#cecità
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Volere una cosa che ci fa male, che ci intralcia ed ostacola, di cui non sentiamo la necessità
Ce lo stanno insegnando questi social, gli smartphone ?
Tutto questo avere, tenere… ma cosa poi?
Io non voglio più tenere, salvare nulla
Lascio, tolgo, rimuovo, RINUNCIO
Tanto ciò che è destinato a te troverà sempre il modo di raggiungerti
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" Restammo ancora a guardarci, io ben convinto a non porre per primo nessunissima domanda. Finché: «Io sono la zia» si decise riducendo la voce. «Lui dice che sono soltanto una cugina, ma in effetti sarei come e più di una zia, perché chi ha accudita la sua povera mamma fino all’ultimo se non io? Per sua fortuna è mancata prima di dover soffrire il peggio. Poi tutto è stato così difficile, nessuno potrà mai averne idea. Fino al giorno della disgrazia lo conoscevo poco, lui. Sempre stato in giro per il mondo, collegi accademia caserme. Ma da allora ho dovuto occuparmene io, si vede che così comandava il destino in Cielo. E sono ormai nove anni, sa?» Finii il caffè, rimasi con il bicchiere in mano. Il vetro era ancora fresco. «Nove anni» riprese in cantilena, quella sua voce sempre più sottile, «oggi è niente, ma in principio: oh, non voglio neanche ricordarlo il principio. Un giovane come lui, perdere gli occhi e una mano. Così: solo perché Nostro Signore non vuole nessuno contento a questo mondo. Alle manovre, giocando con una bomba. Dico giocando perché cosa sono poi queste manovre al giorno d’oggi?
Dia a me quel bicchiere.» «Il mio comandante mi ha spiegato» dissi. Per darmi un tono fissavo le mattonelle del pavimento. Ogni quattro formavano un disegno azzurro, una specie di arzigogolato fiore su fondo bianco. Dalle tende trasparenti alla finestra la luce si posava su quei fiori a raggera rilevandone l’esilità. «Un uomo come lui» seguitava adagio via via raggrinzendo e distendendo le rughe del volto. «Anche abbastanza ricco, sì. Lui ricco, mica io. Lo straccio d’una pensione di vedova, io. Ma lui: ricco. Neanche quarant’anni. Sano come un leone. E solo al mondo.» Schiacciai accuratamente la cicca nel piattino che mi aveva offerto come posacenere. «Gli stia ben dietro in questi giorni, mi raccomando» disse ancora. «Non deve mai lasciarlo solo. Lo sa, vero? E abbia pazienza, figlio mio, tanta santa pazienza. Non lo contraddica, non discuta per carità, gli dia sempre ragione, che lui parli o straparli. L’unica salvezza è rispondergli sempre sì. Sì e sissignore. Capito?» «Certo, signora.» "
Giovanni Arpino, Il buio e il miele, Baldini & Castoldi (collana Romanzi e Racconti, n° 5), 1993 [Edizione originale: 1969]; pp. 10-11.
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Non si può mai sapere in anticipo di cosa siano capaci le persone, bisogna aspettare, dar tempo al tempo, è il tempo che comanda, il tempo è il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole con la vita, la nostra.
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“La causa di ogni dolore esiste in noi, non nell’universo; esiste nella nostra ignoranza, non nella natura delle cose; esiste nella nostra cecità, non nella vita.”
— Buddha
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Nato due volte,
Grazie a Hermes la prima,
Dioniso ispira.
Accende lo spirito,
La rinascita insegna.
Brucia le labbra
Il fiato di Digonos*,
Spegne gli occhi.
La scottatura dice,
Quella cecità vede.
BaoUtnaFèretWaka, 18 gennaio 2025 - 6.23/7.10, Kontowood.
*Al primo commento la scintilla.
Pittore della Nascita di Dioniso – cratere di Ceglie del Campo V-IV aC ( museo archeologico di Taranto ? )
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«Perché siamo diventati ciechi?
- Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione.
- Vuoi che ti dica cosa penso?
- Parla!
- Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono» (José Saramago, Cecità)

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"No, la cecità non è un problema, almeno fino ad un certo punto. Il cieco vede gli odori, riconosce i movimenti dell’aria, si accorge con la sua sensibilità. Perché la bellezza quando appare, sposta tutti i sensi e si sa anche far ascoltare. No, la cecità non è un problema.
Il problema è avere occhi e non saper vedere, non guardare le cose che accadono, nemmeno l’ordito minimo della realtà. Occhi chiusi. Occhi che non vedono più. Che non sono più curiosi. Che non si aspettano che accada più niente. Forse perché non credono che la bellezza esiste. Ma sul deserto delle nostre strade, Lei passa, rompendo il finito limite e riempiendo i nostri occhi di infinito desiderio."
Patrizio Barbaro (citazione spesso attribuita a Pier Paolo Pasolini)
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Un capolavoro disturbante e profondo: Cecità di José Saramago torna in una nuova edizione 2025. Recensione completa su uno dei romanzi più potenti della letteratura contemporanea. Scopri di più su Alessandria today.
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Le donne risorgono le une nelle altre, le oneste risorgono nelle puttane, le puttane risorgono nelle oneste, disse la ragazza dagli occhiali scuri. Seguì un lungo silenzio, per le donne era ormai tutto detto, gli uomini avrebbero dovuto cercare le parole, e sapevano in anticipo che non sarebbero stati capaci di trovarle.
- Josè Saramago, Cecità
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L’alba degli scrittori viventi
In un giardino al di fuori di una biblioteca comunale fra le coordinate indecifrate di una posizione nella pianura padana, accadeva uno strano evento. Notte fonda, e la nebbia pervadeva il luogo, cosicché la visuale dell’ambiente rassomigliasse a quella guardata da dietro una cataratta. Nel buio e nella nebbia sospesa giaceva un lugubre silenzio, il quale veniva ciclicamente spezzato da calpestii maldestri dati dal rumore di deambulazioni claudicanti, di tonfi dovuti a incespichi e di versi indecifrabili pronunciati come ultrasuoni di pipistrelli che sondano l’ambiente. Non si riusciva mica a scorgere chi componesse questo quadro inquietante, quest’incubo vivido, per usare qualche eufemismo. Invisibili, ma reali: il giardino di quest’anonima biblioteca era diventato un focolaio di morti viventi che presero ad abitare il giardino, invadendolo a discapito dei vivi. Un quadro tetro, che racconta storie d’orrore, morte e distruzione. E invece no: il giardino, che non vede, non sente e non parla, esprimeva una strana felicità.
Gli zombi che ora senti bighellonare sono la reincarnazione in forma non-morta di aspiranti scrittori che presidiavano la biblioteca, lì presenti per raffinare le loro doti grazie agli insegnamenti di un professore e scrittore consolidato. Una sera, durante un giro di letture personali, lessero il racconto di questo ragazzo che agli occhi degli astanti apparve da subito un po’ strano: egli infatti non parlava, non s’esprimeva, non si muoveva, pareva non respirare, e l’unica sua forma di vita era data dalla lucentezza dei suoi occhi iridescenti e inamovibili, secchi come datteri e chiari come sabbia. Durante la lettura di un suo racconto – che parlava di luoghi oscuri resi accecanti dai troppi rumori, odori, sapori – prese a guatare coi suoi sinistri occhi i versi che componevano l’intermezzo di metà racconto, mentre il professore incominciava a pronunciarli:
oscuro il mondo
nera è l’anima,
in un coro sordo
essa gracida.
