Tumgik
#ho due occhi da bambino
kon-igi · 10 months
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QUESTA È UNA STORIA CHE NON SO COME COMINCIARE A RACCONTARVI
È una storia triste con un finale velato di speranza che però non riesce a diminuire in me la tristezza, visto che è troppo spesso ripetuta ovunque nel solito loop di solitudine e sofferenza.
Non a caso ho deciso di raccontarla solo adesso e a taluni potrà sembrare che io mi voglia agganciare furbescamente al trend 'femminicidio' e con questo post fare virtue signaling.
Tutt'altro, credetemi.
Questa storia parla del coraggio di una ragazzina di 20 anni, l'unica reale protagonista, mentre noi come famiglia, semmai, abbiamo avuto solo il merito di essere al posto giusto al momento giusto.
Ricordate questo: AL POSTO GIUSTO AL MOMENTO GIUSTO e poi nella chiusa a questo post capirete.
Anche se dubito fortemente che conosciate lei o siate venuti a sapere della sua storia, per un mio senso di riservatezza cambierò molti particolari, senza però far perdere mai il senso di quanto accaduto.
Mia figlia piccola aveva una compagna di studi con la quale era rimasta in contatto anche dopo la maturità e una sera questa ragazza è venuta a cena a casa nostra, su strana insistenza di nostra figlia perché era già tanto tempo che non si vedevano, tranne qualche messaggio con cui lei la teneva informata sullo stato di salute del fratellino di 7 anni, affetto da una forma aggressiva ma curabile di leucemia.
Avevamo capito che era successo qualcosa e infatti questa ragazza, durante la cena, ci confida che lei, la madre e, soprattutto, il fratellino sono da anni vittime di maltrattamenti psicologici e fisici a opera del padre.
E noi, su insistenza di nostra figlia che è riuscita a convincerla, siamo state le prime e uniche persone alle quali trova finalmente la forza di dirlo, visto che il padre aveva costretto la madre a chiudere i contatti con ogni parente e cerchia di amici.
Erano sole, la madre non lavorava e tutti dipendevano da un unico stipendio, quello del padre, che inoltre decideva quando e quanto potessero uscire di casa.
Una storia di abusi familiari come tante, solo che invece di sentirlo in un telegiornale ce le stava raccontando di persona una ragazzina smilza e che sorrideva triste per l'imbarazzo.
E poi ho visto gli occhi di mia figlia, pieni di rabbia e indignazione ma scintillanti anche di qualcos'altro... speranza, anzi, convinzione che noi potessimo aiutarla.
Con un peso enorme nel cuore, le abbiamo allora parlato tutta la sera, l'abbiamo consolata, consigliata e spronata a fare quello che la madre non aveva più la forza di fare: denunciare ai carabinieri e rivolgersi a un centro antiviolenza.
E mentre lei piangeva lacrime di gioia per aver finalmente trovato qualcuno con cui aprirsi, le arriva un messaggio wathsapp sul telefono con una foto.
Una foto da suo fratello.
Che si era fotografato il naso.
Rotto e sanguinante.
E il messaggio sotto diceva 'Papà ha picchiato la mamma e poi me. E poi se n'è andato'.
Un bambino di 7 anni con la leucemia che deve andare a fare la chemio due volte a settimana.
A vederlo scritto pare assurdo pure a me, una di quelle brutte sceneggiature per una fiction rai in prima serata ma il fatto era che stava succedendo di fronte ai nostri occhi e non so come io sia riuscito a non prendere una delle mie asce appese al muro per andare schiantarlo in due come un ceppo marcio.
Lei, però, non si scompone più di tanto e ci dice 'Adesso vado. Ci penso io' con un tono che nascondeva stanchezza e abitudine... ma forse anche qualcos'altro di nuovo.
Vent'anni anni e ci pensava lei, quando noi - cinquantenni - eravamo solo riusciti a dire delle belle parole, tutto sommato inutili.
