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#fotografia documentaria
fotopadova · 2 years
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La fotografia documentaria come forma d’arte (terza parte)
di Lorenzo Ranzato
 -- Due esperienze significative del documentarismo fotografico negli Stati Uniti
 Introduzione
Alla fine del 1929, con il crollo della borsa di Wall Street, si apre il periodo della Grande Depressione che coinvolge le economie dell’intero pianeta. Negli Stati Uniti, dopo alcuni anni di profonda crisi, nel 1933 si registra una svolta con l’elezione del nuovo presidente Franklin D. Roosevelt, che per superare la crisi fra il 1933 e il 1937 adotta un programma di riforme economiche e sociali, più noto con il nome di New Deal. In questo clima, maturano due esperienze significative nell’ambito della fotografia americana, esperienze che nascono con finalità diverse, ma che saranno entrambe determinanti per l’affermazione dello stile documentario negli Stati Uniti: la breve avventura del Gruppo f/64, costituitosi nel 1932 e scioltosi nel 1935, e le campagne fotografiche avviate nel 1935 dalla Resettlement Administration e continuate dal Farm Security Administration project, a partire dall’anno 1937 sino al 1943.
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Ansel Adams, Moonrise, Hernandez New Mexico, 1941
I fotografi del Gruppo f/64
Il Gruppo f/64 è una libera associazione di fotografi californiani che si forma nel 1932, con lo scopo di promuovere lo stile purista della straight photography. Il nome del gruppo deriva dall'impostazione più piccola dell'apertura del diaframma nelle fotocamere di grande formato, con la quale si ottiene una notevole profondità di campo che si estende dal primo piano sino all’infinito. Originariamente il gruppo è composto da 11 membri: Ansel Adams, Imogene Cunningham, Edward Weston[1], Willard Van Dyke, Henry Swift, John Paul Edwards, Brett Weston, Consuelo Kanaga, Alma Lavenson, Sonya Noskowiak e Preston Holder.
La prima uscita collettiva avviene con la Mostra collettiva di 80 fotografie, inaugurata il 15 novembre del 1932 al M. H. de Young Memorial Museum di San Francisco. L’obiettivo del gruppo è quello di rappresentare il mondo “così com’è”: a questo proposito è utile ricordare l’affermazione di Weston secondo il quale "la macchina fotografica dovrebbe essere usata per registrare la vita, per rendere la sostanza stessa e la quintessenza della cosa stessa, sia che si tratti di acciaio lucido o di carne palpitante".
In questa visione si collocano i paesaggi di Ansel Adams realizzati all’interno del Parco Nazionale dello Yosemite.
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Ansel Adams, Yosemite falls e Yosemite point, 1932
Le fotografie di Ansel Adams, che rappresentano la natura del West americano sono tra le immagini più conosciute al mondo. Fra le più famose è quella scattata nel 1942 nel nord-ovest del Wyoming: The Tetons and the Snake River.
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Ansel Adams, The Tetons and the Snake River, 1942
Altrettanto significative sono le fotografie di botanica di Imogen Cunningham, esposte durante gli anni '30 in numerose mostre personali: con le sue immagini di piante e fiori riesce a trasmetterci la perfezione delle forme della natura e i suoi incredibili dettagli.
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Imogen Cunningham, a sinistra Agave Design, 1920; a destra: Mano e foglia di Voodoo Lily, 1972
Edward Weston, fautore della fotografia diretta ha contribuito a consolidare il ruolo della fotografia come mezzo artistico moderno, influenzando un'intera generazione di fotografi americani. Weston inizia a fotografare nudi nei primi anni '20 e continua nei successivi vent'anni.
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Galleria con i temi più rappresentativi della fotografia di Edward Weston
Alla fine degli anni '20, si orienta verso la fotografia still life. Particolarmente conosciuta è la serie fotografica dei peperoni, fra i quali spicca l’immagine Pepper n. 30, che “viene spesso descritta come l’icona per eccellenza della natura morta modernista negli Stati Uniti”: “l’elegante profilo antropomorfo” ricorda le fotografie di nudo e “la superficie levigata, le forme arrotondate e i profondi punti d’ombra dell’oggetto” richiamano le sculture di Brancusi, anche se la critica contemporanea tende a vedere in queste immagini l’influenza di altri artisti europei, da Pablo Picasso ai surrealisti Joan Mirò e Jean Arp[2].
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Edward Weston, Pepper No. 30, 1930
Nel 1935, quando il gruppo si scioglierà e ogni fotografo andrà per la sua strada, la visione di questi fautori della fotografia diretta, che si era ormai affermata nel paese, andrà a influenzare il lavoro di altri fotografi americani, fra i quali Dorothea Lange e Walker Evans, che saranno impegnati all’interno dell’esperienza della Farm Security Administration (FSA).
Il “Farm Security Administration project”
Durante il periodo della Grande Depressione, uno dei settori maggiormente colpiti è stato quello agricolo, dove le condizioni di vita degli agricoltori e delle loro famiglie con il passar degli anni sono diventate sempre più critiche. Nell’ambito dei programmi di intervento statale del New Deal, finalizzati a dare assistenza al mondo agricolo, va ricordata l’istituzione dell’agenzia governativa Resettlement Administration (1935), trasformata nel 1937 in Farm Security Administration (FSA), attraverso la quale il governo americano incarica alcuni dei più importanti fotografi del tempo, per documentare il mondo rurale americano e le condizioni di vita della sua gente.
A capo del progetto - che ha forti connotazioni politiche e rimane attivo fino al 1943 - viene messo Roy Stryker, economista e assistente del più famoso Rexford Tugwell, consulente di Roosevelt. Stryker nel corso di otto anni riuscirà a realizzare “la collezione di foto di documentazione sociale più ricca di tutto il XX secolo”[3], costituita per lo più da fotografie in bianco e nero di grande potenza narrativa e che alla fine verrà trasferita alla Biblioteca del Congresso.
Stryker interpreta il suo mandato in maniera molto ampia, con l’obiettivo di “restituire un’immagine dell’America rurale alle soglie dell’età moderna, da trasmettere alle generazioni seguenti”[4] e a questo scopo ingaggia un nutrito gruppo di fotografi – più di 40 - che nel corso degli anni scatteranno migliaia di fotografie, fino al 1943. Fra questi ricordiamo: Arthur Rothstein, responsabile del laboratorio, Theodor Jung, Ben Shahn, Dorothea Lange e Walker Evans che si affermerà come uno dei fotografi più influenti del Novecento. A questo primo gruppo in seguito si uniranno, fra gli altri, Jack Delano, John Vachon e Gordon Parks.
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Fotografie di Arthur Rothstein
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Fotografie di Dorothea Lange
I confini tra il lavoro dei fotografi della FSA, descritti come “sociologi con la macchina fotografica”, e il fotogiornalismo - che in quell’epoca iniziava ad affermarsi grazie alla nascita delle riviste illustrate come Fortune, Life e Look – sono piuttosto “fluidi”, soprattutto perché molte foto ciclicamente vengono pubblicate sulle riviste che erano in grado di raggiungere un pubblico molto vasto [5].
La differenza sostanziale riguarda “l’atteggiamento davanti al soggetto, la cosiddetta osservazione partecipante”[6]. “Malgrado un certo distacco artistico, questa tecnica dava luogo a una fotografia empatica che, invece di trasformare la situazione in un racconto di immagini confezionato, si concentrava sull’immediatezza e la drammaticità dell’immagine”[7].
La mancanza di spazio non ci consente di raccontare in modo esaustivo le vicende della FSA, che comunque va ricordata come “uno dei grandi progetti fondativi in cui la fotografia documentaria sociale sia stata adottata come metodo di ricerca sociologica”[8].
Per questo motivo, come approfondimento, suggeriamo il link alla Library of Congress[9], dove è possibile consultare la collezione fotografica FSA, completamente digitalizzata e resa disponibile al pubblico nella sua interezza.