Le parole sembravano uscire dallo schermo e cambiare colore in una nauseabonda danza cangiante. La stanza pareva esalare un sospiro all’unisono, nonostante tutti fossero col fiato sospeso. Il professore sussultò. – magia nera. – disse sottovoce, guardando di sottecchi quel ragazzo, che invero ragazzo non era. Gli astanti cominciarono a sentirsi strani, e una puzza prese a fondersi alla paura collettiva. Puzza di carne andata a male, che pizzicava l’olfatto di quegli aspiranti scrittori che, inorriditi, iniziarono ad agitarsi sentendosi meno vivi a ogni ticchettio. In un battito di collera il professore si levò una scarpa e la lanciò contro quel demone, che al contatto balistico si dileguò in un fumo nero e purpureo, ma che lasciò intravedere per un’ultima, maledetta volta, quei ciechi occhi. Il prof riprese in una capriola la scarpa, nfilandosela di nuovo, e in fretta e furia chiamò in rassegna tutti i funzionari della biblioteca, facendosi scortare nella sezione “esoterismo e paganesimo”, istruendoli tosto su cosa cercare. Nella stanza attigua gli aspiranti scrittori lentamente deterioravano, rilasciando putrescina e cadaverina a ogni respiro. Pianti e abbracci s’instauravano nella camera, e tanti altri chiamavano al cellulare indefessi tutti i loro cari per dargli un probabile ultimo addio. Nessuno usciva dalla stanza, poiché il professore li ammonì di non evadere, rassicurandoli che avrebbe trovato il metodo per annullare la maledizione. – Professore, forse l’ho trovato. – disse trionfante una graziosa bibliotecaria che non lo era più così tanto, tra consunzione e miasmi. Il professore le scippò un pesante volume dalla copertina nera di mano e, freneticamente, si mise a leggere questo tomo intitolato Bafometto e le maledizioni terrestri; poi corse nella stanza dove gli aspiranti scrittori perdevano il profumo, la carne e le diottrie e disse, mentre ancora leggeva una pagina ingiallita: – anche se perderete la vista, non smetterete di vivere! Questa maledizione vi vuole morti ancor prima di morire, e l’unico modo per sollevarla dalla vostra anima è continuare a ricercare la vita. Anche se vi perdete, continuate a cercare il mondo con ciò che vi rimane. Fatelo, perché se vi lascerete andare all’anedonia data dalla maledizione, essa pervaderà finanche le vostre cervella e sarete perduti per sempre. Nemmeno il tempo di dirlo e gli aspiranti scrittori iniziarono a zombificarsi.
All’alba gli scrittori viventi girovagavano il perimetro, andando tastoni alla ricerca della vita perduta. Ciò che potevano sentire dal mondo era il freddo della nebbia che imperlava le carni corrotte, il gonfiore indotto dall’umidità che permeava i polmoni divenuti simili a quelli di un tabagista cronico, la sensazione del terreno scosceso che in realtà situava piano, ma che la loro deambulazione claudicante interpretava come accidentata. Questo era l’esterno, mentre l’interno, ovvero ciò che rimaneva della coscienza, era pervaso da due echi: uno diceva di “lasciar andare”, l’altra diceva di “restare aggrappato”. Il mondo, per gli scrittori viventi, era divenuto buio. Eppure, grazie all’eco che supplicava di tenere duro, pian piano riprendeva luce. Luce che si propagava dagli odori, dai suoni, dalle sensazioni tattili. Il cancello madido di nebbia condensata che pareva gelatina; i ramoscelli e le propaggini che accarezzavano con pungente destrezza le carni morte e gli occhi inutilizzabili; I rumori dovuti all’esplorazione, che si differenziavano in base a ciò che gli altri scrittori viventi calpestavano o sbattevano contro; l’odore cadaverico che veniva annullato dalle folate di vento di umida frescura, trasportando seco il profumo terreno di alberi spogli che, proprio come gli zombi, vivevano il mondo ciecamente, in foggia non morta. In questa loro ricerca della vita perduta successe qualcosa d’inaspettato. Il giardino della biblioteca, che da tempo immemore veniva guardato dalle persone che frequentavano la struttura, o dai passanti che passeggiando dinanzi lanciavano sguardi disinteressati, non s’era mai sentito guardato veramente. Uno crede che per guardare qualcosa basti vederla. Non è così: la vista è solo una parte che compone le molteplici prospettive che compone la realtà, e vederla – letteralmente – solo tramite gli occhi è come osservarla in forma sbiadita, come dietro una cataratta. Il giardino della biblioteca, sentendosi finalmente osservato dagli agenti dell’osservazione, ossia gli umani, cominciò a esalare dal terreno onde su onde di propagazione divina – ultraterrena. Queste onde venivano assorbite dagli scrittori viventi che, perpetuando la propagazione di queste onde di pura vita nei loro corpi in decomposizione, cominciarono a sentirsi meglio, e in un processo di restaurazione le carni e le funzioni degli scrittori viventi ritornarono ai corrispettivi proprietari.