Prende ed esce, con noi che le andiamo dietro urlandole di chiamare subito i carabinieri e cercando di andare assieme ma lei sembra essere molto decisa, finché le luci posteriori della sua macchina non scompaiono nella notte.
Minuti, decine di minuti e poi ore ad aspettare notizie, senza conoscere il suo indirizzo e senza sapere dove mandare qualcuno a controllare.
Poi squilla il telefono. È lei. Ci racconta che quando è arrivata a casa ha subito controllato che non ci fosse la macchina del padre, è entrata e ha chiuso la porta da dentro lasciandoci le chiavi sopra. E quando il padre, ore dopo, ha provato a entrare e, non riuscendoci, ha cominciato a dare in escandescenze, ha chiamato i carabinieri dicendo loro che aveva picchiato la madre e il fratello.
Carabinieri che, ovviamente, lo hanno beccato mentre prendeva a calci la porta di un appartamento con dentro una donna e un bambino sanguinanti per le botte ricevute.
Nonostante tutto, quella notte non siamo riusciti a dormire.
Il giorno dopo mi arriva un audio su whatsapp (le avevo dato il mio numero per emergenza) e per quanto forse avrei potuto postarvelo qua per farvelo ascoltare, preferisco trascrivervelo
'Ciao, sono E. Ti volevo dire che ieri sera siamo stati al pronto soccorso e io ho insisitito con i medici che facessero tutte le foto a mamma e L. e che poi chiamassero la polizia che c'è dentro. L. è stato coraggioso e ha raccontato tutto, poi anche mia mamma ha trovato il coraggio di parlare. Ora stiamo andando al centro antiviolenza di Parma così ci aiutano con gli avvocati e magari ci trovano anche un altro posto dove andare. Io vi volevo ringraziare perché per la prima volta in vita mia mi sono sentita in una famiglia vera che capiva il mio dolore e la mia paura e con voi ho trovato la forza di parlare. Grazie di essere così meravigliosi'
Io ogni tanto ascolto quell'audio e poi le telefono per sapere come va. Lo ascolto perché, vedete, non mi sembrava che avessimo fatto chissà che cosa ma il tono della sua voce diceva tutto il contrario.
E allora mi sono ricordato di quella vecchia storia del ragazzino con la gamba rotta al quale ho fatto compagnia mentre aspettavamo l'elisoccorso e di come i genitori, mesi dopo, mi hanno riconosciuto in mezzo alla folla e mi sono venuti ad abbracciare come se gliel'avessi riattaccata, quando io mi ero limitato solo a rassicurarlo in attesa dei soccorsi.
Però ero al posto giusto al momento giusto.
Quel posto e quel momento, però, che non sono e non accadono mai a caso alla persona che sa cosa sia la sofferenza.
Se questo mondo non vi ha reso cattivi - e se siete arrivati a leggere fin qua non solo non siete cattivi ma anzi molto pazienti - allora avrete capito che il posto giusto al momento giusto è quello in cui siete ora, nello stesso frammento di tempo in cui decidete di spostare gli occhi dal centro del vostro dolore personale alla consapevolezza di quello degli altri.
Come non mi stancherò mai di dire, una mano protesa salva tanto chi la stringe quanto chi la tende.
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mccek · 11 months
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“Nonoo” questa mattina sei venuto a mancare e dopo aver lottato per altri tre mesi, anche se in ospedale ti avevano dato pochi giorni, ininterrottamente non hai mai mollato quel filo sottile che divide la vita dalla morte; anche contro le tue volontà a testa alta col tuo carattere (in cui non mi rispecchiavo) sei riuscito a tenerti vivo, ahimè, purtroppo, la morte vince si tutto, non ha pietà.
