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#giovanni giudici
dinonfissatoaffetto · 7 months
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Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un'altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti coi giornali, i suoi guaìti commenti.
Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l'educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.
Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall'angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni
siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega al suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?
Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene
qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di futuro che mi estenua,
ma poi d'un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?
Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani... pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo.
C'è più onore in tradire che in esser fedeli a metà.
- Giovanni Giudici
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somehow---here · 2 years
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Giovanni Giudici, Dal cuore del miracolo, un verso, ne "La vita in versi", 1965
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lunamarish · 1 year
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La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi fedelmente, senza tacere particolare alcuno, l’evidenza dei vivi. Ma non dimenticare che vedere non è sapere, né potere, bensì ridicolo un altro voler essere che te. Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano complicità di visceri, saettano occhiate d’accordi. E gli istanti s’affacciano al limbo delle intermedie balaustre: applaudono, compiangono entrambi i sensi del sublime – l’infame, l’illustre. Inoltre metti in versi che morire è possibile a tutti più che nascere e in ogni caso l’essere è più del dire.
Giovanni Giudici
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mjljmj · 3 months
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Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:la mia colpa sociale è di non ridere,di non commuovermi al momento giusto.E intanto muoio, per aspettare a vivere. Il rancore è di chi non ha speranza:dunque è pietà di me che mi fa credereessere altrove una vita più vera?Già piegato, presumo di non cedere. Giovanni GiudiciPh MLM
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adrianomaini · 1 year
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Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici «ultimi poeti» per Giulio Ferroni
Quando, a metà anni Cinquanta, la questione novecentismo vs anti-novecentismo veniva alimentata da Pier Paolo Pasolini, che sulle pagine di «Officina» vagliava l’introduzione di una terza categoria, quella del neo-sperimentalismo <1, una poesia come quella di Giovanni Giudici si poteva ascrivere alla schiera anti-novecentista. La sua è una scrittura poetica che non fa dell’oltranzismo formale il…
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bagnabraghe · 1 year
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Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici «ultimi poeti» per Giulio Ferroni
Quando, a metà anni Cinquanta, la questione novecentismo vs anti-novecentismo veniva alimentata da Pier Paolo Pasolini, che sulle pagine di «Officina» vagliava l’introduzione di una terza categoria, quella del neo-sperimentalismo <1, una poesia come quella di Giovanni Giudici si poteva ascrivere alla schiera anti-novecentista. La sua è una scrittura poetica che non fa dell’oltranzismo formale il…
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c-hawner · 2 years
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and what is left, on a winter afternoon is a feeling of joy so closely followed by grief you might almost miss the moment of tenderness in which both resolve, as if toward something vulnerable.
Giovanni Giudici, On the Juniculum, tr. by Kark Kirchwey
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susieporta · 4 months
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“Non mollerò finché non l’avrò trovata”.
La voce è quella di Giovanni Soldini, in quel momento ha 33 anni e sta correndo la Around Alone, la più dura regata intorno al mondo in solitaria mai concepita. Un uomo, una barca a vela, tre Oceani. Giovanni è terzo, dietro a Marc Thiercelin e Isabelle Autissier. È il 16 febbraio del 1999 e dalla radio di bordo arriva un Sos: l’imbarcazione Prb di Autissier, la prima classificata, si è cappottata e ora si trova alla deriva da qualche parte in mezzo al Pacifico, tra Auckland e Punta del Este, a 2000 miglia in linea d’aria circa da Capo Horn.
Giovanni non ci pensa due volte. Abbandona la propria rotta sicura a nord e si dirige a sud con la sua “Fila”, dritto contro l’Oceano in tempesta. Un solo pensiero in testa: salvare Isabelle, l’amica Isabelle, l’avversaria di decine di regate. Giovanni ha solo un vago segnale di soccorso e un’area di 5 miglia quadrate da setacciare palmo a palmo. Trovare uno scafo rovesciato in un tratto di mare di quelle dimensioni, in balia di cavalloni alti 4 metri, tra i chiaroscuri di un’alba che non arriva mai, è un po’ come cercare una pallina da flipper in un campo da football. Ma Giovanni non si dà per vinto. Non può farlo. Ha deciso. “Non mollerò finché non l’avrò trovata”.
