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#ceto intellettuale
diceriadelluntore · 10 months
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Aggettivi Perversi
@popolodipekino​ mi ha scritto un commento al post dell’altro giorno sulla briciola di mascuotto che assomigliava alla Sicilia chiedendosi se esista, da Trinacria, l’aggettivo: probabilmente il suo trinacre è sbagliato, e dovrebbe essere trinacrio la forma corretta. 
Ma colgo l’occasione per spendere due parole sul leggendario simbolo dell’altrettanto leggendaria  (e da me tanto amata) isola del Mediterraneo.
Trinacria vuol dire “dai tre promontori”, e deriva dal greco τρεῖς (tre) e ἄκρα (promontorio). C’è un chiaro riferimento alla forma triangolare dell’isola. Molti invece pensarono che fosse derivante da  ‛tris' e ‛nacros', cioè dai tre monti  Peloro, Pachino e Lilibeo, ma questo è un errore etimo-filologico.
Fu Omero che fa dire ad Ulisse, al cospetto della maga Circe, che dopo aver attraversato Scilla e Cariddi allora incontro ti verran le belle / spiagge della Trinacria isola dove / pasce il gregge del Sol, pasce l’armento (Libro XII, vv 165-166).
La Trinacria, in quanto araldo, è rappresentata da una testa gorgonica, con serpenti intrecciati a delle spighe al posto dei capelli, da cui partono a raggiera tre gambe piegate, sottoposte a due ali laterali; figura che prende il nome di Triscele dall’aggettivo greco triskelés (tri e skélos), letteralmente con tre gambe. Le tre gambe rappresentano i tre punti estremi dell’Isola: Capo Peloro conosciuto anche come Punta del Faro in direzione Nord-Est, Capo Passero in direzione Sud e Capo Lilibeo noto anche come Capo Boeo in direzione Ovest.
Sulle spighe di grano, basta dire che sin dal tempo dei Romani, la Sicilia è nutrix plebis Romanae, letteralmente «nutrice della plebe romana», in quanto primo produttore di grano anche in tempo imperiale.
Sulle Gorgoni, il mito è molto itneressante: figlie di Forco e di Ceto, abitavano nell'estremo occidente del mondo conosciuto dai greci, o il Giardino delle Esperidi (che corrisponde più o meno all’attuale Mauritania) oppure in un’oasi della Libia. Nella maggior parte dei miti sono tre: Steno, Euriale e Medusa, tutte e tre dal corpo mostruoso, dalla forza selvaggia e divoratrici di uomini. Avevano tutte serpi per capelli, artigli di leone alle mani, il corpo di bronzo e lo sguardo pietrificante. Steno e Euriale erano immortali, Medusa no.
Steno rappresentava la perversione morale, Euriale la perversione sessuale, Medusa la perversione intellettuale, e delle tre è la più famosa per lo scontro con Perseo, che la decapitò.
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Esiste una specie di coralli che per le ramificazioni tipiche che ricordano i capelli di serpenti delle mitologiche sorelle, vengono chiamati Gorgonia (in foto sopra).
Cosa può scatenare una briciola di pane.
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paoloferrario · 1 year
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Salvatore Lupo, La mafia. Centosessant'anni di storia. Tra Sicilia e America. I capi, le cosche, le famiglie. Gli affari, i traffici, i delitti, Donzelli editore, 2018
SCCHEDA DELL’EDITORE: La mafia. Centosessant’anni di storia. Tra Sicilia e America – Salvatore Lupo Se c’è un autore che ha dedicato allo studio delle organizzazioni criminali mafiose, tra Sicilia e America, libri che hanno rappresentato il punto di riferimento per gli storici, gli operatori di giustizia, il ceto politico, un più vasto mondo intellettuale e il grande pubblico, questi è…
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samdelpapa · 2 years
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È vero.
C’E’ UNA DIFFERENZA FRA ATLANTISMO CONSAPEVOLE E SUDDITANZA Gironzolando nel web, nei giorni scorsi mi sono imbattuto spesso nella divertente vignetta che vedete qui sotto. Esprime a mio avviso lo stato d’animo di gran parte dell’opinione pubblica di fronte alla sistematica demonizzazione del “pacifismo”, trasformato in una categoria indistinta in cui viene incasellato con disprezzo ogni pensiero critico, prescindendo con disinvoltura dalle argomentazioni su cui si fonda. Chiunque sia dotato di un minimo di buon senso, la stragrande maggioranza degli italiani, non chiede agli ucraini di immolarsi, ma vuole il ritiro delle truppe russe e l’avvio di un negoziato che porti alla pace e alleggerisca le conseguenze del conflitto anche per la nostra Europa. E’ evidente che, per costringere le parti a sedersi attorno a un tavolo, il presupposto è che vi sia un sostanziale equilibrio delle forze. Non nego che, tra coloro che parlano di “pace”, vi siano anche personaggi che sostengono posizioni ideologiche, strumentali, ipocrite, a volte ridicole. Ma si tratta di idee minoritarie, direi quasi ininfluenti, anche se molto rumorose. Perché allora continuare a fare di tutta l���erba un fascio, evitando di fare i conti con le idee più ragionevoli? Perché compilare liste di proscrizione? Perché accusare di filo-putinismo chiunque si allontani anche solo di un millimetro dalla rotta stabilita (da chi, poi?). Perché invocare la censura a ogni pié sospinto? Perché continuare a gettare benzina sul fuoco? Perché insultare chiunque si chieda, assodato che Putin è l’aggressore, se Biden, oltre a preoccuparsi del proprio indice di gradimento in vista delle elezioni di metà mandato, abbia a cuore anche il destino dell’Europa; e se Boris Johnson, che è il capofila dei falchi dopo aver flirtato a lungo con gli oligarchi, non stia esacerbando gli animi? Perché continuare a millantare una totale coincidenza di interessi strategici tra Londra e l’UE, tra Washington e Bruxelles? Guardate che l’opinione pubblica non è sprovveduta. Ha capito a che gioco si sta giocando. Si sta accorgendo che chi alimenta le campagne maccartiste sugli «agenti di Putin» che operano sotto la copertura “pacifista”, sono gli stessi personaggi che non hanno emesso neppure un flebile lamento di fronte alla ben documentata influenza occulta britannica sui mezzi di comunicazione di massa e su una parte del ceto politico-intellettuale del nostro Paese. Influenza a suo tempo usata non per combattere il comunismo sovietico, ma gli interessi nazionali dell’Italia, la politica di Enrico Mattei e di Aldo Moro. Il pacifismo genuino, che è quello della stragrande maggioranza delle persone normali, ha fatto una scelta di campo molto netta. Pensa che sia un obbligo morale aiutare gli ucraini a non soccombere di fronte alla prepotenza di Putin. Che le nostre democrazie, con i loro valori, siano di gran lunga i sistemi in cui è preferibile vivere. Che l’atlantismo, pur con tutte le sue imperfezioni e nefandezze, sia l’ombrello difensivo di cui non possiamo fare a meno. Ma essere con l’Ucraina e con la Nato non significa dire signorsì a ogni sospiro di Biden. E tantomeno prostrarsi davanti al trono di Sua Maestà britannica.
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love-nessuno · 2 years
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lettera aperta
È ben noto che il Parlamento italiano non riflette più la reale volontà popolare. Così pure in Italia si sono succeduti in questi ultimi anni Governi presieduti da persone mai elette e dunque anche il governo in carica non riflette la volontà e i sentimenti del Popolo italiano. I vertici militari non garantiscono l’indipendenza delle libere istituzioni come la Costituzione impone. La Costituzione italiana viene sistematicamente violata nel silenzio di chi dovrebbe garantirne il più assoluto rispetto, ed è così che ora si viola anche il suo articolo 11 che preclude all’Italia la partecipazione a guerre di aggressione o comunque a guerre altrui, dovendo essere la politica militare italiana esercitata solamente per scopi difensivi. I mezzi di informazione, i più diffusi quotidiani e le televisioni a diffusione nazionale sono completamente asserviti e diffondono costantemente un'informazione consapevolmente falsa. Larghi strati della Magistratura che dovrebbe essere il baluardo delle quotidiane libertà e diritti, agisce fuori dalla legge continuando nella sua tradizione di compiacere il potere governativo. L’opinione pubblica italiana è frastornata e confusa e crede a quel che raccontano le televisioni fino ai limiti del ridicolo. Giornalisti italiani in Ucraina con l’elmetto in testa ovvero filmati di guerra cinematografici o immagini di esplosioni avvenute anni prima in luoghi molto distanti dalla Ucraina. Il messaggio che viene diffuso è che Putin è un autocrate e che la Russia persegue una politica aggressiva ed espansionistica. Non tutti gli italiani pensano questo e sono moltissimi gli italiani di ogni ceto sociale e di ogni esperienza culturale che condividono l'iniziativa militare russa consapevoli delle finalità provocatorie degli USA attraverso la NATO. Questa è una vecchia storia che purtroppo si ripete, se c’è un Paese guerrafondaio, questi sono gli USA: nei loro tre secoli di vita hanno avuto solo 12 anni di pace. Questi sono numeri, non opinioni. La parte sana dell’Italia e degli italiani sa che la difesa dei diritti dell’uomo è un volgare pretesto come è un pretesto più ridicolo che delittuoso, quello di esportare la democrazia. L’opinione pubblica sana dell’Italia è perfettamente consapevole che l'iniziativa russa in Ucraina è un atto di legittima difesa e di risposta alle provocazioni e alle minacce nordamericane e degli Stati che servilmente appoggiano gli USA. L’Italia ha perso la Seconda guerra mondiale ma non è questo quel che conta. Le guerre si vincono e si perdono. Questo è nel gioco della storia. La tragedia dell’Italia è che essa ha perso la guerra e ha perso anche la pace. L’Italia oggi è un territorio asservito alle esigenze militari imperialistiche degli USA e della NATO. Non c’è altra spiegazione per la presenza in Italia di 115 basi militari USA o NATO, che poi è la stessa cosa. La Sicilia è oggi una grande caserma americana. In vari punti del territorio nazionale gli USA dispongono di depositi di armi nucleari di potenzialità devastante. La Russia di Putin in tutto il mondo rappresenta l’ultima speranza di contrasto efficace al globalismo o mondialismo e al capitalismo speculatore e assassino che non ha volto ma del quale si conoscono bene i nomi. Molti apprezzano l'onestà intellettuale e politica di Putin, il suo coraggio e il contributo che dà alla vera pace, contrastando le mire aggressive di quella che ormai è solo la North Atlantic Terroristic Organization. Spero che la Russia non ce l’abbia con l’Italia che, avendo perduto pure il senso del ridicolo, ha mandato un piccolo contingente militare ai confini occidentali dell’Ucraina. È stata una decisione patetica del Governo in carica che avendo esaurito il pretesto del Covid-19 per governare contro la Costituzione, ora coglie il pretesto della crisi in Ucraina per portare avanti uno stato di emergenza finalizzato all’annientamento dell'identità e della dignità del Popolo italiano.