Fin da piccolo il tuo sogno era di vedermi guidare, cosa che se pur col tempo ho saputo apprezzare non ho mai amato fare come te, prima che l’infarto ti colpisse definitivamente ti avevo fatto una promessa, di portarti a vedere un gran premio di formula uno, da noi tanto amata, questo seppur per evidenti problemi economici non mi avrebbe mai impedito di non farlo, però non avresti avuto le forze, anche se immagino che ti saresti commosso, anche se una persona come te era difficile vederla piangere.
Abbiamo avuto periodi in cui ci costruivamo mentalmente dei muri invisibili e proprio per la differenza del nostro carattere questo ci ha ferito entrambi, fuori sicuramente eravamo orgogliosi ma il problema poi è sempre dentro, quel peso che a lungo andare ti consuma fino a trasformalo in malattia.
Col senno di poi siamo bravi tutti, tu hai le tue responsabilità e io le mie, non esistono santi, nessuno di noi due ha vinto o perso, nonostante abbiamo sofferto, ci siamo riavvicinati pian piano, con più fiducia e lo abbiamo fatto raccontandoci la mia, la nostra infanzia, nostra perchè alla fine hai passato davvero tanti anni assieme a me quando ero piccolo, io non dimentico i tuoi errori nonno, ma nemmeno il bene che mi hai fatto, la tua immensa disponibilità per me e la mamma quando aveva bisogno di essere portata per lunghi anni su e giù in ospedale, sappi che queste cose rimarranno impresse nella mia testa, perché col tempo, forse crescendo, anche se ancora mi vedo, sai, un po’ bambino, quel Mattia che era il tuo idolo, che doveva essere il migliore di tutti, ma che in realtà voleva solo essere come tutti, e che quei tutti avessero il mio stesso cuore, quella bontà che col tempo è pian piano svanita.
Chi si dimentica di tutta quella gente che ci Incontrava in bici la mattina presto?
La tua felicità negli occhi, nel vedere come tutti si fermassero a guardarmi, a parlarmi e a sottolineare il fatto che il sorriso non mi mancasse mai.
Si andava a prendere il pane, ne volevo subito un pezzo, ci fermavamo a vedere tutti i cani della via con la speranza che rispondessero alle mie parole, e restavo lì convinto fino a quando sentivo abbaiare e tu mi davi conferma delle loro risposte.
Che periodi, cercavo sempre mia mamma, purtroppo per via del lavoro per me era come stesse via intere settimane ma in realtà così non era, però tu ben sapevi quanto io sia legato a mamma, e tranquillo ricorderò sempre quanto anche tu lo fossi, anche se spesso avevi qualcosa da ridere per via del tuo carattere ricorderò le tue ultime parole: “La mamma è la donna più intelligente che ho conosciuto, fin troppo buona e disponibile per tutti, voglio che lei lo sappia”.
Potrei scrivere un libro, non un poema su ciò che abbiamo vissuto insieme, sei stato la mia infanzia, il mio periodo preferito, lo rivivrei mille volte, nonostante il tuo modo di essere, ma chi sono io per giudicare? Certo, quello che penso lo dico, come hai sempre fatto tu, ma allo stesso tempo non mi nasconderò mai come non giudicherò mai!
Ora stai vicino alla nonna, e assieme fatemi il regalo più grande, che non sono i soldi, non sono una vita di successi, ma la speranza di vedere vostra figlia, mia mamma, stare un po’ meglio.
Solo questo.
Il pensiero rimbomberà sempre nella mia testa, fra cose belle e cose brutte, ma per vivere di questi tempi, bisogna affidarsi solo all’amore, lo sai nonno no?
Quella piccola parte di odio che io ho sempre avuto verso la mia generazione, e tu, verso chi ben sapevi, era molto simile, però se fossi qui so che con un sorriso, e magari una lacrima, diresti: “Qua te ghe rason”.
Ciao caro nonno, ti voglio bene❤️
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myberrylove · 9 months
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Ash si appoggiò pesantemente sulla spalla di Misty.
Ti preeeego!
