Tumgik
#anti-intellettualismo
gregor-samsung · 8 months
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“ L’istituzione del Registro Nazionale degli Intellettuali e dei Radical Chic fu la prima notizia per l’intera mattina, ma non entrò neppure in #trendtopic. Il fatto che il provvedimento fosse stato presentato in difesa e non contro le suddette minoranze ne ridusse sensibilmente la viralità. Per spiegare il senso politico della legge, fu diffuso un documento in cui riassumeva per punti le ragioni in base alle quali gli intellettuali costituiscono, sempre, un pericolo per la democrazia tale da minarne l’esercizio. La lettera, firmata dal ministro in persona e redatta in forma di decalogo, era intitolata: “La questione intellettuale. La verità è semplice, l’errore complicato”. Diceva: La complessità impedisce la verità. La complessità umilia il popolo. La complessità frena l’azione. La complessità è noiosa, quindi inutile. La complessità è superba, quindi odiosa. La complessità è confusa, quindi dannosa. La complessità è elitaria, ergo antidemocratica La semplicità è popolare, ergo democratica. La complessità è un’arma delle élite per ingannare il popolo. Bisogna semplificare quello che è complicato, non bisogna complicare quello che è semplice. Olivia ripose il giornale sul sedile di fianco. Era l’unica a essersi portata un quotidiano in tutto lo scompartimento, ma la verità era che anche lei ormai riusciva a leggere i giornali soltanto in treno. Qualche posto più in là una signora chiacchierava al telefono seduta di fronte a un uomo che tentava di leggere. Fuori dal finestrino passava l’Italia – case sparse, prati e colline verdi, improvvise accensioni di cespugli colorati – e sembrava che niente fosse accaduto, e che il Paese fosse quello di sempre. Era impossibile dire se fosse stata la cultura a plasmare quel paesaggio o quel paesaggio a modellare la cultura. “
Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli (collana I Narratori), 2019¹; pp. 40-41.
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libriaco · 11 months
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Uno non vale uno
Di citazioni imprecise o del tutto inventate è pieno il web e verificarle non è immediato. La mia acribìa è nota e di questa frase di Isaac Asimov, letta sul sito di @lettricedimondi​ ieri, ho cercato e trovato la fonte primaria, la pagina di Newsweek del 21 gennaio 1980, dove compare l’articolo che la contiene; viene citata spesso e l’intervento di Asimov, su democrazia e ignoranza, tocca un tema caro al mondo occidentale e non appannaggio soltanto degli Stati Uniti.
Scrive Asimov:
There is a cult of ignorance in the United States, and there always has been. The strain of anti-intellettualism has been a constant thread winding its way trough our political and cultural life, nurtured by the false notion that democracy means that "my ignorance is just as good as your knowledge".
Come dire:
Il culto dell'ignoranza, negli Stati Uniti, c'è e c'è sempre stato. La costante dell'anti-intellettualismo è stata un filo continuo che si è avvolto intorno alla nostra vita politica e culturale, alimentata dalla falsa idea che democrazia significhi che "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza".
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anticattocomunismo · 10 months
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"L'equivoco don Milani" e gli effetti del donmilanismo
Una recente opera di sintesi di Adolfo Scotto di Luzio rilegge criticamente la figura e la pedagogia del priore di Barbiana il cui mito ha contribuito non poco alla decadenza della scuola italiana. Pauperismo, anti-intellettualismo, l’odio per le attività ricreative e l’idea che conti solo il sapere pratico sono tra gli ingredienti di una visione riduttiva dell’uomo che mina la stessa idea di…
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salvatore017 · 1 year
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Ignoranza - Wikipedia
""C'è un culto dell'ignoranza negli Stati Uniti, e c'è sempre stato. Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza." Isaac Asimov, 1980[19]"
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- Sei pronto?
- Per cosa?
- Come per cosa? S’era detto che m’aiutavi a fare la torta.
- Che torta?
- La torta del 25 aprile.
- Ah mannaggia, m’ero scordato.
- Va be' dai, lavati le mani e dammi una mano a preparare.
- Che ti serve?
- Fammi vedere un po’. Allora, per prima cosa ci serve dell’intolleranza.
- Per la torta del 25 aprile?
- Sì.
- Sicuro?
- Oh, sta scritto qua. Ce l’abbiamo l’intolleranza o no?
- Sì, sì, ce l’abbiamo.
- Benissimo, poi ci serve gente incazzata. Come stiamo messi a gente incazzata?
- Quanta ne vuoi. Negli ultimi anni ci siam riempiti il frigo.
- Ottimo. Vediamo cosa dice adesso… la tendenza a negare la realtà sostituendola con l’emozionalità?
- Eccola qua, la devo setacciare?
- Ti ringrazio. E poi e poi, ah sì, anti-intellettualismo diffuso.
- Ho complottismo e mancato riconoscimento dell’altrui professionalità. Va bene lo stesso?
- Penso di sì.
- Me li regala il mio vicino di casa. Li fa proprio lui.
- Retorica ce n'è?
- A palate.
- Butta, butta. E mentre mescolo qui dice di aggiungere una certa vena nostalgica nei confronti di un passato mitizzato.
- Anni ‘80? ‘90? Pre-euro?
- Quello che ti pare. Piano, un po’ alla volta che si deve amalgamare. Ora ci vorrebbe l’estratto di vaniglia, ma noi ci mettiamo il vittimismo, cosa dici?
- Ma sì, che ci frega?
- Okay, e per finire abbiamo bisogno di una figura carismatica e senza scrupoli che sfrutta i mezzi più squallidi per ottenere il consenso popolare. Ne abbiamo?
- Ne abbiamo un paio.
- Ecco fatto. Adesso la lasciamo un attimo riposare che ste cose mica succedono da un giorno all’altro, ci vuole il suo tempo. Ed eccola qui, pronta. La torta del 25 aprile, come ti pare?
- Insomma.
- La vuoi assaggiare?
- E assaggiamo.
- Com’è?
- Sa di merda.
- Infatti è la torta del fascismo.
- Ma che schifo! Ma che sei scemo? Perché me l’hai fatta cucinare?
- Per ricordarti che in casa abbiamo ancora tutti gli ingredienti.
Buon 25 aprile.
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rideretremando · 3 years
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Brooks ha deciso che è arrivato il momento di portare di nuovo avanti la sua vocazione di allevatore di maiali editoriali, quella categoria che include noialtri che d’un’idea, così come del porco, non buttiamo niente: un articolo diventa un libro che diventa un film che diventa la certezza che neanche l’anno prossimo dovrò trovarmi un lavoro vero. Ventun anni dopo, si scopre che tutto quello yoga e tutti quegli olii essenziali hanno fatto male agli equilibri politici: il porco del mese è il BouBour. Trattasi di boorish bourgeoisie, borghesia burina. Insomma: delle destre contemporanee (per la gioia dei commentatori di qui, Brooks ci mette dentro anche Salvini). L’invenzione del marchio non è sua: i bourgeois-bourrin, oltre che nelle nostre vite e nei nostri Instagram e nei nostri televisori, stanno coi loro tatuaggi e il loro anti-intellettualismo in due libri francesi del 2016, Anthropologie du Boubour e La quadrature des classes; ma Brooks sa che solo un autore americano sa prendere un saggio sulle classi sociali e ridurlo a slogan pubblicitario e a sigla accattivante.