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pedrop61 · 3 years
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Hell’s Kitchen parte due…
Spettacolo pirotecnico di inusitata portata ci viene offerto in queste ore da due soggetti femmina (sperando di non urtare i genderfree) del web politicamente corretto, progressista, globalista, gayfriendly e ovviamente proimmigrazionista.
Nel corso di una permanenza in Sicilia, hanno apostrofato la vil plebe canaglia incappata nel loro cammino, di scarso spirito di inziativa, eloquio annoiante, scarsa cultura internazionale, fannulloneria traghettata dal divano (quello del reddito di cittadinanza per intenderci) al posto di lavoro.
Nulla di nuovo se si considera che sono soggetti mediati dalla sinistra 2.0 di Renziana ideazione. Si coglie comunque un aspetto quasi educativo nell’intento di queste signore impegnate a vario titolo nella comunicazione social.
Il desiderio di imprimere una declinazione di rapporti sociali fra un ceto dirigente o presunto tale e le classi subalterne. Una sorta di campo di rieducazione all’aperto in stile consumista dove il subalterno, che possiamo ormai chiamare “inferiore” (cit.Ugo Fantozzi), deve subire la lezioncina e la reprimenda del capo di turno. Sovviene come spontanea la contiguità con certe trasmissioni televisive: quelle delle scuole di alta cucina (cuochi ricchi e di successo altrimenti detti chef).
La funzione allenante di queste trasmissioni dirette proprio alla vile plebaglia, è proprio questa: eventi in cui famosi chef sfogano il loro sadismo verso un manipolo di aspiranti futuri chef. Queste promesse del tegame non potranno mai competere con la magnificenza dei loro giudici-aguzzini se non a prezzo di un lungo trail allenante per il carattere. L’analogia con l’addestramento delle reclute dei corpi speciali è evidente. Per questo loro vengono umiliati sotto i riflettori quotidianamente nel corso della trasmissione e i loro aguzzini li sovrastano dall’alto della loro magnificenza. Così le due “giornaliste” progressiste che, smessi i panni della supremazia intellettuale, si rifanno col bullismo da reality show in cucina.
E’ un percorso educativo entro il quale, mediante questi programmi televisivi ora anche spot social, vengono allenate le plebi alla ginnastica d’obbedienza  in questo meraviglioso mondo globalista, immigrazionista, genderfree. Dove non importa cosa sei, ma se hai i soldi, sei quello che comanda e spadroneggia senza alcun freno sugli altri. Per tutti gli altri sono lavori a chiamata, mazzate durante i picchetti per un lavoro dignitoso e incidenti sul lavoro dei quali, retorica piagnona a parte, non frega niente a nessuno; tanto le “vittime” non contano un cazzo. E vergognarsi poi e chiedere perdono anche per non aver fatto nulla, ma mettersi in ginocchio lo stesso, adesso che è diventato praticamente una prassi per l’accettazione sociale e poi diciamolo…sotto sotto un po’ omofobi, razzisti e sessisti lo siamo tutti, compresi voi che lo negate. Ci vediamo il 25 aprile per festeggiare la Liberazione dal giogo della tirannide. Benvenuti nel bellissimo regno di Oz.
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corallorosso · 4 years
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Appello: «Basta con gli agguati» Non passa giorno senza che opinionisti (e politici in cerca di visibilità) mettano in croce il governo, con ogni più vario argomento. Dopo la conferenza stampa del 26 aprile, l’accanimento ha raggiunto livelli insopportabili. I “retroscena” impazzano e molti fanno di tutto per accreditare un Conte poco autorevole e drammaticamente non all’altezza della situazione, oppure un Presidente del Consiglio che si atteggia quasi a dittatore calpestando i diritti e la Costituzione. Ma siamo di fronte ad una “notizia” o piuttosto ad una “narrazione” artificiosa e irresponsabile? O anche all’espressione degli interessi e delle aspirazioni di coloro che vogliono sostituire questo governo e la maggioranza che faticosamente lo sostiene, per monopolizzare le cospicue risorse che saranno destinate alla ripresa? Il governo Conte non è il migliore dei possibili governi, sempre che da qualche parte possa esistere un governo perfetto. In aggiunta, viviamo in una condizione di inedita emergenza e anche di straordinaria incertezza, di cui nemmeno le discipline scientifiche vengono a capo pienamente. È certo che i messaggi di Palazzo Chigi non hanno sempre la chiarezza necessaria e che, con l’intento di orientarci nei meandri della nostra vita quotidiana, possono generare ambiguità interpretative e incertezza. Si possono (e si dovrebbero) discutere le priorità, comunque provvisorie, che il governo ha indicato, ci sono certamente stati alcuni errori nell’uso degli strumenti normativi che ha di volta in volta adottato (alcuni costituzionalisti e opinionisti lo hanno fatto notare). Non c’è dubbio, neppure, che siano stati limitati alcuni diritti fondamentali come quello alla libertà di movimento (limitazioni peraltro previste dall’art. 16 della Costituzione), e sia stato limitato il pieno esercizio del diritto al lavoro, all’istruzione, alla giustizia nei tribunali. Ma niente ha intaccato la libertà di parola e di pensiero degli italiani e comunque il Governo non è parso abusare degli strumenti emergenziali previsti dalla Costituzione. In ogni caso, il nostro convincimento è che questo governo abbia operato con apprezzabile prudenza e buonsenso, in condizioni di enormi e inedite difficoltà, anche a causa di una precedente “normalità” che si è rivelata essere parte del problema. Molte di tali difficoltà dipendono infatti dallo stato di decadimento di gran parte del sistema sanitario, frutto di anni di scelte dissennate di privatizzazione e di una regionalizzazione sconsiderata e scoordinata. Ed invece sembra che tutto il male origini in questo governo, spesso bersaglio di critiche anche volgari e pretestuose, veicolate dai media. Nessuno tra i critici si prende davvero la responsabilità di dire cosa farebbe al suo posto, come andrebbe ponderata una libertà con l’altra, una sicurezza con l’altra, e quale strategia debba essere messa in campo per correggere le lamentate debolezze dell’esecutivo. Negli ultimi giorni, questa campagna che alimenta sfiducia e discredito ha raggiunto il suo acme. Dietro alcuni strumentali e ipocriti appelli alla difesa dei diritti, o del sistema delle imprese e dell’occupazione, si coglie il disegno di gettare le basi per un altro governo: un governo dai colori improbabili o di pretesa unità nazionale, di cui non s’intravede nemmeno vagamente il possibile programma, tolto un disinvolto avvicendamento di poltrone ministeriali e la spartizione di cariche di alto rango. Il problema di questo paese non sono gli italiani, che si stanno dimostrando in media più che all’altezza della situazione, peraltro aggravata in qualche caso da gestioni regionali arroganti e approssimative. Il problema sta nella sua classe dirigente, tra i registi dell’opinione pubblica o dentro quello che si diceva un tempo “il ceto intellettuale”. Dove il segmento per quanto ci riguarda più problematico è proprio quello “democratico”. Dalla destra populista non ci attendiamo nulla e ce ne guardiamo. Non ci incantano le sue repentine conversioni al liberalismo nel nome del “tutto subito aperto, tutti liberi”. Ci preoccupano gli altri, invece, i democratici “liberali”, i grandi paladini della democrazia e della Costituzione, i cui show disinvolti e permanenti non fanno proprio bene al paese, anzi lo danneggiano. Per aderire, inviare una mail al seguente indirizzo: [email protected] (Il Manifesto)
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paoloxl · 4 years
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Il 27 aprile 1937 muore, nella clinica di Quisisana a Roma, Antonio Gramsci, dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste. Da anni soffriva di diverse gravi malattie, ma le richieste per la sua liberazione vennero accolte da Mussolini soltanto sei giorni prima della sua morte, quando ormai non era più in grado di muoversi da mesi. Arrestato (nonostante fosse protetto dall'immunità parlamentare) l'8 novembre 1926 durante l'ondata repressiva che seguì un attentato a Bologna contro il duce, fu accusato di attività cospirativa, incitamento all'odio di classe, apologia di reato e istigazione alla guerra civile: tutte accuse piuttosto fondate, data la sua decennale militanza sul fronte internazionale del comunismo rivoluzionario, ma che soltanto nel mondo capovolto del dominio capitalistico possono essere fonte di persecuzione, anziché di credito e onore.
Il 27 aprile 1975, in un mondo radicalmente mutato in soli 37 anni, moriva invece Danilo Montaldi, anch'egli, come Gramsci, militante comunista, intellettuale e scrittore. Apparentemente una distanza abissale separa i due personaggi: autore di fama mondiale, inserito ufficialmente nel canone della letteratura e della storiografia italiane, il primo, sconosciuto ai più il secondo; protagonista della stagione classica del movimento comunista (dal 1917 agli anni precedenti la seconda guerra) l'uno, partecipe della crisi storica del progetto marxista-leninista tradizionale (dopo il 1945) l'altro. Gramsci visse la fase ascendente della dittatura del proletariato nell'URSS, sposando anche una rivoluzionaria bolscevica, Julia Schucht, da cui ebbe due figli; Montaldi maturò la scelta di abbandonare il PCI nel 1946, proprio a causa della consapevolezza della degenerazione burocratica che aveva interessato successivamente il socialismo sovietico, nella sua fase discendente. Nonostante queste e altre differenze biografiche, culturali e politiche, molti aspetti permettono di accostare le due figure nel segno della caratteristica più importante e tipica dell'intellettuale militante/comunista tra primo e secondo novecento: il tentativo di precisare una strategia per la distruzione della società capitalista, regolarmente in contrasto con le stesse organizzazioni ufficiali della politica socialista e comunista.
Gramsci era nato nel 1891 ad Ales, in Sardegna, e si era trasferito a Torino per motivi di studio, in estrema povertà, nel 1911. Arrivò nella città sabauda con 45 lire in tasca, avendo speso 55 lire per il viaggio delle 100 dategli dalla famiglia; negli anni successivi sarebbe sopravvissuto grazie a una delle 19 borse di studio da 70 lire mensili messe a disposizione dall'università di Torino per gli studenti poveri del Regno. Negli anni dell'università supera le posizioni sardiste, immettendole nella più ampia e globale idea socialista; presso il numero 12 dell'odierno corso Galileo Ferraris frequenta la federazione giovanile socialista e la sede dell'Avanti, dove inizierà la sua carriera di scrittore grafomane, furioso e tenace, producendo in dieci anni migliaia di pagine di riflessione politica, filosofica e di costume. In quegli anni è anche molto impegnato come critico teatrale (anche se ignorato dal mondo ufficiale dell'arte), risultando il primo critico ad aver scoperto e valorizzato il teatro di Luigi Pirandello (ben prima del più noto critico Adriano Tilgher, come lo stesso Gramsci rivendicava con orgoglio).