Inoltre, consigliamo la lettura del libro già citato nelle note: New Deal Photography, USA 1935-1943, edito da Taschen, che raccoglie “una selezione rappresentativa” di stampe in bianco e nero e a colori del vasto archivio FSA.
Infine, rinviamo agli articoli di Paolo Felletti Spadazzi, presenti in questo stesso sito, per chi volesse avvicinarsi allo studio della complessa figura di Walker Evans, che già durante la turbolenta collaborazione con la FSA ha cercato di superare il tipico approccio del “documentario sociale”, riconoscibile nella fotografia di Dorotea Lange, per esplorare nuove forme di “fotografia documentaria poetica”, che cercherà di sviluppare nelle sue opere successive, proponendo lo stile documentario come possibile sintesi tra due tendenze antitetiche che contrappongono la “visione personale” alla “visione della società”[10].
 Appendice: il Sistema Zonale di Ansel Adams
Ansel Adams ha un ruolo importante nella storia della fotografia non solo per i suoi inimitabili paesaggi, ma anche per aver ideato il Sistema Zonale (Zone System), assieme al suo collega Fred Archer, fotografo noto per i suoi ritratti delle star del cinema di Hollywood. Il Sistema Zonale nasce negli anni ‘40, in funzione della fotografia analogica.
La scala tonale dei grigi presente in una scena fotografica (e quindi nella fotografia scattata) viene divisa in 11 parti, dette zone, che vanno dal bianco puro al nero assoluto. Ogni zona rappresenta un determinato tono di grigio. Questa suddivisione della scala continua in più gradini permette di riconoscere nella fotografia b/n 11 specifici livelli di grigio, che hanno una variazione di uno stop di luminosità dall’uno all’altro.
- La zona 0 e la zona 10 corrispondono rispettivamente al nero assoluto e al bianco assoluto (equivalenti al valore zero e al valore 255, oggi presenti nell’istogramma digitale). In entrambe le zone si ha una perdita di dettaglio, dovuta alla sottoesposizione o alla sovraesposizione;
- nelle zone 1 e 9 si registra un piccolo cambio di tonalità rispetto alla zona precedente, ma anche in questo caso la trama del soggetto non è distinguibile. Queste zone sono utili per marcare i punti di massimo contrasto dell'immagine;
- nelle zone 2 e 8 sono presenti le ombre profonde e le alte luci: si tratta di zone  fortemente sottoesposte o fortemente sovraesposte, ma che conservano un minimo dettaglio del soggetto;
- infine le zone 3, 4, 5, 6, 7 sono quelle che codificano i diversi livelli di grigi intermedi, più ricchi di dettagli che danno carattere alla fotografia.
La zona 5, che rappresenta il grigio medio, va considerata sotto il profilo operativo come la zona-base più significativa e centrale in termini esposimetrici della scena osservata, attorno alla quale impostare l’esposizione dell’immagine con una determinata coppia tempi/diaframma, in modo da “restituire, in accordo al concetto di ‘previsualizzazione’ (anch’esso adamsiano) la massima scala tonale dell’immagine, in grado di contenere sia i dettagli in ombra, sia quelli presenti sulle luci”*.
“La previsualizzazione è ciò che consente all’abilità del fotografo di far emergere, dal negativo prima, e dalla stampa poi, tutto il potenziale espressivo, in termini di ricchezza tonale, contenuto nell’immagine che il fotografo si accinge a riprendere”. Adams ritiene che: “visualizzare un’immagine […] consiste nell’immaginarla, ancor prima dell’esposizione, come una proiezione continua, dalla composizione dell’immagine fino alla stampa finale”.
* Luca Chistè, Ansel Adams e il Sistema Zonale analogico/digitale per la fotografia in bianco/nero,
in: http://www.cuneofotografia.it/pdf/RPSistemaZonale.pdf. Cfr. anche il manuale scritto da Ansel Adams: La fotocamera e Il negativo, Zanichelli, 1987.
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[1] Per un approfondimento su questi 3 importanti autori segnaliamo:
- Ansel Adams' 400 Photographs, 2004, (ed. inglese), che presenta una panoramica completa del suo lavoro;
- Imogen Cunningham – A retrospective di Paul Martineau, 2020, (ed. inglese) a cura del J. Paul Getty Museum;
- Edward Weston, 2020, (ed. inglese) che contiene le iconiche e classiche nature morte, i nudi e i paesaggi del fotografo.
 [2] Juliet Hacking (a cura di), Fotografia, la storia completa, Atlante, 2012, p.283.
 [3] Peter Walther (a cura di), New Deal Photography, USA 1935-1943, TASCHEN, 2016, p. 29.
 [4] Peter Walther, ibidem.
 [5] Peter Walther, p. 34.
 [6] Peter Walther, ibidem.
 [7 Peter Walther, ibidem.
 [8] David Bate, La fotografia d’arte, Einaudi, 2018, p. 106.
 [9] https://www.loc.gov/pictures/collection/fsa/.
 [10] David Bate, op. cit., pp. 107-08.
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pikasus-artenews · 9 months
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BERTIEN VAN MANEN Let’s sit down before we go
BERTIEN VAN MANEN è una voce unica nella fotografia documentaria con il suo linguaggio visivo intriso di empatia e rispetto per la vita quotidiana dei suoi soggetti
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fashionbooksmilano · 1 year
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Maria Mulas Lavori in corso
Testo : Mario Fortunato, Intervista : Laura Lepetit
Studio d'Arte Raffaelli, Trento 2008, 40 pagine, 30 x 20 cm
euro 25,00
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Catalogo della mostra tenuta a Trento tra il 13 marzo e il 16 maggio 2008 per la rassegna “Sentieri Trentini”.
Volume in gran parte illustrato con belle riproduzioni a colori delle fotografie dell'artista. Con un'intervista a Maria Mulas di Laura Lepetit. Testo di Mario Fortunato, anche in inglese.
Descrivendo in un’intervista le sensazioni provate durante un viaggio attraverso il Trentino, Maria Mulas (Milano, 1956) racconta: “La mia origine stava in quei luoghi, mi sentivo felice, pervasa da una calma infinita”. La fotografa è infatti di origine trentina da parte di madre e la sua mostra rientra nel ciclo espositivo “Sentieri Trentini”, che annualmente porta lo Studio Raffaelli a invitare un artista locale o nazionale per raccontare la Regione attraverso i propri mezzi artistici. Nella prima parte della mostra, Mulas cattura ambienti, paesaggi e scorci cogliendone l’aspetto più intimo, distaccandosi in questo modo dalle rappresentazioni abituali e dall’approccio della fotografia documentaria. Al Castello del Buonconsiglio immortala gli affreschi cinquecenteschi di Romanino, che la affascinano non soltanto per la qualità artistica intrinseca ma per l’effetto che la luce tagliente crea, penetrando dalle vetrate. L’obiettivo si sofferma su alcuni particolari degli affreschi senza rivelarne l’interezza e creando in questo modo quadri autonomi. Una vicinanza tra la fotografa e i suoi soggetti si nota invece nei ritratti. Le fotografie di artisti e collezionisti scattate tra gli anni ‘70 e ‘90 non sono mera documentazione: le espressioni e gli sguardi che i protagonisti rivolgono all’obiettivo rivelano rapporti di amicizia e complicità. Tra i protagonisti della scena internazionale dell’arte ci sono Henry Moore, Andy Warhol, Joseph Beuys, Fausto Melotti, Bruce Nauman, Keith Haring, che guardano attraverso la lente della macchina fotografica rivelandosi nella propria intimità.