Guia Soncini
Lo aveva già detto Siti nel romanzo “Il contagio”
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janiedean · 5 years
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Ciao! Scusa se non c'entra con il discourse, ma ho un'opinione personale che ho bisogno di argomentare: American culture = tanto anti intellettuale da far schifo. Perché? Perché negli usa per pagare le tasse universitarie devi accendere un mutuo. Non hanno neanche un soldino da mettere per i fondi per l'istruzione? Che ne pensi?
oddio in realtà il problema è n’attimo più complicato, nel senso:
gli usa sono un posto profondamente calvinista dove non si concepisce di avere servizi pubblici dove paghi le cose per gli altri in maniera che tutti abbiano un servizio quality, quindi quello che c’è di pubblico fa schifo/non ha fondi
ovviamente ciò implica che i figli li devi mandare alle scuole private per avere un’istruzione semidecente (SEMI) e quindi se sei povero ciao sei uno sfigato se sei ricco daje
ovviamente l’università implica che se sei ricco daje, se sei povero ti fai il mutuo e se sei una persona brava che CE LA FA sicuro lo ripagherai no? di nuovo: calvinismo
poi l’istruzione usa fa cagare al cazzo cioè rega c’è gente che all’uni fa cose che noi famo in terza media, non fatemi ridere
cioè, l’anti-intellettualismo americano è una cosa anche legata al classismo, nel senso che quelli che studiano tendono a essere ricchi che pure professandosi di **sinistra** non concepiscono che i poveri non siano cretini che votano con la pancia e gliene frega solo finché votano come vogliono loro altrimenti non capiscono il 99% dei loro problemi (contando che i poveri americani hanno issues infinite che il 99% della gente che liberale che studia non capisce), quindi ovviamente i poveri che n’hanno studiato o hanno fatto la scuola pubblica che equivale a niente hanno l’odio per quelli che percepiscono come gente che HA STUDIATO e li giudica malissimo dall’alto di a) soldi b) spocchia. e tra l’altro il problema è che quelli che hanno studiato comunque 99% delle volte hanno studiato poco male e senza contesto, quindi in confronto a gente non americana comunque rimangono pessimi.
comunque in ammmmerica last I checked c’hanno il 14% di analfabeti nella popolazione, almeno almeno, contando gli adulti, e vorrei solo informarvi che quando ho fatto il calcolo guardando quanti abitanti hanno in tutto, il 14% = 32 milioni.
e la cosa è che alla sx americana non frega niente perché la maggior parte di questi sono poveri, bianchi e disoccupati e vivono negli stati centrali dove non si vota democratico, alla dx non conviene sbattersene perché tanto se so poveri possono crepare, OPPURE sono un ottimo bacino di voti se gli prometti che gli riapri le fabbriche chiuse negli anni 80. cioè, n’è solo anti-intellettualismo, è un problema endemico XDDD
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hollandersecondo · 5 years
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C'è un culto dell'ignoranza negli Stati Uniti, e c'è sempre stato. Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza"
A cult of ignorance, Newsweek, 21 gennaio 1980
Isaac Asimov
(Solo negli USA? Non mi pare...)
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talesfromcosmograd · 6 years
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I have a feeling, we’re not in Kansas anymore - pt. 1.5
Continua da qui
Volevo scrivere della svolta culturale del discorso politico. Sarà per un altro post, perchè mi sono accorto di avere sfiorato un tema importante che merita più approfondimento.
Marginale alla perdita di fiducia nella classe politica, abbiamo la perdita di fiducia nella classe tecnica, aka “i professoroni”.
Si tratta sempre di un processo di identificazione e contrapposizione come quello tra “popolo” e “casta”, venato da anti-intellettualismo ed esaltazione dell’“ignoranza” come valore, o quantomeno non-disvalore.
Non si può negare che l’attuale contesto storico, sociale ed economico sia complesso, sfaccettato e difficile da navigare a vista e con strumenti rudimentali quali sono quelli offerti da un’istruzione elementare. Quello a cui assistiamo ora è un rifiuto dell’analisi elaborata e profonda in favore di slogan semplici e rudimentali. Qualsiasi discorso intellettuale è percepito come “non popolare” ed alieno al sentire comune. Non solo, ma gli “intellettuali” capaci di tale tipo di analisi non sono semplicemente ignorati ma attivamente contrastati nel discorso pubblico.
Negli anni ‘80 Asimov parlava del “culto dell’ignoranza” sottolineando come l’anti intellettualismo inquinasse il discorso politico e culturale, alimentando e alimentato dalla falsa credenza che la democrazia significasse “equivalenza tra la mia ignoranza e la tua conoscenza” (“the strain of anti-intellectualism has been a constant thread winding its way through our political and cultural life, nurtured by the false notion that democracy means that 'my ignorance is just as good as your knowledge”). Già in un articolo degli anni ‘50 sempre Asimov identifica il problema dell’anti intellettualismo imperante nella cultura pop dell’epoca (” glasses are not literally glasses. They are merely a symbol, a symbol of intelligence. The audience is taught two things: (a) Evidence of extensive education is a social hindrance and causes un- happiness; (b) Formal education is un- necessary, can be minimized at will, and the resulting limited intellectual development leads to happines”).
Per quanto riguarda l’Italia non penso il problema vada così indietro nel tempo - nonostante anche noi vantiamo esempi illustri di anti-intellettualismo pop: si veda p.es. la canzone del 1948 poi ripresa da Arbore “la classe degli asini”- ma ritengo che le radici dell’attuale situazione siano più recenti.
Penso piuttosto a tutti quei fenomeni mediatici virtuali volti all’esaltazione dell’”Ignoranza” come valore positivo e al recupero nostalgico di tutta una serie di fenomeni culturali dei decenni ‘80 e ‘90 ma anche primi 2000, ovvero l’epoca d’oro della tv spazzatura (pagine come chiamarsi bomber, nasce cresce ignora, sesso droga pastorizia etc ). Il vero italiano è ignorante, e se ne frega del discorso profondo. Non a caso altri autori hanno tracciato paralleli tra questo tipo di pagine facebook e l’alt-right americana
Nel panorama attuale la contrapposizione è quella che con termini inglesi identificherei con “street smart vs. book smart”, ovvero da un lato le persone che hanno studiato alla scuola della vita e all’università della strada - e di ciò spesso ne fanno un vanto - e dall’altra una percepita elite culturale composta da chiunque eviti di appiattire il livello dell’analisi di problemi complessi a soluzioni semplici. I professoroni, appunto.
Questo è il motivo per cui un Conte, un Savona, pur essendo tecnici e quindi elite culturale non vengono percepiti come tali: perchè vengono narrati e si narrano come parte della gente comune, e le loro analisi sostengono la narrativa di cui il “popolo” si nutre e il loro nemico è lo stesso nemico del “popolo”: I tecnocrati europeisti, Bruxelles, le aziende farmaceutiche che rendono i nostri bambini autistici e chi più ne ha, più ne metta.
