Tumgik
#guardate lo sguardo disperato
pgfone · 1 year
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Potatura + quando l'ora legale ti ha sballato l'orario della cena.
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sandnerd · 4 years
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Bungo Stray Dogs - 1° Season
Bungo stray dogs, chiamato così perchè "Va bene disseminare l'ending di indizi circa i personaggi principali, ma noi abbiamo voluto esagerare", oppure "Complessi d'inferiorità ne abbiamo?" parevano titoli troppo lunghi. Era da un pò che volevo guardare quest'anime, dai disegni mi era piaciuto fin da subito ed i personaggi erano affascinanti, quanto meno quello che avevo visto più spesso, mi ispirava un certo non so che. Non avevo mai indagato seriamente sulla trama per evitare spoiler, per cui mi sono avventurata nella visione della prima stagione ad occhi chiusi. Studio d'animazione BONES, uno studio di cui avevo visto alcuni precedenti lavori, come No. 6, Noragami e Ouran High Host Club, ma che ha portato anche lavori come Fullmetal Alchemist e Soul Eater, insieme a molti altri. Devo dire però che qui ho trovato un lavoro un pò più particolareggiato e preciso, certamente più di quello che si ritrovava in Soul Eater; non solo: è stata aggiunta una dose abbastanza forte di inquietudine, come gli occhi spiritati dei personaggi ed i primi piani distorti dei visi, una cosa che mi ha fatto pensare immediatamente a Kakegurui, chissà forse quest'ultimo si è ispirato a Bungo, essendogli successivo.
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Ma andiamo alla storia: un ragazzino di nome Atsushi vaga affamato e disperato sulla riva di un fiume, ripensando al malo modo in cui è stato cacciato dall'orfanotrofio in cui stava (ed il pensiero corre a The Promised Neverland) perchè è un buono a nulla (motivi belli per essere cacciati dagli orfanotrofi e dove trovarli). Decide quindi di derubare la prima persona che vedrà, ed in ordine vede: un motorazzo che corre a millemila miglia all'ora, una truppa militare che stava facendo esercitazione giusto giusto in quella strada, ed un tizio mezzo affogato nel fiume. Bene così Atsushi. Ma il nostro Atsushino si dimostra subito più gentile che delinquente e salva il tizio mezzo affogato, che si rivela essere Dazai, membro di un'agenzia particolare ed appassionato di suicidi (?). Dopo che Dazai non ringrazia il ragazzo per non averlo fatto affogare, arriva un altro tizio, collega di Dazai, che spingendo gli occhiali sul naso e stringendo un libretto in mano sgrida quest'ultimo perchè gli sta facendo perdere tempo prezioso. I due portano Atsushi a mangiare perchè il brontolio dello stomaco del ragazzo sovrastava la conversazione e durante il pasto viene fuori che i due uomini stanno indagando sul caso di una tigre pericolosa avvistata nei paraggi, ed Atsushi rivela che ha sentito spesso lo sguardo della tigre su di se mentre vagava la notte per le strade. E dopotutto la tigre è stata avvistata in tutti i luoghi dove ha vagato il ragazzo. Mmh, ma davvero? chissà chi è la tigre (scherzo, l'abbiamo capito tutti a questo punto).
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Ed insomma la notte seguente Atsushi e Dazai si appostano in un magazzino per intercettare questa tigre, viene fuori che la tigre è Atsushi, che si trasforma quando viene colpito dalla luce lunare (anche se poi si trasformerà ogni volta che vuole pure in pieno giorno) e che anche Dazai ha un potere, cioè quello di neutralizzare tutti i poteri degli altri. Comodo eh? Quando il ragazzo tornato normale si sveglia trova Dazai che col suo sorriso più affascinante gli chiede di unirsi all'Agenzia investigativa armata, un'agenzia che lavora in concomitanza con le forze dell'ordine ma che ha una marcia in più perchè i suoi componenti hanno poteri sovrannaturali.
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Questo insomma il primo episodio, nel corso della serie conosceremo gli altri membri dell'agenzia, e devo dire che i clichè ci sono tutti: Dazai il cretino che appena vede una ragazza (Sanji sei tu?) corre a chiederle di suicidarsi insieme a lui, ma che appena c'è da combattere nascondetevi tutti (no aspetta sei Urahara?), Kunikida l'ossessionato con l'ordine e la quadratura dei piani con tanto di occhiali che risplendono (Rei?), Kenji il rozzo campagnolo tanto ingenuo da non capire quando gli dicono bugie ma dotato di una forza sovrumana (Finnian?), la dottoressa Yosano, bella e sadica, mi ha ricordato i macrofagi di Hataraku no Saibo, Ranpo il tizio per nulla modesto che è un genio nel risolvere i casi ma che non sa manco prendere il treno, Tanizaki, esplorato molto poco devo dire, che ha una relazione con la sorella Naomi tanto strana quanto inquietante, ed infine il nostro Atsushi, un pò stupido e sfortunato ma sempre pronto a salvare gli altri a costo della vita, come d'altronde tutti i protagonisti di questo tipo di anime.