La ragazza fece una smorfia poco contenta, guardando l’amico Ash con quell’espressione disperata, tipica di un bambino capriccioso.
Ash, avevamo fatto un patto…- disse lei per l’ennesima volta, cercando di nascondere l’imbarazzo di avere il suo viso così vicino. Anche dopo anni, quel ragazzo non smetteva di farla sentire come una bambina alla sua prima cotta.
Ok, ok… ma perché proprio uno spettacolo di Rudy?- brontolò lui, comodamente appoggiato sulla spalla di lei, quasi a cercare rifugio in quella stretta intima, come se fosse la cosa più naturale al mondo.
Perché sua sorella ci ha regalato i biglietti.
Ma lo sai che è così noooioso!
Solo perché non ti piace ballare, non vuol dire che il ballo sia noioso.
D’accordo, allora è Rudy a essere noooioso! E borioso!- la guardò con un’espressione tanto tragica da essere buffa- Dai, anche tu alzi gli occhi al cielo quando inizia a parlare di sé.
Misty cercò di rimanere seria, ma pensando alle parole di Ash non poté evitare di farsi sfuggire un sorriso complice.
Hai ragione, a volte Rudy è così… pieno di sé…
Visto?- disse trionfante Ash guardando l’amica che con difficoltà cercava di non ridere.
… Ma ho promesso a sua sorella che ci saremo andati.
Ash fece uno sbuffo indispettito e si staccò dalla spalla di Misty.
Va bene, ma non sorprenderti se dormirò durante tutto lo spettacolo- incrociò le braccia dietro la testa.
Non sarebbe una novità- commentò lei e salì per prima le scale per entrare nel teatro. Ash le fu subito dietro.
I due ragazzi si avvicinarono ai loro posti riservati, quando una ragazzina li notò e andò incontro a loro.
Misty! Sei venuta!- disse la ragazzina raggiante, per poi notare anche il ragazzo dai capelli nero corvino dietro di lei- … E Ash- aggiunse con un tono meno entusiasta.
Te l’avevo promesso- disse gentilmente Misty con un sorriso.
Ti ringrazio, mio fratello sarà felice di sapere che sei… siete qui- si corresse all’ultimo- Godetevi lo spettacolo- li salutò e andò a sedersi da un’altra parte.
Sempre felice di vedermi, eh?- commentò sarcastico Ash, mentre entrambi si sedevano nelle poltroncine vicino al palco.
Ancora con questa storia?- disse Misty stancamente, ignorando che la ragazzina stava guardando da lontano il ragazzo con uno sguardo poco amichevole- Non ha niente contro di te, non hai visto che era contenta di vederti?
Oh sì… era contenta di vedere te… - precisò lui- Immagino di aver rovinato i suoi piani…- borbottò con un susurro che Misty non sentì, perché in quel momento le luci si spensero e il tendone si aprì, facendo entrare gli artisti con un sottofondo di musica.
Misty osservò i ballerini muoversi con grazia sul palco, ma non poté evitare di notare che il ragazzo accanto a lei ridacchiava di nascosto. Lei gli diede una gomitata per farlo smettere. Erano così vicini al palco che avrebbero potuto vederlo.
Ash, ti sentiranno- sussurrò lei indispettita.
Ehi, non è colpa mia se è vestito in quel modo ridicolo- si giustificò lui con voce bassa.
Misty si limitò a sospirare, anche se non poteva dare torto a Ash… Rudy sembrava davvero buffo con quella calzamaglia. Ma non poteva certo ammetterlo davanti a Ash… era stata lei a insistere che ogni tanto dovevano provare dei passatempi più culturali.
Notò però che Ash la stava guardando con un’espressione gongolante.
… cosa?
Stai ridendo.
No, non è vero- si difese lei, cercando nuovamente di sembrare seria. Era dura cercare di essere la persona più matura nel gruppo- Ora fa silenzio.