Quello a cui assistiamo ora è un politicizzarsi dell’ignoranza da un lato (qualcuno ha detto antivaccinisti?) e il rifiuto di accettare l’autorità “scientifica” dall’altro. Si realizza ciò che Asimov chiamò “false notion of demoracy”. Sopratutto grazie ad internet, che amplifica l’illusione della conoscenza, al giorno d’oggi con un’eccezionale dimostrazione dell’effetto Dunning-Krueger ogni persona con un’opinione si sente titolata a dibattere ad armi pari contro chiunque e su qualunque argomento.
Non va inoltre escluso dall’analisi il ruolo del governo Monti, presentato appunto come governo “dei professori” col compito di traghettare l’italia fuori dalla crisi economica, governo che ha attuato come ogni governo scelte politiche ed improntate ad una precisa linea politica (di austerità) ma che sono state vendute e/o percepite come “scientifiche” e “tecniche”.
Questo è stato l’ultimo chiodo sulla bara del rispetto dell’uomo della strada, del “popolo”, per la classe tecnica. Si è stabilita l’associazione “scelta tecnica” = “scelta pilotata dall’UE” = “scelta contro il popolo”, e l’elite politica è diventata sempre più élite politico-tecnocratica-culturale. Il perfetto nemico del popolo, complice anche lo spostamento dell’asse politico destra-sinistra dal piano economico-sociale al piano culturale, come vedremo in un prossimo post.
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pangeanews · 6 years
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Susan Stewart, la regina della lirica Usa: “In questi tempi oscuri, la poesia è luce”
Di bronzo e di vento. Sono così i versi di Susan Stewart. Incisi sul dorso pleistocenico della Storia. Eppure. Con quel fiato leggero che li stringe. Foglie di bronzo. Parole di Sfinge e di Sibilla. Indelebili e fragili.
Susan Stewart, photo Annette Hornischer, American Academy in Berlin.
Lo sa chi ha frequentato l’opera di uno tra i più alti poeti americani contemporanei, non tanto per la sfilza di premi (oltre al National Book Critics Award, il Truman Capote Award per la critica letteraria, ad esempio) e di riconoscimenti (insegnante alla Princeton University, è chancellor dell’Academy of American Poets), ma per i versi, vertiginosi, in picchiata, famelici, radunati in due volumi ormai di culto Colombarium (Ares, 2006) e Red Rover (Jaca Book, 2011). “Le sue poesie, viste nel loro assieme, si presentano come meditazioni liriche, come avventura del pensiero di una che non sa se si muove o no nel cerchio magico di rimandi e tracce e in un labirinto di specchi, ma vuole ardentemente sapere la verità”, ha scritto di lei Giuseppe Mazzotta. Con disinvoltura lirica, in effetti, la Stewart passa – come movenze che ricordano Charles Wright o Wallace Stevens – da una poemetto sulla Macellazione – di feroce incanto – a quella fioriera di luci che è Il deserto 1990-1993, puramente eliotiana (“Colui che è stato toccato/ è diventato tatto e forma; colui che è venuto/ nella luce, è divenuto luce/ e movimento; colui che si è riversato/ nel suono, è diventato parola del silenzio;/ mandato in mezzo al tempo, è diventato tempo che emerge.// Mentre il passato si accresce, il futuro diminuisce/ e la paura assume i tratti dell’amore”). Più prosaicamente, la Stewart è tra i grandi poeti di oggi, i rari titani che reggono il tempo contro l’idiozia del presente, l’idolatria dell’indegno. Legata alla poesia italiana – ha tradotto i versi, abbaglianti, del pittore Scipione e Alda Merini, sta traducendo Milo De Angelis – la Stewart è poeta che non ha paura del peso della cultura né del knock-out dell’ispirazione. In una mail privata le ho scritto, grosso modo, che se i poeti, in Italia, troppo spesso, sono come le mosche che ruotano intorno al proprio ronzio ossessivo, alla litania dell’io, lei è un’aquila. Il poeta non deve avere timore della narrazione larga, degli spazi amplissimi; deve sfidare il sole e il verbo del potere. Classe 1952, la Stewart ha appena pubblicato, per Gratwolf Press la sua ultima raccolta, Cinder. New and Selected Poems (pp.256, $ 25.00). In calce all’intervista, per gentile concessione – e per la traduzione di Maria Cristina Biggio, che ne cura l’opera in Italia – un testo inedito, Piano Music for a Silent Music. Riguardo alla poesia, così scrive la Stewart: “è una rivisitazione del Diavolo in corpo, il romanzo di Raymond Radiguet, che ho conosciuto anche attraverso il bel film di Marco Bellocchio. Ho scritto il poema in un periodo in cui sperimentavo nuove forme narrative; ho pensato che sarebbe stato intrigante lasciare che un poema traesse un ‘film’ dal romanzo, proprio come fa il film di Bellocchio”. E noi, precipitiamo nella luce.
  Che tipo di poesia ‘funziona’ oggi negli Stati Uniti?
“A mio avviso – da quello che leggo sui giornali e sulle riviste e dai libri che mi passano sotto mano per la collana poetica che curo per la Princeton University Press – molti poeti statunitensi scrivono poesie brevi, molto spesso in prima persona, narrando esperienze personali. Il verso libero è più comune del verso in rima. Le forme complesse, l’uso delle forme poetiche tradizionali, è più difficile da trovare. Ma i poeti stanno realizzando qualcosa di nuovo nel poema in prosa, che contempla lavori sottilmente etnografici. Molti libri recenti sono organizzati intorno a concetti o temi – un periodo storico o un evento, una voce particolare o una particolare prospettiva, un aspetto della grammatica. Altri poeti stanno esplorando i modi teatrali della lettura poetica. C’è una grande energia nella poesia americana; la nostra cultura poetica è arricchita dalle enormi differenze geografiche tra le nostre regioni, dai disparati stili e toni delle nostre città, dalle mutevoli esperienze che i poeti di ogni generazione innervano nel loro lavoro. La lingua stessa è un intruglio genuino di toni alti e bassi, di vecchie e nuove espressioni – quella gamma poetica, insomma, che si avverte nelle nostre poesie”.
Che tipo di poesia sta scrivendo, ora? Verso quale ricerca poetica si sta inoltrando?
“L’anno scorso ho scritto un lungo poema (25 pagine) intitolato Channel, che ha seguito il corso di un nuovo fiume planetario, dalla sua scaturigine, in una alcova in mezzo al mare – dall’Atlantico a Siracusa, rileggendo la leggenda della fonte Aretusa e muovendo attraverso il passaggio dalla stagione invernale alla primavera. La poesia è diventata un’opera d’arte, realizzata con la mia amica Ann Hamilton (che si può vedere qui). Il lavoro è stato pubblicato sulla Paris Review. Dopo quella scrittura, sono tornata a piccole poesie che si basano sull’ascolto dei suoni quotidiani – una specie di musica candida. Non sono certa che siano testi riusciti, ma tutto questo lavoro confluirà nella mia prossima raccolta di poesia. Intanto, sto facendo molte letture tratte dal mio nuovo libro, Cinder. New and Selected Poems, pubblicato quest’anno da Graywolf Press”.
