la fedeltà del suo amore. Non che quest’amore sia un grande amore, ma è il più grande che lei sia capace di offrirMi. Allora, Mi tocca sul vivo e sono incline a piegarMi alla sua volontà, che adotto come Mia”.
Così fa il Divino Maestro anche nel momento in cui chiama a Sé la sua sposa fedele Gabrielle. La quale, durante la sua ultima Messa, invoca il suo Sposo con fiduciosa speranza: “Dove sei amorosa Presenza?... E dopo, che sarà?”. E Gesù le risponde: “Sarò Io, sarò sempre Io”.
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pangeanews · 6 years
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La meravigliosa storia di Gyalmo, principessa tibetana, monaca, imprenditrice: la femminista d’Oriente che continua a reincarnarsi
Le bandierei preghiera tibetane ondeggiano, sono tantissime, colorate, sospese a fili bianchi. Sembrano danzare, come in festa. Tradizionalmente, vengono appese a capodanno, ma non il nostro, quello tibetano, che si festeggia oggi, il 5 febbraio. Uno strano vento caldo sbuffa da est, quando arrivo alla casa varesina di Maria Antonia Sironi, allieva di Ardito Desio, geologa, scrittrice, traduttrice e presidente della associazione EcoHimal Italia Onlus per la salvaguardia delle popolazioni che vivono nelle aree himalayane. Una specie di moderna esploratrice e una pioniera dell’alpinismo femminile. Una catasta di legna da ardere, il pendio di un prato, i rami degli alberi sono ormai spogli, è inverno ed è anche buio. Si indovinano le stelle tra l’intrico dei rami. La casa rossa di mattoni, è in alto, come un eremo, richiede una breve salita. Una manciata di gradini e sono nell’ingresso della casa. Un tempo era un fienile, ora sembra un rifugio di montagna, con le finestre a mezzaluna che sbirciano sulla strada. Un piccolo soppalco di legno a sinistra sembra fatto apposta per la meditazione. Mensole zeppe di libri, le foto appese del Dalai Lama che Maria Antonia, Tona per gli amici, ha incontrato. Ma dove sono capitata? Insieme a Tona, di passaggio, c’è sua figlia Hildegard Diemberger – figlia del celebre Kurt, l’unico alpinista vivente ad aver scalato, in prima ascensione, due ottomila – antropologa e oggi ricercatrice presso l’Università di Cambridge. Lei non chiama mamma sua madre, ma Tona, semplicemente. Del resto Tona è una donna avventurosa, non soltanto una madre: ha preso parte a spedizioni esplorative in varie parti del mondo, ha raggiunto, avventurosamente, l’Himalaya, ai margini della mitica terra di Oddyiana, rimanendo definitivamente sedotta da quei luoghi. Ha vissuto per alcuni anni in Tibet, in Nepal, a Katmandu, con la figlia e la piccola nipote, dedicandosi alla salvaguardia della loro cultura, del loro territorio, restaurando monasteri, costruendo scuole elementari, affinché tutti i bambini potessero avere un’istruzione, anche quelli che vivevano nei luoghi più impervi.
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Maria Antonia ‘Tona’ Sironi ha scritto il libro “La principessa di Gungtang”
Una bambina dal volto di bambola canticchia e danza vicino alle fiamme lievi del camino, mentre una ragazza bionda, esile, dagli occhi vivissimi, abbraccia una coperta ma, nonostante l’innocenza del volto, è molto più grande, è sua madre. Lei, Jana, questo è il nome della ragazza, è nata nove mesi dopo che sua madre Hildegard – che, in quel periodo, viveva a Tashigang, un villaggio alle pendici dell’Himalaya – aveva compiuto un pellegrinaggio all’Ama Pujun, la Montagna della Madre incinta e vi aveva deposto il fiore di rito. Al tavolo di legno, mi offrono una tazza fumante di ginger-lemon, sembra quasi un liquore, ma è soltanto un infuso di zenzero grattugiato, limone e miele, squisito. Mentre stringo la tazza tra le mani, in questo rifugio femminile, ascolto, per la prima volta, l’affascinante storia della principessa di Gungtang. Anzitutto è una storia familiare: Hildegard che dedica la sua vita al Tibet – si era appassionata alle montagne grazie a suo padre, ma a differenza di lui prediligeva “la gente che ci vive intorno” – e alle sue popolazioni, un giorno, al ritorno da un viaggio, racconta alla madre Tona di aver ritrovato, per vie misteriose, il manoscritto andato perduto della biografia di una principessa monaca, nata nel 1422 e vissuta fino al 1455, fondatrice di una delle rarissime linee di reincarnazione femminili. Dopo soltanto cinquecento anni, Hildegard ne trae, nel 2007, un libro accademico per la Columbia University Press: When a Woman becomes a Religious Dynasty, in cui, accanto alla traduzione realizzata insieme a Pasang Wangdu, ne presenta una profonda analisi e la confronta con altre opere e altri personaggi dell’epoca. La madre Tona, al suo fianco, trasforma il manoscritto biografico in un romanzo e così nasce La Principessa di Gungtang Dall’antico Tibet, la storia di una vita senza fine, edito da Alpine Studio, con la prefazione di Kurt Diemberger, il padre di Hildegard.