30/06/23
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cinquecolonnemagazine · 3 months
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We Are Who We Are
Triennale Milano presenta We Are Who We Are Stratificazione di linguaggi nell’arte contemporanea, un progetto di Damiano Gullì in collaborazione con Annika Pettini dedicato ad approfondire pratica e poetica di artiste e artisti italiani caratterizzati da uno sguardo trasversale e un approccio sempre più fluido rispetto alle diverse discipline. Gli incontri – parte del programma di Triennale Estate – sono strutturati in tre conversazioni one to one: ogni appuntamento è dedicato a un singolo artista con l’obiettivo di far emergere, attraverso un confronto intimo e spontaneo, la capacità di analisi e narrazione che è racchiusa nei processi di ricerca artistica e le diverse modalità in cui essa si declina. Mercoledì 10 luglio, alle ore 19.00, il terzo appuntamento vede Annika Pettini, scrittrice e responsabile Cultura per Edizioni Zero, in conversazione con l'artista Alba Zari. Alba Zari (Bangkok, 1987) si è laureata al DAMS di Bologna. Ha frequentato un corso intensivo di Fotografia Documentaria presso l’International Center of Photography di New York e ha conseguito un Master in Fotografia e Visual Design presso la NABA di Milano. Utilizza il mezzo fotografico come strumento di indagine e autoanalisi, interrogandosi sulla sua capacità di funzionare come traccia, indizio e sulla sua natura ingannevole. Il suo approccio apparentemente rigoroso e scientifico nasconde una capacità interpretativa profondamente poetica dei temi della memoria e dell'identità. Fin dall'infanzia ha condotto una vita nomade che l'ha portata a vivere in diverse città e paesi. La sua esperienza come viaggiatrice influenza e si riflette nella sua pratica fotografica, che esplora temi sociali, come ad esempio i suoi visual studies sui centri di salute mentale e sui diffusi disturbi alimentari della società americana.  Le sue ultime opere includono Fear of Mirrors (2023-2024), Rakshasa (2023-2024), Occult (2019-2023), un visual study sulla propaganda della setta dei Bambini di Dio. The Y- Research of Biological Father (2017) nasce da un viaggio alla ricerca delle sue origini attraverso il padre che non ha mai conosciuto. Places (2015), un libro e un progetto fotografico realizzato con ElementWo che si occupa di analisi della comunicazione visiva della propaganda ISIS. Ha pubblicato il breve documentario FreiKörperKultur (2021) presentato in anteprima alla Settimana della Critica di Venezia. Sta lavorando al suo primo documentario White Lies. Con il progetto Y è parte del Foam Talents 2020.  Il suo lavoro è stato presentato a festival e musei internazionali come MAXXI, Roma, London Art Fair, Circulation Paris e Athens Photo Festival. Ha vinto il premio speciale della giuria a Images Vevey (Svizzera, 2022) con l'opera Occult, il Premio Graziadei (2021) e il secondo premio al Backlight Prize (Finlandia, 2020). Le sue opere sono presenti in collezioni private e musei, tra cui Fotomuseum Winterthur, MAXXI, Fondazione Orestiadi e Collezione Donata Pizzi. Read the full article
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canesenzafissadimora · 6 months
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La fotografia è per natura un'arte documentaria.
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August Sander
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unfilodaria · 7 months
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[𝐬𝐤𝐚𝐦:𝐚❜𝐫𝐚] 𝐧𝐨𝐧 𝐜𝐚𝐝𝐞𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐭𝐞𝐧𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞. La mostra fotografica sarà inaugurata giovedì 14 marzo alle ore 19.00
[𝐬𝐤𝐚𝐦:𝐚❜𝐫𝐚] - scammaro - nz camm'r - maharram - kammaron - Storie di Quaresima e di penitenze.
[𝐬𝐤𝐚𝐦:𝐚❜𝐫𝐚] racconta, attraverso la fotografia documentaria, i Riti della Settimana Santa in Campania, Puglia e Calabria. Muovendosi dall’interpretazione della penitenza e del rapporto fra “La Violenza e il Sacro” di René Girard, introdurrà la mostra 𝑨𝒏𝒏𝒂𝒍𝒊𝒔𝒂 𝑪𝒆𝒓𝒗𝒐𝒏𝒆, antropologa visuale.
La 𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐚 fotografica sarà visitabile gratuitamente fino al 30 marzo, dal martedì al sabato negli orari 10.00 - 13.00 / 16:30 – 21.00
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claudiotrezzani · 9 months
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Almeno i fori erano più piccoli.
E' così che una pellicola Super 8 - a parità di larghezza "fuori tutto", per usare una terminologia nautica -  riusciva ad offrire una superficie impressionabile superiore a quella dell' 8 millimetri non Super.
Già, superficie impressionabile.
Aveva proprio da risultare impressionata - anzi, dolcemente vittima della Sindrome di Stendhal -  la pellicola, lì.
Dove, lì?
Al ghiacciaio della Mer de Glace, Chamonix.
Il risultato che ne ricavai fu stomachevole:
un traballante cortometraggio senza costrutto d'inquadratura ed ispirazione.
Del resto, avevo una decina d'anni.
Poco dopo il sito è visitato da Massimiliano Abboretti.
Tutta un'altra musica, invece della mia scomposta danza.
E sì, la superficie sensibile - formato Leica con macchina Nikon, per Massimiliano - maggiore aiuta, ma il La sonante s'intona con idea  vigorosa e  felicità d'esito.
Massimiliano è stato in grado d'elargirci intera la maestosità del luogo.
Accadeva nel 1978.
Ora la cosa è miltoniana.
Sì, come in Paradise Lost dello scrittore inglese.
Ma se in John la caduta era metaforica, qui è reale.
Qui, ora, vicino Chamonix, intendo.
Di tante case non è rimasto che qualche brandello di muro, tonante declamava Ungaretti.
Di tanti ghiacciai non è rimasta che una pallida ombra, qui, ora, vicino Chamonix.
Così, Massimiliano è cantore di un Paradiso Perduto.
Sapete, l'istanza documentaria in fotografia sovente mi trova tiepido alla delibazione.
Con Massimiliano, no.
Non perché non vi sia - c'è, e sprigiona graffiante potenza - l'istanza documentaria, qui.
Ma perché in Massimiliano si salda con profonda sensibilità artistica e sapiente perizia tecnica.
Il meglio dei due mondi, ed insomma.
Così la Fotografia, quando linguaggio esprime.