Quali sono i suoi maestri, le sue fonti di ispirazione? So che ha tradotto, tempo fa, lo straordinario poeta e pittore italiano Scipione, come mai?
“Ho tradotto la prosa e la poesia del grande pittore Scipione con la mia amica, la filosofa Brunella Antomarini, più di un decennio fa. Nel frattempo, ho tradotto e pubblicato un libro di poesie di Alda Merini, e sto traducendo, con Patrizio Ceccagnoli, le poesie di Milo De Angelis. Abbiamo pubblicato Tema dell’addio e abbiamo da poco terminato di lavorare su Incontri e agguati. Io e Patrizio abbiamo recentemente fatto alcune traduzioni da Sandro Penna, che sono apparse su Nuovi Argomenti. L’opera di Leopardi, Montale e Ungaretti è stata importante per me e io ammiro molti poeti italiani contemporanei, Patrizia Cavalli, Luigia Sorrentino, Valerio Magrelli e Antonella Anedda, ad esempio. La lingua italiana ha mezzi diversi per la poesia da quella inglese, e indagare le differenze può essere fonte di ispirazione. La poesia italiana – o meglio, la poesia europea – non è molto conosciuta negli Stati Uniti, oggi. Né la poesia contemporanea di altre parti del mondo, inclusa la poesia britannica e quella australiana. Ma molti di noi stanno modificando questo atteggiamento – attraverso traduzioni, interviste, e aiutando gli ospiti ogni volta che possiamo avere tempo e risorse. Per quanto riguarda le mie influenze, io insegno storia della poesia inglese e il mio lavoro è legato in special modo al XVII secolo e alla poesia Romantica. Donne, Herbert e Marvell, Coleridge, Keats e Wordsworth sono influenze vitali, così come i Modernisti e i loro seguaci – Moore, Bishop, T. S. Elio, H.D., Williams, Pound, Duncan, Ammons. Tra i poeti viventi sono stata vicina a Susan Howe, John Koethe, John Ashbery, Allen Grossman e Eleanor Wilner”.
Qual è il futuro della critica letteraria?
“Attualmente, sono impegnata più nell’insegnamento che nella critica, ma io credo che i poeti abbiano un ruolo importante nel formare il gusto del proprio tempo. Possiamo scrivere dell’opera che abbiamo ammirato, che ancora amiamo, aiutando a costruire un nuovo pubblico per essa – ogni opera importante introduce nuovi modi di leggere e io mi affido alla critica letteraria, come lettore e come professionista, per estendere il mio giudizio e la mia sensibilità. In questo senso, la critica può essere un efficace antidoto alla proliferazione dei ‘like’ e delle ‘starlette’ dei social – gesti vuoti che ci riducono a meri consumatori. Le riviste nazionali popolari e i quotidiani negli Stati Uniti hanno fatto poca critica poetica e il numero di pubblicazioni e di uscite è stato piuttosto misero nel recente passato. Ma Internet ha aperto la possibilità di raggiungere lettori, e proprio l’anno scorso ho cominciato a notare che si sta instaurando un modo più sofisticato e complesso, nelle sedi popolari, di discutere di poesia. Non abbiamo le ampie pagine culturali nei quotidiani che avete in Italia (e in Francia e Germania), ma forse questa situazione potrebbe lentamente cambiare, specialmente con il declino del cinema e della musica commerciali, che hanno dominato spesso la cultura popolare americana”.
Che valore ha il poeta, oggi, nella vita civile? Che voce porta il poeta nella cultura americana?
“I poeti americani vivono per la maggior parte nell’oscurità – come sempre di più fanno gli scrittori di letteratura seria. I nostri politici o i potenti non si vergognano di non sapere nulla di poesia – o di arte, di musica, di cultura in generale. C’è un crescente anti-intellettualismo nel circoli della destra e una corrispondente reificazione dei termini da parte della sinistra. Così, le piccole librerie o le biblioteche locali non possono prosperare e diversi poeti americani si organizzano in comunità – spesso in città e regioni specifiche, come San Francisco, Los Angeles, Austin, Minneapolis, New York, la mia città, Philadelphia, e nelle aree rurali del Nuovo Messico, del Vermont, del Maine. Questa è una lista incompleta, ma il punto è che i poeti si cercano, organizzano letture e convegni – e generazioni di insegnanti e di studenti si incontrano, soprattutto nei college e nelle università, per creare eventi di poesia. Molti di noi sono impegnati nell’insegnamento e nella lettura di poesie nelle scuole elementari, nelle prigioni, negli ospedali, nelle case per anziani e in altre sedi. Non è inusuale che un poeta collabori con artisti e compositori. La poesia sopravvive perché è un modo ampio, spazioso per pensare, che coinvolge tutto il nostro essere. Il nostro lavoro come poeti non dovrebbe inibire i compiti che abbiamo come cittadini – promuovere la verità, avvalorare la democrazia, stabilire la giustizia. In questi tempi oscuri, la poesia è una forma di luce”.
*
Piano Music for a Silent Movie
The gossips whisper their reproaches—
was it my fault I was too young for the war?
  A muddy rain spoils every picnic,
but the fields are thirsty, the farmers are poor.
  My talent lies in kissing and pretending,
and climbing barefoot up a trellis in the dark.
  The neighbors are sharpening their pitchforks,
though no one dares to tell us. In the park
  I found her note pinned to a linden,
her hair-ribbon snagged in a pine
  –All the world worries a lover
when all the world seems like a sign.
  I crossed the weedy river
and floated along to her door.
  She promised me a portrait of the roses:
Forever Pearl, and Malakoff’s Tour,
  Gloire de Dijon, and Maréchal,
the Souvenir of Malmaison;
  I promised her nothing but trouble–
my être had no raison.
  Her hens pecked the grain from my pockets;
her cat ate the butterfat.
  You needed a coupon for coffee, so I
brought her some cherries in my hat.
  She stowed her watercolors in the rowboat–
I threw my books in the stern;
  The oars dripped blue across our shoes
and we banked in a bed of ferns.
  The crazy maid shattered the porch roof
while the merry-go-round never stopped.
  Cannon pounded in the distance
(or was it thunder?)–every ear felt the pop.
  As for us, we were always falling, deeper
than the tides and the moon,
  Deeper than the quarry and the well,
and the shadows that hide at noon.
  All this frenzy set the cocks a-crowing–
she let me pick a table and a chair,
  The olive-wood glowed to embers:
she let me let down her hair.
  “I kissed his ear and his elbow,” she sang,
and the silky side of his thigh.
  I kissed his knees, I kissed his lips
and then he waved goodbye.”
  Our little spirit flitted,
as fast and light as a moth.
  “Shameful,” they said, “unlawful
–a troth, in the end, is a troth.”
  Love is a lapse and lovers liars,
the father weeps, the mother sighs.
  The wagons are circling
below the bedroom floor.
  One laughs too much,
the other cries.
  The honeysuckle lost its honey
and the hens took their grain indoors.