Nel 1917 segue gli eventi russi e diviene fervente sostenitore della rivoluzione bolscevica; nel 1919 fonda il giornale Ordine Nuovo; tra il 1919 e il 1920 definisce la linea dei giovani militanti socialisti che, a differenza del ceto politico del partito, appoggiano e promuovono le lotte operaie del biennio rosso che, con particolare forza a Torino, Milano e Genova procedono all'occupazione armata delle fabbriche e in molti casi alla loro autogestione e direzione produttiva. Dopo che l'assalto operaio al potere di fabbrica fallisce a causa dell'immobilismo/tradimento della dirigenza socialista, nel 1921 è parte del gruppo di militanti che, a Livorno, accoglie le indicazioni dell'Internazionale Comunista, proclamando la necessità di formare un'organizzazione rivoluzionaria costituita da avanguardie dedite alla promozione del conflitto operaio, per una presa del potere di tipo sovietico, fondando il Partito Comunista d'Italia e, successivamente, il giornale l'Unità. Dopo aver compiuto diversi viaggi in Unione Sovietica come rappresentante della sezione italiana dell'Internazionale, e dopo aver trascorso periodi come esule, soprattutto a Vienna, a causa delle prime repressioni fasciste dopo il 1922, torna in Italia con l'immunità parlamentare, essendo stato eletto deputato il 6 aprile 1924.
Poche settimane dopo, il 10 giugno, una banda di fascisti uccide un deputato socialista, Giacomo Matteotti, e gran parte dell'opinione pubblica è turbata e scandalizzata dall'accaduto. Per protesta tutti i gruppi d'opposizione abbandonano i lavori parlamentari, ma tra essi è solo quello comunista, capitanato da Gramsci, che chiede di fare l'unica cosa sensata, ossia proclamare lo sciopero generale. I socialisti temono che il ricorso allo sciopero favorisca il desiderio diffuso di una rivoluzione di tipo bolscevico, i liberali e i cattolici temono socialisti e comunisti molto più dei fascisti, e si appellano sterilmente al Re come supposto garante di una legalità che il delitto Matteotti avrebbe infranto. Tutto questo produce uno stallo durante il quale aumenta la tensione reale nel paese, finché, il 12 settembre, il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram, per vendicare Matteotti, il deputato fascista Armando Casalini, e si scatenano le ondate della repressione più dura, con lo scioglimento di tutti i partiti d'opposizione e l'arresto di militanti e dissidenti. Lo stesso Gramsci sarà arrestato dopo due anni di sforzi nell'opposizione politica al fascismo, e si dedicherà in prigione alla scrittura della sua opera più famosa e internazionalmente conosciuta, i Quaderni del carcere.
Una delle tesi contenute nei Quaderni, quella della necessità di conquistare la direzione politica della società attraverso un'egemonia culturale antagonista, verrà riletta in modo moderato dal PCI del dopoguerra, passato nelle mani di Togliatti, interessato a bloccare, su ordine di Stalin, ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Una tesi ben più complessa e articolata viene banalizzata come grimaldello ideologico volto all'annacquamento della pratica rivoluzionaria (occorre conquistare l'egemonia culturale in primo luogo, quindi la presa del potere politico è rimandata...) a tutto vantaggio della coesistenza pacifica tra due superpotenze capitaliste, l'URSS (capitalismo di stato) e gli USA (capitalismo di mercato). È in questi anni che Danilo Montaldi, nato nel 1929 a Cremona, esce dal PCI di cui era militante e si dedica ad un'attività organizzativa continua e inusuale, attraverso la frequentazione attiva di gruppi cui non aderisce formalmente (Partito Comunista Internazionalista, Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) o la fondazione di gruppi che talvolta successivamente abbandona (Gruppo di Unità Proletaria, 1957, e Gruppo Karl Marx, 1966).
Se Gramsci concepì il suo compito come quello della fondazione del comunismo in Italia, inteso come prospettiva specifica nel panorama socialista (consistente, in base all'insegnamento di Lenin, nel rifiuto totale della guerra e nella direzione politica del conflitto sociale allo scopo di provocare una presa diretta del potere), Montaldi si mosse in un quadro dove la stessa soggettività comunista organizzata era divenuta compatibile con la società capitalista, trasformandosi in conservazione sociale burocratica dove era al potere e in involucro retorico di una sostanziale socialdemocrazia dove era all'opposizione. In particolare il compito del militante del dopoguerra è non solo costruire organizzazioni alternative (di qui le critiche di Montaldi ai trotzkisti, che a questo si limitavano), ma anzitutto indagare direttamente le condizioni di lavoro e di lotta della classe operaia. Negli anni della ricostruzione postbellica l'operaio è chiamato a vendere la sua forza lavoro al capitale in nome di uno sforzo presentato come trasversale alle classi, ma l'interesse alla ricostruzione è l'interesse del capitale, poiché l'operaio non può che trarre giovamento dalla distruzione del sistema esistente.
L'antagonismo operaio non va però, per Montaldi, imposto intellettualmente e astrattamente dall'avanguardia ai lavoratori; l'operaio non è oggetto di studio e di intervento dei comunisti, semmai soggetto, esattamente come loro. Egli si dedica quindi a una ricerca sul campo circa le reali condizioni e aspirazioni operaie e contadine, impegnandosi affinché fossero essi stessi a raccontarsi e ad esprimere la loro realtà, negli anni in cui la sinistra ufficiale maturava invece quel distacco reale dalla classe di cui ancora oggi si vedono le conseguenze. Ne saranno risultato opere come Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati (1960, con Franco Alasia), Autobiografie alla leggera (1961) e Militanti politici di base (1971). Questo attivismo in cui l'agitazione politica e l'inchiesta diventano una cosa sola costituirà il nocciolo della pratica che verrà battezzata "con-ricerca" da Romano Alquati e, assieme alle analisi fortemente anticonformiste della soggettività operaia di Raniero Panzieri, apriranno la strada alla grande stagione dell'operaismo italiano che, mettendo al centro la classe e il suo conflitto reale contro l'accumulazione capitalistica (anche e soprattutto al di fuori dagli orizzonti del partito e del sindacato), imporrà all'attenzione delle nuove generazione il problema della conquista dell'autonomia operaia.
È qui, a ben vedere, che Gramsci e Montaldi si incontrano: entrambi hanno dovuto non soltanto vivere la contrapposizione del comunismo alle forze riformiste o democratiche – o fasciste – ma anche quella tra classe oppressa e organizzazioni esistenti della sinistra: in riferimento al tradimento del PSI durante il biennio rosso il primo, e in relazione al tradimento del PCI con la politica della coesistenza democratica il secondo. I germi dei loro scritti, come spesso accade, non hanno ancora prodotto tutta la potenza dei loro frutti (anche a causa di una loro banalizzazione scolastica, come nel caso di Gramsci, o della loro espulsione dai circuiti editoriali ed educativi, come nel caso di Montaldi) nonostante abbiano già influenzato molte generazioni; lette in prospettiva storica, restano un esempio irrinunciabile di abnegazione militante e di intelligenza rivoluzionaria. L'anticonformismo politico e l'autonomia di pensiero di entrambi è caratterizzata da ciò che il vero comunista sa di dover sempre far propria, ossia l'attitudine all'eresia, anche rispetto alla propria stessa tradizione di pensiero.
Per questo tra le righe più potenti di Gramsci resteranno sempre quelle, splendide, da lui dedicate all'Ottobre Rosso: "La rivoluzione dei bolscevichi è [...] la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili".
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PORTAIT OF A LADY ON FIRE   by Céline Sciamma
Portrait of a Lady on Fire is a story of deep feminine solidarity, it never falls into the banality of gender political discourses and wisely refrains from showing old-fashioned feminist tones.
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We're in Brittany in the 18th century. A young artist, Marianne, is called upon to paint, as an image to send to a future husband, the portrait of a noblewoman, Héloïse, but for personal reasons she is against it. Initially, the painter was presented by Héloïse's mother to her daughter as a companion, but soon a special understanding arose between the two young women and the truth about the painting was revealed. From here on, the film will take on an increasingly high artistic and cinematographic level.
This film is a living painting. A work of art in the round, delicate and profound. It is not only the manifesto of the female gaze - defined by the author herself - as vision and observation, but an in-depth exploration of the interweaving of artistic creation and nascent love, memory, ambition and freedom. Sciamma, who also wrote the screenplay, incisively builds the film around memory, setting the entire filmic action as a flashback. Skillfully he knows how to unfold the vision in a dramatic way, also narratively he knows how to infuse the atmosphere of time and action, immersing the viewer in the time and place where the feature film is set.
The film speaks of the personal and creative relationship between a painter and her subject, unusually dominated by a single figure, creating a parallel with the cinematographic style, centered on physical balance and immobility and exemplified in the fixity of a gaze. The work revolves around the relationship between the artist and the model and, in particular, Marianne's confession to Héloïse who is painting her portrait. The result of this new understanding is a transformation of the personal and artistic bond - and of Marianne's art itself, which up to that point was focused on technique and form. With the revelation of Marianne's artistic purpose, Héloïse becomes her accomplice in the creative act, willing and involved, their intellectual and creative understanding does not dilute the individuality of Marianne's artistic ability, but enhances it. The transformation of art from an applied technique into a vital experience as well as a personal passion is the crucial turning point of the drama. Stylistically perfect, from costumes to dialogues to both indoor and outdoor scenes, the film, though set in another era, is tremendously relevant. The very nature of female art and the marginalization of women in the art world are integrated into the film through a subplot (an unwanted pregnancy and abortion) in a way that unmistakably echoes today.
This all-female film is emblematic, not only about art but also about complicity and solidarity towards the female figure, even if of different social classes. Sciamma allows the sisterhood to blossom organically from the austere traditionalism of the environment.
Directed and Written: Céline Sciamma
Interprets: Adèle Haenel, Noémie Merlant, Luàna Bajrami, Valeria Golino
Country: Francia
Year: 2019
Runtime: 120 min
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Siamo in Bretagna nel XVIII secolo. Una giovane artista, Marianne, viene chiamata per dipingere, come immagine da inviare a un futuro marito, il ritratto di una nobildonna, Héloïse, che però per motivi personali è contraria. Inizialmente la pittrice viene presentata dalla madre di Héloïse alla stessa figlia come dama di compagnia, ma presto tra le due giovani donne nasce un' intesa particolare e la verità sul dipinto viene svelata. Da qui in poi il film assumerà una forma di livello artistico e cinematografico sempre più elevata.