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La storia della principessa mi piace anzitutto perché è la storia di una femminista ante litteram, una protofemminista tibetana, una donna dinamica che scelse di farsi suora e di aiutare il Tibet. Una donna che si è incarnata dodici volte. Come si presentava il prezioso manoscritto? “Erano 144 fogli di strisce lunghe, scritte nel XV secolo, che raccontavano la storia di una donna che aveva avuto la piena consacrazione e ordinazione. Si trattava di un manoscritto un po’ eretico, che era finito in una libreria di Lhasa e poi preso e portato dai cinesi a Pechino. Insomma, ho potuto leggere il manoscritto grazie ad un collega olandese di studi tibetani, Leonard van der Kuijp, professore alla Harvard University, che me lo aveva fatto avere, in modo un po’ rocambolesco. Avevo incontrato questa misteriosa principessa in altri manoscritti tibetani. Eppure nel manoscritto della biografia mancava il finale”, mi spiega Hildegard Diemberger. Capelli lunghi, colta, intraprendente, la principessa Gyalmo era nata nel quindicesimo secolo a Gungtang, nel Tibet centro-occidentale, discendente degli antichi imperatori. Una donna che riesce a sfuggire a un matrimonio non voluto – o forse può permettersi di farlo –, si fa monaca ed entra in un monastero buddhista a oltre quattromila metri. Diventa una yogini, accetta la povertà e la disciplina monastica, ma, da vera principessa, promuove la costruzione di ponti tibetani con anelli di ferro, ponti che hanno attraversato i secoli, l’ultimo dei quali è stato distrutto, perché pericoloso, negli anni ’90.  Erano novantotto i ponti che permettevano di attraversare il Brahmaputra, in tibetano Yarlung Tsangpo, costruiti dal maestro Tangtong Gyalbo, vissuto pare 140 anni, il creatore dell’Opera Tibetana, ispirata alla stessa principessa Gyalmo di cui lui fu maestro per un paio di anni.  Fondatrice e badessa di un monastero femminile, ma anche monaca buddhista che chiede l’elemosina, imprenditrice e costruttrice di canali di irrigazione, pare che la principessa tibetana abbia utilizzato, una delle prime volte nella storia del Tibet, la stampa da matrice, per diffondere la parola del suo maestro spirituale. Un’autentica femminista nel mondo orientale, in anticipo sui tempi: “Socialmente innovatrice, questa monaca, figlia del Re di Gungtang, si oppose alle vecchie convenzioni e si attivò perché le donne imparassero a leggere e a scrivere… e questo cinquecento anni fa, nell’aspra solitudine del deserto d’alta quota, che chi non vi è stato stenta ad immaginare”. Lei, una discendente degli antichi imperatori tibetani, tra cui Songtsen Gampo e Trison Detsen, vissuti tra il settimo e l’ottavo secolo, che contribuirono allo splendore del Tibet. Ma da dove proveniva la stirpe reale? “Un’antica leggenda racconta che il primo re tibetano scese dal cielo lungo una corda di luce. Il primo re Tibetano, secondo il mito, è chiamato Nyatri Tsenpo. Lui è sceso dal cielo usando una corda di luce ed è stato portato a spalle dai sudditi che lo hanno ricevuto (da ciò viene il nome: Nya=collo, Thri=trono, Tsenpo=re). Anche i suoi discendenti scendevano e poi risalivano al cielo attraverso la corda di luce. Arrivato sullo Yarlha Shampo, la montagna ancestrale dei tibetani, venne portato a spalla nella vallata dello Yarlung, nel mondo degli uomini, che governò con saggezza. Al termine del suo mandato terreno, risalì lungo la corda di luce e tornò al cielo. Così fecero i suoi successori. Tutto continuò bene fino al momento in cui uno dei re si adirò, con un ministro, estrasse la spada, ma invece di colpire l’avversario, tagliò la corda di luce. Da quel momento non fu più possibile tornare in cielo, e i re cominciarono a morire e furono deposti nelle tombe. E dalla leggenda si passò alla storia”.