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Claudio Trezzani
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conte-olaf · 10 months
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Fotografie per/dalla Palestina
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lamilanomagazine · 1 year
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Dal 30 settembre al 29 ottobre la XIV edizione del Festival della Fotografia Etica di Lodi
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Dal 30 settembre al 29 ottobre la XIV edizione del Festival della Fotografia Etica di Lodi. Il Festival della Fotografia Etica è diventato ormai, da fine settembre a fine ottobre di ogni anno, un evento atteso da migliaia di persone – appassionati di fotografia ma non solo – che raggiungono Lodi da tutta Italia per immergersi in un concentrato di storie da tutto il mondo, per riflettere e stupirsi. «Storie uniche, emozionanti e necessarie», come dichiara Alberto Prina, Direttore del Festival. Quasi 100 fotografi, da 40 paesi diversi e 5 continenti, oltre 700 immagini esposte e 20 mostre. Questi i numeri della quattordicesima edizione del Festival dal 30 settembre al 29 ottobre. Cuore espositivo è sempre il World Report Award - Documenting Humanity. A partire dalla categoria MASTER, vinta da Evgeniy Maloletka con il reportage L'assedio di Mariupol, in cui ha raccontato il drammatico assedio russo alla città ucraina, devastata e con decine di migliaia di civili che hanno perso la vita o costretti alla fuga. La categoria SPOTLIGHT va a Bob Miller per il reportage The Last Generation: Zoey's Dream, in cui i sogni dell'adolescente Zoey Allen si scontrano con la crisi delle medie aziende agricole americane, in cui anche lei vive; menzione speciale nella sezione Spotlight va a Sarah Pabst e al suo Everyone in Me is a Bird, lavoro intimistico in cui il lutto per la perdita e la gioia per una nuova nascita vanno a plasmare la percezione e l'esperienza della quotidianità.  La categoria SHORT STORY è stata vinta da Alessandro Cinque con il reportage Alpaqueros, che racconta la questione della crisi climatica attraverso la situazione che stanno vivendo gli allevatori di alpaca in Perù; menzione speciale nella sezione Short Story va a Luisa Lauxen Dörr e alla sua Imilla, che è il nome di un collettivo di skaters boliviane che indossano abiti tradizionali per combattere contro la discriminazione; la categoria STUDENT, vinta da Gerd Waliszewski con Between the Sirens, proporrà la dura realtà dell'Ucraina invasa dalla guerra, in cui i giovani cercano di vivere la loro vita quotidiana che viene regolarmente interrotta dalle sirene d'allarme e dai missili in arrivo. La sezione SINGLE SHOT è stata infine vinta da Mohammad Rakibul Hasan con l'immagine The Blue Fig, una riflessione sul riscaldamento globale che sembra avere un impatto sproporzionato su alcuni Paesi piuttosto che altri, come ad esempio il Bangladesh. Tutte le mostre saranno visitabili presso Palazzo Barni, tranne il percorso del Single Shot esposto alla Banca Centropadana. Anche quest'anno Lodi, in collaborazione con Bipielle Arte, accoglierà l'unica tappa lombarda della mostra internazionale itinerante del World Press Photo, il grande concorso internazionale di fotogiornalismo e fotografia documentaria più famoso al mondo che si svolge da oltre 50 anni e indetto dalla World Press Photo Foundation di Amsterdam. Quasi 150 immagini che arrivano dai 5 continenti per raccontare storie incredibili. Si tratta di lavori firmati per le maggiori testate internazionali, come National Geographic, BBC, CNN, The New York Times, Le Monde, El Pais. Grande attenzione, come sempre, sarà per la sezione Uno Sguardo sul Mondo, visitabile presso il Palazzo della Provincia, che propone un percorso realizzato in collaborazione con Agence France-Press sulla crisi climatica. Siccità, incendi, inondazioni sono sempre più frequenti così come l'innalzamento del livello del mare, lo scioglimento dei ghiacciai e le ondate di caldo, fenomeni che interessano diverse aree del pianeta. Ogni giorno le notizie raccontano di un disastro naturale che accade da qualche parte e di persone colpite da fenomeni improvvisi, potenti e incontrollabili. Il consenso scientifico sul fatto che il cambiamento climatico sia in atto e che sia causato dall'uomo è forte. In ogni angolo della Terra, i fotografi di AFP hanno documentato gli effetti e le conseguenze che stanno minacciando sia la fauna selvatica che gli esseri umani.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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A Camera Torino Dorothea Lange e la sua Migrant Mother
Dal 19 luglio 200 opere sulla crisi climatica e le migrazioni (ANSA) – TORINO, 19 GIU – È Dorothea Lange la nuova protagonista dell’estate di Camera.    Dopo Eve Arnold continua il viaggio nella storia della fotografia con un’altra maestra dell’immagine documentaria, autrice di una delle icone più celebri del Novecento: la toccante Migrant Mother scattata nel 1936. Curata dal direttore artistico…
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fotopadova · 2 years
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Storia della fotografia documentaria – Seconda parte
di Guillaume Blanc da https://www.blind-magazine.com (trad. G.M.)
 --- La sfida sociale: documentare per riformare
 --- Accanto agli sviluppi di cui la fotografia ha beneficiato, ed a quelli che ha sostenuto nel campo del sapere scientifico e archivistico, l'Ottocento è stato anche un campo di sperimentazione per la fotografia dal punto di vista sociologico. Mentre le grandi città occidentali si stanno modernizzando cercando di migliorare la loro logica urbana, la loro sicurezza e la loro igiene, cresce l'attenzione rivolta alle fasce sociali più svantaggiate. Si presume che, perché una città sia sana, sia necessario in particolare porre rimedio alla misera situazione delle classi lavoratrici che spesso vivono in quartieri fatiscenti, sporchi e pericolosi. La fotografia giocherà un ruolo importante nella conoscenza di questi ambienti sociali, mostrandone le reali condizioni di vita attraverso immagini,
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 Empire State Building, New York, 1931 © Lewis Hine
Lewis Hine (1874-1940), formatosi in pedagogia e sociologia, cercò di utilizzare la fotografia come documento a supporto dei suoi sforzi investigativi. Sviluppa così un rapporto completamente diverso con i suoi soggetti, che nasce molto meno da un atteggiamento predatorio come Riis che da una genuina benevolenza nei loro confronti. La sua prima serie importante, Climbing into America ("Sbarcare in America"), iniziata nel 1904, lo testimonia: Hine ritrae i migranti confinati a Ellis Island, l'isola dove venivano messi in quarantena gli immigrati che arrivavano a New York. Mentre gli abitanti li fantasticano e li immaginano nella loro luce peggiore, sviluppando un crescente movimento di xenofobia con i crescenti arrivi di migranti, Hine cerca, attraverso le sue fotografie, di ispirare benevolenza e rispetto piuttosto che paura. Con ritratti delicati, talvolta ricorrendo a forme classiche della storia dell'arte, come nel caso di questa Madonna col Bambino, sviluppa una fotografia documentaria sensibile, facendo appello alle emozioni dello spettatore.
È la stessa strategia che lo guiderà dal 1906, quando inizia una collaborazione con il Comitato Nazionale sul Lavoro Minorile, che lo occuperà per dodici anni. Negli Stati Uniti in questo momento si stima che due milioni di bambini siano costretti a lavorare: occorre quindi far reagire l'opinione pubblica per avviare azioni politiche e portare al divieto totale del lavoro minorile ed alla condanna dei loro “datori di lavoro”. Qui la fotografia si riallaccia al suo valore probatorio: ogni volta che Hine ritrae un bambino che lavora illegalmente, aggiunge aggiunge un elemento di prova alla causa del lavoro minorile. Allo stesso tempo, le sue immagini contengono anche una carica emotiva capace di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni di vita di questi bambini. Hine vi aggiunge, come aveva fatto per i migranti, osservazioni scritte che operano anche sul doppio registro prova/emozione.
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Madonna col Bambino, Ellis Island, 1908 © Lewis Hine
Hine si occupa anche della presentazione delle sue immagini e utilizza diversi mezzi: dalle conferenze con proiezione, attraverso manifesti, pubblicazioni, persino mostre, Hine non esita a utilizzare metodi pubblicitari per dare sempre più forza alle sue immagini attraverso la loro diffusione. In particolare, ha sviluppato il concetto di fotoracconto, una sorta di discorso visivo scandito dal testo, che è venuto a costituire per lui, sociologo, il cuore della pratica documentaristica.
L'associazione dell'immagine e del testo è ampiamente imposta nei decenni tra le due guerre, in quanto la fotografia documentaria, è diffusa principalmente dalla stampa, in particolare attraverso il modello del reportage illustrato da fotografie, che riunisce giornalisti, specialisti o scrittori e fotografi. Tuttavia, negli anni Trenta, i contorni della fotografia documentaria si fanno più netti e sono sempre più oggetto di dibattito, che si concentra in particolare sulla questione dello stile. Inizia così a prendere piede una pratica diffusa, che si era sviluppata in ambienti molto diversi. Gli anni tra le due guerre furono segnati da due fenomeni che guidarono questo sviluppo: da un lato, il risveglio di una fibra sociale e politica di fronte alla Grande Depressione che imperversava negli Stati Uniti; dall'altro, il sempre più affermato riconoscimento della fotografia come arte con il suo utilizzo da parte delle avanguardie europee come il Surrealismo. La fotografia documentaria, come nota lo storico Olivier Lugon, aveva dunque in quel momento la possibilità di una duplice riforma, sociale e artistica, intesa come “capacità di risorsa”.