Questo film è un dipinto vivente. Un’ opera d’arte a tutto tondo, delicata e profonda. Non è solo il manifesto dello sguardo femminile - da definizione della stessa autrice - come visione e osservazione, bensì un'esplorazione approfondita d'intrecci tra creazione artistica e amore nascente, tra memoria, ambizione e libertà. Sciamma, che ha anche scritto la sceneggiatura, costruisce incisivamente il film attorno alla memoria, impostando l'intera azione filmica come un flashback. Sapientemente sa far dispiegare la visione in modo drammatico, inoltre narrativamente sa far infondere l’atmosfera temporale e d’azione, immergendo lo spettatore nel tempo e nel luogo in cui è ambientato il lungometraggio.
Il film parla della relazione personale e creativa di una pittrice e del suo soggetto, insolitamente dominato da una singola figura, creando un parallelo con lo stile cinematografico, incentrato su equilibrio fisico e immobilità ed esemplificato nella fissità di uno sguardo. L’opera ruota sul rapporto tra l'artista e la modella e, in particolare, sulla confessione di Marianne a Héloïse che ne sta dipingendo il ritratto. Il risultato di questa nuova comprensione è una trasformazione del legame personale e artistico - e della stessa arte di Marianne, che, fino a quel punto, era incentrata su tecnica e forma. Con la rivelazione dello scopo artistico di Marianne, Héloïse diventa sua complice nell’atto creativo, disposta e coinvolta, la loro intesa intellettuale e creativa non diluisce l'individualità dell'abilità artistica di Marianne, ma la accresce. La trasformazione dell'arte da una tecnica applicata in un'esperienza vitale oltre che in una passione personale, è la svolta cruciale del dramma. Stilisticamente perfetto, dai costumi, ai dialoghi, alle scene sia interne che esterne, il film, seppur ambientato in altri tempi, è tremendamente attuale. La natura stessa dell'arte femminile e l'emarginazione delle donne nel mondo dell'arte sono integrate nel film attraverso una sotto trama (una gravidanza indesiderata e un aborto) in un modo che riecheggia inconfondibilmente ai giorni nostri.
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Questo film tutto al femminile, è emblematico, non parla solo di arte ma anche di complicità e solidarietà verso la figura femminile anche se di ceto sociale diverso. Sciamma consente alla sorellanza di sbocciare organicamente dall'austero tradizionalismo dell'ambiente.
 Portrait of a Lady on Fire è una storia di profonda solidarietà femminile, non cade mai nella banalità di discorsi politici di genere e si astiene sapientemente dal mostrare discorsi dai toni femministi d’altri tempi.  
Regia e sceneggiatura: Céline Sciamma
Interpreti: Adèle Haenel, Noémie Merlant, Luàna Bajrami, Valeria Golino
Paese: Francia
Anno: 2019
Durata: 120 min.
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lanimadellamosca · 4 years
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C’è fico e fico
Proponevo a un amico siciliano come me, ma amico di lunghissima data, lui è di Noto però studiava ad Avola, io son di Pachino però studiavo a Noto, erano gli anni sessanta del secolo scorso, la globalizzazione, che volete.., non ci siamo mai incontrati giù però ci siamo conosciuti lo stesso, al nord, già ceto intellettuale emigrato tutt'e due, tutt'e due scorpioni, di segno zodiacale e di fatto, di sinistra, e infatti ci siamo conosciuti nella vecchia Camera del Lavoro di Torino, quella dove si facevano le riunioni nelle cantine fredde e umide e si fumava, tanto che quando vent'anni dopo ho smesso, non di fumare che tanto non fumavo, ma di fare sindacato, il mio medico mi ha auscultato i polmoni e mi ha domandato: quanti pacchetti di Nazionali senza filtro fuma? e io invece come dicevo non fumo.
E insomma, quell'amico lì, che io e lui essendo due scorpioni di segno e di fatto è un miracolo che non abbiamo ancora litigato oppure lo abbiamo fatto e non ci abbiamo fatto caso il che è una cosa bellissima se ci pensate...
E insomma, siccome domani ci vediamo gli ho chiesto se gli piacevano i fichi, a lui e a sua moglie, perché dato che il mio fico è carico, dalla foto che ho fatto non si vede ma vi assicuro che è carico di fichi grossi come un pugno, gliene volevo dare un po'; e lui mi ha risposto che a sua moglie piacciono al maschile, mentre a lui piacciono anche al femminile.
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E io da lì, un po' fuori tema, mi son lanciato in una disquisizione sul genere dei sostantivi dei frutti in siciliano, e gli ho risposto che in siciliano i frutti sono sostantivi maschili, u piru, u pumu, u curcuopo, u piersicu... mentre il frutto del fico fa eccezione, è femminile, u ficu, maschile, è l'albero, mentre a ficu, femminile, è il frutto, è un’eccezione che conferma una regola ma non so quale.
Questo, che ci crediate o no, è il motivo per cui mi faccio sempre delle brutte figure quando parlo di fichi, perché tendo a declinare il sostantivo al femminile, il che è sconveniente e lascia sospettare che io faccia dei lapsus ed abbia dei problemi non risolti con i frutti del fico al femminile, il che non è il caso, o forse sì, non lo so, ma insomma son fatti miei e a settant'anni lasciatemi arrivare alla fine così.
E niente, volevo dire primo che sono andato fuori tema col mio amico, che difatti mi ha risposto grazie per la lezione invece di dirmi grazie per i fichi, e secondo che se mi sentite dire fico con un aggettivo al femminile, tipo che bella questa fico, che a complicar le cose bella in siciliano vuol dire buona; niente, se mi sentire dire che bella questa fico mentre sto mangiando un fico, non mi dovete giudicare male, intendo solo dire che quel frutto dell’albero del fico è gradevole al gusto, ma siccome son siciliano e in Sicilia il frutto dell’albero del fico è femminile e l’aggettivo bello vuol dire buono, mi sbaglio, questo passaggio all’italiano non sono riuscito a farlo. Come mai, domanderete voi? Ebbe’… questo non lo so, bisognerebbe che andassi a farmi analizzare ma ormai non ne vale la pena.
Che poi… a pensarci… non è per dire… ma guardate qua… questo è un particolare del Duomo di Orvieto, e l’autore del rilievo in marmo è Lorenzo Maitani:
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Ebbene..: cosa sta offrendo Eva ad Adamo per indurlo in tentazione sotto lo sguardo compiaciuto del Serpente?
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abr · 4 years
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Con la conformazione delle economie e degli assetti di potere politico emersa nell’epoca della globalizzazione, (...) sono venute drasticamente meno la base ideologica e quella sociale che per più di un secolo (...) avevano caratterizzato le sinistre: il socialismo marxista (...) e la base di consenso costituita dalle classi operaie, e  da parte di quelle contadine e del ceto medio impiegatizio-intellettuale. I partiti socialisti hanno, da allora, in massima parte abbracciato un progressismo fondato soprattutto sul soggettivismo dei diritti e sul culto delle minoranze, diventando sostanzialmente i rappresentanti politici delle classi dominanti (...): la borghesia cosmopolita che raccoglie insieme alta burocrazia, dirigenza delle istituzioni internazionali/sovranazionali, imprenditori dell’economia digitalizzata, intellettuali accademici, operatori dei mainstream media, artisti attivi nei settori dell‘entertainment di massa. Una classe che quantitativamente oscilla tra il 10 e il 20% della popolazione, e a cui (...) si può sommare una parte dei ceti marginali che aspirano ad entrare nel giro della nuova élite, raggiungendo comunque al massimo il 30%. (...). Così, nel gioco democratico occidentale i partiti della sinistra sono divenuti strutturalmente minoritari. Un fenomeno accentuatosi ulteriormente a partire dalla grande crisi economico-finanziaria globale del 2007-20(11). Da allora, si è creata una frattura sempre più evidente tra le classi dominanti (...) e i ceti medi e medio-bassi impoveriti dalla concorrenza al ribasso del capitalismo (per modo di dire, ndr) asiatico (...) e smarriti dalla perdita di sicurezza e identità in società multiculturali sempre più conflittuali. Questi ultimi strati sociali, largamente maggioritari, si sono volti in misura crescente verso le forze sovraniste, conservatrici, identitarie accreditatesi proprio come scudo di protezione e stabilità contro le sperequazioni e le incertezze del “nuovo disordine mondiale”. Ma le élites progressiste detengono un’egemonia schiacciante nel mondo dell’informazione, della cultura, della formazione scolastica e universitaria, dell’intrattenimento di massa. Questo fa sì che esse puntino gran parte delle loro carte politiche sulla “narrazione”, sulla propaganda pervasiva e multiforme in favore di un modello di società “fluida” dipinta come un destino necessario di progresso in contrapposizione alla “barbarie” di ogni identità fissa e di ogni tradizione, oltre che come una infinita sorgente di opportunità di realizzazione dei desideri individuali. E’ questo il “catechismo” moralista, censorio che viene definito “politicamente corretto”: studiato per forgiare sistematicamente la mentalità conformemente alle categorie dettate dai ceti dominanti, e per delegittimare sistematicamente i  loro oppositori, dipingendoli come portatori di “odio” e discriminazione, cercando regolarmente di espellerli dall’area del dibattito pubblico, invocando per essi la censura, e persino condannando le stesse procedure della democrazia quando (...) essi guadagnano la maggioranza dei consensi elettorali. I fenomeni movimentisti che di continuo nascono, muoiono, si rigenerano nelle sinistre occidentali sono funzionali esattamente a questa giuntura tra classe, ideologia e propaganda. (...) Hanno la funzione di indurre nell’opinione pubblica la convinzione che  (...) in quell’area politica alberg(hi) tuttora una forza vitale indirizzata a cambiare il mondo, a realizzare degli ideali.  (...) In tal modo quei movimenti tentano (...) di riagganciare alle forze politiche espressione delle classi dominanti quella già menzionata fascia di “aspiranti élites” (...). Una fascia che in Italia (si incarna) nell’ancora consistente ceto medio-basso del pubblico impiego (insegnanti, dipendenti dell’amministrazione statale e di quelle locali), convinto di godere di una superiorità culturale rispetto ai ceti produttivi e non garantiti . E’ in questo contesto che va inserita e compresa anche la genesi delle “sardine”, come degli altri analoghi nuclei aggregativi “spontanei” della sinistra che le hanno precedute (nell'ultimo trentennio:  dalla “pantera” ai “no global”, dalle marce pacifiste “arcobaleno” ai “girotondi”, dal “popolo viola” fino al neo-ecologismo apocalittico adolescenziale di Greta Thunberg, ndr). Si tratta, come si vede, dell’ennesimo ritorno di un incessante moto illusionistico (...) in base (al) quale la dialettica politica (...) viene dipinta come uno scontro tra sinistre “colte” e destre “ignoranti”.
