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#Pietro Balestra
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📍 #italia #roma #giardinodegliaranci
Parco Savello, più noto come Giardino degli Aranci, è un piccolo terrazzo sull' Aventino che affaccia sul Tevere. Da questo angolo, tra i più amati e frequentati della città, si gode una delle viste più belle di Roma. 
Il Parco Savello si estende nell'area dell'antico fortilizio eretto dalla famiglia dei Savelli tra il 1285 e il 1287 presso la chiesa di Santa Sabina sull'Aventino, su un preesistente castello fatto costruire dai Crescenzi nel X secolo.
L'attuale giardino fu realizzato nel 1932 da Raffaele de Vico, dopo che già agli inizi degli anni Venti del '900, con la nuova definizione urbanistica dell'Aventino, era stato previsto di destinare a parco pubblico l'area che i padri Domenicani della vicina chiesa tenevano a orto, in modo da offrire libero accesso alla vista da quel versante del colle, unendola con quella allora occupata dal Lazzaretto Comunale, corrispondente a parte dell'attuale Giardino di S. Alessio, per creare un nuovo belvedere da affiancare a quelli del Pincio e del Gianicolo. Il giardino, piantato ad aranci, con riferimento all'arancio presso cui predicava S. Domenico, fondatore dell'ordine, conservato nel vicino chiostro di S. Sabina e visibile tramite un foro aperto nel muro del portico della chiesa, ha ricevuto da de Vico un'impostazione rigidamente simmetrica, con un viale mediano in asse con il belvedere, che si apre in due slarghi: in quello di destra era in origine collocata la fontana realizzata da Giacomo della Porta per Piazza Montanara, e dal 1973 trasferita a piazza S. Simeone ai Coronari. L'ingresso principale, in Piazza S. Pietro d'Illiria, fu arricchito nel 1937 dal portale proveniente da Villa Balestra sulla via Flaminia.
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italianartsociety · 7 years
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By Jean Marie Carey
Painter and draughtsman Pietro Longhi [ née Pietro Falca] was born 5 November 1701 in Venice, where he spent most of his life and career.
His father, Alessandro Falca, encouraged his natural talent for drawing, and he studied under Antonio Balestra. One of Longhi’s first independent works, the St Pellegrino altarpiece, recalls his Venetian origins and training in its broken brushwork and colour glazes.
Around 1737 Longhi joined the Venetian painters’ guild and moved away from grand historical compositions and began painting the small-scale genre works for which he is renowned. The dearth of dated works throughout his career makes chronological reconstruction of his oeuvre difficult, but it is generally agreed that his earliest works of this nature were scenes of peasant life. A number of drinking, dancing and tavern scenes exist as well. In 1741 Longhi signed and dated The Concert, an interior view of Venetian noble life. Sources suggested for Longhi’s genre pictures include William Hogarth and Antoine Watteau. 
From the 1740s Longhi continued to paint Venetian interior scenes; they are small, rarely taller than 650 mm, almost never show more than one wall and rarely include windows. They are painted in colours that are clear and clean, and they show a deep appreciation of the texture of fabrics, which are occasionally enlivened with flickering splashes of colour.
In his mature work Longhi produced both peasant scenes and interiors depicting noble life. Longhi was immensely popular in his day; he was lionized as an outstanding imitator of nature and was even compared favourably to Tiepolo. In a society that constantly looked to its past greatness and whose contemporary art was almost entirely allegorical, his scenes of 18th-century life were a novelty. In the late 20th century his work was appreciated for his charming doll-like interiors. His pictures contain many things, including portraits now unrecognized, which were undoubtedly part of their attraction.
Longhi’s best-known image today records a historical event, the exhibition in Europe for the carnival of 1751 of a rhinoceros that had been brought to Europe ten years previously. This was one of the few rhinoceroses that had been seen in Europe since 1515, when Dürer made his famous woodcut based on drawings of one that had been taken to Lisbon. Longhi represents the occasion with unaffected simplicity as the showman displays the animal to a group of spectators in carnival costume, holding in one hand the horn of the animal and a whip.
Longhi died in Venice on 8 May 1785.
Reference: John Wilson. "Longhi (iii)." Grove Art Online. Oxford Art Online. Oxford University Press. http://www.oxfordartonline.com/subscriber/article/grove/art/T051796pg1.
Exhibition of a Rhinoceros at Venice, 1751. The National Gallery, London, Nr. NG1101.
Games at the Country House, c. 1750. Accademia Carrara.
The Geography Lesson, c. 1750. Museo civico di Padova
Wet Nurse, c. 1750. Museo del Settecento veneziano.
Venetian Masks, c. 1750. Accademia Carrara
Further Reading: Babette Bohn; James M. Saslow. A Companion to Renaissance and Baroque Art. Hoboken: Wiley, 2013.
Teresio Pignatti. Longhi ( Pietro Longhi Paintings and Drawings). London: Phaidon, 1969.
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vocidaiborghi · 5 years
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Sul finire del Settecento, a ridosso del piccolo centro rurale di Fossalta di Portogruaro, sottile cerniera tra la provincia di Venezia e la friulana Pordenone, un uomo, figlio del migliore Illuminismo, ebbe la rara possibilità di vivere la sua utopia idealistica. Il suo nome era Alvise Mocenigo e nacque a Venezia il 10 aprile 1760 da Alvise V Sebastiano e da Chiara Zen, maggiorenti di un casato tra i più influenti e facoltosi della città lagunare d’allora. Nel 1790, presa in mano – in maniera alquanto disinvolta – la gestione delle proprietà della famiglia, Alvise intraprese un ambizioso progetto urbanistico, attraverso il quale gettò le basi di una città del tutto autosufficiente e funzionale, trasformando un vasto latifondo in un esperimento piuttosto articolato, sia dal punto di vista urbanistico che di significato sociale, nonché dai costi che si presentarono piuttosto elevati. Ma, alla fine, si trasformò in un’esperienza sociale e produttiva di grande rilievo storico. Il latifondo, conosciuto sotto il nome di Molinat, era un ambiente paludoso, desolato e malsano, attraversato per lunghi tratti da un fiume di risorgiva; una terra nella quale la regina indiscussa era la malaria, l’aria insalubre, e, come lasciò scritto lo stesso Mocenigo, “una settantina di miseri formavano tutta la popolazione, gonfi di ventre, gialli di fisionomia, di cortissima vita”.
Tra le fonti da cui Alvise dedusse l’ispirazione per costruire la sua città notevole peso ebbero le idee di Pietro Giannini e Gaetano Filangieri, in piena sintonia col Secolo dei Lumi. Peraltro, frequentava l’Accademia degli Estravaganti, come era di casa nella più famosa Arcadia. A sua volta prese ad esempio Ferdinandopoli, la Comunità agricolo manifatturiera di San Leucio sorta nei pressi di Caserta, per volontà di Ferdinando di Borbone, re delle Due Sicilie.
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edifici della Comunità di San Leucio
La città di Alvise, che poté chiamarsi Alvisopoli nel 1800 grazie al governo austriaco, era impostata secondo criteri tra i più moderni della scienza agraria del tempo, integrata da una stretta filiera che si occupava della trasformazione dei prodotti e la distribuzione degli stessi sul mercato. Tra le produzioni, ad esempio il Mocenigo, ricordò “sopra l’uva, come sopra diverse altre materie, e con quali maggiori o minori mezzi si potesse estrar lo zucchero…Alle api e al miele dunque si rivolse il pensiero”. A queste si aggiunsero la coltivazione del riso, attraverso le più moderne tecniche piemontesi, la filatura di vari tessuti e la conceria. Il grande lavoro di bonifica e la stessa città abbisognava di una nuova popolazione; e questa fu trovata nei possedimenti dei Mocenigo sparsi per tutto il Veneto: nuclei familiari di contadini e braccianti arrivarono dal vicentino, dal padovano e dal veneziano, in particolare dai dintorni della località di Cavarzere.
Dopo di che si intraprese la canalizzazione delle acque, attraverso l’escavo di due canali scolatori, il Taglio e il Fossalone, quindi si passò al rimboschimento dell’area, introducendovi diverse specie arboree. Allo stesso tempo si costruirono a villa padronale, le barchesse a loggia in stile dorico, la scuderia, la cantina, che delimitano un grande giardino all’italiana. Poco lontano le case coloniche e gli edifici adibiti alla lavorazione dei prodotti, quale il mulino, la fornace, la filanda, la conceria e per la pilatura del riso; non mancavano i fabbricati per la vita di ogni giorno: la chiesa, le scuole, la farmacia e una locanda.