Prima di essere un velista di fama mondiale, Giovanni è un marinaio, conosce le leggi del mare e i codici della navigazione. Giovanni non crede in Dio, ma sa che la vita là in mezzo è sacra. Dopo quasi un’ora di furibonda ricerca, alle 5.55 ora locale (le 15.25 in Italia), Giovanni trova la Prb, porta in salvo Isabelle e invia un succinto comunicato al centro operativo di gara: “Salve, qui Fila. Isa è a bordo con me. Stiamo tornando in gara.”
Giovanni fa sul serio. Riprende la rotta a nord, recupera il tempo perso, rimonta chi nel frattempo l’ha superato, scavalca Thiercelin e, meno di due mesi più tardi, il 9 maggio dello stesso anno trionfa sul traguardo di Charleston (South Carolina). È il primo italiano ad aver vinto un giro del mondo in solitaria, il primo uomo ad averlo fatto dopo aver salvato una donna, una concorrente, un’amica. Un essere umano.
Sono passati 25 anni esatti da allora e cinque dal post a cui sono in assoluto più legato. Giovanni tra pochi giorni compierà 58 anni, nel frattempo ha stabilito un’altra decina di primati e infranto ogni record in infinite specialità diverse. Al suo fianco, in ogni vittoria e nelle rare sconfitte, per cinque anni c’è stato un marinaio che di nome fa Tommaso Stella, 7 anni meno di Giovanni e una vita passata al timone.
A un certo punto Tommaso ha salutato Giovanni ed è partito volontario per una nuova missione: salvare vite in mare con una ong nel Mediterraneo. Niente più gare, niente più record, nessun avversario da battere. Soltanto silenzio e acqua a perdita d’occhio, per miglia e miglia. E poi la disperazione umana che ti arriva addosso all’improvviso, insieme a 60 migranti a bordo di un gommone non più lungo di un pulmino e non più largo di una Panda, perso da qualche parte alla deriva, a mollo sopra un cimitero senza croci né lapidi, inseguito da una motovedetta libica carica di uomini armati.
Tommaso carica i migranti a bordo della sua barca a vela, che si chiama Alex e curiosamente ricorda quella di Giovanni, e fa rotta verso l’Europa a tutta velocità, seminando i libici e il terrore e l’inferno dei lager, anche se quello non se ne va mai per davvero. A un certo punto sembra quasi una gara, come ai vecchi tempi con Giovanni, ma in palio ora non c’è un trofeo, e il cronometro segna solo il tempo che separa le persone dal limite di sopportazione umana. E gli arbitri non sono più giudici di gara, come un tempo, ma leggi disumane, governi spietati e ministri che giocano sulla pelle dei migranti, sulla pelle di tutti loro. E in quel momento Tommaso forse si ricorda di Isabella e di quella regata nel Pacifico di vent’anni anni prima e si chiede cosa avrebbe fatto Giovanni al suo posto. È un attimo, prima di puntare la prua verso il porto sicuro più vicino, senza chiedere il permesso a nessuno, senza chiedersi i rischi che corre, le multe che dovrà pagare, le leggi che violerà. In mare è tutta questione di tempo, e qui è scaduto da un pezzo, ogni attimo potrebbe essere decisivo. Tommaso attracca al molo di Lampedusa alle 5 di pomeriggio di un sabato di luglio di cinque anni fa, insieme ai 46 migranti rimasti e agli altri dieci uomini dell’equipaggio. Rimedia 16mila euro di multa e un’indagine per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma non è mai stato così felice nella sua vita. Si sente pieno, realizzato. Un uomo. Come mai gli era capitato prima di allora.
Giovanni in quel momento è a casa, in attesa di preparare una nuova sfida, quando apprende, come tutti, dell’impresa del suo vecchio skipper e compagno di tante traversate. E, quando un giornalista gli chiede cosa ne pensa, lui che da quarant’anni solca i mari di tutto il globo e ha visto passare più acqua sotto lo scafo che tutti i leghisti, i razzisti e gli hater di Italia messi insieme, Giovanni dice solo due cose. Dice: “Bravo Tommaso, hai fatto il marinaio”. E poi spiega meglio: “Da migliaia di anni queste cose esistono. I romani e i greci tiravano su la gente, mica la lasciavano in mare. Quando trovi uno che galleggia per miracolo, intanto lo tiri su. I distinguo, per quanto mi riguarda, si fanno a terra. Cinquanta persone su una barca da 18 metri sono una situazione di sopravvivenza. E, credetemi, se trascorri 48 ore in mare, i dubbi ti passano.”