Fra pianti e abbracci, dati dalla gioia di chi ha avuto paura di perdere tutto, gli aspiranti scrittori impararono una lezione importantissima quel giorno: d’ora innanzi avrebbero frequentato altri corsi tipo punto croce o lavorazione del legno, ma mai più corsi di scrittura creativa, ché c’era il rischio di rimetterci la pelle, per poco.
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Jose Saramago: Cecità
Non avevo mai sentito nominare questo libro di Saramago benché, credo, sia uscito nel 1995, quindi trent’anni fa. È un libro inquietante, ma non pauroso, perché io rifuggo i libri, i telefilm i film che vanno troppo sulla fantasia, su temi che immaginano realtà futuribili o troppo fantastiche ma che fanno paura. Però questo libro, questa storia mi ha colpito particolarmente perché pur nella sua…
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Racconti Festivi: Amori e Leggende
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" Intorno, botteghe chiuse, targhe stinte sui muri. Qualcuno spiava dalla fessura d’una persiana. Un uomo in bicicletta si avvicinò lentissimo, scese, poveramente con gesti dissanguati legò una catena tra i raggi della ruota prima di sparire in un portone. «Dunque: hai almeno un amico? O no. Insomma qualcuno. Un argomento. Sei nato sotto il cavolo? Dici mai niente di te» protestò all’improvviso. «Ma come fa a indovinare sempre» stupii. «Proprio nell’attimo in cui mi dicevo: parla.» Annuì ma senza compiacimenti. «Le mie virtù» riprese. «Per esempio, con me: sei amico? Sincero, sennò è inutile.» «Sì. Credo di sì. Perché?» «Perché e percome.» Si scosse nervosamente: «Che c’entrano tutti questi perché. Acqua fresca. Insomma: ti senti amico? Mi senti amico? O preferiresti star seduto con quegli altri. Là dietro a parlare di Boniperti Rivera. Di’ di’: sarebbe più che naturale». «Macché» risi intimidito. «Ti senti diverso da quelli là?» «Un po’. Non meglio. Solo diverso.» «Appunto. Football a parte, ti trovi bene col sottoscritto? Sì o no». «Ma sì. Davvero.» «Bah» ebbe una smorfia «crediamoci. Guarda che l’amicizia è un impegno serio.» Trangugiai il solito perché. Mi uscì un: «Sarebbe?» «Sarebbe che prima o dopo o forse anche mai si capisce potrei chiederti un grosso favore. Grosso ma possibile. Niente di impossibile» la voce era appena malinconica. «Benissimo signore.» «Benissimo signore» mi rifece il verso allentando finalmente la tensione del volto. «Ovvio che non pretendo giuramenti. Mi basta la tua parola. Giusto?» «Giusto.» «Devo dire che proprio muto non sei. Qualche sillaba ti viene fuori» rise. Mi confusi: «Eppure ho tanti discorsi da fare, in testa. Ma non mi escono». «Povera gioventù» sospirò ma distrattamente. E subito: «Andiamocene adesso. Hai notato? Un granello di ghiaccio nel whisky. Uno solo. Sempre così nei posti pitocchi. Torniamo al nostro bar di ieri sera». Era già in piedi, tutta la sua ossuta magrezza investita dal sole gettava in mezzo alla strada un filo d’ombra. "
Giovanni Arpino, Il buio e il miele, Baldini & Castoldi (collana Romanzi e Racconti, n° 5), 1993 [Edizione originale: 1969]; pp. 68-69.
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Erik Weihenmayer: Una Vita All’Insegna dell’Avventura
Erik Weihenmayer, nato il 23 settembre 1968 a Princeton, New Jersey, rappresenta un’ispirazione unica nel panorama mondiale. Atleta, autore, avventuriero e oratore motivazionale, è famoso per le sue imprese incredibili, rese ancor più straordinarie dal fatto che Erik è cieco. La sua “avventura” nella vita e nello sport è un esempio di come superare i limiti e trasformare le difficoltà in opportunità straordinarie.