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La villa padronale
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Le case coloniche
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edificio per la pilatura del riso
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Palazzo dell’amministrazione
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barchessa di sinistra
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barchessa di destra e il cantinone
La villa, eretta tra il 1803 e il 1805 su progetto dell’architetto bassanese Giovanni Battista Balestra, sulle fondamenta di un precedente edificio dominicale, era completata da un parco di ben otto ettari, dove un fosso di risorgiva alimenta piccole canalette e uno stagno, ricoperto da splendide ninfee. Il rigoglioso scenario naturale è costituito da un antico bosco di pianura, composto da farnie e roveri, a cui si alternano le betulle, gli aceri, i carpini bianchi, i frassini o alberi centenari non nativi, quali ad esempio, gli ippocastani o i cedri, oltre a numerose specie arbustive ed erbacee. Qui cresce una rosa rara ed unica: la rosa Moceniga. La sua presenza non è sempre vistosa, a volte la si nota appena, seminascosta dalla vegetazione, altre volte spicca fra le altre specie erbacee. Nel corso delle sue fioriture, due volte all’anno – in inverno e in primavera – i suoi petali cambiano colore: da un colore rosso passa al rosa e al candore del bianco.
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La rosa Moceniga
Nella tipografia, allestita nel 1810 prima di essere trasferita a Venezia nel 1814, si vennero a pubblicare con il la marca tipografica dell’ape con il motto Utile Dulci, numerose opere di grande spessore letterario e saggistico, tra le quali l’Inno alla Pace di Giovanni Paradisi, che celebrò le nozze di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, o le Api Panacridi di Vincenzo Monti.
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chiesa di San Luigi
La chiesetta, sorta sulle preesistenze di un oratorio intitolato a Sant’Antonio, venne edificata sulla base delle considerazioni del Balestra e del Canova. Disposta all’esterno della villa padronale, aperta all’intero complesso, era ed è dedicata a San Alvise e a San Luigi di Gonzaga. Nel 1843, Lucia Memmo, moglie di Alvise, mise mano alla chiesa, realizzando le due navate laterali e il coro. Inoltre, dispose che venissero qui trasferite molte delle opere, in precedenza custodite nell’oratorio di Cà Memmo di Cendon di Silea, in provincia di Treviso. Notevoli, tra questi, i due angeli marmorei, attribuiti a Giusto Le Court. Infine, nel 1907, fu eretto il campanile.
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oratorio di Cà Memmo
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  il campanile
Con la morte dell’ultimo discendente della famiglia Mocenigo, Alvisopoli conobbe un processo di trasformazione e di abbandono. Nel 1983, l’intero complesso venne acquistato dall’allora IACP di Venezia, oggi Ater di Venezia, che decise il restauro, destinandolo a residenza, pur realizzando un recupero globale dell’antico centro. Dopo il recupero della villa, delle scuderie, dove si sono ricavati altri alloggi di edilizia popolare, negli ultimi anni sono stati ristrutturate le barchesse e le cantine, creando uffici e spazi per eventi ed esposizioni temporanee, estesi al giardino e al parco.
L’articolato intervento di restauro del complesso monumentale e naturalistico ha permesso la restituzione alla comunità di un bene, con una storia che rischiava di andare perduta.
Oltre al valore storico rappresentato dall’idea moderna e progressista di Alvise Mocenigo, la realizzazione del complesso/borgo da lui ideato, merita una profonda riflessione che, a mio parere, dovrebbero fare molti urbanisti nella ideazione di città moderne. Create sulla base dei bisogni contemporanei dell’urbanizzazione, ma fatti in maniera razionale e non estemporanea. Con l’idea e il presupposto di lasciare qualcosa di utile e duratura per chi sarà dopo di noi.
ALVISOPOLI, UN UTOPIA SETTECENTESCA Sul finire del Settecento, a ridosso del piccolo centro rurale di Fossalta di Portogruaro, sottile cerniera tra la provincia di Venezia e la friulana Pordenone, un uomo, figlio del migliore Illuminismo, ebbe la rara possibilità di vivere la sua utopia idealistica.
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oldpainting · 7 years
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Longhi, Pietro (1702-1785) - The Visit (Metropolitan Museum of Art, NYC)
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<strong>Longhi, Pietro (1702-1785) - The Visit (Metropolitan Museum of Art, NYC) <a href="https://www.flickr.com/photos/32357038@N08/">by Milton Sonn</a></strong> <br /><i>Via Flickr:</i> <br />Pietro Longhi was a Venetian painter of contemporary scenes of life. He was born in Venice. He adopted the Longhi last name when he began to paint. He was initially taught by Antonio Balestra, who then recommended him to apprentice with the Bolognese Giuseppe Maria Crespi, who was highly regarded in his day. Among his early paintings are some altarpieces and religious themes. In 1734, he completed frescoes in Ca' Sagredo, representing the Death of the giants. Henceforward, his work would lead him to be viewed in the future as the Venetian William Hogarth, painting subjects and events of everyday life. The interior scenes reflect the 18th century's turn towards the private and the bourgeois. Many of his paintings show Venetians at play.
Other paintings chronicle the daily activities such as the gambling parlors that proliferated in the 18th century. In some, the insecure or naive posture and circumstance, the puppet-like delicacy of the persons, seem to suggest a satirical perspective of the artists toward his subjects. Nearly half of the figures in his genre paintings are faceless, hidden behind Venetian Carnival masks.
A paraphrase of Bernard Berenson states that "Longhi painted for the Venetians passionate about painting, their daily lives, in all dailiness, domesticity, and quotidian mundanity. In the scenes regarding the hairdo and the apparel of the lady, we find the subject of gossip of the inopportune barber, chattering of the maid; in the school of dance, the amiable sound of violins. It is not tragic... but upholds a deep respect of customs, of great refinement, with an omnipresent good humor distinguishes the paintings of Longhi from those of Hogarth, at times pitiless and loaded with omens of change".
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tmnotizie · 6 years
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SAN BENEDETTO – Election day, quorum raggiunto in tutti i quartieri. A tale proposito, l’assessore alla partecipazione Andrea Traini desidera esprimere la soddisfazione più viva per il fatto che tutti i quartieri hanno raggiunto il quorum necessario per dichiarare valido il voto.
“E’ un fatto che non si è mai verificato da quanto esiste l’election day – dice Traini – e questo nonostante i timori della vigilia sostenuti da un’indubbia disaffezione verso il voto che caratterizza tutte le consultazioni popolari. Voglio esprimere un ringraziamento sentito dell’Amministrazione verso tutti coloro che, sfidando il freddo, hanno dedicato ore ed ore del loro tempo libero per presidiare i seggi contribuendo a questo splendido risultato, ma anche a tutti i candidati che hanno  si sono impegnati per far sapere delle elezioni e portare gente al seggio. Questa è la città che vuole partecipare alla vita pubblica e da parte nostra ci sarà tutto l’impegno per non deluderli”.
Le cariche saranno definite nel corso della prima riunione dei direttivi che sarà convocata entro 20 giorni dal voto dal consigliere più votato (il primo di ciascuna lista allegata). Il quartiere Europa le ha già assegnate. Presidente è stata nominata Moina Maroni, vicepresidente Renzo Marinsalta, segretario Gianni Perazzoli, tesoriere Paolo Parmigiani.
Questo l’elenco completo degli eletti, suddiviso per quartieri.