  Frost leveled the ferny banks
and ice grew thick on the oars.
  I saw her face in the water.
I saw his face in the glass.
  Some of us live in the present,
and some of us live in the past,
  But it’s the bootblacks marching toward the future
who trample the summer grass.
  The gossips whisper their reproaches–
was it my fault I was too young for the war?
  A muddy rain spoils every picnic,
but the fields are thirsty, the farmers are poor.
    Musica al piano per un film muto
Le voci bisbigliano le loro rimostranze—
colpa mia se ero troppo giovane per la guerra?
  Una pioggia torbida rovina ogni picnic,
ma i campi sono assetati, i contadini poveri.
  Il mio talento sta tutto nel baciare e nel fingere,
e nell’arrampicarmi a piedi nudi su un graticcio al buio.
  I vicini stanno affilando i loro forconi,
anche se nessuno osa dircelo. Nel parco
  trovai il biglietto di lei appuntato a un tiglio,
il nastro dei suoi capelli impigliato a un pino 
  —Il mondo intero si preoccupa di un amante
quando il mondo intero sembra essere un segno.
  Attraversai il fiume verdeggiante
e mi lasciai sospingere fino alla sua porta.
  Lei mi promise un ritratto delle rose:   
Forever Pearl, Malakoff’s Tour,
  Gloire de Dijon, e Maréchal,
Souvenir of Malmaison;
  Io non le promisi altro che guai—
il mio être non aveva raison.
  Le sue galline beccarono il grano dalle mie tasche:
il suo gatto mangiò il grasso del latte.
  Serviva un buono per il caffè, così
le portai delle ciliegie nel cappello.
  Lei ripose gli acquerelli nella barca a remi—
io gettai i miei libri a poppa;
  I remi gocciarono blu sulle nostre scarpe
e noi ci inclinammo di lato a un letto di felci.
  La governante pazza sfondò la tettoia del portico
mentre la giostra andava avanti senza sosta.
  Un cannone sparò in lontananza
(o fu un tuono?)—ognuno sentì il botto.
  Quanto a noi, continuavamo a cadere, più a fondo
delle maree e della luna,
  Più a fondo di una cava e di un pozzo,
e delle ombre che si celano a mezzogiorno.
  Tutta questa foga fece protrarre il canto dei galli—
lei mi lasciò scegliere un tavolo e una sedia,
  Il legno d’olivo brillò nelle braci:
lei lasciò che le sciogliessi i capelli.
  ‘Gli baciai l’orecchio e il gomito’, cantò lei,
‘e il lato setoso della coscia.
  Gli baciai le ginocchia, gli baciai la bocca
e allora lui accennò un arrivederci.’
  Il nostro povero spirito si approntò,
lesto e lucente come una falena.
  ‘Vergognoso’, dissero, ‘illegale
— una promessa, alla fine, è una promessa.’
  L’amore è una sbandata e gli amanti bugiardi,
il padre piange, la madre sospira.
  I vagoni stanno girando in cerchio
sotto il pavimento della camera da letto.
  Uno ride troppo,
l’altro piange.
  Il caprifoglio disperse il suo nettare
e la galline mangiarono il grano al chiuso.
  Il gelo appianò le sponde di felci
e il ghiaccio s’ispessì sui remi.
  Io vidi il volto di lei nell’acqua.
Io vidi il volto di lui nel vetro.
  Alcuni di noi vivono nel presente,
e alcuni di noi vivono nel passato,
  Ma sono i lustrascarpe a marciare verso il futuro,
a calpestare l’erba estiva.
  Le voci bisbigliano le loro rimostranze —
colpa mia se ero troppo giovane per la guerra?
  Una pioggia torbida rovina ogni picnic,
ma i campi sono assetati, i contadini poveri.
  Copyright © 2017 di Susan Stewart
Traduzione inedita di Maria Cristina Biggio,    
da CINDER: New and Selected Poems (Graywolf Press, 2017)  
  L'articolo Susan Stewart, la regina della lirica Usa: “In questi tempi oscuri, la poesia è luce” proviene da Pangea.
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josefcapicotto-blog · 5 years
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FASCISMO E ANTI-INTELLETTUALISMO
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«Ora, bisogna esser chiari. Fascismo è guerra all'intellettualismo. Lo spirito fascista è volontà, non è intelletto: e spero non essere frainteso. Gl'intellettuali fascisti non devono essere intellettuali. Il fascismo combatte, e deve combattere senza tregua e senza pietà, non l'intelligenza, ma l'intellettualismo che è, l'ho detto, la malattia dell'intelligenza: non derivante dall'abuso dell'intelligenza, che non si usa mai abbastanza, anzi dall'insufficiente uso di essa, onde si può incorrere e persistere nella falsa credenza che ci si possa appartare dalla vita e oziando giuocare con sistemi d'idee vuote e cieche sulla tragedia degli uomini che lavorano e amano e soffrono e muoiono: laddove anche l'uso dell'intelligenza, per chi l'intenda, è dramma, è lotta dell'uomo col mistero, è sforzo di dominio sulla natura, è intensificazione della vita. Anche l'intelligenza perciò è volontà. E ciò sente almeno il fascismo, che sdegnerà la cultura ornamento o arredamento del cervello, ma anela alla cultura onde lo spirito s'arma e fortifica per vincere sempre nuove battaglie. E questa può essere, questa dev'essere la nostra barbarie. Barbarie anche d'intellettuali! Contro la scienza e sopra tutto contro la filosofia; ma, s'intende, contro la scienza e contro la filosofia dei decadenti, degli smidollati, della gente che sta sempre alla finestra e si contenta di criticare, quasi non fosse affar suo! Quantunque, voglio dirlo qui tra parentesi, uno dei maggiori meriti del fascismo sia questo: di obbligare a poco a poco tutti quelli che una volta se ne stavano alla finestra, a scendere in istrada: a fare del fascismo magari contro il fascismo. E quando tutti gl'italiani saranno scesi in istrada, e penseranno e rifletteranno senza sentire più la tentazione di tornare alla finestra, l'italiano comincerà ad essere quel grande popolo che deve essere».