Uno di cognome fa Soldini, l’altro Stella. Sono capitani, sono marinai, sono italiani. Sono colleghi, sono vecchi amici che avresti voglia di abbracciare. Sono vita vissuta controvento, sono alberi maestri che non si piegano, sono pelle scottata al sole, sono storie di mare. Sono Storia di un Paese che vogliono cancellare, nascondere, censurare, infangare, incriminare, e che abbiamo il dovere di raccontare.
Lorenzo Tosa
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cywo-61 · 9 months
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Chi tra voi è senza peccato scagli la prima pietra.
Giovanni 8,7
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Molti si atteggiano a giudici per la vita degli altri senza sapere nulla. La presunzione come l'invidia è una brutta malattia.
cywo
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anchesetuttinoino · 2 months
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Che i magistrati rimproverino a Giovanni Toti di rimanere ai domiciliari «in quanto ha dimostrato di non aver compreso appieno la natura delle accuse» ci pare un fatto senza precedenti.
Come ha scritto il governatore nella lettera al suo avvocato, c’è qualcosa che non quadra: «Ora, per tranquillizzare i giudici del Riesame, che ritengono io non abbia capito il reato commesso e dunque lo possa reiterare, vorrei essere chiaro: ho capito benissimo cosa mi viene addebitato. Per i magistrati sarebbe reato essermi interessato ad un pratica, pure se regolare, perché interessava ad un soggetto che ha versato soldi al nostro movimento politico, pure se regolarmente. Che, per paradosso, vuol dire che se mi fossi interessato alla stessa pratica di un imprenditore che non ci ha mai sostenuto, non sarei stato corrotto. E se l’imprenditore avesse finanziato un movimento politico di cui così poco stimava la politica e i leader, tanto da non parlargli neppure dei suoi progetti, non sarebbe stato un corruttore. Mi si perdoni, ma pur capendo, non sono d’accordo. Pur avendo confermato ai magistrati punto per punto quanto accaduto, senza nascondere nulla. E tuttavia la reiterazione di quel reato resta impossibile»
È cambiato qualcosa? No
Se torniamo per l’ennesima volta a parlare della carcerazione preventiva cui è sottoposto dal 7 maggio il governatore ligure non è per ribadire che, per quel che si riesce a capire, le accuse che gli vengono mosse sono piuttosto flebili (se accettare finanziamenti leciti e dichiarati è un reato, chiunque fa politica è un presunto colpevole), ma per sottolineare l’enormità di quel che appare un accanimento.
Come ha scritto Giuliano Ferrara sul Foglio, Toti è a casa sua, «sequestrato ad Ameglia. Un’indagine durata quattro anni, con largo uso di intercettazioni dirette e ambientali, non ha trovato per adesso prove decisive di corruzione, solo pettegolezzi di incontri su una barca, insinuazioni sui finanziamenti ai comitati elettorali e sul famoso voto di scambio, illazioni su amicizie e frequentazioni di imprenditori privati, generici sospetti su licenze a uso commerciale. Il malloppo estortivo o corruttivo non c’è».
È cambiato qualcosa? No
La legge dice che il governatore dovrebbe rimanere ai domiciliari solo se esistono le condizioni di pericolo di fuga, reiterazione del reato, inquinamento delle prove. Non si comprende, dato anche il clamore della vicenda, come queste tre condizioni sussistano. Persino il Manifesto ha parlato di «un processo alle intenzioni».
Di più: finora il governatore ligure è rimasto ai domiciliari perché – così è stato detto – avrebbe potuto di nuovo influire sulle immediate elezioni. Passate le europee, è cambiato qualcosa? No. “Però potrebbe influire sulle future elezioni regionali”, è stato ancora detto. Ora, a parte che si vota nel 2025 (Toti deve aspettare un altro anno?) lui stesso ha fatto sapere che, pur potendolo fare, non si ricandiderà. È cambiato qualcosa? No.