Come vuoi…- lui si limitò ad alzare le spalle, sussurrando mentre si sistemava nella poltroncina- Quasi invidio Pikachu che è rimasto con Brock.
Misty evitò di commentare per concentrarsi sul balletto. Nel giro di qualche minuto però, avvertì un delicato peso sulla sua spalla. Girò la testa lentamente, e il suo sguardo si scontrò con la dolcezza di Ash che aveva posato la testa sulla sua spalla, cedendo al sonno.
Per un istante sentì un brivido leggero, una sensazione di intimità familiare, che cercò ovviamente di scacciare velocemente.
Ecco, lo sapeva… Ash e il teatro erano due cose incompatibili.
Avrebbe volentieri svegliato Ash con una forte gomitata, ma un mormorio assonnato simile al suo nome uscì dalle sue labbra mentre si sistemava meglio sulla spalla di lei. La mano di lui sfiorò le dita di Misty, quasi intrecciandosi in un legame invisibile.
Un leggero rossore colorò le guance di Misty, ma non era dovuto alle luci del palco.
Ash, beatamente immerso nel sonno, era così vicino a lei che, nonostante la leggera frustrazione, Misty si lasciò andare a un sospiro rassegnato.
Un piccolo sorriso affiorò sulle labbra di Misty e decise di accomodarsi anch’essa vicino ad Ash.
Solo per quella volta avrebbe lasciato correre. In fondo, erano poche le occasioni di stare così vicini senza che sembrasse imbarazzante per entrambi… senza che i sentimenti incasinassero la loro complicata amicizia.
E in quel buio avvolgente del teatro, i loro cuori battevano all'unisono, forgiando un legame che andava oltre le parole.
°*°*°*°*°*°
Ok, dovevo scrivere due righe per accompagnare il disegno, ma io noooo... devo sempre esagerare 🙄
E per chi se lo chiedesse... ho fatto prima il disegno e poi mi sono fatta ispirare per scrivere, non viceversa 😅 Mi viene più difficile disegnare in base alla storia.
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caoticoflusso · 5 months
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oggi in autobus fra la calca ho posato lo sguardo su una coppia, avranno avuto trentasei anni a vicenda su per giù. due bambini, di cui uno era seduto in braccio alla mamma, aveva la mano adagiata teneramente sul vetro e con gli occhi esplorava un po’ le macchine ferme al semaforo, indicando qualche cane al loro interno. ho pensato a quanto splendore abbiano le cose se viste da una prospettiva diversa, una prospettiva temporale decisamente opposta alla nostra: quella di un bambino, o una bambina.
la voce del più piccolo esclama: ‘che bella città!!’ come se non ci fosse stato mai, come se non sapesse neanche lui dove si trovasse. l’ingenuità delle sue parole, miste a quelle del più grande che con disinvoltura, guardava il resto dei passeggeri. talvolta pensiamo che ingenuità equivalga a stupidità e che, una volta cresciuti, è un bene lasciar spazio a consapevolezze e astuzia. io la penso sempre in modo diverso, il candore e l’innocenza devono far parte di noi per mantenere quello sguardo mai perso che possedevano quei bambini/quelle bambine che non abbiamo mai smesso d’essere. (sono quasi sicura che io abbia espresso una teoria del fanciullino rivisitata da me, un po’ moderna e meno intellettuale)
i due bimbi, infine, decidono di tirare la catena della borsa che avevano fra i due sedili, ho dedotto fosse della madre. il più piccolo, sorride. e così fa anche il più grande, con tanto di: ‘continua, stiamo facendo musica’ e c’ho trovato poeticità.
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mucillo · 17 days
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Pino Daniele - Io Per Lei
youtube
..Io per lei ho due occhi da bambino, se sei tu il mio destino allora portami via…
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sottileincanto · 8 months
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"- Hai cambiato letto.
- Sì.
- Quando?