Agraria
Travaglini Tiberio
De Ascaniis Barbara
Galli Marino
Illuminati Bruno
Romano Antonio
Zumpano Atilio Josè Gregorio
Piunti Luigi
Pulsone Giovanna
Greco Antonio Giuseppe
Albula Centro
Di Berardino Guerino
Di Pierro Nicola
Novelli Luigi
Calabresi Luciano
Romani Marco
Europa
Maroni Moina
Perazzoli Gianni
Parmigiani Paolo
Antolini Nicola
Marinsalta Renzo
Fosso dei Galli
Simonetti Luciano
Bovara Andrea
Testa Leandro
Falcioni Franco
Baldassarre Antonella
Mare
Sestri Leo
Capriotti Bruno
Perozzi Giampiero
Perozzi Andrea
Paoletti Giorgio
Scarpantoni Fabio
Duranti Emidio
Morganti Luigi
Bocci Filippo
Marina Centro
Piunti Elena
Micucci Mery
Liberatore Sabatina
Braccetti Pier Domenico
Mascaretti Antonio
Amato Vincenzo
Mattioli Leandra
Marina di Sotto
Isopi Alfredo
Virgili Umberto
Piccinini Ernesto
Cameli Angelo
Brandimarte Tonino
Giangrossi Cristiano
Speca Mario
Ottaviani Mario
Castelli Silvia
Paese Alto
Rossetti Enrico
Alleva Renata
Rossi Vincenzo
Pompei Valerio
Mascitti Alessandro
Ponterotto
Angelini Roberto
Gabrielli Benito
Albertini Alessandro
Spagnolini Emmanuel
Testa Giuseppe
Biondi Umberto
Formentini Virgilio
Porto d’Ascoli Centro
Core Elio
Amante Valter
Micozzi Gino
Straccia Gabriele
Ruggieri Pasqualino
Campanelli Traiano Ruffo
Portelli Simona
Niccolini Sergio
Talamonti Romolo
Ragnola
Procacci Giovanni
Galieni Michela
Marucci Giovanni
Incicco Florinda
Balestra Cristiana
Moscatelli Roberto
Conti Federica
Paoloni Secondina
Sacripanti Andrea
Salaria
Laudi Marco
Marcozzi Gabriele
Novelli Nazzareno
Capecci Maria Rita
Cipolloni Cristina
Ricci Roberta
Mattioli Claudio
Ciarrocchi Gabriele
Calabrese Milly Dalila
San Filippo Neri
Balloni Maria
Palestini Luca
Di Giacinto Maurizio
Palestini Maria
Camela Floriano
Ortenzi Maria Leonia
Ricci Pietro
Santa Lucia
Bianconi Giuseppe
Fava Lino
Troiani Luca
Rivosecchi Andrea
Federzoni Amelia
Sant’Antonio da Padova
Colucci Pietro
Varese Paolo
Caglio Alessio
Rossetti Saverio
Polidori Ida
Ceccarelli Renato
Di Giacinto Ginevra
Morelli Marcello
Franco Lino
Sentina
Isopi Valerio
Bianconi Elvezio
Alessandrini Marco
Rossi Peppino
Leli Roberto
Isopi Pasquale
Mora Alessandra
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colospaola · 7 years
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Ieri pomeriggio, in una tiepida domenica di quel periodo che segna la fine dell’ora legale e l’avvento dell’inverno, sono andata, curiosa, al Castello di Novara a vedere la mostra Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi, che fino al 14 gennaio 2018 presenterà 120 capolavori della storia dell’arte italiana dal Quattrocento all’Ottocento.
Dopo aver comperato, fin dal 1976, circa 2800 titoli dei 3500 elencati da Julius von Schlosser nel suo saggio La letteratura artistica, Vittorio Sgarbi capì che “che quadri e sculture potevano essere più convenienti e divertenti del libro più raro” come raccontava Mario Lanfranchi, collezionista che lo aveva spinto a “guardare le opere d’arte come beni spiritualmente universali ma materialmente indisponibili”.
E dal 1983, dopo aver trovato il San Domenico di Niccolò dell’Arca, Sgarbi decise che non avrebbe “più acquistato ciò che era possibile trovare, di cui si poteva presumere l’esistenza, ma soltanto ciò di cui non si conosceva l’esistenza, per sua natura introvabile, anzi incercabile” dato che “la caccia ai quadri non ha regole, non ha obiettivi, non ha approdi, è imprevedibile. Non si trova quello che si cerca, si cerca quello che si trova. Talvolta molto oltre il desiderio e le aspettative”.
Da ciò è nata una collezione che è un vero e proprio riassunto dell’arte italiana, tra pittura e scultura, dal XIII secolo ai giorni nostri, che  riflette la cultura ampia e multiforme di chi ha rintracciato, acquisito, studiato e infine protetto i preziosi tasselli che lo compongono.
Come dice il curatore della mostra Pietro Di Natale nel catalogo espositivo “l’arte ha una funzione culturale, è autenticamente cultura animi, e per questo non è solo utile, ma anche necessaria nel percorso di ogni uomo. Una collezione d’arte privata è dunque la fondazione di un sistema simbolico, la creazione di una palestra per l’anima, un luogo dove si materializzano scelte intime, meditate e, talvolta, sofferte. Sovente si dimentica che la sua più alta vocazione sia quella di accogliere il pubblico, di offrirsi agli sguardi, di raccontare la propria storia”.
La mostra, che è dedicata a Rina Cavallini, madre di Vittorio Sgarbi, donna eccezionale che trasmise la sua passione per le aste e l’arte al figlio, vuole dar conto in primis della peculiare e complessa storia dell’arte italiana.
Nel viaggio lungo le sale della mostra, al secondo piano della galleria del castello, si possono vedere tutte le grandi scuole pittoriche italiane, lombarda (Giovanni Agostino da Lodi, Morazzone, Schivenoglia, Francesco Hayez), marchigiana (Johannes Hispanus, Cola dell’Amatrice, Battista Franco, Giovanni Francesco Guerrieri, Simone Cantarini, Andrea Lilio, Sebastiano Ceccarini, Giovan Battista Nini, Francesco Podesti), veneta (Pietro Liberi, Johann Carl Loth, Simone Brentana, Enrico Merengo), ferrarese (Nicolò Pisano, Garofalo, Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano, Sebastiano Filippi detto Bastianino), emiliana e romagnola (Niccolò dell’Arca, Francesco Marmitta, Ferraù Fenzoni, Guercino, Matteo Loves, Guido Cagnacci, Anna Morandi Manzolini, Giacomo Zampa, Mauro Gandolfi), toscana (Giovanni Martinelli, Giacinto Gimignani, Pietro Paolini, Simone Pignoni, Alessandro Rosi, Onorio Marinari, Giuseppe Moriani, Pietro Balestra, Giovanni Duprè), romana (Cavalier d’Arpino, Artemisia Gentileschi, Pseudo Caroselli, Bernardino Nocchi, Giuseppe Cades, Antonio Cavallucci, Innocenzo Spinazzi, Agostino Masucci).
Ma il percorso presenta anche un lungo sguardo nella natura e la funzione di dipinti e sculture (pale d’altare, quadri per il salotto, miniature, bozzetti e cartoni preparatori) oltre che sui soggetti affrontati dagli artisti, da quello sacro, alle raffigurazioni allegoriche e mitologiche (Ignaz Stern, Simone Pignoni, Filippo Comerio, Vincenzo Morani), dal ritratto (Lorenzo Lotto, Luciano Borzone, Philippe de Champaigne, Ferdinand Voet, Baciccio, Pier Leone Ghezzi, Giorgio Domenico Duprà, Giovanni Antonio Cybei, Giacomo de Maria, Lorenzo Bartolini, Raimondo Trentanove, Vincenzo Vela), al paesaggio e la veduta (Jan de Momper, Giuseppe Bernardino Bison, Antonio Basoli, Giuseppe Bernardino Bison), alla scena di genere (Eberhart Keilhau detto Monsù Bernardo, Matteo Ghidoni detto dei Pitocchi).
E’ davvero emozionante soffermarsi nelle varie sale per rendersi conto di quanto di bello sia stato creato.
La musica in sottofondo rende l’atmosfera ancora più piacevole.
Ci si può sedere in vari punti, davanti a molti di questi quadri, e semplicemente guardarli.
E’ davvero difficile trasmettere l’emozione che si prova davanti a queste opere d’arte, qualcosa di unico e profondo, che trascende i confini del singolo quadro.
La mostra è sempre aperta, dalle 10 alle 19, mentre il giorno di Natale l’orario è dalle 16 alle 21, inoltre l’ultimo venerdì del mese c’è un apertura straordinaria dalle 10 alle 23.
Il biglietto d’ingresso costa 10 euro, 7 euro per gli over 65 e gli under 26; i gruppi da 15 a 25 persone e gli studenti universitari; gli alunni delle scuole pagano 5 euro e nel prezzo del biglietto sono inclusi l’audioguida e il servizio di microfono per i gruppi, mentre l’ingresso è gratuito per i bambini fino a 6 anni, per i disabili e gli invalidi.
Le stanze segrete di Vittorio Sgarbi a Novara Ieri pomeriggio, in una tiepida domenica di quel periodo che segna la fine dell’ora legale e l’avvento dell’inverno, sono andata, curiosa, al…
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    La Via degli Dei
cinque tappe per ripercorrere la millenaria strada etrusca
da Bologna a Firenze attraverso l’Appennino
    La Via degli Dei da Bologna a Firenze in cinque tappe
      Un percorso che da epoca etrusca, fu sfruttato per circa quattro secoli, dagli stessi per il dominio sulla Pianura Padana e per i loro traffici, ripreso in seguito dai Romani come collegamento tra Roma e Arezzo, passando dagli Appennini, trasformandolo da sentiero-mulattiera in vera e propria strada.
Oggi di quel lastricato non rimane più nulla, se non un sentiero conosciutissimo da escursionisti di trekking, mountain bike o bikepacking, che lo ripercorrono in un tracciato ricco di storia, di natura, di cultura e di enogastronomia.