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Messenger Boy per la Mackay Telegraph Company, Waco, Texas, 1913 © Lewis Hine
Il termine stesso "documentario", usato nel cinema per designare la rappresentazione nuda e cruda della realtà e in contrasto con i film degli studi di Hollywood, apparve nel 1928. Fu ripreso molto rapidamente nella fotografia, sia in francese che in tedesco e inglese. È da questo momento che il documentario si costruisce attorno all'idea che è necessario testimoniare i fatti senza scadere in una rappresentazione superficiale e mobilitando un trattamento creativo.
L'incarnazione più famosa di questo approccio rinnovato è la campagna fotografica della Farm Security Administration (FSA) , che ha fatto emergere il documentario come un genere a sé stante. La FSA è stata creata nel 1935 come parte del New Deal, la risposta politica alla crisi economica. Deve venire in aiuto dei piccoli contadini americani. Diretto dall'economista Roy Stryker, questo programma fotografico ha grandi ambizioni e riunisce due grandi tendenze nel progetto documentaristico, offrendo sia una testimonianza sociale che un'indagine sul patrimonio, per agire sul presente e per preparare il futuro. Tra i quindici fotografi reclutati, quattro si distinguono e testimoniano le sfide della FSA:Arthur Rothstein, Ben Shahn, Walker Evans e Dorothea Lange .
Arthur Rothstein (1915-1985) propone una fotografia molto narrativa, gioca sull'emozione: moltiplica gli effetti, con angoli di visuale come luci drammatiche e si affida anche a sinossi prestabilite, a monte dei reportage. Presuppone quindi che si possa camuffare, se non organizzare la realtà per meglio restituirla. Questa flessibilità che si concede non è però priva di pericoli: non solo viene denunciata un'estetizzazione della povertà, ma viene anche accusato di produrre falsa documentazione, ad esempio quando utilizza un teschio di bue – simbolo della siccità e della miseria contadina – che sposta per averlo su diversi sfondi. Ma Stryker lo sostiene con forza: lui stesso prepara dei shooting scripts, quasi degli scenari fotografici, che poi consegna ai fotografi.
Ben Shahn (1898-1969) , nel frattempo, è particolarmente guidato nella sua pratica dalla sua attività principale, la pittura. Nel filone del realismo sociale, in voga negli ambienti artistici di sinistra dell'epoca, ricerca soggetti che gli permettano di trovare un equilibrio tra dimensione simbolica e rappresentazione oggettiva della realtà.
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Madre migrante, 1936 © Dorothea Lange
Dorothea Lange (1895-1965) è stata una delle fotografe più influenti della FSA. Dapprima fotografa di studio, si interessa alla strada negli anni '30, vittima indiretta della crisi. Iniziò nel 1935 a collaborare con Paul S. Taylor, professore di economia politica che divenne suo marito. Insieme hanno messo a punto una strategia che unisce testo e immagini, permettendo di associare la fotografia a dichiarazioni di informazioni importanti, che ne guidano la lettura. Prende la stessa idea durante il suo lavoro per la FSA, durante il quale produce alcune delle immagini più forti della missione. Scopriamo un approccio sensibile, veramente attento ai problemi che affronta. Vi associa molte note. I suoi rapporti con Stryker, che ha deciso da solo lo sfruttamento delle foto, sono stati delicati, ma Lange ha colto l'occasione per portare avanti il ​​suo progetto e ha dato alla luce il libro An American Exodus A record of human erosion, scritto insieme al marito. Costituisce un equivalente di ciò che il cinema può fornire in termini di documentari: una voce fuori campo con commenti teorici, una voce fuori campo con testimonianze riportate e l'immagine attraverso la fotografia. Il fatto di citare direttamente le persone rappresentate permette di rimanere il più vicino possibile alla realtà della loro situazione.
Accanto a Lange, anche Walker Evans (1903-1975) costruisce una singolare posizione che sarà decisiva per la storia del documentario. Prendendosi grandi libertà con le istruzioni di Stryker, estende il programma a una più ampia documentazione della cultura vernacolare americana. Le sue fotografie adottano uno stile dalle caratteristiche marcate : uso di una fotocamera di grande formato, descrizione meticolosa nei dettagli con perfetta nitidezza, una composizione chiara e frontale, per dare un'immagine che assume una forma di neutralità. Così, Evans costruisce un approccio che può sembrare contraddittorio: la cancellazione di qualsiasi presenza o intervento dell'autore costituisce in ultima analisi una firma. Porta così l'idea che il documento fotografico non ha solo una funzione (testimoniare) ma anche una forma. Propone così quello che chiama uno “stile documentaristico” in un atteggiamento decisamente modernista. Spinge ulteriormente questa logica con una mostra al MoMA , American Photographs , presentata nel 1938. Il catalogo alla stessa dedicato presenta le fotografie liberate da qualsiasi testo, le didascalie vengono restituite alla fine del libro. Le immagini devono quindi produrre significato da sole, in un approccio opposto a quello di Lange. La varietà delle immagini (ritratti, scene di strada, vedute architettoniche, pubblicità, ecc.) offre quindi meno un resoconto su un argomento che uno stato della cultura americana negli anni '30. Lo stesso principio di potenziamento delle immagini governa il libro Let Us Now Praise Famous Men co-pubblicato con lo scrittore James Agee, prodotto nel 1936 e pubblicato nel 1941: le immagini di Evans sono presentate all'inizio del libro, prive di testo, e forniscono un'ambientazione immaginaria che orienterà la lettura del romanzo successivo . Con le sue strategie, Evans fa del documentario un'arte a sé stante.
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Stand lungo la strada vicino a Birmingham, Alabama, 1936 © Walker Evans
Se la FSA ha segnato così tanto la storia della fotografia documentaria, è ovviamente per le sue dimensioni e grazie ai fotografi che l'hanno nutrita con le loro immagini. Ma è stato anche un lavoro collettivo, che è un aspetto importante del documentario sociale. In linea con le idee riformiste della sinistra, il primato del collettivo sulla singolarità dell'autore permette di evidenziare una forma di ritiro, dove l'artista si nasconde dietro il suo impegno per una causa che lo supera.
Dagli anni '20, possiamo osservare un movimento internazionale di fotografia della classe operaia promosso dal Partito Comunista. Così si pensava in Germania l' Arbeiter Illustrierte Zeitung (AIZ, Giornale illustrato dell'operaio ), pubblicato dal 1926 al 1933: proletari e lavoratori sono chiamati a produrre una propria documentazione per descrivere le proprie condizioni di vita più vicine alla realtà.
L'idea si fece strada negli Stati Uniti dove nel 1930 fu creata una Workers Film and Photo League, guidata principalmente da Paul Strand e Berenice Abbott, basata su due particolarità: la messa al lavoro del proletariato stesso per garantire la propria documentazione, ma anche l'associazione del cinema e dei documentari fotografici. Cinque anni dopo la sua creazione, però, all'interno della Lega si verificò una scissione che diede vita a due distinte organizzazioni, una legata al cinema e l'altra alla fotografia, allora semplicemente chiamata The Photo League. Diventa una specie di scuola, i cui programmi si basano su progetti di documentazione collettiva. Il più famoso di questi è diretto da Aaron Siskind (1903-2001) e intitolato Harlem Document. Le immagini risultanti sono venate di sentimentalismo, a differenza dell'approccio di Evans: giochiamo su una drammatizzazione della luce, e la presenza del fotografo è più palpabile. La carriera di Aaron Siskind, che dalla fine degli anni Quaranta ha abbandonato ogni desiderio di testimonianza per dedicarsi alla ricerca formale astratta, indica chiaramente il cambiamento avvenuto nel campo del documentario con la seconda guerra mondiale e dopo di essa.