Contro la detenzione domiciliare, la difesa ha presentato un parere espresso dal Presidente emerito della Corte costituzionale, Sabino Cassese, ma nemmeno questo ha sortito gli esiti sperati e il riesame ha confermato la misura restrittiva.
«Un tribunale dell’Inquisizione»
Cos’altro dovrebbe o potrebbe fare Toti per riavere un po’ di libertà. O meglio, si capisce benissimo e ci chiediamo: dovrebbe dimettersi? Toti – sebbene siamo ancora nella fase delle indagini, sebbene non vi sia stato alcun rinvio a giudizio, sebbene non ci sia stato alcun processo, sebbene non vi sia stata alcuna condanna – dovrebbe, siccome «non ha capito le accuse», abbandonare subito quella poltrona che è diventata, come ha scritto nella lettera, «più un peso che un onore»? Siamo arrivati a tanto?
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lady--vixen · 5 months
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LA STRADA NON PRESA
Divergevano due strade in un bosco
Ingiallito, e spiacente di non poterle fare
Entrambe essendo uno solo, a lungo mi fermai
Una di esse finché potevo scrutando
Là dove in mezzo agli arbusti svoltava.
Poi presi l'altra, che era buona ugualmente
E aveva forse i titoli migliori
Perché era erbosa e poco segnata sembrava;
Benché, in fondo, il passar della gente
Le avesse invero segnate più o meno lo stesso,
Perché nessuna in quella mattina mostrava
Sui fili d'erba l'impronta nera d'un passo.
Oh, quell'altra lasciavo a un altro giorno!
Pure, sapendo bene che strada porta a strada,
Dubitavo se mai sarei tornato.
Questa storia racconterò con un sospiro
Chissà dove fra molto molto tempo:
Divergevano due strade in un bosco e io...
Io presi la meno battuta,
E di qui tutta la differenza è venuta.
Robert Frost da Mountain Interval, 1916 - Traduzione di Giovanni Giudici
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dinonfissatoaffetto · 3 months
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Perché con occhi chiusi?
Perché con bocca che non parla?
Voglio guardarti, voglio nominarti.
Voglio fissarti e toccarti:
Mio sentirmi che ti parlo,
Mio vedermi che ti vedo.
Dirti - sei questa cosa hai questo nome.
Al canto che tace non credo.
Così in me ti distruggo.
Non sarò, tu sarai:
Ti inseguo e ti sfuggo,
Bella vita che te ne vai.
- Giovanni Giudici
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tesia-a-138 · 1 year
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Mon amour, combien les erreurs et la douleur nous divisent. Combien d'avenir sans avenir ?
Giovanni Giudici
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lunamarish · 1 year
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Puoi resistere, ma un giorno è un secolo a consumarti: ciò che dài non fa ritorno al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare, ma un altro tempo non c’è: il tempo che sei scompare, ciò che resta non sei te.
Giovanni Giudici
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Io ti ho amato e, diciamolo pure,
non serve fingere, ancora ti amo.
Ma non voglio disturbarti con il mio amore
o rattristarti, per questo vado lontana.
Senza parole e senza speranze,
ti ho amato di timidezza disfatto di gelosia.
Ma davvero e con tanta tenerezza,
ti ho amato che, un'altra come me,
non la troverai mai.
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Giovanni Giudici
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gregor-samsung · 1 year
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“ Il metodo Falcone
«Nemico numero uno della mafia», l'etichetta gli resterà attaccata per sempre. Circondato da un alone leggendario di combattente senza macchia e senza paura, il giudice Giovanni Falcone, cinquantadue anni, ne ha trascorsi undici nell'ufficio bunker del Palazzo di Giustizia di Palermo a far la guerra a Cosa Nostra. Queste pagine ne costituiscono la testimonianza. Non si tratta né di un testamento né di un tentativo di tenere la lezione e ancor meno di atteggiarsi a eroe. «Non sono Robin Hood,» commenta in tono scherzoso «né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium». Si tratta dunque piuttosto di un momento di riflessione, del tentativo di fare un bilancio nell'intervallo tra vecchi e nuovi incarichi: il 13 marzo 1991 il giudice Giovanni Falcone è stato nominato direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia a Roma.
Lontano da Palermo.