- Giovanni Gentile
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gregor-samsung · 4 years
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“ Mille volte nella nostra vita ci è accaduto di ascoltare discorsi idioti. Ma ogni volta sapevamo che, attraverso la parola, la ragione e il dialogo, la presenza dell’ala dell’imbecillità si sarebbe attenuata, fino a farsi riassorbire nei confini del ragionevole. A quei tempi la chiamavamo “egemonia culturale”, e non era il predominio di una visione politica sull’altra, ma il dominio dell’intelligenza sulla stupidità. Ancora adesso quando mi domando a che cosa serva la cultura, l’unica risposta possibile mi sembra questa: la cultura è una strada o un contenitore che cerca di ricondurre a ragione gli istinti di cui pure è formata, e di riportare all’interno della civiltà le spinte che vorrebbero azzerarla. Questo meccanismo è saltato. La battaglia mi sembra perduta. L’egemonia culturale è finita. Il valore della ragione era legato soprattutto al suo impiego materiale: studiare migliorava la vita. Da quando non succede più, la conoscenza ha perso valore. È un cambio epocale e porterà la guerra, prima o poi, perché la ragione per definizione comprende, distingue, rifiuta le semplificazioni e la logica amico/nemico, mentre la fede crede o non crede. La colpa è anche nostra, per carità: in molti, per vanità e pigrizia, abbiamo preferito ascoltarci e farci ascoltare invece che ascoltare. Ma anche per gli uomini-spugna non esistono scuse: sanno leggere e scrivere, ormai, e potrebbero informarsi su tutto. Se credono alle sirene, ai guaritori e ai complotti degli Ufo, la colpa è anche loro. L’ignoranza non è più soltanto una condizione, oggi è anche una scelta. Siamo passati dall’egemonia culturale alla prevalenza del cretino. Forse, mi dico, è anche questione di come il tempo ci appare: se tutto è presente e i fatti emergono per un istante prima di risprofondare nell’indistinto, non ha senso fare lo sforzo di metterli in fila: cercare una coerenza è inutile, si può dire tutto e il suo contrario, volta per volta, perché ogni istante è slegato dagli altri, un pulviscolo da assorbire senza farsi troppe domande. “
Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli (collana I Narratori), Gennaio 2019; pp. 82-83.
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spazioliberoblog · 4 years
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di NICOLA R. PORRO ♦
La letteratura in materia di populismo è sterminata. Non c’è da stupirsene: le insorgenze populiste hanno segnato in tutto l’Occidente un passaggio d’epoca. Esaurita la stagione dei partiti di massa, venute meno le fratture ideologiche ispirate ai blocchi politico-militari del dopoguerra, affermatosi un modello di globalizzazione che depotenziava i classici conflitti fra Stati Nazione generandone di totalmente inediti, la questione populista ha finito per rappresentare l’oggetto principale della ricerca politologica. Le analisi più recenti non brillano per originalità, ma mi sento di segnalare dalla  mia poltrona il saggio di un politologo francese, Éric Fassin, pubblicato recentemente in versione italiana[1]. È un lavoro agile che si concentra sin dal titolo su una sola tipologia – quella del cosiddetto “populismo di sinistra” – per porre una domanda semplice quanto cruciale: è possibile una rigenerazione della sinistra attraverso una forma progressista di populismo? Inutile sottolineare quanto la questione interpelli il caso italiano. Da noi il Movimento Cinque Stelle si trova al governo con le forze della sinistra tradizionale dopo avere diviso il potere con una destra sovranista e xenofoba, quella “salviniana”, anch’essa per molti versi assimilabile al paradigma populista. Dico subito che l’ipotesi di arruolare segmenti dei movimenti populisti nelle file della sinistra è del tutto estranea all’orizzonte di Fassin. Un possibile populismo di sinistra o un’intesa strategica – come quella vagheggiata in Italia da qualche leader Pd – con i populismi non dichiaratamente xenofobi, razzisti o sovranisti, gli appare una pura contraddizione in termini. A parere di Fassin, insomma, non è frugando nella cassetta degli attrezzi del populismo che si troveranno strumenti idonei a combattere un’egemonia neoliberista ormai consolidata.
Recensendo il volume per l’edizione online del Mulino[2], Marco Damiani ritiene però che l’intransigenza di Fassin risenta più della sua matrice sociologica che di un pregiudizio politico da vecchia sinistra. Occupandosi delle minoranze razziali e sessuali e delle problematiche di genere, la sua critica gli sembra soprattutto rivolta, per interposta persona, a quella sinistra socialdemocratica che in Europa occidentale condivide responsabilità di governo. Alla pari di Fukuyama o di altri teorici conservatori, tanto i laburisti britannici quanto i socialdemocratici tedeschi e i socialisti francesi, spagnoli e greci si sarebbero resi responsabili, agli occhi di Fassin, di una falsa equazione ideologica. Avrebbero cioè identificato il crollo del Muro, lo sgretolamento del blocco sovietico e la fine del comunismo di Stato con la “fine della Storia” tout court facendo coincidere il trionfo della democrazia con l’affermazione della “ragione neoliberista”. Ciò avrebbe indotto un fenomeno di “depressione del militante”. Spogliati delle antiche certezze, militanti ed elettori della sinistra si sarebbero sentiti spettatori nudi e inerti di una storia loro estranea. Una strisciante crisi di identità li avrebbe così allontanati silenziosamente da quei processi d’inclusione e di partecipazione cui aveva dato vita nel corso del Novecento la pedagogia sociale del movimento operaio.
Incapaci tanto di elaborare politiche alternative a quelle ispirate alla filosofia del mercato quanto di far propria la cultura dei nuovi diritti in presenza di sfide epocali – le migrazioni, le rivolte di genere, la questione ambientale e la rivoluzione digitale – , i progressisti al governo si sarebbero resi indistinguibili rispetto alle forze conservatrici. La governancee le strategie delle sinistre si sarebbero anzi rassegnate a mutuare quell’acronimo “Tina” (There Is No Alternative) che già negli anni Ottanta aveva riassunto in sé la ferocia apologia della Realpolitik di Margaret Thatcher.
Fra l’ultima decade del Novecento e la prima del Duemila, la marea montante dei nuovi populismi aveva manifestato come tratti comuni – in una caleidoscopica varietà di casi –  l’opposizione all’establishment dominante e alla “classe politica”. Giudicata in blocco e senza distinzioni come la sola responsabile del diffondersi del disagio economico e sociale esasperato dalla crisi del 2008-2009. La figura eponima è per Fassin rappresentata da Trump. Personaggio impresentabile secondo le tradizionali categorie della politica, il suo successo rappresenterebbe la prova di una inquietante metamorfosi non solo della politica Usa ma del “discorso pubblico” della tarda modernità. Trump, l’”intruso populista”, ha infatti saputo abilmente coniugare la rocciosa difesa del neoliberismo e il dilagante risentimento popolare contro le classi dirigenti, facendo sì che il discredito gettato sulla “classe dirigente” statunitense colpisse indiscriminatamente tutti i leader democratici dell’Occidente. Osserva Fassin che questa acrobatica operazione di cattura del consenso è perfettamente coerente con la versione reazionaria dei populismi. Mescolando tutela degli interessi monopolistici, benefici fiscali per i più abbienti, isolazionismo nazionalista e retoriche patriottarde compone però necessariamente un menu indigeribile per un immaginario “populismo di sinistra”[3].