La Via degli Dei, da non confondersi con il Sentiero degli Dei nella Costa Amalfitana, parte da Bologna per arrivare a Firenze, 130 chilometri suddivisi in cinque tappe, con la possibilità di sfruttare a pieno la possibilità di scoprire territori ricchi di storia, lontani dalle vie turisticamente più battute e l’opportunità di trascorrere una vacanza itinerante all’aria aperta, adatta ad adulti, giovani e famiglie con bambini, permettendo di organizzare il percorso a seconda dei giorni a disposizione e dell’abilità degli escursionisti.  
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  Il Percorso e le tappe per la Via degli Dei
    Il nome, con tutta probabilità, lo prende dal fatto che il percorso attraversa alcuni monti, come Monte Adone, Monzuno, Mons Iovis, “monte di Giove”, Monte Venere, Monte Lunario, “Lua era la dea romana dell’espiazione”, da qui la Via degli Dei.
  Le cinque tappe da Bologna a Firenze sono suddivise
    1 da Bologna a Badolo
    a piedi – 19 chilometri, con un tempo di percorso approssimativo in base all’abilità quasi 7 ore
in mountain bike – 32 chilometri, 2 ore e 30 di percorrenza
    2 da Badolo a Madonna dei Fornelli
    a piedi – circa 30 chilometri, tempo di percorrenza 10 ore
in mountain bike – 25 chilometri, in 2 ore e 30
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  3 da Madonna dei Fornelli a Monte di Fò
    a piedi – 18 chilometri, tempo di percorrenza 6 ore
in mountain bike – 19 chilometri, 2 ore
    4 da Monte di Fò a San Piero a Sieve
    a piedi – 21 chilometri, 7 ore di percorso
in mountain bike – 24 chilometri, 2 ore
    5 da San Piero a Sieve a Firenze
    a piedi – 34 chilometri, 11 ore
in mountain bike – 34 chilometri, 3 ore di percorrenza
Le differenze della lunghezza del percorso è dato da alcune variazioni che vengono suggerite ai bikers per migliorare il percorso.
Qui verrà descritto il percorso a piedi.
  Santuario di San Luca lungo la Via degli Dei
    Prima tappa per la Via degli Dei Bologna- Badolo
    Il punto di partenza è Piazza Maggiore di Bologna, con allo sfondo la Basilica di San Petronio, alla sua sinistra Palazzo dei Bianchi con il bellissimo portico lungo quasi tutta la piazza e a destra, il Palazzo dei Notai e Palazzo d’Accursio, tutti monumenti da visitare, da qui si arriva al Santuario di San Luca, passando per via Saragozza, attraversando l’arco del Meloncello e percorrendo il portico, che consta di 666 archi e 15 cappelle con i Misteri del Rosario, con i 3,796 chilometri è il portico più lungo al mondo.
Anche il numero delle arcate è richiamo simbolico e il fatto che sia composto esattamente da 666 archi, il numero diabolico, sarebbe stato utilizzato a indicare, che il porticato simboleggia il “serpente“, ossia il Demonio, sia per la sua forma, sia perché, terminando ai piedi del santuario, ricorda il Diavolo sconfitto e schiacciato dalla Madonna sotto il suo calcagno.
Dal Colle della Guardia dove sorge San Luca si scende verso Casalecchio di Reno, seguendo la strada asfaltata per circa 200 metri, a destra si imbocca Via de’ Brègoli, segnato come sentiero CAI 112A, che conduce al Parco Talon, attraverso un bel bosco alberato.
#gallery-0-22 { margin: auto; } #gallery-0-22 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 50%; } #gallery-0-22 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-0-22 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */
Entrata del Rifugio antibomba della Seconda Guerra Mondiale
Interno del Rifugio
Il sentiero è abbastanza impegnativo per la pendenza ma pieno di punti suggestivi dal “balzo della Pizzacherra“, che prende il nome dal rio che costeggia il sentiero, ai panorami  mozzafiato su Casalecchio di Reno, al rifugio antibomba della Seconda Guerra Mondiale.
Arrivati al Parco Talon, costeggiando la destra del fiume Reno, si prosegue in direzione Sasso Marconi, raggiungendo l’Oasi Naturalistica di San Gherardo, dove è possibile praticare birdwatching, trekking e nordic walking, superata l’Oasi, su strada asfaltata si raggiunge il bivio Sasso-Pontecchio, ci si dirige verso Sasso Marconi, risalendo Via Vizzano si arriva alle Ganzole e da qui Sasso Marconi.
Partendo dalla Stazione F.S. di Sasso Marconi si risale il sentiero che porta al parco dei Prati di Mugnano, ci si dirige all’interno del Parco, arrivati alla “Piazza” si prosegue seguendo il sentiero CAI 110 VD, fare attenzione perché ci sono diversi bivi, il primo con la “Bologna- Firenze” ed il secondo con Monte Mario, proseguire fino al quadrivio de La Commenda, da qui abbiamo la possibilità di scegliere tra due sentieri, il primo, Sentiero 122 VD, sulla sinistra, si prosegue fino a via delle Orchidee, a destra sulla Provinciale di Badolo fino ad arrivare al Giardino Botanico Nova Arbora, lungo la strada asfaltata fino ad imboccare il sentiero sulla sinistra che sale fino a Monte del Frate.
Parco Talon Villa Sampieri
Il secondo Sentiero 110 VD, a destra prosegue in direzione Rio Raibano-Brento, per una discesa abbastanza ripida, arrivati alla statale, si raggiunge il bivio che sale a Battedizzo e poi per Badolo su strada asfaltata.
Nei pressi del fosso Raibano si può prendere il sentiero del CAI 110 per raggiungere Badolo evitando l’asfalto, passata la chiesa di Badolo, dopo una cabina dell’Enel, si riprende il sentiero CAI 110 VD, direzione Monte Adone-Brento, i due sentieri si ricongiungono nei pressi di Monte del Frate.  
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  Seconda tappa da Badolo a Madonna dei Fornelli per la Via degli Dei
    Proseguendo il sentiero si arriva a Brento, si costeggia il Centro Tutela e Ricerca di Fauna Esotica e Selvatica di Monte Adone a sinistra c’è la discesa che porta alla cima di Monte Adone, seguendo il sentiero CAI 110 Monte Adone, arrivati alle 2 croci di Monte Adone,da dove si ha un bellissimo panorama, si scende verso Brento si percorre un lungo tratto di strada asfaltata raggiungendo prima Monterumici e poi Monzuno.
Da Monzuno si prosegue su strada asfaltata in direzione Modonna dei Fornelli, il campo sportivo,  si svolta a destra imboccando una larga strada sterrata in salita, raggiungendo la località “Campagne” dove è segnalato il percorso CAI 019 – VD, si attraversa il sentiero CAI n.° 19 e si entra in bosco di castagni fino ad arrivare al ripetitore Telecom, si segue la strada sterrata fino alle case di Le Croci, si sale fino al Monte del Galletto e poi su sterrata si giunge a Madonna dei Fornelli.  
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  Terza tappa da Madonna dei Fornelli a Monte di Fò
    Lungo il sentiero 19, che parte da Madonna dei Fornelli, con direzione Pian di Balestra, troviamo un piccolo cancello da superare, dopo aver incontrato un incrocio con segnaletica per la Via degli Dei.
Entrati nel bosco, si notano alcuni resti del percorso Flaminia Militare di epoca romana, un altro cancello con la scritta “chiudere grazie”, ci si para davanti, al di là un grande campo con “I Capannoni” una casa in sasso a indicare la località omonima, proseguire per il sentiero sterrato fino ad un bivio dove bisogna svoltare a destra, che prosegue, indicato dal cartello CAI 019, alla Piana degli Ossi, luogo solitario e facilmente riconoscibile,dove si trovano i resti di antiche fornaci, dove gli antichi romani vi fabbricavano la calce, il nome, deriva dal fatto che in epoca medioevale si attribuiva i resti di calce sparsi in quei luoghi ad ossa umane.
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Tratto la Via degli Dei con segnaletica
Tratto della Flaminia Militare
La Piana degli Ossi con i resti delle fornaci
Proseguendo sul sentiero 19 fino a che non si esce dal bosco e non si incontrano due piane, la prima più piccola sulla destra e sempre dritto una più ampia denominata “radura della Banditacce”.
Raggiungendo il “Poggiaccio”, si determina la metà del tragitto, ovvero l’approssimativa equidistanza tra Bologna e Firenze, la Via degli Dei qui scende fino alle Falde di Poggio Castelluccio, incontrando ancora tratti della Flaminia Militare, sempre seguendo il sentiero 19, si arriva alla strada asfaltata che da Pian del Voglio porta al Passo della Futa.