- Non mi ricordo. Saranno quindici anni.
- Questo ha il cassettone.
- Sì.
- E non m’hai detto niente?
- Scusa.
- È una questione di rispetto.
- Lo so, scusa.
- Mettiti nei miei panni, in quanto mostro sotto il letto, la struttura del letto ha un ruolo fondamentale per il corretto svolgimento del mio lavoro. Se tu me la cambi, ci va di mezzo la qualità del servizio.
- Mi rendo conto.
- Non vorrei dovermi rivolgere al sindacato.
- Vedo cosa posso fare.
- Grazie.
- Aspetta… io ho un mostro sotto il letto?
- Avevi. Abbiamo lavorato insieme dal ’90 al ‘98. Ti risulta?
- Forse.
- Mi chiamavi Tommyknocker, te lo ricordi?
- Ah già.
- Cos’era?
- Un brutto film tratto da un brutto libro di Stephen King.
- Ti faceva così paura?
- Non l’ho mai visto. Mi faceva paura il nome.
- Il nome. E le dita. Te le ricordi le dita? Dita lunghe, dita di morto, dita con falangi magre che graffiavano e spiavano, e poi chissà, occhi vuoti, tre file di denti, tutto quello con cui la fantasia poteva torturate un bambino. Scivolavo nel buio come un insetto, come un annegato. E mentre mamma e papà litigavano nell’altra stanza, tu chiudevi gli occhi e fissavi il muro. Perché la regola era…
- Che se ti vedo, mi prendi.
- Che se mi vedi, ti prendo. Non ci siamo più sentiti. Com’è?
- Ho avuto un sacco da fare.
- Vuoi che ti faccia paura?
- A te farebbe piacere?
- Ma sì, in ricordo dei vecchi tempi.
- Va bene.
- Allora adesso allungo una mano e ti afferro un piede.
- Okay.
- Com’è?
- Ho molta paura.
- Non sembra.
- No, no, davvero, sono pietrificato.
- Non è vero.
- Invece sì.
- Smettila di essere condiscendente. Lo capisco quando fingi.
- Scusa, è che c’ho la testa da un’altra parte. Mi sono arrivati un sacco di lavori tutti insieme, un mucchio di scadenze, e poi…
- E poi?
- Lasciamo perdere.
- No, no, dimmi.
- Non è per sminuirti, è che adesso mi fanno paura cose diverse.
- Tipo?
- Beh, così su due piedi.
- Dai, magari mi aiuta, facciamo un corso di aggiornamento.
- I parcheggi a esse.
- Cioè?
- Mi fanno paura i parcheggi a esse. Non li so fare. Vado nel panico.
- Ma come faccio a farti parcheggiare qua nella tua stanza.
- C’hai ragione.
- Qualcos’altro?
- Le raccomandate.
- Le lettere?
- Sì, le buste delle raccomandate. Di solito è una multa, ma c’ho sempre paura che sia qualcosa di peggio. Una di quelle cose che ti rovina la vita.
- Mi potrei vestire da postino…
- Ma non è il postino in sé, è più…
- La busta, ho capito. Non posso passarti buste da sotto il letto, dai.
- No, no, chiaro.
- Mi sentirei uno scemo.
- I debiti.
- Eh?
- Mi fanno molta paura i debiti. L’idea di essere in debito. Mi mette ansia.
- Sì, va bene, ma pure questo è astratto.
- Poi, fammi pensare…
- Guarda, forse è il caso che la chiudiamo qui.
- Vediamo, ho paura di non essere quello che ho detto di essere. Capisci? Un bel giorno dover andare in giro e spiegare a tutti che mi sono sbagliato, che non è vero che so fare quello che ho detto di saper fare.
- Va bene, ho capito, facciamo che ci aggiorniamo…
- Ho paura che sia troppo tardi.
- Per cosa?
- Per tutto. E che ogni giorno sia troppo tardi per una cosa nuova.