Grande puntuale analisi di E.Capozzi: questi sono gli schieramenti sociali in Occidente - mini minoranze vittime della “Narrazione” imposta, contrapposte alla maggioranza vittima della “Percezione” (né Darwin nè tantomeno Leonardo da Vinci avrebbero dubbi da che parte stare, per principio non per via della consistenza numerica; ma ognuno scelga per se, sempre se ne ha contezza). Tutto il resto, con buona pace di furbetti del Palazzino e dei Buromagistrati barbagianni, è solo noiosa tattica quotidiana.
 via https://loccidentale.it/la-sardinizzazione-estremo-illusionismo-di-una-sinistra-sempre-piu-elitaria/
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carmenvicinanza · 3 years
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Claudia Piñeiro, scrittrice argentina
https://www.unadonnalgiorno.it/claudia-pineiro/
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Si può esporre il proprio parere, ma non si può spacciare un’opinione per informazione. La proprietà intellettuale è sempre una materia controversa
Claudia Piñeiro è una scrittrice e sceneggiatrice argentina le cui opere sono state tradotte in diverse lingue. Tanti i premi nazionali e internazionali che le sono stati conferiti per la sua opera letteraria, teatrale e giornalistica. Lavora anche e assiduamente per la televisione.
Scrive quasi essenzialmente romanzi gialli intrisi di grande ironia e critica sociale, la suspense è il comune denominatore delle sue opere.
È nata il 10 aprile 1960 a Burzaco, nella provincia di Buenos Aires. Avrebbe voluto studiare lettere o sociologia all’università, ma in quegli anni la dittatura militare precludeva alle donne la possibilità di seguire carriere legate alle scienze umanistiche. È diventata così contabile pubblica nazionale nel 1983, professione che ha esercitato per dieci anni prima di dedicarsi alla scrittura.
Nel 1991, mentre era scontenta del suo lavoro che trovava noioso e insoddisfacente, ha risposto all’inserzione di un concorso di scrittura, il suo romanzo arrivò tra i primi 10 finalisti ma non venne mai pubblicato.
Il suo primo libro, Un ladrón entre nosotros, è uscito soltanto nel 2004, mentre la sua prima opera teatrale, Cuánto vale una heladera, veniva portata nei teatri e vinceva vari premi di drammaturgia.
Nel 2005 ha scritto Le vedove del giovedì, ambientato nella periferia di Buenos Aires durante la crisi del 2001, che racconta le ripercussioni della recessione sulla vita di quattro donne di ceto medio-alto. Un ritratto della borghesia argentina, che fa della ricchezza e dell’apparenza gli elementi focali della propria esistenza. Quattro anni dopo ne è stata realizzata la versione cinematografica.
Dopo un brevissimo lasso di tempo è uscito anche il romanzo Tua, una satira della “perfetta donna di casa” in cui la protagonista mette in primo piano il suo ruolo di massaia tralasciando le cose che più contano nella vita. Anche su questo romanzo è stato tratto un film uscito nel 2015.
Nel 2006 ha pubblicato un altro libro di grande successo, Elena Sabe, definito da alcuna critica un romanzo poliziesco antidetective/metafisico, collocato nel filone della letteratura postmoderna. La definizione antidetective si riferisce al fatto che  è la protagonista stessa a assumere il ruolo di investigatrice, risultando incapace di realizzare le deduzioni corrette per risolvere il caso. Metafisico perché la narrazione è più spostata nella formulazione di domande e risposte esistenziali che nella soluzione di un crimine. In Elena Sabe vengono affrontati temi come il concetto d’identità e l’impossibilità di trovare soluzioni definitive nella ricerca della verità.
Tra i personaggi femminili di Claudia Piñeiro si incontrano giovani madri, donne anziane e mogli dell’alta società che non corrispondono mai all’idea che la società si è fatta di loro. La narrazione delle  donne protagoniste dei suoi romanzi è paradossale e contraddittoria, pregna del suo sguardo critico nei confronti di vita e società.
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gregor-samsung · 4 years
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«Ci ho pensato molto, sai. Non è vero che gli intellettuali non servono a niente.» «Ah no? E a che cosa servirebbero?» «A sentirsi meno soli.» Olivia sollevò le sopracciglia, perplessa. «Che cosa c’entra la solitudine?» Cesare le strinse piano l’avambraccio e si mossero. «Le cose dentro i libri dimostrano che le cose dentro le persone si assomigliano.» «Davvero? È tanto che non leggo un libro.» «È perché vuoi stare sola.» Olivia si infilò una mano in tasca: forse Cesare aveva ragione, ma per non dargli soddisfazione si accese una sigaretta. Lui gliela prese dalle labbra e tirò una boccata, tenendola tra pollice e indice. «È tanto che non fumo, dai tempi dell’infarto. Ti dispiace se la tengo?» Olivia voltò la testa verso il prato. Intorno al suo albero un gruppo di bambini giocava a nascondino nella neve. Lo scoppio non li aveva interrotti, avevano cose più importanti da fare. Il braccio di Cesare, caldo sul fianco, le ricordava quello di suo padre. Era vero, le persone leggono i libri e ascoltano chi li legge – perfino Anna e Clelia – per sapere che dalla vita qualcuno ci è già passato, per sapere che gli altri non sono estranei, marziani, anche se spesso lo sembrano.
Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli (collana I Narratori), Gennaio 2019; p. 138.
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spazioliberoblog · 6 years
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di NICOLA R. PORRO ♦
Il mondo globale e le felpe di Salvini
La maggior parte degli studiosi collega le insorgenze populiste – tanto quelle di destra (sovranismo ed etnonazionalismo) quanto quelle ispirate al qualunquismo digitale – con confusi bisogni di identità e di comunità, che rappresenterebbero una reazione allo spaesamento indotto dalla globalizzazione e più specificamente dai movimenti migratori. Questi processi epocali, sviluppatisi in un arco temporale relativamente breve, avrebbero generato timori in buona misura irrazionali: “diventare stranieri a casa nostra”, subire il racket dell’immigrazione clandestina, pagare con l’impoverimento la concorrenza delle potenze commerciali emergenti ecc. Un’ansia diffusa e una sorta di paranoia latente avrebbero percorso l’opinione pubblica europea, facendo da carburante a campagne populistiche che, come in un circolo vizioso, amplificavano l’allarme sociale per lucrarne benefici elettorali. Il Brexit, l’ondata sovranista coronata dal Patto di Visegrad in Europa orientale e da ultimo il voto italiano del marzo 2018 suonerebbero a conferma della tesi.
Le felpe geolocalizzate ostentate da Salvini in campagna elettorale andrebbero dunque rivalutate come una sagace intuizione propagandistica. Il leader leghista viaggiava con un baule di felpe al seguito (si era ancora in inverno: per le elezioni in periodo estivo ci sono le t-shirt), ognuna delle quali portava impresso il nome di una delle località che avrebbero ospitato i comizi del giorno. Il look geocafonal del leader leghista, ostentato in tutti i tg e le reti locali, è stato il prevedibile bersaglio dell’ironia della sinistra bramina e dei commentatori politici più dotati di senso dell’umorismo. Eppure il messaggio latente veicolato dalle felpe salviniane era tutt’altro che innocuo. A modo suo riconduceva infatti al tema reazionario delle piccole patrie, all’esaltazione dei localismi, al rassicurante richiamo dell’appartenenza contro le minacce della globalizzazione. “Prima gli italiani” e, già che ci siamo, prima ancora degli italiani i cittadini di Induno Olona e di Marostica, di Mondovì e di Lugo di Romagna. E sempre più giù, nella nuova versione nazional-sovranista della Lega, anche di Fossombrone e di Termoli e magari di Nocera Inferiore, di Bagnara Calabra, di Marsala e di Abbasanta. L’universo delle piccole patrie restituito da una felpa all’onor del mondo.
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Ma che cosa conferisce efficacia a strategie di allarme sociale anche in assenza di ragioni oggettive che le sostengano? Come mai le campagne giocate sul moral panic si diffondono in Europa soprattutto in aree territoriali e socio-culturali (i Paesi ex socialisti) meno esposte agli effetti dell’immigrazione e della concorrenza commerciale con i competitori extraeuropei? Perché in tutti i grandi Paesi occidentali cresce una sensazione diffusa di insicurezza quando nessun indicatore statistico segnala un’espansione significativa della criminalità, mentre le offensive terroristiche dovrebbero spingere semmai a una sempre più stretta cooperazione fra gli Stati? Le risposte fornite sono articolate e talvolta dissonanti. Tutte convergono però nell’associare l’avanzata populistica alla capacità dei leader di eccitare l’emotività di massa. Argomento da prendere molto sul serio: la storia dei grandi totalitarismi del Novecento insegna come l’impiego di nuove tecnologie comunicative risulti tanto più efficace quando più sono rozzi e primitivi i messaggi che intendono veicolare. Dietro le innocue felpe geocafonal o le mitiche piattaforme telematiche i nuovi populismi replicano la stessa funzione di quelli che li hanno preceduti. Non rappresentano un’ideologia o un sistema coerente di pensiero-azione, bensì l’abito che indossa l’antipolitica quando una società entra in un circuito di tendenziale “anomia” (questione che riprenderemo più avanti). Ciò rappresenta certamente un vantaggio di posizione nella competizione elettorale.
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La nostalgia delle piccole patrie o il vagheggiamento di un’anacronistica comunità di destini (magari inscritta “nel sangue e nel suolo”) non rappresentano dunque un mero prodotto di marketing elettorale. Né possiamo accontentarci di addebitare alla manipolazione mediatica, alla post-verità o all’uso diffusivo delle fake news i successi del qualunquismo digitale. Il voto di marzo ha disegnato una morsa che stringe e comprime lo spazio politico della vita democratica italiana. Da un lato il territorio delle piccole patrie, degli umori localistici, delle felpe e della rappresentazione fobica dei processi di globalizzazione, presidiato dalla Lega a trazione salviniana. Dall’altro, lo spazio immateriale della rete, che tutto sa, giudica, condanna e decide tramite apposita piattaforma telematica. Un sistema leninista (il vincolo di mandati per gli eletti? Ma vogliamo scherzare…) costruito dalla Casaleggio & Associati a misura del solipsismo digitale e in funzione delle esigenze elettorali del M5s. In mezzo lingue di territorio dove la sinistra in ritirata difende un residuo spazio di sopravvivenza. Ciò che resta della vecchia politica, peraltro,  così vecchio non è: Pd e FI hanno rappresentato sino a pochi mesi fa le forze egemoni della Seconda Repubblica. A cambiare, infatti, sono anche i tempi della politica, sottratti al placido galleggiare della balena bianca, al passo pesante e sicuro dell’elefante comunista e ora anche ai giochi circensi  del Caimano. È il tempo scandito dai cinguettii di Twitter, misurato dalle esternazioni di giovanotti di pochi studi saldamente convinti di “fare la Storia”, compresso a misura di un titolo da urlare in apertura del prossimo tg.