Il documentario, infatti, si rinnova radicalmente dagli anni 40. La sua forma tradizionale, incentrata su temi difficili, è associata agli anni bui della crisi, al punto da rifiutare addirittura l'uso del termine documentario. Ci rivolgiamo a una fotografia molto più lirica, meno programmatica, che costituisce un'indagine su alcuni aspetti della vita quotidiana del dopoguerra, molto più di qualsiasi forma di attivismo fotografico come avveniva prima. La fotografia documentaria si concentra quindi meno su una questione sociale circoscritta che su un'archiviazione della vita quotidiana, sviluppando però un interesse mirato per alcuni suoi aspetti da parte di ciascun fotografo. È soprattutto in Francia che si esprime questo movimento di rinnovamento, attraverso quella che verrà poi chiamata fotografia umanista.
Robert Doisneau (1914-1992) ne è uno dei più eminenti rappresentanti. Originario della periferia di Parigi, non ha mai smesso, nel corso della sua carriera, di produrre immagini venate di umorismo sulle piccole cose e le piccole persone della vita quotidiana. Spesso costruendo le sue immagini su un modello di valori morali opposti, Doisneau cerca di rappresentare ciò che la Francia del dopoguerra, in via di modernizzazione, conserva come pittoresco. È il caso, ad esempio, di una serie prodotta dalla vetrina di un negozio , dove Doisneau registra le reazioni dei passanti davanti a un quadro osceno, cercando d mettere in luce le divergenze morali tra il borghese e il proletario.
Lo stesso vale per Willy Ronis (1910-2009), che amava particolarmente la Parigi delle piccole strade acciottolate, in particolare attraverso un progetto a lungo termine nei quartieri popolari di Belleville e Ménilmontant, dove ha fatto emergere figure iconiche, come il bambino con la baguette.
È comunque attraverso una scrittura fotografica spontanea che si sviluppa questo nuovo documentario, e questo, per effetto di ritorno, circola negli Stati Uniti e altrove. I fotografi che sviluppano questo nuovo tono decisamente libero prendono in parte a modello la letteratura – a volte lavorano direttamente con gli scrittori – ed è spesso sotto forma di libro che il loro lavoro viene distribuito, al di là dell'uso delle loro fotografie per illustrare reportage scritto sulla stampa.
È il caso del libro Life is Good & Good For You in New York di William Klein (1928-2022), pubblicato nel 1956. Con questo libro, egli revoca completamente le raccomandazioni di un Evans in fatto di stile: Klein interviene direttamente su le stampe, pratica la sovrastampa e cerca di evidenziare elementi grafici che fanno scivolare la fotografia documentaristica verso un'espressione del tutto soggettiva. È uno status di autore che William Klein rivendica cercando di dare un'interpretazione del suo soggetto che sia unica per lui.
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Trolley – New Orleans, 1955 © Robert Frank
In uno stile completamente diverso, Robert Frank (1924-2019), fotografo svizzero, pubblicò il suo famoso libro The Americans nel 1958. Realizzato con 83 fotografie e poi regolarmente ristampato con lievi variazioni, costituisce una deriva nella società americana del dopoguerra che Frank ha trascritto con occhio personale. Gli angoli di vista o il soggetto spesso indicano l'esperienza della presenza nella scena. Frank cerca così di ripristinare la propria esperienza dell'America con un interesse centrale per la figura umana, indipendentemente dal luogo o dalla classe sociale documentata.
Anche il fotografo e regista olandese Johan van der Keuken (1938-2001) cerca di dare uno sguardo a una società straniera. Con sede a Parigi, nel 1963 pubblica Paris Mortal , un libro che raccoglie le impressioni del fotografo sui suoi vagabondaggi nella Parigi operaia, giorno e notte. Emerge la sensazione di un approccio molto personale, dove è l'incontro spontaneo con l'altro a prevalere, molto più della ricerca di soggetti che possano corrispondere a un progetto prestabilito.
Lo stesso vale per Ed van der Elsken (1925-1990), anche lui olandese. Con Une histoire d'amour à Saint-Germain-des-Prés pubblicato nel 1956, abbandona completamente l'imperativo documentaristico di rappresentare la realtà così com'era: basandosi sulle fotografie di una banda di giovani bohémien parigini, finisce per creare una finzione. In particolare, gioca sull'organizzazione delle sue sequenze di immagini per sviluppare una sorta di scenario, e lavora sul layout per stabilire un ritmo, Elsken è molto ispirato dal jazz e dal cinema. Anche in questo caso la nozione di documentario è dunque associata a un'espressione soggettiva molto marcata.  
Negli anni '60 negli Stati Uniti viene dato nuovo respiro al progetto documentaristico con la riscoperta dell'opera di Evans ma anche e soprattutto con l'elezione, da parte del MoMA, di nuovi rappresentanti. Il curatore incaricato della fotografia, John Szarkowski, propose infatti nel 1967 una mostra intitolata New Documents che riuniva tre giovani fotografi: Diane Arbus, Lee Friedlander e Garry Winogrand. Questi tre differirebbero dai loro predecessori in quanto cercherebbero di non lavorare per lo scopo della riforma sociale, ma per ripristinare la loro esperienza della società e mostrare la loro empatia, senza giudizio morale.
Diane Arbus (1923-1971) produce immagini riconoscibili per il paradosso su cui si basano: sono entrambe distanziate ma molto intrise di delicatezza. Interessata ai margini della società, vi trova soggetti eccezionali e accattivanti: travestiti, freaks, nani o i suoi famosi gemelli . In un certo senso, riprende da sola il progetto di Sander, ma se ne appropria e lo distingue per la sua concentrazione sugli emarginati. Così, come direbbe Walker Evans, “lo stile di Arbus è tutto incentrato sul suo soggetto.“
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Gemelli identici, Roselle, New Jersey, 1967 © Diane Arbus
Lee Friedlander (1934-) sviluppa uno stile inaspettato nella sua documentazione della città americana. Piuttosto che cercare di rappresentarne l'organizzazione regolare e ortonormale, rintraccia tutto ciò che appartiene al caos della vita moderna nel tentativo di trovarvi un ordine visivo. Fotografando finestre e i loro riflessi, gli attraversamenti irregolari dei passanti o grazie a inquadrature insolite , sviluppa una sorta di virtuosismo che porta il suo progetto verso forme d'arte come il collage o la pittura astratta. Con la sua pratica documentaristica, Friedlander adotta un atteggiamento modernista, giocando sulle specificità del mezzo fotografico.
Garry Winogrand viene dal fotogiornalismo. Nella sua pratica documentaristica, prende la strada come suo terreno e lavora principalmente con grandangoli, con inquadrature spesso inclinate. Winogrand dà effetto per rafforzare le linee della sua composizione , e permette di percepire le cose da una nuova angolazione che solo la fotografia può permettere. Lui stesso dirà del proprio lavoro: “Fotografo per vedere come appaiono le cose una volta fotografate”.
Se la fotografia documentaria, che ha vissuto il suo massimo splendore nel periodo tra le due guerre, si è progressivamente distaccata dai suoi impegni politici riformatori, è anche perché questa funzione di denuncia poteva circolare meglio attraverso la stampa.
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New York, 1966 © Gary Winogrand
Fotogiornalismo: documentare per informare
La storia del fotogiornalismo è simile a quella della fotografia documentaria in quanto anch'essa è incentrata sulla fotografia intesa come mezzo di informazione. Queste due storie però non si sovrappongono: nel contesto del fotogiornalismo, è soprattutto l'evento che deve essere documentato, ed è quindi il ritmo della storia mondiale che detta il contenuto del fotogiornalismo. I fotoreporter, indipendenti o che lavorano in agenzia, hanno l'obbligo di essere presenti agli eventi che richiedono di essere illustrati per immagini. Va inoltre aggiunto che nell'ambito del fotogiornalismo, lo scopo principale della fotografia è quello di essere riprodotto sulla stampa, in relazione a un testo relativo agli eventi trattati.