FOTO 5 POPULISTI
Il cuore del problema, nient’affatto astratto e terminologico, risiede infatti per Fassin, come per Laclau[4], nella controversa nozione di “popolo”: “… questo popolo – scrive Fassin – non si riduce agli strati popolari, non potrebbe essere definito meccanicamente dall’interesse di una né persino di più classi, perché le trascende” (p. 64). A descrivere questa entità astratta – e tuttavia capace di materializzarsi nel voto se efficacemente mobilitata da una propaganda che semplifichi, banalizzi e drammatizzi elementi obiettivi di disagio – sarebbe piuttosto quella che Laclau chiama “ragione populista”. Essa opera per alterazione e sostituzione: il popolo è privato di qualunque consistenza sociologica (peraltro assai difficile da definire correttamente e in forma univoca) così come la nozione di “classe sociale” è depurata di ogni valenza politica. In sostituzione, la ragione populista si affida alle cosiddette “catene di equivalenza”. Cosa sono queste misteriose “catene di equivalenza”? Sono quei legami fittizi che istituiamo nella nostra mente simulando forme di aggregazione capaci di unificare le più disparate domande sociali. Il populismo è una forma di illusionismo capace di simulare una sintesi credibile di istanze diverse e apparentemente incompatibili generando comunità immaginate, secondo la felice intuizione di Benedict Anderson[5]. Se si pensa al caso italiano, gli esempi abbondano. Il grillismo di opposizione poteva tenere insieme no vax e giustizialisti, no tap e cultori delle scie chimiche, simpatie xenofobe e pauperismo, antieuropeismo e idolatria della rete, gerarchie leaderistiche e democrazia diretta. Tutto buono per mietere consensi elettorali a buon mercato in una fase di obiettivo stallo dell’offerta politica. I problemi sarebbero venuti dopo, quando l’esperienza di governo avrebbe costituito per il Movimento un’impietosa prova del budino
Solo in una simile prospettiva, del resto, è possibile immaginare nel caso italiano un governo di coalizione, quello gialloverde, fra due populismi: uno assimilabile alla destra radicale e l’altro ispirato a un plebeismo anti-casta di incerto e variegato profilo ideologico. Un’operazione di puro illusionismo, consistente nel rivolgersi di volta in volta a un segmento diverso di “popolo” e nel cavalcarne gli umori del momento, solleticati da un fatto di cronaca o fotografati dall’ultimo sondaggio. Tecnica del consenso che non ha niente a che fare con la capacità di esercitare il governo. Perché il paradosso populista sta proprio qui, nel demonizzare il potere per conquistare il potere, nell’esorcizzare la casta per sostituirla con un’altra casta. I leader populisti galleggiano – non sempre con successo – nella melassa culturale delle rispettive “catene di equivalenza”. Quella del leader populista è sempre una recita che sconfina nel surreale. Si può abolire la povertà per decreto o esigere la soppressione della burocrazia con effetto immediato. Una leggiadra improntitudine che può tingersi indifferentemente, secondo le convenienze e secondo la “catena” attivata in quel momento, del lessico e degli umori tanto della vecchia sinistra quanto  della vecchia destra. Il populismo di ogni colore aspira a esercitare un potere contro ma alla “ragione populista” è del tutto estranea qualunque idea di innovazione del pensiero politico. La povertà culturale dei leader populisti, specialmente quelli italiani, riflette senza dubbio un generale declino del ceto politico, ma svela anche un fondo limaccioso di anti-intellettualismo ricorrente in tutti i totalitarismi del Novecento. 
Per Fassin il populismo di sinistra rappresenta dunque una contraddizione in termini. Non c’è infatti nulla di più ideologico e di meno pluralista del tentativo di depotenziare l’opposizione destra/sinistra che da due secoli presiede al conflitto politico e alla dialettica democratica dell’Occidente. Essa esprime valori, interessi sociali e alternative rappresentazioni del futuro che hanno il diritto e il dovere di confrontarsi rispettando le regole della democrazia. Il trasformismo si attaglia invece perfettamente al modello populista, come dimostra in Italia il caso del governo Conte-I[6]. Il tentativo di liquidare l’opposizione fra conservatori e progressisti, fra destra e sinistra, per sostituirla con quella fra alto e basso o fra popolo (immaginario) ed élite (indefinibile), ha accompagnato dovunque l’avanzata delle destre e del modello neoliberista nell’Europa del dopo Muro. Persino l’esempio a prima vista più affine al paradigma del populismo di sinistra, cioè la spagnola Podemos, non regge alla verifica dei fatti.  L’attenzione ai diritti civili e il rispetto delle minoranze – al netto di una buona dose di folclore movimentista – sono certo maggiori in Podemos che nel M5S italiano[7]. Ciò non basta tuttavia a colmare la distanza dai problemi del lavoro e a superare una rappresentazione propagandistica delle politiche di welfare. Certo, in Podemos si esprime un “populismo inclusivo” di cui è del tutto priva la versione cinquestelle, a metà strada fra le logiche “esclusive” della destra radicale – per la quale, ad esempio, i migranti non possono appartenere al popolo – e le posizioni “tolleranti” del pensiero neoliberale. Nemmeno è facile istituire una somiglianza con il caso di France Insoumise, il movimento fondato in Francia da Jean-Luc Mélenchon che più sembrerebbe avvicinarsi al paradigma del populismo di sinistra. Mélenchon è un militante della sinistra di tendenza trozkista che a partire dal 2014 ha sposato alcune strategie tipiche del populismo, come la personalizzazione della politica, un accentuato leaderismo, la costruzione di un “noi” identitario contro un “loro” inteso come nemico esterno. Da questi antefatti discende la progressiva presa di distanza dalla classica opposizione sinistra/destra – e addirittura un tentativo di rivisitazione del concetto gramsciano di egemonia. France Insoumise pare insomma ispirata a un marxismo eretico del tutto estraneo al grillismo italiano. Tuttavia, la stessa «rivoluzione dei cittadini» predicata da Mèlenchon altro non è, a ben vedere, che un socialismo repubblicano impegnato a riempire il vuoto lasciato dalla disintegrazione dei corpi intermedi e delle istituzioni della Quinta Repubblica. Critico da sinistra verso i partiti socialdemocratici, il movimento francese si guarda bene dal relegarsi nel cantuccio dell’intransigenza minoritaria dell’estrema sinistra. Del M5S condivide la spregiudicatezza tattica – favorita nel M5S dalla totale assenza di una cultura politica di riferimento -, e l’aspirazione a esercitare il potere ad ogni costo, con qualunque alleanza disponibile[8]. Le analogie finiscono qui, sebbene tutti e tre gli esempi citati – M5S, Podemose e France Insoumise– abbiano sicuramente concorso a ridefinire la nozione di populismo. Osserva infatti Fassin che “il populismo non è più solo un insulto e tale denominazione può assumere anche un carattere positivo. Non è più percepito necessariamente come il rovescio demagogico della democrazia, presentandosi ormai invece come una forma di rinnovamento democratico anche a sinistra” (p. 32). 
Proprio qui si colloca l’inganno populista, perché “in un populismo di sinistra è il populismo che gioca il ruolo di sostantivo, la sinistra non è che un aggettivo” (p. 84). Non esiste, insomma, una ricetta populista per ricostruire la sinistra, mentre al contrario si fa più urgente la necessità di (ri)costruirla. Sta qui la sfida più difficile e più affascinante. Essa consiste nell’elaborare una strategia di conquista di un altro popolo: il popolo dimenticato ma smisurato degli astensionisti, autentica maggioranza silenziosa in quasi tutte le democrazie mature. La sinistra ha davanti a sé un compito ambizioso che si può riassumere in un sintetico imperativo: “trasformare il disgusto astensionista in gusto elettorale”(p. 81).