  Francesco Ronchi ha il merito di consegnare all’analisi una riflessione originale. È la questione della solitudine. Ci ricorda, ad esempio, come dalla fine degli anni Ottanta a oggi, in Italia come negli altri Paesi europei, sia quasi raddoppiato il numero di cittadini che vivono completamente soli. La curva dei divorzi e delle separazioni è di nuovo in forte crescita. Il consumo di psicofarmaci ha conosciuto un aumento esponenziale nell’ultimo decennio. Zygmunt Bauman, teorico della società liquida, aveva intuito già nei primi anni del nuovo secolo la rilevanza sociologica del combinato disposto di crescenti aspettative di vita, che aumentano il peso demografico delle età anziane, e di emarginazione dei più giovani dal mercato del lavoro. Un insieme di fattori correlati che generano bisogni sociali inediti e difficili da soddisfare. La società postindustriale si ammala di solitudine e smarrisce quella cultura della socialità che aveva fatto da incubatrice alla vita politica da metà Ottocento alle ultime decadi del Novecento.
La fabbrica, le scuole e le università, le reti famigliari e di vicinato, la frequentazione di parrocchie, circoli di lavoro o club di élite, persino il servizio militare o la passione sportiva, davano vita a reticoli sociali che orientavano visioni del mondo destinate a incontrare prima o poi la politica, i partiti, i sindacati, la Chiesa e la costellazione delle organizzazioni di massa. Esperienze che producevano significato nella sfera esistenziale degli individui. E che potevano tanto colorarsi di idealità e valori condivisi (la militanza) quanto favorire logiche di convenienza e di scambio (il clientelismo politico), non di rado mescolando gli uni e le altre.
L’idealtipo esemplare di un’élite politica non censitaria è stato a lungo rappresentato dalla classe operaia: il proletariato “evoluto e cosciente” della retorica marxista. Il suo protagonismo, oltre i confini dell’antagonismo costruito nella sfera del pensiero filosofico, si manifestò soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Anni di piena occupazione nel sistema industriale – non ancora automatizzato -, con piccole sacche di precariato e una diffusa percezione del valore sociale del lavoro. La bandiera rossa rappresentava ancora un simbolo di emancipazione: era il colore di chi ti rappresentava e ti difendeva, di chi si prendeva cura della tua dignità e ti chiedeva di lottare per princìpi di uguaglianza. Enunciati che possono apparire oggi obsoleti ed enfatici, ma che corrispondevano al tempo a un vissuto concretissimo. La classe lavoratrice appariva “classe generale” anche agli occhi del ceto intellettuale di estrazione borghese, come gli studenti e i pensatori italiani o francesi nel tempo del ciclo di protesta. Non si trattava soltanto di una fascinazione operaistica, maturata in una sorta di complesso di colpa collettiva, o di una snobistica concessione all’ideologia. Il riscatto della condizione operaia – si pensi ancora a vertenze simboliche come le 150 ore o al ruolo assegnato ai consigli e ai delegati di fabbrica nell’autunno caldo italiano – rappresentava una risposta tangibile alla solitudine dei singoli e alla stessa incipiente “alienazione operaia”, già intravista dalla letteratura sociologica sul post-fordismo. Non per caso fu la stagione intellettuale della riscoperta di Gramsci e quella civica delle amministrazioni locali governate dalla sinistra. Le quali costruivano scuole e ospedali, garantivano una discreta qualità dell’assistenza pubblica e maggiore equità nell’allocazione delle risorse. Era la cultura della sinistra che alzava la bandiera dei beni comuni, che smantellava i manicomi, che ispirava la creazione dei sistemi sanitari pubblici e l’estensione per tutti dei cicli educativi. Sinistra e democrazia marciarono insieme in quei decenni cruciali. Lo fecero, a parere di Ronchi, proprio coniugando e declinando nel lessico della democrazia comunità e identità. Quella dei nuovi populismi costituisce perciò una sorta di appropriazione indebita di queste parole chiave.
È però incontestabile, come scrive Daniele Marini (Fuori classe, Il Mulino 2018), che a distanza di quattro decenni il panorama sociale disegnato dall’industrializzazione è irriconoscibile. Gli operai ci sono ancora, ma è scomparso quell’attore collettivo che chiamavamo, con la dovuta deferenza, classe operaia. Il voto operaio si indirizza in maggioranza ai partiti populisti, il potere ordinativo dell’identità di classe è venuto meno da tempo. Nessuna realistica possibilità di ripristinare quel paradigma culturale e sociale così come si rappresentava alle prime generazioni postbelliche. Guai però a indugiare in astratte mitologie. Ma guai anche a perseguire una parimenti astratta e acritica difesa della globalizzazione. Fra la sfera del locale e quella del globale si producono, non da oggi, tensioni e persino conflitti. Ma assolutizzare l’opposizione fra locale e globale significa congelarne la necessaria dialettica e regalare alla demagogia populista il monopolio di valori e significati ancora vivi, sebbene bisognosi di una coraggiosa rivisitazione.
  Il tema della solitudine come fatto intrinsecamente politico suggerisce considerazioni ulteriori. Il demografo francese Hervé Le Bras, in particolare, ha istituito una correlazione stringente fra voto al Fronte Nazionale ed erosione delle reti sociali tradizionali nelle campagne del suo Paese. Nel ballottaggio presidenziale del 2017 i piccoli borghi e i minuscoli paesi delle aree rurali, caratterizzati per secoli da robuste relazioni di vicinato e sentimenti di appartenenza densi, rinforzati da interessi condivisi, amicizie, mutualità e legami di parentela e di lavoro, hanno tributato un plebiscito alla candidata populista Marine Le Pen. La ricerca disegna la mappa di comunità dove nell’arco di un decennio sono via via scomparsi i piccoli empori di villaggio, si è diffuso il pendolarismo, sono quasi sparite le osterie e le sale parrocchiali, si sono svuotati luoghi di ritrovo e sezioni di partito. Il tessuto sociale si è fatto insomma più fragile, come in buona parte delle nostre antiche regioni rosse. Ciò si è tradotto in una crescente permeabilità alla propaganda populista, abile nell’individuare falsi nemici (gli immigrati, le oligarchie finanziarie, l’Europa, la casta) cui addebitare lo sgretolamento dei legami comunitari. Anche dove la cultura civica affonda radici profonde e l’impatto migratorio presenta effetti ridotti, dilaga così la suggestione xenofoba e populistica, mentre il voto alla sinistra – in Francia come in Italia – emigra nei quartieri di ceto medio urbano intercettando fasce di elettorato acculturato e socialmente garantito.
  Secondo Le Bras e Ronchi, insomma, non sarebbe qualche nostalgia identitaria o qualche misteriosa regressione al comunitarismo rurale a generare il consenso al populismo. È piuttosto lo strabismo delle sinistre, incapace di riconoscere i segnali di un disagio autenticamente popolare prima che si trasformi in consenso populista e persino di analizzare la ambigua domanda di protezione che proviene dalle urne, a spiegare la deriva politica in atto. Identità e comunità potrebbero invece, secondo questa lettura, rappresentare risorse democratiche, come fu in momenti cruciali della storia europea. A scrivere la Resistenza italiana e il Maquis francese fu il sostegno generoso e talvolta eroico delle comunità contadine e montanare nei mesi della guerra partigiana. La stessa geografia elettorale dell’Italia postbellica nei primi decenni della Repubblica ci segnala uno radicamento del voto al Pci assai più significativo nelle comunità rurali, che avevano conosciuto in anni lontani il regime della mezzadria e più tardi la Guerra di Liberazione, che non nelle maggiori città industriali. Ispirate alla tutela delle comunità locali furono anche, qualche decennio più tardi, le mobilitazioni civiche a difesa dell’ambiente, per i beni comuni o contro la criminalità organizzata. Estendendo il ragionamento, si può aggiungere che anche le tematiche dell’identità sono state sin dagli anni Settanta elaborate o rivisitate in chiave democratica da movimenti di azione civica, massicciamente orientati a sinistra, che promuovevano i diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali.
La sinistra contemporanea ha dunque l’obbligo di un esame di coscienza. Nella Grecia al collasso erano i presìdi dei fascisti xenofobi di Alba Dorata a organizzare ambulatori da campo e mense per gli abitanti dei quartieri disagiati di Atene e di Salonicco. Il Front National francese o il movimento dei Veri Finlandesi gestiscono estese reti di mutualità e di assistenza gratuita a beneficio dei “compatrioti abbandonati”. Persino il miliardario populista Trump ha trovato ascolto fra i dimenticati della modernizzazione (i “forgotten men”). La Lega, protagonista nel marzo 2018 di una spettacolare avanzata nelle regioni rosse, vi aveva costruito propri avamposti già una ventina di anni or sono cavalcando la protesta contro l’accorpamento nelle ASL dei piccoli centri sanitari territoriali. In qualche modo si era così accreditata come una forza vicina alle comunità e fieramente antagonistica rispetto alle “tecnocrazie rosse”, che pure avevano dato il più delle volte prova di una gestione efficace delle risorse pubbliche. Sono dati di contesto che possono utilmente introdurre una riflessione di profilo sociologico che coniughi riferimenti ai classici e dovuti aggiornamenti.
NICOLA R. PORRO
POPULISMO E POPULISTI (IX) di NICOLA R. PORRO ♦ Il mondo globale e le felpe di Salvini La maggior parte degli studiosi collega le insorgenze populiste - tanto quelle di destra (sovranismo ed etnonazionalismo) quanto quelle ispirate al qualunquismo digitale - con confusi bisogni di 
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giancarlonicoli · 3 years
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24 nov 2020 18:13
SMEMORANDA - COLPITI DA ALZHEIMER (INTELLETTUALE), I CHIERICI DEL GIORNALISMO ITALIANO RIMUOVONO GLI “ANNI DI PIOMBO”, TANGENTOPOLI E SEPPELLISCONO IL FU CAPITALISMO DEI POTERI MARCI (DE BORTOLI) – TRAGHETTATI DA PAOLO MIELI DALLA POVERA PUBBLICISTICA DI PARTITO AI RICCHI GIORNALONI TARGATI FIAT, I VARI (E AVARIATI) GALLI DELLA LOGGIA, PIGI BATTISTA E GAD LERNER SBIANCHETTANO TRENT’ANNI DI STORIA ITALIANA PER SALVARE LE LORO FACCE DI BRONZO E QUELLE DEI LORO AMICI
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DAGONOTA
Nonostante i bassi indici di ascolto non chiuderà Rai Storia lì sul piccolo schermo dove, quotidianamente, sale in cattedra lo storico (senza storia), Paolino Mieli. A buona ragione l’ex direttore del Corriere della Sera può essere considerato l’erede naturale del simpatico tuttologo professor Alessandro Cutolo che con il suo spiccato accento napoletano a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta furoreggiò nella televisione in bianco e nero con la sua rubrica “Una risposta per voi”.