È con l'immagine di un conflitto che inizia la storia del fotogiornalismo. Durante la Rivoluzione francese del 1848, un fotografo di nome Thibault, di cui si sa poco, fotografò le barricate dei rivoluzionari in rue Saint-Maur, a Parigi. Questa sarà la prima fotografia utilizzata in un giornale illustrato. Tuttavia, le tecniche di riproduzione disponibili non consentono la riproduzione diretta della fotografia, che deve quindi essere tradotta in incisione per poterla diffondere.
Fu durante la guerra di Crimea (1853-1856) che allestimmo davvero, per la prima volta, un reportage fotografico. The Illustrated London News utilizza le fotografie di Roger Fenton (1819-1869), il primo fotografo di guerra ufficiale, commissionato dal governo inglese. Fenton produce un reportage completo, documentando tutti gli aspetti di questa guerra: i suoi effetti sulle truppe, i campi di battaglia, i momenti di riposo... Una famosa fotografia inaugura anche un problema che sarà dibattuto lungo tutta la storia del fotogiornalismo: Fenton avrebbe forse dato nella messa in scena, contro ogni imperativo di obiettività. Il resto delle sue immagini mostra infatti che era in grado di spostare le palle di cannone per posizionarle sulla strada, per renderle più visibili e rendere così più drammatica la scena.
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Valle dell'ombra della morte, 1855 © Roger Fenton
Anche Matthew Brady (1822-1896), che si era già fatto un nome realizzando ritratti di personalità americane, diede impulso allo sviluppo del fotogiornalismo. Con una ventina di compagni di squadra - l'attrezzatura era molto ingombrante all'epoca - ha percorso la Guerra Civile (1861-1865), riportando quasi 10.000 lastre fotografiche che testimoniano tutti gli aspetti di questa guerra, alcune fotografie che offrono già una forma classica, evocando i codici della pittura storica.
Fu soprattutto negli anni 1880-1910 che furono compiuti i progressi più convincenti, portando il fotogiornalismo sulla strada della sua forma moderna. Ciò è in parte dovuto alle innovazioni tecniche. Innanzitutto, ora è possibile riprodurre direttamente le fotografie grazie al processo mezzitoni: The Daily Graphic, quotidiano di New York, pubblica la prima fotografia riprodotta sulla stampa senza essere tradotta in un'incisione il 4 marzo 1880. Progressi compiuti in questa direzione ha permesso, alla fine del secolo, di stampare fotografie contemporaneamente al testo, il che ha ridotto notevolmente i tempi necessari per produrre un giornale illustrato. Poi, nel 1887, fu inventato il flash, che permetteva di documentare i soggetti al chiuso o al buio. Infine il francese Édouard Belin (1876-1963) inventò nel 1913 una macchina, il belinografo, che permetteva la trasmissione di fotografie via cavo. Il fotogiornalismo aveva quindi, a quel tempo, tutti gli ingredienti tecnici che permettevano di pubblicare un'immagine rispettando il ritmo della notizia, cioè con quasi immediatezza.
Dal 1900 vi è stato anche un rinnovamento dell'organizzazione che ha modernizzato il fotogiornalismo. Stiamo infatti assistendo alla nascita delle agenzie fotografiche, che permettono ai fotografi di essere sindacalizzati. Quindi consegnano le loro fotografie direttamente all'agenzia, che le ridistribuisce ai giornali. L'agenzia francese Rol (1904-1937) ad esempio, prima si specializzò nel reportage fotografico sportivo, poi allargò i suoi argomenti a tutta l'attualità come dimostra il suo fondo, è uno dei pionieri in questo campo. Grazie a queste nuove strutture, la stampa ha sempre un serbatoio di immagini per illustrare i propri articoli. È questo che determina una vera e propria professionalizzazione dell'ambiente, ormai sedimentato come carta da musica, pronto a dare un'immagine di ogni evento significativo del mondo.
Poi arriva un periodo che è considerato l'età d'oro del fotogiornalismo. Negli anni '30-'50, la comparsa di macchine fotografiche di ottima qualità ma di dimensioni ridotte, come la famosa Leica utilizzata in particolare da Henri Cartier-Bresson (1908-2004), offre una flessibilità completamente nuova. Nascono così nuovi tipi di giornali, che offrono uno spazio più importante alla fotografia che al testo, e talvolta hanno i propri fotografi incaricati. Tra queste riviste, alcune hanno stravolto radicalmente i codici del fotogiornalismo. Non solo offrono una qualità di riproduzione rispetto ai titoli della stampa quotidiana che conferisce alla fotografia giornalistica le sue lettere di nobiltà, ma la loro impaginazione è anche particolarmente elaborata, per mettere l'immagine al centro del soggetto.
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Copertina della rivista LIFE del 23 novembre 1936 © TIME Inc
È il caso, ad esempio, del celebre settimanale LIFE (1936-1972), che fin dal suo primo numero propone una nuova formula: si occuperà di attualità lasciando un buon posto ai volti noti, partecipando così alla costruzione del sistema stellare. LIFE assume alcuni dei fotografi più famosi e coprirà tutti gli eventi più importanti del suo periodo. Margaret Bourke-White (1904-1971) ha abbellito la copertina del suo primo numero, permettendo a LIFE di lasciare il segno con la sua formula visiva unica e l'impronta modernista. Ci sono anche le foto di Robert Capa (1913-1954) pubblicate il 19 giugno 1944, le uniche immagini dello sbarco a Omaha Beach durante la seconda guerra mondiale. LIFE generalmente predilige le immagini che sono sensazionali per quello che mostrano o che colpiscono per la loro forma.
La rivista francese VU (1928-1940) propone un altro modello. Per VU, in parte ispirato al Berliner Illustrierte Zeitung , si tratta meno di affidarsi allo scontro di immagini che di organizzarle nel miglior modo possibile per produrre una narrazione. Lo testimoniano i tanti fotomontaggi che adornano le sue pagine e che offrono una visione singolare del fotogiornalismo: non si tratta tanto di fornire una prova informativa con un'immagine non ritoccata o ritagliata, ma di usare le immagini come si usano le parole, per creare sequenze di senso visivo. La rivista cerca il ritmo piuttosto che lo shock, per incitare alla riflessione.
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Copertina della rivista VU, 1934
Questo modello economico non è però l'unico, come dimostra l'esempio già citato dall'Arbeiter Illustrierte Zeitung, che coinvolge gli amatori affinché possano testimoniare loro stessi le proprie condizioni di vita, piuttosto che attraverso il filtro di un fotografo professionista che necessariamente mantiene una certa distanza dal soggetto.
In ogni caso, queste riviste hanno lasciato un segno indelebile nella storia del fotogiornalismo. La formula di LIFE, cessata all'inizio degli anni '70, è stata ripresa da altre riviste a larga diffusione che facevano largo uso di immagini, come Paris Match o L'Express in Francia. È attraverso di loro che scopriamo i grandi eventi contemporanei, con immagini che segnano con la loro forza la cultura visiva contemporanea.