Perché la sinistra torni attrattiva bisogna però che essa si concepisca come un cantiere aperto all’innovazione, all’invenzione e all’interpretazione. In un contesto radicalmente mutato, fu in fondo questa l‘intuizione che nel tempo della rivoluzione industriale permise alla sinistra di trasformare in azione politica progressista il generico ribellismo dei lavoratori industriali verso lo sfruttamento capitalistico e l’ordine sociale borghese. Parafrasando ciò che un  vecchio politologo americano come Elmer E. Schattschneider[9] aveva sostenuto sessant’anni fa a proposito del futuro della democrazia, si potrebbe affermare che l’idea di sinistra “è ancora in corso di invenzione ed è ancora aperta a una molteplicità di interpretazioni, [probabilmente] nessuna definitiva”. È da questa professione di umiltà che Fassin invita a ripartire. Ma è un percorso lungo il quale si possono incontrare altri interessanti compagni di viaggio.
NICOLA R. PORRO
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[1]Éric Fassin, Contro il populismo di sinistra, ManifestoLibri, Roma 2019. L’originale versione francese era stata pubblicata nel 2017 con il titolo Populisme : le grand ressentiment, Editons textuel, Paris. 
[2]M. Damiani, Populist Radical Left Parties in Western Europe, Routledge, London 2020. Dello stesso autore si veda “Contro il populismo di sinistra”, Il Mulino online22.06.20. 
[3]Sarebbe tuttavia in proposito necessaria una riflessione a più ampio raggio, che non è possibile sviluppare qui, sulle variegate tipologie dei vecchi populismi, come nel caso archetipico del peronismo argentino.
[4]E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari 2005.
[5]B. Anderson, Comunità immaginate. Origine e diffusione dei nazionalismi, Laterza, Roma-Bari 2018.
[6]Una plateale conferma dell’ambiguità politico-culturale del populismo “non sovranista” è offerta proprio dal convinto sostegno del M5S alle politiche xenofobe perseguite in Italia dal leader leghista Salvini nei panni di Ministro degli Interni durante il governo gialloverde.
[7]Abissale è anche la distanza che intercorre fra i due movimenti in tema di identità culturale e di qualità della leadership.Podemos si è formato nelle aule della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Complutense di Madrid dove insegna lo stesso Pablo Iglesias. Nessun aspetto del plebeismo anti-intelllettualistico del M5S è presente nel movimento spagnolo, che dispone inoltre di leader di ben altra levatura rispetto ai modesti omologhi italiani.
[8]Confidando però su un carisma personale del leader che si stenta a rinvenire nella deprimente galleria dei leader cinquestelle.  
[9]E.E. Schattschneider, The Semisovereign People: A Realist’s View of Democracy in America. Holt, Rinehart and Winston, New York 1960.
Poltronavirus 1. Può esistere un populismo di sinistra? di NICOLA R. PORRO ♦ La letteratura in materia di populismo è sterminata. Non c’è da stupirsene: le insorgenze populiste hanno segnato in tutto l’Occidente un passaggio d’epoca.
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francolaratta · 6 years
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C'è un culto dell'ignoranza. Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza". (I.Asimov)
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autonomisti-blog · 6 years
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Populismo, populisti e dintorni
Nel dibattito politico odierno il termine populismo si è affiancato, come  negatività d’accezione, a quelli di fascismo e di comunismo. In tutto il mondo i partiti e movimenti politici si dividono tra populisti e non populisti. Trump contro la Clinton, Marine Le Pen contro Macron, Grillo e Salvini contro Renzi, Brexit vs Bremain; i primi oggetto di feroci critiche da parte del mainstream media, proprio perché considerati populisti. Ma cosa s’intende per populismo ? Fascismo e comunismo sappiamo cosa erano, cosa volevano e cosa hanno fatto, ma il termine populismo è di difficile definizione. Innanzi tutto non è un’ideologia politica sorretta da basi filosofiche o presunte tali, tutt’al più, come dice il vocabolario Treccani è “… atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Ancora più interessante l’affermazione di Wikipedia: “Il largo uso che i politici e i media fanno del termine populismo ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza – spesso a scopo denigratorio – a definire “populisti” attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano “il popolo“. Si potrebbe quindi affermare che il sostantivo populismo non ha un significato proprio e definito, almeno dal punto di vista politico. L’aggettivo populista invece indica una peculiarità, con un’accezione negativa, quasi mai dichiarata come propria (tra le poche eccezioni Paolo Del Debbio e Dario Fo che di essere populisti se ne sono fatti un vanto), ma nella maggior parte dei casi attribuita ad esponenti politici dagli avversari o dal mainstream media. Durante la campagna presidenziale del 2008 “negli Stati Uniti l’accusa di populismo è toccata a Obama perché prometteva di difendere i lavoratori dalla delocalizzazione delle imprese (Usa Today, 20 agosto 2008), a Hillary Clinton perché schierata a difesa delle classi lavoratrici (Washington Post, 25 febbraio 2008), John Mc Cain perché ostile alle lobbies e alle corporations (Washington Post, 17 agosto 2008), Sarah Palin, e il suo linguaggio e il modo di presentarsi (Washington Post, 4 settembre 2008), George W. Bush per il suo anti-intellettualismo (Washington Post, 27 luglio 2008)” (da Luciano Violante, Appunti per un’analisi del populismo giuridico in “DEMOCRAZIA E DIRITTO” 3/2010, pp. 107-125, DOI:10.3280/DED2010-003007). 07). Nulla in confronto a quelle ricevute da Trump nella campagna presidenziale del 2016 ! Insomma populista è l’epiteto rivolto soprattutto dai giornalisti del mainstream media occidentale al politico che non la pensa come loro, non importa se di destra o di sinistra. Un po’ come Berlusconi che dava del comunista anche a chi non lo era, solo perché aveva posizioni politiche diverse dalle sue, o meglio, contrarie ai suoi interessi. Ma per rimanere bipartisan in tempi di egemonia culturale della sinistra anche il termine fascista è stato usato in maniera strumentale ed aggressiva contro politici di centro destra; certo è che distorcendo l’uso del termine fascismo per finalità contingenti estranee a quello che rappresentava tale ideologia, comunque completamente negativa, ha perso valore anche il suo opposto, l’antifascismo, il cui messaggio spesso non è riuscito a superare una disarmante autoreferenzialità culturale. A proposito di contrari, per quanto riguardo il populismo ed i populisti il prefisso – anti – (dal greco – anti -, “contro”) non ha avuto il  successo degli altri due più noti, l’anticomunismo e l’antifascismo. Perché, a differenza di quest’ultimi che hanno un contenuto di positività (intesa come effettività e consistenza a prescindere da giudizi di valore che potrebbero essere anche negativi), i termini populista e populismo invece sono diretti contro (anti) qualcuno o qualcosa, già di per sé hanno un’accezione di negatività, in quanto privi di contenuto ideologico; algebricamente si potrebbe dire che hanno una valenza pari a zero, l’unico numero che coincide con il proprio opposto.
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curiosona · 6 years
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C’è un culto dell’ignoranza negli Stati Uniti, e c’è sempre stato. Una vena di anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi "la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza".
L’ha detto Isaac Asimov.
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