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Di certo non è un anime pessimo, ma neanche spettacolare, più che altro per i clichè sopra descritti e perchè non sempre i dialoghi si riescono a seguire limpidamente, sono a mio parere in alcuni frangenti troppo arzigogolati, ed un grosso clichè che ho trovato è che almeno in 3 o 4 situazioni era facilissimo intuire il colpevole del caso perchè era sempre il meno sospetto o l'unico personaggio esterno interpellato rispetto ai membri dell'Agenzia. Inoltre ho trovato ridondante l'atteggiamento di Atsushi, almeno una volta ad episodio si lamentava di non essere all'altezza, di non farcela, di non essere adatto e un buono a nulla e un fallito, ed almeno una dozzina di volte si è rivisto il momento in cui i tizi dell'orfanotrofio gli ripetevano che se fosse morto sarebbe stato meglio. Penso che abbia sorpassato Eren in quanto a lagne, ed è dire tanto. Ah e poi facciamo invidia a The Promised Neverland, che il 30% dei personaggi sono orfani trattati malissimo senza amore nè affetto, almeno quei bambini destinati al macello un pò di finto amore lo ricevevano da piccoli. Per non parlare del fatto che il mondo creato ce l'abbia con Atsushi solo perchè qualcuno ha messo una taglia enorme sulla sua testa, chissà forse per mettersi un bel tappeto a forma di tigre davanti al caminetto, e sia Akutagawa, cattivone vestito da Dracula con un complesso d'inferiorità grosso quanto un transatlantico, che Lucy, un'altra cattivella che si fa vedere solo a fine stagione tanto per rovinarci quel poco di affetto rimasto per Anna dai capelli rossi, gli chiedono incessantemente "PeRcHè Tu Sì E iO nO??" mentre quel poveretto, che di certo non ha avuto per niente vita facile come credono loro, non ha idea di che cosa vogliano dalla sua vita.
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La mia speranza per le altre due stagioni che spero di vedere presto è che la qualità si intensifichi a livello di trama ed intrecci, ci sta che la prima stagione sia un pò di premessa e presentazione per cui non giudichiamo troppo. Ho poi goduto veramente tanto nelle scene comiche, erano sempre un lieto stacco e mai troppo abbondanti, nonchè perfettamente incastrate nei dialoghi. Insomma promosso come prodotto, lo consiglio a chi ha voglia di un pò d'azione alla tokyo ghoul (visto che si parla del sovrannaturale) ma che ha anche nostalgia di commedia alla Ouran High Host Club, e le musiche, molte integrate con il sax, rendono un pò noir l'atmosfera in certi punti. Bene così! Ah, un consiglio prezioso, non guardate l'ending se non volete capire la relazione Dazai/Akutagawa al secondo episodio! XD  -sand-
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Sono su Instagram! ---> @sand_nerd
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pangeanews · 5 years
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“Sciabolata d’azzurro è lo sguardo”. Lode a Ezio Savino, il Prometeo del linguaggio
Da ragazzo, sono i vezzi della giovinezza, il vigore della stupidità, pensavo che le opere fossero superiori agli esseri umani. Per questo, mi rifiutavo, categoricamente, di incontrare scrittori & poeti. La carne, d’altronde, è la corruzione della forma; di solito, pensavo, una grande opera è inversamente proporzionale alla grandezza di chi l’ha foggiata. Minchiate. In ogni caso, per lui feci eccezione.
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A chi mi chiedeva chi fosse lo scrittore italiano che preferivo rispondevo, con spregiudicato sprezzo, Ezio Savino! Non era il trionfo dello snobismo, ma il trono del vero. Quel giorno, appunto – Milano, molteplici anni fa, in un palazzo troppo elegante per non digerirmi nelle sue interiora punteggiate di luci – lo conobbi. Mi parve titanico, abbronzato, un colosso con gli occhiali. Balbettai qualcosa. Con lui c’era Nicola Crocetti, con cui collaborava – ricordo, almeno, le introduzioni ai libri di Ghiannis Ritsos, di Kavafis. Forse mi sorrise – era robusto, si dileguò.