- Così no, però, così non va bene…
- Vorresti che avessi paura di qualcosa di più concreto, vero? I mostri magari. I fantasmi,gli alieni?
- Esatto! Esattamente! È proprio quello che cercavo di dirti.
- Ma magari.
- Come magari?
- Magari ci fossero i mostri, magari ci fossero gli alieni, magari ci fosse qualcosa che si muove nel buio. Io ci spero che le cose che mi facevano paura da bambino siano vere. Io ci spero che nel buio ci sia qualcosa, perché significherebbe che non sono solo in quel buio. Che non è tutto qua.
- Basta, ti prego.
- E poi ho paura di me.
- Davvero non…
- Delle mie ipocrisie, delle mie nevrosi, della mia malignità, di una sveglia sul cellulare con scritto sopra “pagare tasse”. E più di tutto…
- No…
- Ho paura perché credo di aver finalmente capito perché ho paura.
- Smettila…
- Ho paura perché credo di essere come uno di quei quadri impressionisti. Quelli che da lontano sembrano belli e sensati e più ti avvicini più ti accorgi che non c’è niente, sono solo macchie di colore. Ed è quello che penso di me.
- Cristo santo. Davvero?
- Sì.
- Io… cavolo, è… è…
- È?
- Terrificante.
- Lo so.
- Oh no.
- Cosa?
- Sei diventato il mio mostro sopra il letto."
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Testo: Nicolò Targhetta
Grafica: Amandine Delclos
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occhietti · 1 year
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Si andava al mare e si restava
tre settimane, forse un mese.
Si passava la giornata a desiderare di fare il bagno, a supplicare gli adulti, a negare di aver mangiato; ci si buttava in mezzo alle onde monitorati dallo sguardo di sbieco di qualche genitore sulla riva; si calciava la marea con gli stinchi, fino a fare male. E quando si beveva l’acqua salata, per il dispetto di qualche altro bambino, il desiderio di vendetta durava non più di qualche secondo e comunque da lì alla seconda onda spumosa. I piedi bruciavano dal lettino alla riva e si correva verso la battigia con le urla e i richiami che si sperdevano alle spalle e si dissolvevano fra gli stabilimenti.
Il lettino era una conquista da adulti, i bambini potevano solo sedersi a terra, sopra a un telo che si riempiva di sabbia. Lo scrollavano le madri lamentose, con i granelli che volavano via con il vento e che andavano guidati, lontano dagli occhi, dalle borse appese agli ombrelloni, dagli altri. I ghiaccioli si scioglievano a toccarli con le labbra e sgocciolavano sulle dita dei piedi, diventando colla colorata da lavare a riva. Si scavavano buche per trovare l’acqua e a volte si trovavano conchiglie dure, da farsi male, spezzarsi le unghie. Non si smetteva di cercare, si continuava con l’altra mano.
Le regole erano chiare e sicure: tre ore lontano dai pasti ogni bagno, al primo richiamo risalire, al calcio balilla non frullare, non allontanarsi mai. Solo l'ultima non rispettavo e mi chiamavano al microfono con il mio nome o, se proprio non tornavo, con il colore del mio costume. Era bello parlare con gli adulti sdraiati che facevano finta di comprare le conchiglie che si andava a vendere, tutte, anche quelle più brutte o spaccate. Accadeva il miracolo semplice dello scambio, il segreto incontrovertibile nell’atto: io che davo e qualcuno che prendeva e ridava indietro, senza condizione. Io ho qualcosa da darti e tu lo prendi. Ho un’acqua e tu una sete.
Il tempo non c’era, non esistevano i giorni che consumano, esisteva la luce per andare in spiaggia, la penombra per rientrare e il buio per girare sui marciapiedi gremiti, con l’odore delle creme degli altri e i salvagenti appesi nei negozi illuminati al neon.