Seguire la strada asfaltata fino a raggiungere l’ampio parcheggio del cimitero germanico, alla rotonda del Passo della Futa girare a destra, un cartello con su scritto “Santa Lucia – Monte di Fo’”, indica il sentiero che scende, sulla sinistra proseguire per altri 3 km seguendo le indicazioni fino ad arrivare all’ultimo bivio, a sinistra si arriva dentro il Camping il Sergente in località Monte di Fo’, se si tiene la destra si arriva in località Santa Lucia, distante solo pochi metri da Monte di Fo’.
    Penultima tappa la quarta per la Via degli Dei da Monte di Fò a San Pietro a Sieve
    Da Monte di Fò si prende la strada asfaltata che conduce a l’Apparita, sulla destra si incontrerà una sbarra bianca e blu, oltrepassata la quale, ci si addentrerà nel bosco seguendo le indicazioni GEA, fino al bivio con il sentiero 00 che conduce a Monte Gazzaro dove si trovano le sorgenti dell’acqua Panna.
In  vetta la Croce di Monte Gazzaro, volendo si può trascrivere su di un libricino, legato ad una piccola struttura in pietra, il “Libro vetta di Monte Gazzaro”, i propri pensieri.
Croce di Monte Gazzaro con la costruzione in pietra dove si trova il Libro Vetta di Monte Gazzano
Seguire con molta attenzione il crinale, per non scivolare, fino ad un grande spiazzo il Passo dell’Osteria Bruciata, dove sorgeva una famosa osteria, il proprietario dopo aver derubato i propri clienti, li uccideva e ne cucinava le carni che venivano poi servite ad altri ospiti ignari del fatto, lungo il sentiero CAI 46 si prosegue per Sant’Agata, si scenderà fino ad arrivare ad una vecchia casa semidiroccata “Riarsiccio”, e poi ad un bivio, qui prendere l’indicazione a destra per Sant’Agata-San Piero a Sieve, a sinistra volendo si può andare a visitare la Pieve di Sant’Agata del Mugello, a destra invece proseguire fino a San Piero a Sieve, direzione Gabbiano.  
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  Ultima tappa da San Piero a Sieve a Firenze e termine per la Via degli Dei
    Sulla strada asfaltata per la Fortezza Medicea, che parte dal centro di San Pietro a Sieve, si incontrano le indicazioni, su segnaletica CAI, per Bo-Fi, un sentiero sterrato sale lungo la collina.
Con una piccola deviazione si può andare a visitare la Fortezza Medicea di San Martino, che occupa l’intero colle e domina San Pietro a Sieve.
Lungo il sentiero Bo-Fi, si incontrerà una strada asfaltata, sulla destra parte un’altro sentiero sterrato, con indicazioni “Trebbio-Cadenzano”, imboccarlo fino ad un bivio, a sinistra in salita, continuare per la Via degli Dei, un tabernacolo del 1664 vi indicherà che siete sulla strada giusta e quindi potete permettervi di godere del panorama intorno a voi, proseguite fino a Trebbio e con piccola deviazione visitate il Castello del Trebbio.
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La Fortezza Medicea di San Martino
Castello del Trebbio lungo la Via degli Dei
L’ultima tappa è la più lunga, quindi prendetevi tutto il tempo per riposare, a Trebbio lungo il sentiero CAI 17 Bo-Fi Bivigliano, i panorami saranno stupendi, uliveti si alterneranno a borghi e tabernacoli, fino ad arrivare alla Statale per Firenze, dove gireremo a sinistra per Tagliaferro, sul muretto di una grande casa rossa troveremo ancora le indicazioni CAI, superare un cancello che porta sulla strada bianca, al bivio CAI 00 e CAI 00-60, seguire il primo, si passerà uno spiazzo chiamato “Camporomano”, incrocerete una strada asfaltata, dove alla destra si vedrà in lontananza la Badia del Buonsollazzo, seguitela, un cartello per Monte Senario, indicherà il nuovo tragitto fino al Convento di Monte Senario, dove potrete ristorarvi presso i frati.
Il Convento del Buonsollazzo
A destra del Convento, una stradina scende per un viale alberato, oltrepassate il cancello e addentratevi nel bosco a sinistra fino ad un’altra strada asfaltata che seguirete fino a che un sentiero riprende a Vetta le Croci dopo circa mezz’ora nel verde e alla vostra sinistra.
Ultimo sforzo, arrivati ad Olmo, già si può vedere in lontananza Firenze, il sentiero termina su strada asfaltata, che una volta attraversata proseguirà con sentiero CAI 2 verso Poggio Pratone e scendere fino a Monte Fanna, qui la strada diventa poi asfaltata, una volta attraversata la frazione di Borgunto, e si giunge in breve nella piazza di Fiesole, si prendere l’autobus n.° 7 con destinazione Piazza San Marco di Firenze portando a termine la Via degli Dei, un tragitto lungo ma spettacolare.
    La Via degli Dei le cinque tappe facendo trekking La Via degli Dei cinque tappe per ripercorrere la millenaria strada etrusca da Bologna a Firenze attraverso l’Appennino…
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arthisour-blog · 7 years
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Antonio Balestra (Aug 12, 1666 – May 21, 1740) was an Italian painter of the Rococo period.
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Born in Verona, he first apprenticed there with Giovanni Zeffio. By 1690 he moved to Venice, where he worked for three years under Antonio Bellucci, then moved to Bologna and then to paint in Carlo Maratta’s workshop in Rome. In 1694, he won a prize from the Accademia di San Luca. He later painted both in Verona and Venice; although his influence was stronger in the mainland. His pupils in Verona were Pietro Rotari and Giambettino Cignaroli. In Venice, he painted for the churches of the I Gesuiti and San Zaccaria, and the Scuola della Carita. Pietro Longhi briefly worked under Balestra. In Venice, other pupils or painters he influenced, included Mariotti, Giuseppe Nogari, Mattia Bortoloni and Angelo Trevisani. Also he influenced a young Giambattista Pittoni. Among his pupils from Verona were Domenico Pecchio, Domenico Bertini, and Carlo Salis.
In painting, Balestra was staid and reactionary. Wittkower quotes the distaste of Balestra in 1733 for the tendency of then-modern painters to deviate from enshrined standards of academic painting: All the present evil derives from the pernicious habit, generally accepted, of working from the imagination without having first learned how to draw after good models and compose in accordance with good maxims. No longer does one see young artists studying the antique; on the contrary, we have come to a point where such study is derided as useless and obnoxious.
He painted a Virgin and Infant, with Saints Ignatius and Stanislaus Kostka for the church of Sant’Ignazio at Bologna. He also painted for churches of Venice, Vicenza, Padua, Brescia, and Verona. In prints, he etched a Head of a Warrior, Virgin Mary and Infant in the Clouds, with Two Soldiers; Vignette, with two figures holding a Flag of Verona, and a Portrait of an Architect.
Antonio Balestra was originally published on HiSoUR Art Collection
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redazionecultura · 7 years
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sede: Palazzo Baldeschi al Corso (Perugia); cura: Vittorio Sgarbi.
