Tumgik
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slayedpoet · 6 years
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Ti scatterò una foto | capitolo 1
Pairing: Martino Rametta/Niccolò Fares Summary: Quando fotografi la gente a colori, fotografi i loro vestiti. Quando fotografi la gente in bianco e nero, fotografi la loro anima. (Ted Grant) Words Count: 1.052 words A/N: Una specie di AU ambientata quando frequentano tutti l’università (Martino studia fotografia e arte, Niccolò frequenta il conservatorio, gli studi degl’altri verrano citati indirettamente), gli eventi principali saranno generalmente presenti, ci sarà qualche cambio qua e là. [ah. è la prima cosa che scrivo, mi sembrava giusto dirlo]
For the international part of the fandom: I haven’t forgotten about your existence...just give me time to translate it. :))
Il Coffee Express è sempre stato il punto di ritrovo preferito dagli studenti universitari di Roma.   Sarà per quella sua aria vissuta, un po’ vintage, dove ogni mobile fa a pugni con quello vicino e allo stesso tempo no; saranno le pile di libri stipati su ogni singola mensola delle librerie di mogano che ricoprono interamente le pareti; sarà per la musica che risuona delicatamente a tutte le ore dagli altoparlanti, un mix fra indie, jazz e acustica; oppure per il profumo di caffè appena macinato, brioches appena sfornate e le varie fragranze delle sigarette elettriche; magari per i fili di luci gialle appesi come ghirlande o le abat jour sui tavolini del soppalco. Martino e i suoi amici si ritrovano sempre lì quando riescono a combaciare i loro orari universitari: a volte per pranzo, a volte per una colazione veloce prima di scappare in aula, a volte senza un motivo, solo per stare un po’ insieme come ai vecchi tempi quando si vedevano al Baretto a giocare a biliardino fra schiamazzi e incazzature del proprietario. Oggi è uno di quei giorni: se ne stanno tutti e quattro seduti ad un tavolino, a parlare del più e del meno, mentre fuori l'autunno si fa sentire con le prime giornate grigie e piovose; caffè, cappuccini e brioches di fronte a loro, e una macchina fotografica fra le mani di Martino.
La porta sempre con sé, la macchina fotografica. In parte perché ha sempre dei progetti per l’università che ne richiedono l’uso, in parte perché si ritrova sempre scatti interessanti dopo un pomeriggio passato al Coffee Express. Qualcuno assorto nella lettura di qualche classico al tramonto, un gruppo di amiche che si ritrova a studiare per un esame di fronte a decine di caffè, un ragazzo che si è messo a suonare il piano all’angolo, rimasto intoccato praticamente dall’apertura del locale, con un trasporto tale da far girare quasi mezzo bar.
E nell’ansia che ti perdo, ti scatterò una foto
Scatta l’ultima foto in bianco e nero. Martino non sa perché. Ha sempre preferito i colori, quelli vibranti: le sfumature di gialli e rossi autunnali, i campi di fiori in piena primavera, i bianchi e i blu accecanti dei paesaggi invernali e l’arcobaleno di colori che è l’estate in vacanza in Sardegna con Giovanni, Elia e Luca. C’è qualcosa nell’atmosfera, la pioggia incessante fuori dalla vetrata adiacente al piano, il grigiume insolito della città, l’espressione trasportata del ragazzo o forse è la melodia a richiamare a così gran voce l’uso del bianco e nero.
‘Zì noi andiamo a prendere l’autobus, torni anche tu a casa o ti fermi ancora un po‘?’ gli chiede Giovanni, mentre si alza per mettersi la giacca di jeans. ‘Mi sa che me ne sto ancora un po’ qui. Ci vediamo da te Elia domani sera per vedere la Roma?’ ‘Se ho casa libera certamente zì!’ risponde Elia. ‘Beh allora a domani raga’ li saluta Martino.
Appena li vede varcare la soglia del bar diretti alla fermata dell’autobus ridirige la sua attenzione di nuovo su quel piano. E su quel ragazzo. Lo osserva ancora per qualche minuto, scatta ancora qualche foto, poi decide nella sua testa che sta diventando troppo molesto. Guarda il telefono: 17:40.   Decide che è meglio tornare a casa, magari prima passa a comprare qualcosa per cena al supermercato. Si alza dalla sedia, si rimette l’impermeabile, ripone la macchina fotografica nella borsa a tracolla e va a pagare. Esce dall’Express e subito l’aria umida e stranamente fresca di inizio ottobre investe le sue guance che gli si colorano leggermente di rosa, apre l’ombrello e si avvia verso casa. Quella melodia gli risuona nelle orecchie mentre è sull’autobus verso il supermercato, anche con le cuffie nelle orecchie che suonano altre canzoni. Gli risuona fra le corsie del Conad e mentre paga alla cassa. Gli risuona mentre varca la soglia di casa e mentre cucina la cena per lui e per sua madre. Dopo cena si rintana in camera sua per sviluppare al computer gli scatti del pomeriggio, sperando di trovare qualcosa che lo soddisfi per l’ultimo progetto del corso di fotografia sulla fotografia urbana, incentrato sulla vita universitaria. Si siede alla scrivania, tira fuori la macchina fotografica dalla borsa e inserisce la scheda SD nel portatile. Ci sono almeno una cinquantina di foto risalenti solamente a quel pomeriggio; molte le ha già scattate, i soggetti sono naturalmente differenti, ma le situazioni identiche: alcuni ragazzi che parlano seduti al bancone del bar, Elia che ride ad una stupidata di Luchino e Gio che li guarda come una mamma chioccia guarderebbe i suoi pulcini, oppure il menù del giorno scritto sulla lavagna che ocupa l’intera parete dietro il bancone. Ma poi incappa in quegli scatti, quelli in bianco e nero a quel ragazzo che suona il piano. Si sofferma sulla luce proveniente dalla vetrata che gli illumina metà volto, che mette in risalto i suoi lineamenti spigolosi: il naso dritto, gli zigomi pronunciati e la mascella che potrebbe tagliare un foglio di carta in due; ma anche sui particolari più dolci: i ricci neri che gli ricadono quasi sugl’occhi e le labbra leggermente screpolate per il freddo di stagione increspate in una smorfia di concentrazione. Gli ricorda vagamente il David di Michelangelo.
‘È un capolavoro.’
E no, non si stava riferendo alla statua. Raramente gli capita di commentare i soggetti delle sue foto, non può farsi influenzare dai propri canoni di bellezza quando ha la macchina fotografica in mano. Certamente l’occhio fa sempre la sua parte, ma il più delle volte quello che fotografa ha un senso solo per lui e poche persone riescono a vedere quello che ci vede lui. Anche se non avrebbe scelto questi particolari scatti per il suo progetto, non significava che li avrebbe cestinati. Del resto, non lo faceva mai. Però si ritrova a fissarli per una buona mezz’ora. Ogni curva, angolo e dettaglio impresso nella sua mente. L’orologio da parete segnava le 22:55. Di tutte le foto del pomeriggio ne sceglie solo una da aggiungere a quello che sembra un progetto interminabile, ma fortunatamente non lo deve consegnare domani, fortunatamente c’è tempo. Quella sera si addormenta con quel volto senza nome stampato in mente, e spera che magari un giorno di questi avrà l’occasione di rincontrarlo.   E magari avrà il coraggio di almeno presentarsi.
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