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Ezio Savino maneggiava il linguaggio come nessuno – leggerlo fu una delle sorprese della giovinezza, uno shock verbale. Savino, che se ne è andato nel 2014, era geniale, sapeva il valore della parola ‘servizio’: occorre farsi servi del desiderio del lettore, senza ostentare la propria accademica – e bulimica – sapienza. Ergo: era un abile divulgatore (le sue introduzioni sono schiette e affascinanti, ha scritto un ottimo libro per avviare i ragazzi alla conoscenza del mito, Il ragazzo con la cetra), ma quando traduceva lasciava tralucere l’enigma, la collisione, la corrosione. Non semplificava: sfidava. Le sue traduzioni di Sofocle e Tucidide, ma più di tutte quelle di Eschilo, con cui inaugura un corpo-a-corpo linguistico esaltante, sono alcune tra le opere in italiano più grandi e di vasta risonanza degli ultimi decenni. Savino non spiega, ma dilata l’eco del verbo; non trova risposte traduttive, al contrario, ci getta nel gorgo del labirinto, davanti al mostro.
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Esempi. Quarant’anni fa, per Garzanti, Savino pubblica la sua versione del Prometeo incatenato. Esordio: “Ci siamo: qui, all’orizzonte del mondo, su questo spiazzo, ultima costa di Scizia. Disumani, vuoti silenzi. Efesto, forza: fa’ tuo l’impegno che il Padre ti diede, piantare alle rocce, ai picchi d’abisso, quel disperato – guardalo – tra blocchi senza spiragli, di nodi d’acciaio”. Che fa Savino? Piaga i tiranti della lingua, estremizza: siamo nel cerchio del mito greco, del teatro del V secolo, è vero, ma potremmo essere dentro Star Wars, in una sconfinata cosmologia. Per capirci, questa è la traduzione di Monica Centanni – bravissima, per carità, ma qui non m’importa la coerenza filologica bensì l’insorgere dell’altro, dell’implacabile del linguaggio – nel ‘Meridiano’ Mondadori che raduna Le tragedie di Eschilo (2003): “Qui, ai confini del mondo siamo giunti, qui, nella Scizia lontana, in un inumano deserto. Su ora, Efesto, occupati tu di eseguire il mandato che il padre ti ha dato. Ecco l’uomo: alle rocce, sospese sull’abisso, questo temerario tu devi legare, con catene d’acciaio, in ceppi infrangibili”.
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Ammetto. Lo leggevo con l’ansia della iena, ne scorticavo i testi, fino all’osso verbale. Lo dico: non puoi scrivere senza aver letto l’Eschilo secondo Savino, arcaico, ma che ha ferrato le spalle al futuro. Va arso di sottolineature il suo tradurre. “Flettersi all’Inevitabile è equilibrio”; “Da ora per me l’universo è blocco d’angoscia. Ecco, mi si staglia negli occhi: dio è contro di noi! M’assorda il cervello un urlìo malato”; “Delitto strepitando attira Vendetta: lei, pronta – spira da quelli uccisi in passato – ammucchia a perdizione fresca perdizione”.
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Che emozione udire il sussurro metallico di Prometeo: “Io che ho ideato tanti congegni per l’uomo non trovo per me uno scaltro pensiero, sollievo al tormento che ora m’assale. È la mia sofferenza!”.
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Un brandello strappato all’Orestea, “Piegati al destino. Sperimenta il nuovo male, il giogo”, manda al libro più alto – e dei più comprensibili – di Emanuele Severino, Il giogo (1989). L’intento, lì, è quello di leggere Eschilo come “uno dei più grandi pensatori dell’Occidente”, l’uomo che “pensa per primo, in modo esplicito, il rapporto tra dolore e verità”. In particolare, continua Severino, “Eschilo pronuncia un ‘no’ inaudito al dolore – un ‘no’ non solo inaudito, ma completamente ignorato, nel suo significato autentico, da ogni riflessione sulle origini della civiltà occidentale”. La natura terribile del pensiero di Eschilo si capisce soltanto leggendo la traduzione di Savino, di plumbea bellezza.
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Così, nei Persiani, il coro degli sconfitti canta la sua sventura:
Sciabolata d’azzurro è lo sguardo, di smalto lucente: una serpe cruenta! …Pure frode, malia di una mente celeste Chi vale – qui sulla terra – a schivarla? …Sgorga da Dio il millenario potere della Dispensiera fatale. Sui Persiani calcò impegno guerriero: sgretolare castelli, groviglio d’assalto gioiosi, al galoppo, città sradicate.
Ma seppero presto quel lungo scrutare il mistero dei flutti, l’abisso che spalanca i suoi varchi –  luccicare perenne allo schiaffo del vento – affidati al cordame, fragili funi strumenti del passo oltremare. Così la mente – velo nero – si fa straccio all’angoscia.