Come annuncia il titolo, la mostra intende valorizzazione lo straordinario patrimonio artistico posseduto dalle Fondazioni di origine bancaria e delle Banche italiane. Si tratta di un patrimonio ampio che, per la varietà della sua composizione e per la sua stratificazione temporale, può essere considerato il volto storico e culturale dei diversi territori della nostra penisola. Questa particolare attività collezionistica è un aspetto del più complessivo impegno culturale delle Banche e delle Fondazioni, in una dimensione più ampia di attività e di impegno verso la comunità di riferimento: acquisto, recupero, restauro e quindi tutela e valorizzazione di opere che altrimenti andrebbero disperse. La maggior parte delle opere in mostra sono catalogate in Raccolte, la banca dati consultabile online realizzata dall’Acri, l’Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio che ha concesso il suo patrocinio, insieme alla Regione Umbria e al Comune di Perugia. “Un patrimonio privato messo a disposizione del pubblico in un’ottica non privatistica, ad integrazione di una attività culturale che i musei pubblici nazionali non potrebbero permettersi”, aggiunge il curatore Vittorio Sgarbi. La mostra perugina propone dunque un avvincente percorso lungo sette secoli di storia dell’arte e al contempo consentirà di verificare la pluralita` degli orientamenti che stanno alla base del fenomeno del collezionismo bancario. Questo prezioso tesoro diffuso – e in parte ancora poco conosciuto dal grande pubblico – sarà raccontato attraverso 90 opere, da Giotto, l’artista che ha rinnovato la pittura, così come Dante, suo contemporaneo, è ritenuto il “Padre” della lingua italiana, a Giorgio Morandi che, guidato da una sorvegliatissima coscienza formale, fu capace di infondere una solennità pacata e austera ai semplici oggetti del quotidiano. Tra questi due poli, il visitatore potrà ammirare le opere di maestri, più o meno noti, appartenenti alle principali “scuole” che compongono la peculiare e complessa “geografia artistica” della nostra nazione: Beato Angelico, Perugino, Pinturicchio, Matteo da Gualdo, Dosso Dossi, Ludovico Carracci, Giovanni Francesco Guerreri, Ferraù Fanzoni, Giovanni Lanfranco, Guercino, Guido Cagnacci, Pietro Novelli, Giovanni Domenico Cerrini, Mattia Preti, Luca Giordano, Antonio Balestra, Gaspar van Wittel, Giovanni Antonio Pellegrini, Bernardo Bellotto, Corrado Giaquinto, Pompeo Batoni, Angelica Kauffmann, Giovanni Fattori, Giuseppe De Nittis, Giovanni Boldini, Giuseppe Pelizza da Volpedo, Angelo Morbelli, Medardo Rosso, Leonardo Bistolfi, Carlo Carrà, Filippo de Pisis, Gerardo Dottori, per citare solo i nomi più noti. Così intesa la mostra darà conto dell’evoluzione degli stili ed offrirà un’ampia panoramica sui soggetti affrontati dagli artisti, dal tema sacro alle raffigurazioni allegoriche e mitologiche, dal genere del ritratto a quelli del paesaggio e della natura morta.
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Da Giotto a Morandi – Tesori d’arte di Fondazioni e Banche italiane sede: Palazzo Baldeschi al Corso (Perugia); cura: Vittorio Sgarbi. Come annuncia il titolo, la mostra intende valorizzazione lo straordinario patrimonio artistico posseduto dalle Fondazioni di origine bancaria e delle Banche italiane.
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creadoresdebelleza · 8 years
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Pietro Balestra: El Cardenal Decio Azzolino (hacia 1670).
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Francavilla e il culto della Madonna della Fontana
di Mirko Belfiore
L’origine della città di Francavilla Fontana, si perde nelle pagine della storia fra mito e realtà. Alla mancanza di fonti documentarie coeve, leggenda e tradizione concorrono a colmare le croniche lacune storiografiche che ancora oggi permangono. Ciò che sopravvive senza affievolirsi, è la devozione di una popolazione che, il 14 settembre, continua a riunirsi festante sotto la statua lignea della sua Santa protettrice, la Madonna della Fontana.
Maria SS. della Fontana (Statua Lignea, XVIII secolo, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
  La leggenda del cosiddetto “Rinvenimento dell’icona”, rimanda al ritrovamento fortuito, durante una battuta di caccia, di un’icona, forse bizantina del XIV secolo o molto probabilmente un affresco del XVI secolo, che riproduce una Vergine Hodighitria, ancora oggi conservata gelosamente in una cappella della Collegiata del Santissimo Rosario.
Basilica of SS. Rosario. Francavilla Fontana
  Ecco la descrizione che dell’avvenimento, secondo le parole dell’autore locale Pietro Palumbo: “Allettato dalla natura selvaggia del paesaggio, nella mattina del 14 settembre del 1310 (anche se lo stesso in una delle prime edizione menziona il 14 agosto), il principe Filippo, da Casivetere si spinse a caccia nel largo bosco che si spandeva a nord della Villa del Salvatore fin verso Grottaglie e Ceglie. Lo accompagnavano patrizi tarentini e molti signorotti dei casali vicini. Sellati i cavalli e tolto il guinzaglio ai cani l’ingordigia della preda fè diramare per ogni verso la compagnia dei cacciatori. Mastro Elia Marrese, secondo la tradizione pedone di Casavetere e secondo alcuni storici, di Taranto snidò un cervo e rallegrato dalla buona fortuna armò la balestra e seguitate le peste, lo raggiunse nel seno di una folta boscaglia. Subito scoccò il dardo. Ma in punto fu preso da un sacro terrore alla vista di un fenomeno che alla sua mente grossolana parve strano. La freccia, che aveva balestrata contro il cervo, era tornata in un lampo contro di lui con grave pericolo di vita. Che poteva essere? Immantinente si avvicinò al cespuglio, e più ancora stupito, vide che il cervo non era fuggito ma tranquillamente beveva nell’acqua di un laghetto. Meravigliato suonò il corno a richiamo degli altri cacciatori i quali in un attimo corsero sul luogo. Il Principe stesso sceso da cavallo diè ordine si tagliassero i rami della boscaglia e si facesse un po’ di largo. Allora si scopersero tra gli sterpi e i roveti le fondamenta screpolate di un’antica muraglia e su di questa dipinta a mezzo busto una Madonna col bambino tra le braccia, di proporzioni naturali e che si credè di pennello greco, e nascosta là indubbiamente ai tempi delle persecuzioni contro le immagini. A tal vista proruppero tutti in gradi di allegrezza e il principe Filippo nella piena superstiziosa gridò di essere ciò avvenuto per espresso volere di Dio il quale sarebbe servito di un cervo per condurli colà dove posava negletta l’immagine veneranda.”
Il Ritrovamento dell’icona bizantina (Domenico Carella, 1778, olio su tela, Francavilla Fontana, chiesa Matrice).
  Secondo la cronaca ufficiale quindi, il principe di Taranto Filippo I d’Angiò (1278-1332), immediatamente dopo l’eccezionale ritrovamento, diede l’ordine di edificare un tempio a memoria dell’accaduto. Egli fece incorporare nell’edificio, il muro con l’effigie della Vergine, per evitare che questa costruzione, posta a poca distanza dal casale del Salvatore, all’epoca popolato, rimanesse fuori dal centro abitato. Promettendo terreni ed esenzioni da franchigie, per alcuni anni, il Principe tentò di incoraggiare gli abitanti dei casali vicini a popolare la zona. Decretò, inoltre, che il casale mutasse il proprio nome in “Franca Villa”, e a esso fu dato per simbolo l’albero d’ulivo posto fra le lettere F e V.
Stemma cittadino di Francavilla Fontana
  Non si contano gli studi e i saggi sull’argomento: gli autori francavillesi P. Palumbo e Padre P. Coco, l’abate romano G.B. Pacichelli, l’Albanese nella sua storia del casale di Oria, il Marciano, il Tasselli che narra per l’appunto “dell’Invenzione del Ritrovamento dell’Icona” , P. Bernardino Da Lama, il Carducci, e soprattutto Domenico de Santo che insieme a P. Salinaro (entrambi frati cappuccini) fra il 1632 e il 1687, in pieno clima di riforma cattolica, confermarono e riscrissero la leggenda mariana.
Detto ciò, prima di analizzare le parole del testo, è giusto capire quanto abbia inciso nel territorio, il culto della Vergine della Fontana.
Secondo P. Primaldo Coco, fra i secoli XII e XIV, il culto della Madonna, sotto il titolo della Fontana, era ben presente in Meridione; esempi se ne trovano nella cattedrale di Brindisi dove vi era l’altare dedicato alla Madonna della Fonte e in un’importante iscrizione lapidea di epoca romana proveniente da un tempietto suburbano del brindisino dedicato al culto della Vergine, che dopo varie vicissitudini venne murato nella chiesa dei Cappuccini a Brindisi.
Non mancano importanti esempi a Roma o a Napoli, dove vicino al Castel Nuovo, residenza angioina, si trovava ubicata intorno al XIV secolo, una chiesetta dedicata a Santa Maria della Fontana. È presumibile, ma non pienamente documentabile, che il principe d’Angiò abbia denominato l’immagine sacra francavillese e il complesso religioso, con l’appellativo della Fontana, in continuità con la sua grande devozione per la Vergine Maria.
Madonna della Fontana (Icona bizantina, XIV secolo, affresco, Francavilla Fontana, Collegiata del SS. Rosario)
  Voce fuori dal coro è quella di Cesare Teofilato, insigne scrittore locale e sindaco della città durante i primi anni del XX secolo. Dalle sue opere si può desumere la sua più completa avversione, sia alla tesi sul culto della Madonna della Fontana, che definisce una denominazione forestiera, sia alla leggenda del rinvenimento dell’icona, mito popolare che secondo lui, prese piede a Francavilla solo dal XVI secolo.