Con la sua faccia a salvadanaio da Pierrot triste, Mieli fa rimpiangere l’arguzia bonaria del prof. Cutolo e la sua onestà intellettuale nell’imbrogliare le carte del suo sapere. Non c’è personaggio della storia antica, moderna e contemporanea che non venga affrontato da Mieli (da Giulio Cesare a Giuseppe Garibaldi) nel suo spazio in tv dove ospita i suoi tanti discepoli arruolati a suo tempo sulle colonne della Stampa o del Corriere.
E forse è a lui, il Mieli traghettatore dalla povera pubblicistica di partito alla ricca corte degli Agnelli&Romiti, che dovrebbe rivolgersi Ernesto Galli Della Loggia. O, forse, a se stesso, protagonista di una lunga stagione politica, economica e intellettuale lasciata nell’oblio.
Ma non si tratta di “traditori” o “voltagabbana”: chi fa certe scelte diverse simili anche ai salti mortali dovrebbe però spiegarne le ragioni. Nel 1957 lo scrittore Italo Calvino che si stava allontanando dal Pci invitava all’autobiografismo “dell’uomo della società vecchia e di uno dell’uomo della società nuova”.
Per l’autore di Palomar “la lettura del comunismo, che ha puntato sulla carta del romanzo” non basta a ricordare un’epoca. Non romanzi, appunto, “ma soprattutto opere autobiografiche…”.
A sorpresa, l’altro giorno sulle pagine del Corriere della Sera, Ernestino è tornato a chiedersi le ragioni della rimozione degli “anni di piombo” senza mostrarci la sua carta d’identità politico e intellettuale.
Già, in quest’ultimo trentennio (e passa) è stata “rimossa” pure la stagione di Tangentopoli, cavalcata dall’ex corazzata di via Solferino allora pilotata da Mieli nella speranza di salvare dal carcere i suoi padroni (la Fiat).
Della Loggia, ovviamente, si guarda bene dal fare il nome degli “smemorati” del ceto intellettuale che, con rare eccezioni (Giampiero Mughini), una volta smesso il ruolo di “banditori di violenza” si sono disinvoltamente riaccasati nelle file della borghesia imprenditoriale.
Con chi ce l’ha Ernestino? Con il suo amico Paolo Mieli, ex Potere Operaio e redattore capo dell’Espresso, un settimanale quasi confinante col nascente terrorismo di sinistra?
Con i socialisti craxiani che nel tentativo di salvare la vita di Moro trattavano sottobanco con alcuni esponenti contigui alle Brigate Rosse?
Forse allude al suo sodale e compagno di banco a “Mondo operaio”, Claudio Martelli, impegnato alla conferenza di Rimini a tessere un “filo rosso” tra gli ex di Lotta continua e il Psi fino a realizzare con lui il giornale “Reporter”?
E il nostro ha dimenticato pure la grancassa mediatica e politica del delfino di Craxi (esistono le registrazioni telefoniche) nel difendere il leader di Lotta continua dall’accusa di aver comunque partecipato all’uccisione del commissario Luigi Calabresi?
O nel suo personale indice d’indignazione, il Della Loggia intende includere l’ex lottacontinuotto, Gad Lerner, “il comunista con il Rolex” amico di Carlo De Benedetti, che nel suo ultimo libro “L’Infedele” (Feltrinelli), a differenza di Ernestino, cerca almeno di mettere ordine (morale e religioso) nel suo passaggio dai ribelli ai padroni del vapore.
Ma non è soltanto Galli Della Loggia a rimuovere il passato usando il bianchetto omertoso dell’autoassoluzione urbi et orbi.
Se la memoria “è la colla che lega la nostra vita mentale, che racchiude la nostra storia personale” (Squire e Kandel), il morbo di Alzheimer (intellettuale) deve aver colpito anche Flebuccio de Bortoli al momento di dare alle stampe il volume “Le cose che non ci diciamo (fino in fondo)” (Garzanti).
Ora se un lettore non sapesse che Flebuccio è stato due volte direttore del Corriere della Sera(gestione Agnelli&Romiti) e una volta del Sole 24 Ore(quotidiano della Confindustria), avrà l’impressione di trovarsi a sfogliare un saggio di un oscuro studioso dei poteri marci e di una classe politica (e dirigente) che ha messo in ginocchio il Bel Paese, vissuto negli ultimi trent’anni in qualche università straniera.
Il negare la continuità (e contiguità) tra la sua esperienza (e responsabilità) professionale non fa onore a de Bortoli. Del resto bastava cambiare il titolo del libro con “Le cose che non vi ho detto (fino in fondo)” per salvare almeno la faccia.
Ps.
Tra gli smemorati di via Solferino nei titoli di coda merita un posto anche Pierluigi Battista, devoto anche lui a Paolino Mieli. Prima sul Corriere della Serae poi con un’intervista a il Riformistasi butta penna in resta contro certo giornalismo giudiziario di oggi, “colla e incolla” delle veline della procura, che sputtanano politici e imprenditori ancora in attesa di giudizio.
La perversa inclinazione di Pigi verso il suo mentore Paolino, lo porta a dimenticare che i processi a mezzo stampa, la cosiddetta “gogna mediatica”, ha conosciuto il suo massimo splendore ai tempi di Mani pulite e ai tempi della prima direzione di Paolo Mieli. Moralisti a la carte.
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iltrombadore · 4 years
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AMARCORD 1953: Antonello Trombadori e il volto di Togliatti
Fin dagli anni della resistenza al nazifascismo mio padre Antonello fu radicalmente influenzato dalla personalità di Palmiro Togliatti di cui subiva il fascino intellettuale e  desumeva in pieno la visione di un PCI libero da pregiudiziali ideologiche, del ‘partito nuovo’  impegnato nella rinascita nazionale e motore della ‘democrazia progressiva’ regolata sui principi della costituzione repubblicana. Dopo l’attentato del 14 Luglio 1948, una volta divenuto responsabile della vigilanza personale di Togliatti, egli identificò a maggior ragione la linea politica della ‘avanzata democratica’ nella persona stessa del segretario del PCI. 
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La difesa di Togliatti da ogni attacco o insidia politica esterna o interna (basti pensare alla latente rivalità di Secchia e altri dopo la costituzione del Cominform) alimentava il suo intransigente ‘togliattismo’ nel promuovere e diffondere il culto della personalità del ‘capo amato dei comunisti italiani’. E fu proprio mio padre, qualche settimana dopo la morte di Stalin, a celebrare il sessantesimo compleanno di Togliatti in una cerimonia che si svolse nel salone della Direzione del PCI, il 26 Marzo del 1953. Del discorso pronunciato da Antonello Trombadori l’Unità pubblicò due giorni dopo il brano finale, intitolandolo  ‘Il volto di Togliatti’. In quel discorso, mio padre riassumeva la sua fiducia nel ‘Capo’ del partito identificandone la figura e l’opera in continuità con le componenti della unità nazionale italiana e della causa emancipatrice del moto democratico e socialista…(Duccio Trombadori)
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 Da l’Unità del 28 marzo 1953
IL VOLTO DI TOGLIATTI
(Diamo qui il brano finale del discorso pronunciato da Antonello Trombadori durante la cerimonia svoltasi presso la Direzione del  PCI in onore del compagno Togliatti per il suo sessantesimo compleanno.)
“…Se Gramsci primo marxista-leninista d’Italia dovette storicamente essere l’uomo della lotta senza quartiere contro il nullismo opportunista dei capi riformisti perla costruzione di un partito rivoluzionario autentica avanguardia e vero stato maggiore della classe operaia italiana, Togliatti discepolo di Stalin e continuatore di Gramsci è l’uomo cui spetta storicamente di ritrovare l’immenso valore di tutte le lotte condotte dai socialisti italiani e che sa essere l’erede dei fondatori e dei capi delle prime cooperative, delle prime leghe, dei primi sindacati di classe, degli operai e dei braccianti italiani anonimi ed eroici animatori dei primi grandi scioperi del secolo passato e degli inizi del secolo nostro.
Se Gramsci, primo marxista-leninista d’Italia, fu il vindice dell’unità operaia e teorico dell’alleanza degli operai del Nord e dei contadini del Sud, Togliatti, continuatore di Gramsci e discepolo di Stalin, è l’uomo dell’unità della maggioranza del popolo italiano attorno alla bandiera della libertà e della democrazia, è l’uomo dell’unità d’azione col grande partito socialista fratello, è l’uomo della Resistenza e della Costituzione repubblicana, è l’uomo della lotta concreta per la Pace e per il Socialismo.
Se Gramsci, primo marxista e leninista d’Italia, fu l’uomo della critica conseguente e del combattimento senza quartiere contro tutte le mire reazionarie della borghesia italiana, Togliatti, continuatore di Gramsci e discepolo di Stalin è l’uomo che alla testa di una grande forza rivoluzionaria di massa, operaia e contadina, pu�� finalmente rinfacciare ai gruppi dirigenti della nostra borghesia di non essere neppure alla altezza di quel poco e di quel molto di sincera coscienza nazionale, di quel poco e di quel molto di spirito progressivo del quale erano stati capaci in tempi lontani e recenti un Cavour, un Vittorio Emanuele II, un Giolitti, un Nitti.
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Togliatti ha tolto alla borghesia italiana tutte le sue maschere e ha restituito alle forze di progresso della società italiana tutto ciò che alcuni uomini della borghesia, e la borghesia stessa in quanto classe, seppero per avventura realizzare nell’interesse della nazione durante il primo periodo della nostra storia unitaria.
Ecco perché egli ha formato ed educato attorno a sé un nucleo di uomini tali, la cui unità, capacità e devozione alla causa più d’una volta hanno stupito e deluso i poveri guitti che coltivano la chimera delle divergenze, della diversità di orientamento, sperando solo per questo di veder vacillare la forza e la struttura di combattimento del nostro partito, le linee di sviluppo storico della nostra lotta.