La partenza dal capoluogo siciliano, il distacco da una vita che si alternava tra auto blindate, dall'atmosfera soffocante del Palazzo di Giustizia, dalle lunghe notti a leggere e rileggere le deposizioni dei pentiti dietro le pesanti tende di una stanza superprotetta, dai tragitti tortuosi con la scorta delle auto della polizia a sirene spiegate sono forse stati una specie di sollievo. Ma Falcone non si fa illusioni, non dimentica il mancato attentato del 21 giugno 1989. cinquanta candelotti di tritolo nascosti tra gli scogli a venti metri dalla casa dove trascorre le vacanze: «È vero, non mi hanno ancora fatto fuori… ma il mio conto con Cosa Nostra resta aperto. Lo salderò solo con la mia morte, naturale o meno». Tommaso Buscetta, il superpentito della mafia, lo aveva messo in guardia fin dall'inizio delle sue confessioni: «Prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno. Fino a quando ci riusciranno!».
Roma è soltanto in apparenza una sede più tranquilla di Palermo; ormai da tempo i grandi boss mafiosi l'hanno eletta a loro domicilio. La feroce «famiglia» palermitana di Santa Maria di Gesù vi ha installato antenne potenti. Senza contare la rete creata dal cosiddetto «cassiere» Pippo Calò, con il suo contorno di mafiosi, gangster e uomini politici. Le ragioni per le quali Falcone ha scelto Roma come nuova sede di lavoro sono diverse: nella capitale di Cosa Nostra non poteva più disporre dei mezzi necessari alle sue inchieste e il frazionamento delle istruttorie aveva paralizzato i giudici del pool anti-mafia. Era diventato il simbolo o l'alibi di una battaglia disorganizzata. Conscio di non essere più in grado di inventare nuove strategie, l'uomo del maxiprocesso, che aveva trascinato in tribunale i grandi capimafia, non poteva rassegnarsi a rimanere inerte. Ha scelto di andarsene. Le informazioni da lui raccolte possono essere utilizzate con profitto anche lontano da Palermo. Certo, non dovrà più svolgere personalmente le indagini, dovrà invece creare condizioni tali per cui le indagini future possano essere portate a termine più rapidamente e in modo più incisivo, dando vita a stabili strutture di coordinamento tra i diversi magistrati. Il clima nel capoluogo siciliano è cambiato: è spenta l'euforia degli anni 1984-87, finita la fioritura dei pentiti, lontano il tempo del pool antimafia, dei processi contro la Cupola istruiti magistralmente. In questa città impenetrabile e misteriosa, dove il bene e il male si esprimono in modo ugualmente eccessivo, si respira un senso di stanchezza, il desiderio di ritornare alla normalità. Mafiosi regolarmente condannati sono tornati in libertà per questioni procedurali, alcune facce fin troppo note ricompaiono nei ristoranti più alla moda. Le forze dell'ordine non hanno più lo smalto di un tempo. I pool di magistrati sono ormai svuotati di potere, il fronte ha smobilitato. Cosa Nostra dal canto suo ha rinunciato all'apparente immobilità. La pax mafiosa seguita alle pesanti condanne del maxiprocesso, da un lato, e al dominio dittatoriale dei «Corleonesi» sull'organizzazione, dall'altro, non è più salda come prima. Si moltiplicano i segnali di un progetto di rivincita delle «famiglie» palermitane per riconquistare l'egemonia perduta nel 1982 a favore della «famiglia» di Corleone, i cui capi, latitanti, si chiamano Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Leggio, quest'ultimo in carcere. La mafia sta attraversando una fase critica: deve riacquistare credibilità interna e rifarsi una immagine di facciata, in quanto entrambe gravemente compromesse. «Abbiamo poco tempo per sfruttare le conoscenze acquisite,» ripete instancabilmente Falcone «poco tempo per riprendere il lavoro di gruppo e riaffermare la nostra professionalità. Dopodiché, tutto sarà dimenticato, di nuovo scenderà la nebbia. Perché le informazioni invecchiano e i metodi di lotta devono essere continuamente aggiornati.». “
Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani, Cose Di Cosa Nostra, Collana Saggi italiani, Milano, Rizzoli. Prima edizione: 13 novembre 1991.
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