Egli sottolinea quanto il culto mariano della Fontana sia addirittura estraneo alla tradizione meridionale e rimandi invece a culti tipici dell’Italia settentrionale (lombarda o milanese) e introdotto nell’area dalle dominazioni straniere, come ad esempio quella dei Borromeo o degli Spinola. Il vero appellativo, quindi, rimane una scelta autoctona, da rimettere a una spontanea dedica popolare del tempio cristiano, al culto della Vergine Maria.
La chiesa, inoltre, venne eretta con rito greco, ormai vera rarità, vista la diffusione del rito latino per opera dei monaci benedettini fra il XI e il XV secolo, a discapito del rito ortodosso, già presente in area salentina.
Il Teofilato aggiunge che la chiesa del borgo si ergeva sui ruderi di un tempio di rito pagano, dedicato alla dea Flora, le cui rovine avrebbero dovuto estendersi fra le attuali chiese del Salvatore e la chiesa Matrice stessa. Ed è proprio in questo luogo che bisogna ubicare il leggendario laghetto e la cripta basiliana, dove venne ritrovata l’icona, riproducente l’effigie di S. Maria di Costantinopoli. Il culto della Vergine Hodighitria poi, doveva essere ben radicato, se nella piazzetta accanto al Duomo, si dette la denominazione di Largo Costantinopoli.
Da rilevare, infine, l’invocazione mariana che tutt’ora permane in un cartiglio tufaceo sulla facciata settecentesca della ricostruita Collegiata, “SITIENTES VENITE AD AQUAS”, presumibilmente in riferimento alle primitive consuetudini battesimali basiliane.
La decorazione che conclude il frontespizio e l’invocazione mariana “SITIENTES VENITE AD AQUAS”
  Poco chiaro quindi come o in che tempi l’attributo “della Fontana” abbia preso piede a svantaggio del culto originale della Madonna di Francavilla, attestato comunque con certezza nel 1361, nel 1458 e nel XVI secolo, con il titolo di Madonna dei Miracoli e festeggiata il 24 gennaio.
Analizzando le parole tramandateci dal Palumbo e leggendo fra le righe del racconto si può scorgere una serie di simbologie attinenti sia alla storia sacra quanto a quella pagana.
L’immagine del cervo, per esempio, può essere accostata alle anime che vanno ad abbeverarsi alle acque della grazia che scaturiscono dalla Vergine SS.ma, chiamata spesso “Fons Aquarum viventium”.
Per la topografia francavillese, questo accostamento Acqua/Madre ben si confà con le condizioni “altimetriche, planimetriche e del suolo” dei terreni, dei boschi, dei laghi e delle risorgive, che in maniera copiosa caratterizzavano la pianura e che si fondono perfettamente con gli antichi riti di purificazione di origine pagana e paleocristiana.
Una lettura più profana potrebbe ricondurre l’avvenimento alla simbologia Cervo/Diana. La dea della caccia, portatrice di vita e protettrice delle fiere potrebbe essere una simbologia accettabile, vista la presenza nei dintorni di boschi e selve di ogni tipo, che verosimilmente potevano dare rifugio ad animali di ogni specie.
Insomma, le chiavi di lettura sono molteplici, ma un dato di fatto che possa mettere un punto certo sulla discussione può venire dallo studio e l’analisi di alcuni “rinvenimenti iconologici” analoghi a quello francavillese, come per esempio il ritrovamento della Madonna del Sagittario nella città di Francavilla a Sinni in Basilicata. Il racconto, riferibile all’autore Giorgio Lauro, e incentrato sulla vita del beato Giovanni da Caromo, sembra una riedizione in calce del “rinvenimento francavillese”: “veduta una bellissima Cerva, la quale come a diporto se ne andava: […] cavato dal turcasso, che giusta il costume di quei tempi alla spalla gli suonava, cavato dico un finissimo quadrello su l’arcol’adattò, e fino all’orecchio la corda tirando così dirittura la spinse fuora, che alla Cerva giunse, ma da Divina virtù, addietro rimandata per la via medesima il valente arcadore, senza ferirlo, colpì. […] senza punto badarvi caricò di nuovo l’arco, e tirollo e ‘l colpo questa seconda fiata ebbe il successo medesimo”.
Simili episodi poi, si notano anche in altre tradizioni: come quella della Madonna della Scala di Massafra, della Vergine di Cerrate o Cervate, di San Umberto, di San Eustachio o di San Manuflo, ritrovamenti che mostrano molte affinità con la leggenda francavillese. In conclusione, la possibilità dello sviluppo di un mito diciamo in serie, con simbologie polivalenti, e l’aggiunta di una serie concessioni come franchigie e agevolazioni potrebbe avere come fine ultimo il ripopolamento di zone abbandonate. Tramite questo espediente, i D’Angiò, avrebbero favorito la ricostruzione e l’incremento di nuovi nuclei abitativi.
Protagonisti di questo fenomeno furono soprattutto quei borghi situati in aree caratterizzate da favorevoli condizioni geografiche e climatiche; come sostiene Donato Palazzo: “privilegi e franchigie perciò vanno considerati […] come strumenti politici per legare alla terra i contadini, sollecitandone la concentrazione in comunità meno disperse e meno dispersive”.
In conclusione, un’analisi comparata fra l’origine di Francavilla e gli altri centri sorti nello stesso periodo, sotto la spinta di eventi simili simbolici e portentosi, porta a non escludere quest’ultima tesi.
Per quanto riguarda la data di fondazione il parere non è unanime. Non v’è certezza sulla data tradizionale del 14 settembre 1310, e le varie ipotesi proposte dai diversi storici e autori, fanno oscillare la fondazione dal 1308 al 1324, in alcuni casi collocandola nel secolo precedente.
L’indicazione relativa al giorno 14 settembre, pare sia stata introdotta posteriormente al XIV secolo, e più precisamente intorno al 1565. In quell’anno, non si celebrava ancora una festa patronale e l’Arcivescovo di Brindisi e Oria, Giovanni Carlo Bovio, compì la sua visita pastorale nella chiesa Matrice proprio in quel giorno, senza che vi fosse pronunziata nessuna liturgia solenne.
Un nodo cruciale e pieno di interrogativi, è rappresentato dalla Bolla o Breve sulle “Indulgenze concesse il 29 agosto 1330 da frate Marco De Castro Fiorentino dell’ordine di S. Giacomo De Altopasso, sostituto dell’Arcivescovo di Otranto e Commissario del Papa Giovanni XXII, al popolo di Francavilla, quando venne a predicare la crociata in favore di Gualtiero IV Brienne”, concesse in perpetuum ai fedeli francavillesi che il 14 settembre avessero visitato la sacra immagine della Madonna della Fontana di Francavilla.
Litografia del XVIII secolo raffigurante la leggenda del ritrovamento dell’icona bizantina.
  La storia ci tramanda che la pergamena venne rintracciata e restaurata, intonro al 1785, dal Vescovo di Oria Monsignor Alessandro Maria Calefati, sospetto falsificatore.
Dal punto di vista storiografico, la pergamena è contestualizzabile nelle vicende dell’epoca, visto che fu bandita realmente una crociata, nel XIV secolo, per riconquistare i territori greci conquistati dai Catalani. Allo stesso modo, le figure di Gualtiero di Brienne, Duca di Atene e Conte di Lecce, e Giovanni XXII, Papa dal 1316 al 1334, sono documentabili con certezza.
Teofilato, accusa di falsificazione il Vescovo di Oria, il quale operò con la compiacenza del notaio Giuseppe Maria Imperio, autenticatore della pergamena.
Per onor di cronaca, a difesa di Monsignor Calefati si pose P. Primaldo Coco, che rigettò le accuse e innalzò il prelato a grande conoscitore e studioso delle vicende storiche francavillesi, il quale avrebbe avuto come unico scopo il rinverdimento della devozione alla Beata SS. Vergine Maria senza dietrologie, che essa fosse caratterizzata da un titolo o da un altro. Concentrandoci, invece, sulle fonti storiche accessibili e documentabili la “data di nascita” di Francavilla viene inevitabilmente retrodatata. Come afferma il Teofilato, a complicare la vicenda provvedono i rapporti di sangue fra la Corte angioina napoletana, i Principi di Taranto e i Conti di Lecce, tutti imparentati tra loro.
Il protagonista della leggenda francavillese Filippo I d’Angiò (1278-1332), divenuto principe di Taranto nel 1294, dopo la prigionia aragonese in Sicilia terminata il 19 marzo 1302, sposò nel 1313 Caterina, figlia di Balduino, contessa di Fiandra e imperatrice di Costantinopoli. Secondo il Coco, Filippo I fu in Puglia, dal settembre 1309 fino al 1311, incappando in un tentativo di congiura sistematicamente stroncato. Questo avvenimento, in parte secondario, viene utilizzato dal padre cappuccino per affermare con certezza perlomeno la presenza in loco del nobile angioino, visto che la sentenza di morte del capo della congiura, tale Siginulfo, “fu notificata al principe di Acaia e Taranto in qualità di Capitano generale a Guerra del regno”.