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In dieci anni, tra il 1978 e il 1989, Savino traduce Eschilo e Sofocle, dando ai ‘classici’, finalmente, lingua di fierezza. Dove conta l’abbandono più che la sicurezza metrica, il vespaio di suggestioni più che il merito filologico. Tutto inizia, però, con il Tucidide del 1974, sempre per Garzanti, cioè la catabasi – senza catarsi – nel retro di tenebra della Storia. I passi fatali della Guerra del Peloponneso – questo, ad esempio: “Poi i Peloponnesi, calati dall’argine si diedero a sgozzare tutti quelli che si agitavano nel fiume. in breve l’acqua s’intorbidò e si corruppe, ma non venne meno la frenesia di berne, e più d’uno impugnò le armi contro un compagno, per raggiungere un sorso di quell’acqua dal sapore di fango, ed insieme di sangue” – potremmo ascoltarli in Apocalypse Now, a vergare il delirio vietnamita, quello libico, d’ovunque, perché Tucidide estrapola l’orrore dalla cronaca, ma per farne sentire l’odore non puoi accontentarti di un cronachista del tradurre. Le pagine devastanti dei prigionieri nelle latomie – “Per ristrettezza di spazio si vedevano obbligati a soddisfare i propri bisogni in quello stesso fondo di cava: e con i mucchi di cadaveri che crescevano lì presso, gettati alla rinfusa l’uno sull’altro, chi dissanguato dalle piaghe, chi stroncato dagli sbalzi di stagione, chi ucciso da altre simili cause, si diffondeva un puzzo intollerabile” – sono speculari al fatidico discorso di Pericle. Tucidide alterna l’elogio della democrazia – “le nostre direttive s’ispirano all’audacia più temeraria, temprata dalla più responsabile riflessione, dove per gli altri l’osare è incoscienza, il ponderare impaccio” – alla “distruzione radicale” della guerra, insinuata come una peste nel cuore dell’uomo. Intriga intendere la democrazia come un osare, più che un sostare sul noto.
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L’intelligenza inquieta, inappagata di Savino l’ha reso creativo pure nell’arco giornalistico. Dei suoi pregi disse, in un pezzo commosso, Alessandro Gnocchi; io ricordo un pezzo, era la tarda estate del 2009, in cui sul Giornale Savino cantava il primato di Usain Bolt fingendosi Pindaro redivivo: “Guardate il cartellone. Parla la lingua delle cifre, che è quella degli dei: 9.58, primato mondiale per Usain Bolt, sulla distanza classica dei 100 metri piani. Chi mi segue dall’epoca dei miei commenti sportivi da Olimpia, da Delfi e da Corinto, sa che esoterismo e scienze occulte dei numeri sono una delle mie passioni. Nulla è caso. Fate la somma dei dati, e troverete 22, proprio l’età del vincitore, in anni di vita”. Audacia e gioco, vertigine e ironia, abisso che sa sfottersi. Tra le tante cose, per Mursia, nel 1979, Savino ha scritto il commento al Dersu Uzala di Arsen’ev, il libro da cui Kurosawa trae il film, indimenticabile. Ecco, Savino, come Dersu Uzala, conosce la tigre, sa saggiare e percorrere la foresta del linguaggio e questo, per lo più, è il gergo del mio grazie. (d.b.)
*In copertina: Dirck van Baburen, “Efesto incatena Prometeo”, 1623
L'articolo “Sciabolata d’azzurro è lo sguardo”. Lode a Ezio Savino, il Prometeo del linguaggio proviene da Pangea.
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deathorparadise · 7 years
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“In qualche modo mi ricorda involontariamente quella ragazza tisica e deperita che voi guardate a volte con compassione, a volte con un certo affetto pietoso, a volte semplicemente non la notate neppure, ma che improvvisamente, per un attimo solo, in modo disperato, diventa inspiegabilmente di una meravigliosa bellezza, e voi, colpito e inebriato, vi chiedete inconsapevolmente: qual è la forza che dà un tale splendore, un tale fuoco a quei tristi occhi pensosi? Che cosa ha fatto affluire il sangue a quelle pallide gote incavate? Che passione si è riversata sui teneri lineamenti del volto? Per quale ragione il petto ansima così? Che cosa ha provocato improvvisamente la forza, la vita e la bellezza sul volto di quella povera ragazza, lo ha fatto brillare di un simile sorriso e ravvivare da una gaia e scintillante risata? Vi guardate intorno, cercate qualcuno, pensate di intuire… Ma l’attimo fugge, il giorno dopo incontrate di nuovo lo stesso sguardo pensoso e distratto, lo stesso viso pallido di prima, la stessa sottomissione e mitezza nei movimenti e persino un certo pentimento, persino tracce di una tristezza mortale e di stizza per quell’effimero piacere… E vi fa pena che quella bellezza apparsa per un attimo sia svanita così in fretta e così irrevocabilmente e che, ingannevole e vana, abbia brillato davanti ai vostri occhi lasciandovi il rammarico di non aver fatto in tempo ad innamorarvi di lei…”
Fëdor Dostoevskij, Le notti bianche
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