Accanto a questi titoli, c'è anche una riorganizzazione da parte dei fotografi stessi. Il modello di agenzia Magnum è il più eloquente: fondata nel 1947 da Robert Capa e Henri Cartier-Bresson tra gli altri, offre una logica cooperativa, poiché è gestita dagli stessi fotografi, che consente loro di gestire al meglio i propri diritti e le proprie immagini. In Francia si sente l'eco di Magnum: l'agenzia Rapho, creata nel 1933, viene riattivata nel 1946 e riunisce soprattutto fotografi umanisti, come Robert Doisneau, Janine Niépce o Willy Ronis, che producono, come abbiamo deja vu, reportage gratuiti e poco focalizzati sulla copertura di un dato evento. L' Agenzia Gamma, fondata nel 1966, ha riunito una nuova generazione di fotografi come Raymond Depardon e Gilles Caron. Quest'ultimo, scomparso in Cambogia nel 1970, ha avuto una folgorante carriera durante la quale ha prodotto alcune delle immagini più suggestive dell'epoca. Caron è su tutti i fronti e documenta sia il conflitto sociale del maggio 68 a Parigi, la guerra in Biafra , Vietnam o del Ciad.
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Robert Capa, Omaha Beach nel numero di LIFE del 19 giugno 1944 © TIME Inc.
Caron è uno dei fautori del fotogiornalismo eroico, incentrato principalmente su immagini sensazionali e presenza sul fronte dei conflitti. Al suo fianco, anche Don McCullin (1935-) fu uno dei fotoreporter che videro la loro pratica come un sacerdozio e non esitarono a trovarsi nel centro dei conflitti. In generale, gli anni Sessanta e Settanta sono stati teatro di conflitti particolarmente efferati, che hanno lasciato il segno nella mente delle persone con immagini sconvolgenti, divenute simboli dell'orrore della guerra contemporanea, come quella di Nick Ut (1951-) scattata in Vietnam . Questa tendenza del fotogiornalismo verso la denuncia per choc domina ancora oggi: si pensi al recente esempio dell'immagine del corpo del piccolo Aylan arenato su una spiaggia, che fa parte di tante altre immagini di dolore e violenza nel mondo moderno. Queste immagini vengono spesso premiate, attraverso premi come il World Press Photo che premia la migliore fotografia giornalistica dell'anno. In generale, si ritiene che le immagini del fotogiornalismo influenzino realmente le sorti del mondo, come testimoniano le numerose liste che identificano le fotografie più influenti o importanti.
La richiesta di questo tipo di immagini da parte delle redazioni è tanto più soddisfatta in quanto le immagini digitali consentono ormai una diffusione quasi istantanea, a cui si aggiungono i contributi del cosiddetto giornalismo “cittadino”, quali gli smartphone. Le uniche immagini dall'interno della metropolitana durante gli attentati londinesi del 2005 sono state infatti trasmesse dai cellulari delle stesse vittime, che le hanno fatte circolare su reti come Flickr, prima che venissero riprese - a volte su uno - dei maggiori quotidiani.
Contro questa tendenza, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, c'è stato un fotogiornalismo molto più misurato, capace di trattare in profondità temi sociali piuttosto che eventi drammatici che richiedono una reazione immediata. L'agenzia Viva è costruita su questo modello e si ricollega a una tradizione di fotografia documentaristica incentrata su un argomento trattato a lungo termine e in un approccio di completezza. I suoi fotografi producono fotografie che si riversano nell'intimo, a diretto contatto con i loro soggetti con i quali stringono legami, opponendosi così a un modo a volte considerato aggressivo.
Opposto al loro approccio è quello dei paparazzi, che spingono oltre ogni limite di correttezza per ottenere scatti negoziati a prezzi esorbitanti, consegnando immagini che non solo piacciono molto al grande pubblico ma contengono in sé l'indicazione dell'aggressività da cui sono procedere, ad esempio con una mano cercando di proteggere un volto.
Infine, va notato che oggi il fotogiornalismo è tollerato, se non accettato, come forma d'arte a sé stante. Alcuni fotografi, come Gilles Peress (1946-) con il suo Persian Telex, hanno prodotto libri dal loro lavoro; altri prediligono stampe di grande formato, per proporre veri e propri dipinti che si possono trovare sulle pareti dei musei, come è il caso delle fotografie di Luc Delahaye (1962-).
Vediamo, attraverso questa breve storia della fotografia documentaria, che essa è stata punteggiata da contributi tecnici, formali, etici e anche culturali che non hanno mai smesso di plasmare o ridefinire il suo progetto. Comunque sia, siamo sempre d'accordo sulla natura informativa della fotografia per giustificare un progetto documentaristico o fotogiornalistico: è soprattutto una verità – tra l’altro – che cerchiamo di attestare con la forza evocativa della fotografia. Ed è perché ci sono tanti punti di vista sul mondo quanti sono i fotografi che gli approcci alla fotografia documentaristica sono stati così ricchi e vari. Se la maggior parte delle possibilità di raccontare il mondo attraverso la fotografia sono già state esplorate ed è sempre più difficile innovare, tuttavia, ognuno di noi può contribuire alla sua conoscenza prendendo posizione e traducendo il proprio punto di vista in immagini.
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pikasus-artenews · 1 year
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LUCA SANTESE. Mutter – Il regno delle forme Impegnato anche sul fronte sociale e politico, il fotografo italiano Luca Santese ha sviluppato la sua ricerca sulla fotografia documentaria sperimentale
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emodesti · 4 years
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Don Gianpiero,  Parroco di Montefortino, Eremo di San Leonardo,  Monti Sibillini  
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vanverabilia · 6 years
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Martin Parr - Think of England (1999)
Martin Parr – Think of England (1999)
Nell’estate del 1998 Martin Parr viaggia per l’Inghilterra, armato di una videocamera per carpire l’essenza dell'”englishness”:  il risultato è “Think of England” un lavoro satirico, provocatorio, brutalmente diretto, con il quale il fotoreporter britannico registra le abitudini del popolo inglese con un umorismo graffiante ed una aggressività dirompente.…
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chez-mimich · 1 year
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NICOLA BERTASI: "LIKE RAIN FALLING FROM THE SKY"
La Guerra del Vietnam (1961-1975), è uno di quei conflitti, ma più un generale accadimenti storici, che oggi si definirebbero “iconici”. Su quella guerra sono stati scritti centinaia di libri, sono stati girati decine e decine di film e hanno dato luogo o hanno contribuito a dar luogo, a rivolte e contestazioni epocali e ha plasmato l’immaginario collettivo di intere generazioni. Al di là di tutto ciò Nicola Bertasi, propone un’altra “cartografia visuale della memoria” e di questo nuovo sguardo su quella guerra mai completamente metabolizzata dagli USA (e dal mondo Occidentale), il PAC di Milano propone una piccola ma interessantissima mostra dal titolo “Like Rain Falling from the Sky”. Per Nicola Bertasi questa guerra è stata l’occasione per rivisitare le immagini della guerra del Vietnam da un altro punto di vista, un punto di vista introspettivo, una narrazione poetica della guerra, perché indubbiamente la poesia nasce dove nasce la vicenda umana, guerra compresa. Già, perché Nicola Bertasi ai tempi della guerra del Vietnam, non era nemmeno nato, Bertasi nasce infatti nel 1983, vive tra Parigi e Milano ed è un fotografo indipendente, nel 2021 il prestigioso New Post Photography Award e con questa mostra è stato finalista al Grand Prix della fotografia documentaria 2019. Fotografie della guerra elaborati con inserti di colore, sovrapposizioni di fotografie famose con sequenze cinematografiche, un lavoro di tessitura e di rielaborazione caratterizzate dalla sobrietà dell’intervento e per la resa estetico-poetica. L’Italia è un paese tradizionalmente distratto verso la fotografia, pur avendo dato i natali a grandissimi fotografi. Ancora meno spazio è dato a mostre come questa, dove la fotografia è presentata come mezzo e non come fine. La mostra è allestita nel mezzanino del Padiglione di Arte Contemporanea di via Palestro ed è aperta fino al prossimo 10 settembre prossimo.
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barbarapicci · 6 years
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(via Fotografia - L'Europa del dopoguerra di Piergiorgio Branzi)
Info & gallery: https://barbarapicci.com/2018/04/06/piergiorgio-branzi/
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