Naturalmente il documento non pone fine alla querelle sul “rinvenimento” ma aggiunge un altro pezzo al puzzle dei tradizionalisti. Dopo l’avvenimento, quindi, si creò una “zona franca” dove andarono a riunirsi gli abitanti di ogni casale vicino, richiamati da concessioni e privilegi raccolti in una pergamena che, secondo alcuni (Palumbo, De Simone e P. Salinaro), si presentava vergata con lettere d’oro e che rimase conservata fino al 1623 a Francavilla, per poi scomparire.
Di queste franchigie si conservò memoria a lungo e i successori del principe angioino non mancarono di confermarli; in primis re Ferdinando d’Aragona (1424-1494). Simili concessioni, verso la fine del medioevo, furono fatte un po’ ovunque all’interno del Regno di Napoli.
I feudatari dichiaravano luoghi di rifugio i posti dove si raccoglievano gli abitanti che fuggivano da oppressioni baronali e lotte civili, concedendo franchigie. Queste località divennero borghi franchi e più tardi città libere. Di parere opposto, tuttavia, è ancora Cesare Teofilato, il quale afferma “che le franchigie, come è noto, non ci furono mai, perché i feudatari riscossero sempre le decime su tutto l’agro francavillese e dei dintorni; né il vantato Editto principesco fu reso ostensibile, da chi avanzava i desiderati diritti di franchigie. Anche questo Editto è un enigma fumoso, di cui gli stessi cronisti della tardissima tradizione non sanno dar conto preciso. Tra essi c’è contradizione, incertezza, sbandamento: quell’impreciso, che annunzia il vuoto”.
Ciò di cui ormai siamo certi è che, il sito di Francavilla quindi, andò a svilupparsi durante il XIV secolo, in una pianura rigogliosa, ricca di colture cerealicole, all’interno della cerchia di alcuni importanti casali che via via andarono a spopolarsi per ingrossare il nuovo insediamento. Esso, in pochi secoli, divenne il punto nevralgico di tutta la regione convergendo tutte le arterie di collegamento con le città e gli insediamenti più importanti dell’area. Raccolse buona parte delle famiglie feudatarie della zona, desiderose di pace e sicurezza, e la gente povera dei dintorni la cui vita si era sviluppata vicino alle Specchie fortilizie messapiche e le numerose necropoli romano-cristiane.
A tutto ciò aveva già posto la sua attenzione l’abate Giovan Battista Pacichelli, il quale già a suo tempo, sottolineò la centralità di Francavilla nel XVIII secolo: ”Dal Mezzo dove hoggi è posta la Collegiata insigne di Francavilla, fino al promontorio di Japigia, dove sta situata la chiesa di Santa Maria di Finibus Terrae, vi sono sessanta nove miglia, et altro tanto dal mezzo di detta Colleggiata sino alla riva del Fiume Bradano, che divide la Provincia d’Otranto dalla Basilicata, nove miglia distante da Matera. Per traverso poi dal Mare Jonio, o Adriatico sino al Mare Tarentino, dal mezzo di detta chiesa sino a Taranto sono venti miglia, e venti altre sino a Brindisi, di modo, che il luogo dove fu trovata la Santa Immagine rimane per centro di tutta la Provincia d’Otranto, quasi ella sia il Soccorso, e Protettione di tutta la Provincia”.
Insomma, la questione rimane aperta.
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tmnotizie · 6 years
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SAN BENEDETTO – E’ scaduto ieri 21 novembre il termine per la presentazione delle candidature per il rinnovo dei direttivi dei Comitati di quartiere cittadini. Sono 13 i quartieri che hanno raggiunto il numero di candidature minimo previsto dal Regolamento (che era pari al numero dei componenti il direttivo da eleggere, secondo le decisioni assunte da ciascuna assemblea di residenti). Fanno eccezione Paese Alto e Salaria che hanno prorogato il termine per la raccolta delle candidature al 26 novembre, come consente il regolamento.
“Il numero di candidature, in diversi casi superiore al minimo previsto, evidenza che, nonostante tutto, in città c’è voglia di prendere parte alle decisioni che interessano la vita della propria zona – commenta soddisfatto l’assessore alla partecipazione Andrea Traini – mi auguro che lo stesso interesse si manifesti il 16 e 17 dicembre, quando dovrà essere assicurato un quorum minimo del 10% degli aventi diritto tale da rendere pienamente operativi in nuovi direttivi.”
Questo l’elenco dei candidati:
Agraria
De Ascaniis Barbara
Filippone Walter
Galli Marino
Greco Antonio Giuseppe
Illuminati Bruno
Piunti Luigi
Pulsone Giovanna
Romano Antonio
Travaglini Tiberio
Zumpano Atilio Josè Gregorio
Albula Centro
Calabresi Luciano
Di Berardino Guerino
Di Pierro Nicola
Mariani Romano
Novelli Luigi
Romani Marco
Europa
Antolini Nicola
Marinsalta Renzo
Maroni Moina
Parmigiani Paolo
Perazzoli Gianni
Fosso dei Galli
Baldassarre Antonella
Bianconi Riccardo
Bovara Andrea
Camaioni Antonio
De Angelis Claudia Maria
Falcioni Franco
Simonetti Luciano
Testa Leandro
Mare
Bocci Filippo
Bocci Ubaldo
Capriotti Bruno
Duranti Emidio
Morganti Luigi
Narcisi Pietro
Paoletti Giorgio
Perozzi Andrea
Perozzi Giampiero
Scarpantoni Fabio
Sestri Leo
Stipa Luigi
Vallese Giovanni
Marina Centro
Amato Vincenzo
Braccetti Pier Domenico
Ciccarelli Manuela
Coratella Valentino
Cosentino Dante
Gentili Chiara
Giangrossi Paolo
Liberatore Sabatina
Mascaretti Antonio
Mattioli Leandra
Micucci Mery
Piunti Elena
Trevisani Salvatore
Marina Di Sotto
Brandimarte Tonino
Cameli Angelo
Capponetti Roberta
Castelli Silvia
Giangrossi Cristiano
Isopi Alfredo
Laureati Giuseppe
Malavolta Giancarlo
Ottaviani Mario
Pacifici Eugenio
Piccinini Ernesto
Rossi Enrico
Speca Mario
Tancredi Desiderio
Virgili Umberto
Paese Alto
Proroga al 26/11
Ponterotto
Albertini Alessandro
Alesi Sara Lucia
Angelini Roberto
Biondi Umberto
Formentini Virgilio
Gabrielli Benito
Guidotti Maria Rita
Re Giovanni
Spagnolini Emmanuel
Testa Giuseppe
Porto d’Ascoli Centro
Amante Valter
Campanelli Traiano Ruffo
Cavallo Luca
Core Elio
Del Prete Giuliano
Micozzi Gino
Niccolini Sergio
Portelli Simona
Ruggieri Pasqualino
Signorile Michele
Straccia Gabriele
Talamonti Romolo
Ragnola
Balestra  Cristiana
Conti  Federica
Fabiani  Marco
Galieni  Michela
Incicco  Florinda
Marucci  Giovanni
Moscatelli  Roberto
Pagliarulo  Valeria Vanda
Paoloni  Secondina
Procacci  Giovanni
Sacripanti  Andrea
Salaria
Proroga al 26/11
San Filippo Neri
Balloni Maria
Camela Floriano
Di Giacinto Maurizio
Di Maro Felice
Fumato Andrea
Guidotti Samuele
Ortenzi Maria Leonia
Palestini Luca
Palestini Maria
Ricci Pietro
Travaglini Giorgio
Santa Lucia
Bianconi Giuseppe
Camaioni Chiara
Fava Lino
Federzoni Amelia
Rivosecchi Andrea
Troiani Luca
Sant’Antonio Da Padova
Branciaroli Massimiliano
Caglio Alessio
Ceccarelli Renato
Colucci Pietro
Di Giacinto Ginevra
Di Salvatore Benedetto
Emidi Diego
Franco Lino
Morelli Marcello
Pellegrini Lorenzo
Polidori Ida
Rossetti Saverio
Varese Paolo
Sentina
Alessandrini Marco
Bianconi Elvezio
Geusa Tania
Isopi Pasquale
Isopi Valerio
Leli Roberto
Menzietti Simone
Mora Alessandra
Pierantozzi Bernardo
Rossi Peppino
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