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La principessa monaca, con così nobile, luminosa ascendenza, indossava orecchini d’oro e turchese, simbolo della sua regalità, come nel dipinto del XVII secolo, custodito presso il monastero di Nyemo. E non è scomparsa. Il principio delle reincarnazioni in Tibet si manifesta con frequenza, ma rarissime sono le linee di reincarnazione femminili. La principessa era, per il primo maestro Chole Namgyal e poi per il secondo Tangtong Gyalbo, l’incarnazione della dea Dorje Phagmo, una famosa divinità indiana venerata soprattutto dalle donne. Ma alla sua morte, i discepoli cercarono e trovarono la bambina in cui si era reincarnata e la ricerca venne ripetuta per secoli dodici volte, fino ad oggi.
L’incontro con la principessa reincarnata viene descritto da Tona Sironi, nella parte finale del romanzo: “La dodicesima Dorje Phagmo non ha preso parte alla cerimonia. L’ha seguita dall’alto, lontana da tutti, riparata da una grande finestra. Sarà possibile accostarla solo l’indomani, nel momento in cui impartirà la benedizione a ciascuno, singolarmente. Il mattino seguente, quando scendono in cortile i quattro trovano la fila dei fedeli già composta. Dai volti assorti si intuisce che questo è il momento più atteso. Le labbra mormorano mantra, le dita sgranano i chicchi dei rosari. Anche i due stranieri hanno riposto le macchine fotografiche e il gruppetto dei cinesi si scambia brevi occhiate di trepida intesa. Finalmente la fila comincia a muoversi e, passo dopo passo, si avvicina alla porta del tempio dove lei, la Dorje Phagmo, poserà per un attimo sul capo di ciascuno il libro sacro che tiene nelle mani”. Eppure, eppure. “Ricevuta la benedizione, lentamente solleva il capo e sta per allontanarsi, ma si ferma per un attimo: da vicino il volto della sacra donna appare intenso, ispirato, ricco di suggestioni… ma lui l’ha già visto, non solo nelle immagini del tempio e della sala del trono. No! Quel volto lo ha conosciuto altrove. Con un crescente senso di turbamento fruga nella memoria. Ecco… la televisione! L’ha vista in televisione. Era là, nel palazzo del governo durante un incontro ufficiale. Era attorniata dai membri del partito e sorrideva davanti alla telecamera… Un senso di smarrimento lo assale. Come può questa donna essere tante cose diverse e contrastanti, nello stesso tempo?”.
*
Corro a cercare la fotografia della principessa reincarnata, in appendice al romanzo. Mi immaginavo una bellissima monaca aristocratica, dai lunghi capelli. Mi trovo, invece, a scrutare il volto di una amabile vecchietta, mora, con gli occhiali, vestita di rosso scuro, immersa nel rituale di benedizione. Sarebbe la sceneggiatura di film stupendo, alla Bertolucci, se non fosse così reale. Ma, nonostante tutto, non è una finzione. Nel romanzo La principessa di Gungtang, Tona ammette di aver solo sfrondato alcune parti decisamente agiografiche, ma di aver rispettato il manoscritto. Rifletto, ancora turbata dall’incontro con questa famiglia, il vento continua a sbuffare, ora è freddo, quando lascio l’eremo italiano di Tona Sironi. Penso a tutte le vite che ha vissuto nei suoi viaggi e alle reincarnazioni che racconta nel romanzo. Mi dico: in fondo basta solo prendere un volo aereo (d’accordo, il biglietto non è alla portata di tutti), per incontrare la reincarnazione della principessa Gyalmo, la monaca Chodron e la divinità Dorje Phagmo, nel monastero di Samding, non lontano da Lhasa. Il nome della città significa, del resto, “luogo degli dei”.
Linda Terziroli
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