L’Avventura delle Sette Vette
Nel 1995, Weihenmayer scalò il Denali, la montagna più alta del Nord America, segnando l’inizio del suo percorso verso le Seven Summits, le sette montagne più alte di ciascun continente. Il 25 maggio 2001, Erik raggiunse la vetta del Monte Everest, diventando il primo cieco a conquistare la montagna più alta del mondo. Questa straordinaria impresa lo portò sulla copertina del Time Magazine, che definì la sua realizzazione come “un risultato unico, che spinge i limiti di ciò che l’uomo è capace di fare”. Concludendo le Seven Summits nel 2002, Weihenmayer si unì a un’elite di alpinisti, ma rimase l’unico cieco a compiere tale avventura.
Nel 2008, aggiunse un ulteriore tassello alla sua carriera completando le “Eight Summits” con la scalata della Carstensz Pyramid in Indonesia. Questi successi rappresentano non solo imprese alpinistiche straordinarie, ma un messaggio di speranza e perseveranza.
Oltre l’Alpinismo: Nuove Avventure
Weihenmayer ha ampliato la sua avventura esplorativa anche ad altre discipline. Nel 2014, insieme al veterano della Marina Lonnie Bedwell, completò la discesa in kayak del Grand Canyon, affrontando 277 miglia di rapide formidabili. Questa impresa consolidò ulteriormente la sua reputazione di pioniere nel superare barriere apparentemente insormontabili.
Inoltre, Erik ha partecipato a competizioni come la Leadville 100, una gara di mountain bike ad alta quota, e a eventi come la Primal Quest, una gara avventurosa lunga 460 miglia. Nel 2006, fondò l’Adventure Team Challenge, una competizione che coinvolge squadre di atleti disabili e normodotati, promuovendo inclusione e spirito di squadra.
No Barriers: Un Movimento per l’Inclusione
Nel 2005, Erik co-fondò l’organizzazione non-profit No Barriers. Questo progetto mira ad aiutare persone con disabilità o provenienze diverse a superare le sfide e vivere una “vita senza barriere”. Attraverso programmi innovativi, No Barriers si è affermata come un punto di riferimento per chi desidera intraprendere la propria avventura personale verso l’autonomia e la realizzazione.
Formazione e Leadership
La formazione è un tema centrale nella vita di Erik. Dopo aver frequentato il Boston College, dove si laureò in inglese e comunicazione, intraprese una carriera come insegnante e allenatore di wrestling. La sua passione per l’insegnamento si riflette nella capacità di ispirare milioni di persone attraverso discorsi motivazionali e libri come Touch the Top of the World e No Barriers: A Blind Man’s Journey to Kayak the Grand Canyon.
Un’Avventura senza Fine
La storia di Erik Weihenmayer è un tributo allo spirito umano. Dalle pareti rocciose dello Yosemite alle vette ghiacciate dell’Himalaya, ogni impresa rappresenta un capitolo di un’avventura che continua a ispirare. I suoi successi non sono solo un esempio di coraggio individuale, ma un invito per chiunque a superare i propri limiti.
Nel 2023, Erik ha partecipato al film Life is Climbing, dimostrando ancora una volta che l’avventura è una dimensione universale che unisce persone di ogni provenienza. Che si tratti di scalare montagne, navigare rapide o affrontare le sfide quotidiane, Erik incarna la convinzione che “tutto è possibile” quando ci si impegna a vivere senza barriere.
Con il suo incredibile viaggio, Erik Weihenmayer ci insegna che l’avventura non è solo una serie di imprese fisiche, ma un modo di affrontare la vita con coraggio, resilienza e una profonda fiducia nelle proprie capacità.
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Nitrìtono - Cecità
NITRÌTONO nasce come duo strumentale più di dieci anni fa. Sono creatori di un post Metal/Noise-core molto potente, capace come pochi altri di dare un ordine preciso al proprio universo dipingendo arazzi musicali che ti trasportano in un fragoroso vortice di suoni carichi di energia dall’impatto violento e minimale.Il nome NITRÌTONO è l’unione di due parole: nitrito e trìtono. Il primo si…

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IL QUADRO NON VISTO
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