Ecco perché non c’è lavoratore, non c’è persona onesta di qualunque ceto sociale, nel mondo intero, che al nome d’Italia non accoppi per spontaneità di pensiero il nome di Palmiro Togliatti.
Noi siamo orgogliosi di ciò come comunisti e come italiani.
Da molto tempo alla nostra patria non accadeva nulla di simile.
In generale gli uomini politici della borghesia italiana in quanto difensori miopi, servili o riottosi, di ristretti interessi, hanno sempre costretto il nostro Paese a farsi conoscere come provocatore di controversie e fautore di aggressioni e di intrighi internazionali, attirandosi addosso la diffidenza e l’odio dei popoli.
Bisogna ricorrere all’esempio di Mazzini e di Garibaldi per trovare qualcosa di diverso. Essi si che nel passato furono capaci di farsi amare dai popoli oppressi e di fare amare da questi popoli il popolo nostro.
Tale è Togliatti.
Emulo di quei grandi ma molto più di loro conosciuto e amato oggi nel mondo, data la enormità della posta in gioco e la grandezza stessa degli eventi di cui tutti siamo storicamente attori e spettatori.
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Dice un testo classico della dottrina marxista: “il grande uomo è grande non perché le sue particolarità personali attribuiscono una fisionomia individuale ai grandi avvenimenti storici, ma perché egli è dotato di particolarità che ne fanno l’individuo più capace di servire alle grandi necessità sociali della sua epoca, sorte sotto l’influenza di cause generali e particolari. Un grande uomo è un iniziatore, perché sa vedere più lontano degli altri e sa desiderare più fortemente degli altri.
Egli risolve i problemi scientifici sollevati dal corso anteriore dello sviluppo intellettuale della società, egli indica le nuove necessità sociali create dallo sviluppo anteriore dei rapporti sociali: egli si assume l’iniziativa dii soddisfare queste necessità. Egli è un eroe. Un eroe non nel senso di potere arrestare o cambiare il corso naturale delle cose, ma nel senso che la sua attività è una espressione cosciente e libera di questo corso necessario e incosciente. Consiste in ciò tutta la sua importanza e tutta la sua forza”.
A me pare di potere affermare che proprio nella consapevolezza di questo particolare metro della grandezza umana, che è l’opposto della grandezza dei superuomini, di coloro che appunto pretenderebbero di dare alla storia un propria assurda impronta individuale, risieda una delle ragioni principali della statura di rivoluzionario, di internazionalista e di patriota del compagno Palmiro Togliatti.
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Compagno Togliatti,
le circostanze della vita e del lavoro mi hanno concesso alcune volte di trovarmi vicino a te nei più diversi momenti. Di lavoro, di riposo, allegri e drammatici, anche solenni.
Ho conosciuto il tuo volto da lungi, nei comizi, nelle assemblee, nelle grandi riunioni di popolo alle quali tu sei solito portare il saluto del nostro Partito e la direttiva di combattimento tra un uragano di plaudente consenso e di gioia.
Ho conosciuto il tuo volto durante la riunione ristretta di lavoro nel tuo ufficio di Segretario generale del Partito e nell’accogliente umanistico silenzio del tuo studio privato.
Ho conosciuto il tuo volto nella libera, spaziosa aria delle nostre montagne, davanti all’azzurro del nostro mare.
Ho conosciuto il tuo volto aggredito dal male e in lotta ravvicinata contro la morte.
Ho conosciuto il tuo volto subito dopo il grave intervento chirurgico che ti restituì dopo alterne vicende alla vita e alla lotta.
Sempre sul tuo volto ho rivisto prima di tutto tre cose: la calma, la ponderazione, la fermezza.
Eppure tu sei uomo di ardenti sentimenti, di slanci umani, di impeti poetici, di affetti sottili!
Chi più di te conosce e apprezza l’entusiastico calore delle manifestazioni popolari, il piacere della vita e della natura, in tutte le sue forme più varie e misteriose, l’amore della poesia, della cultura, dell’arte?
Ma chi più di te è al tempo stesso capace di insegnarci che questo calore, che questo piacere, questo amore, quest’ansia di sapere tanto più sono profondi e veri quanto meglio sono capaci di esprimersi in modo ordinato, corretto, armonicamente equilibrato tra lo slancio del cuore e la moderazione dell’intelletto, tra la spontaneità dell’emozione e la misura della dottrina?
Compagno Togliatti, chi più di te sa misurare il dolore umano e sa partecipare alla sofferenza di milioni e milioni di uomini e sa guardare in faccia la crudeltà della morte?
Eppure tu ci hai insegnato che dolore e sofferenza e tragedia, essi stessi debbono essere tali da diventare nel comunista, nell’uomo che tutto se stesso dedica alla causa del popolo e della emancipazione del lavoro, sorgenti di riflessione umana, di meditazione politica, argomenti di ragionamento, suggerimenti per elevare a sempre più nobili altezze il nostro punto di osservazione, armi per proseguire la lotta, in nome della quale soltanto questa vita è degna di essere vissuta!
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Compagno Togliatti, io ho guardato intensamente il tuo volto davanti alla salma del compagno Stalin a Mosca, nella sala delle colonne dove sfilava muto e deferente il popolo sovietico e dove manifestavano il loro cordoglio i capi del proletariato internazionale.
E’ impossibile per me descrivere non dico i profondi sentimenti che certo si alternavano nell’animo tuo davanti alle spoglie mortali del capo, del maestro, dell’amico tuo che non era più: ma anche soltanto i moti appena percettibili che agitavano nella maestà del momento, i lineamenti aperti e chiari del tuo volto.
Ma mi pare di avere capito una cosa, e credo di non essermi ingannato, che in quel momento fra le grandi idee e i sentimenti profondi e il ricordo delle esperienze memorabili che attraversavano la tua mente, uno soprattutto era il problema che ti stava davanti:
il problema della tua responsabilità di capo rivoluzionario, di patriota italiano, di dirigente massimo nella lotta per la pace e per il socialismo. A quel sentimento di responsabilità tu facevi fronte con tutto te stesso, con tutta l’esperienza della tua vita, che ti tornava in quel momento contemporanea, con tutta la tua persona umana.
Ebbene, compagno Togliatti, io sono anche certo di interpretare la volontà di tutti i presenti augurandoti in questo giorno felice per te e per tutti i lavoratori italiani di poter tenere fede all’impegno preso in nome della tua responsabilit�� davanti alla salma del compagno Stalin in ogni circostanza, in ogni occasione, in ogni momento delle grandi lotte che stanno davanti a noi e a tutto il nostro generoso popolo.
Sono certo dii interpretare la volontà di tutti i presenti nel rinnovarti con tutto il cuore e con tutta l’anima, lo impegno nostro indefettibile di essere sempre pronti sotto la tua guida e secondo il tuo esempio a moltiplicare gli sforzi perché il giorno della vittoria della pace e del Socialismo si avvicini sempre più e sia luminoso e chiaro come tu fortemente lo desideri e lo sogni.”
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corallorosso · 5 years
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Italiani fascisti o antifascisti? Tutti uguali, ieri come oggi. Il vero pericolo è l’ignoranza di Marco Brando “La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa … Nel comportamento quotidiano, mimico, somatico non c’è niente che distingua – ripeto, al di fuori di un comizio o di un’azione politica – un fascista da un antifascista“. Queste parole non sono state scritte oggi o ieri, bensì quasi 50 anni fa, il 10 giugno 1974, da Pier Paolo Pasolini: un intellettuale e un provocatore (così dovrebbero essere gli intellettuali) di cui sento molto la mancanza, alcuni decenni dopo il suo assassinio. Le scrisse in prima pagina sul Corriere della Sera, negli anni dello stragismo. Aggiungeva, lo scrittore e regista: “I giovani dei campi fascisti, i giovani delle Sam, i giovani che sequestrano persone e mettono bombe sui treni, si chiamano e vengono chiamati ‘fascisti’: ma si tratta di una definizione puramente nominalistica. Infatti essi sono in tutto e per tutto identici all’enorme maggioranza dei loro coetanei. Culturalmente, psicologicamente, somaticamente – ripeto – non c’è niente che li distingua….. La cultura a cui essi appartengono e che contiene gli elementi per la loro follia pragmatica è, lo ripeto ancora una volta, la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei. Non procura solo a loro condizioni intollerabili di conformismo e di nevrosi, e quindi di estremismo (che è appunto la conflagrazione dovuta alla miscela di conformismo e nevrosi). Se il loro fascismo dovesse prevalere, sarebbe un fascismo ancora peggiore di quello tradizionale, ma non sarebbe più precisamente fascismo. Sarebbe qualcosa che già in realtà viviamo, e che i fascisti vivono in modo esasperato e mostruoso: ma non senza ragione”. Secondo lui eravamo già omologati da quella che chiamava “cultura di massa”. All’epoca Pasolini accusava i mass media, la politica basata su slogan più attenti alle rime che ai contenuti, la pedagogia da catena di montaggio. Adesso porterebbe alla sbarra strumenti ben più potenti, vista la forza omologatrice del web, dei social network e di miriadi di canali televisivi votati al rimbambimento seriale (nei suoi ultimi anni di vita c’erano soltanto due canali Rai e le primissime radio private). … Il problema semmai sta nel fatto che si sono quasi estinti anche gli antifascisti emersi da quegli stessi eventi, quelli che scrissero la Costituzione e quelli che negli anni successivi presero il testimone con cognizione di causa. Si è quasi estinta la cultura civile (ancor prima della politica) che aveva reso fieri e forti tantissimi italiani, capaci di imprimere alla società la più grande spinta in avanti nella nostra storia nazionale, contro ogni totalitarismo. Così al giorno d’oggi il pericolo non è rappresentato dall’ipotetico ritorno tra noi dei vecchi totalitarismi neri o rossi. Il vero pericolo è rappresentato dalla diffusione capillare di un’ignoranza di massa, spacciata presuntuosamente per “cultura” e fatta propria anche dalla maggior parte del ceto politico che, non a caso, di questi tempi ci rappresenta. E questa iper-ignoranza rischia davvero di partorire un nuovo inedito totalitarismo. Qualcuno ha già inventato il termine “democratura”, intesa come ibrido tra democrazia e dittatura (di cui all’estero i campioni sono oggi Vladimir Putin e Donald Trump, che in Italia hanno fan come Luigi Di Maio e Matteo Salvini). Io – per non essere da meno – lancio l’espressione “ignorantismo”, un’ideologia priva di idee usata come arma di rincoglionimento di massa. I segnali non mancano. I presupposti neppure. E questo declino – se non verrà fermato da una pacifica rivoluzione mentale ancor prima che politica – non può che generare sempre più burattini e lupi mannari, greggi e burattinai. Forse il peggio deve ancora venire.
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