A un certo punto, si preparavano le valigie si lavavano bene le posate della casa e si andava via, dopo avere riconsegnato le chiavi a un’agenzia con la vetrina spoglia. Il viaggio del rientro era lungo, fatto di nausea, di aria che usciva tiepida dai bocchettoni della macchina stipata. Il cane boccheggiava con la lingua fuori a tratti e mia nonna teneva stretta la maniglia alla sua destra, in alto, come se dovesse cadere da un momento all’altro.
Era il segno che l’estate stava finendo, i compiti delle vacanze erano stati fatti per metà, ci sarebbero stati altri pomeriggi, nella penombra del soggiorno, a casa dei nonni materni, con mia nonna a riposare nella stanza accanto o a farsi fare la tinta dall’amica Vera, con l’odore forte di ammoniaca in cucina.
La vita era davanti e si poteva aspettare, senza morirsi addosso, trattenere il respiro fino al primo temporale a segnare una nuova stagione, la seconda delle uniche due. Si poteva aspettare l’inverno come non fosse una fine, un ridursi, un passare.
Era il tempo fisso dell’infanzia, con i volti eterni, per sempre fermi sulla battigia a tenere il telo ad asciugare. Si poteva credere ricominciasse tutto da capo, nel suo cerchio, in eterno identico. Attendere ritornasse il presente caldo, il presente vacanziero, ma attenderlo d'inverno... come fosse un futuro.
- Beatrice Zerbini
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libero-de-mente · 1 year
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Il Caregiver
Questa mattina sono andato da mia madre, come tutte le mattine, ma con un impegno in più.
Infatti oggi comincia il servizio di assistenza a domicilio per mia madre, la struttura a cui mi sono rivolto le ha assegnato un'assistente. Si chiama Dolores.
"Buongiorno soy Dolores" - così ha esordito qualche giorno fa l'assistente al telefono con me.
"Buenos días" - le ho risposto per darmi un tono
"Lei è il señor Tomasseli?
"So' Rino" - ma come cacchio le parlo?
"Sorino? Lei è el señor Sorino?"
"No Sorino, solo Rino. Il mio nome".
"Ah, Solarino... me scussi, ma che nome è?"
"Maggnente, sono uno che tira sole e quindi Solarino è i mio soprannome"
Nulla da fare, la deficienza telefonica mi aveva preso, ora come potevo rimediare?
Nel frattempo Dolores gira dei fogli, si sentono chiaramente al telefono, probabilmente sta cercando i dati di chi ha compilato la domanda, ed ecco che trova ciò che cercava "Ah, lei se chiama Rino Tomasseli"
"Si" - le rispondo divertito di come chi parla lo spagnolo raddoppia alcune consonanti eludendone altre.
Arriviamo a questa mattina. Dolores è puntualissima, bella truccata e pimpante come lo sono le persone che debbono sostenere persone anziane e in fase discendente.
Entra in casa e saluta entrambi con un sorriso rassicurante, le presento mia madre e le faccio vedere la casa.
In soggiorno il televisore è sintonizzato sulla Santa Messa, in camera da letto l'altro televisore idem.
"Doppia Messa, como mai due televissori acessi?"
"Effetto stereo"- le rispondo.
"Como?!"
"Si, ascolti... non sente la stereofonia del prete che dice <Prese il pane>, non sente la potenza della frase raddoppiata?"
"No" - mi guarda stranita.
Credo che l'ironia non sia in questo momento cosa buona e giusta.
Così Gesùrino prese l'ironia, la piegò la pose in un cassetto e disse <Pendete e andate senza sorrisi, non ve li meritate>.
Tornando in soggiorno, dove c'è mia madre, Dolores mi chiede: "Mi potrebbe firmare questi due moduli, è lei il caregiver, vero?"
"No, lui è mio figlio" - interviene secca mia madre, poi guardando me - "Tu sei mio figlio non o' carabbinier"
"Ma no mamma caregiver, ovvero quello che si occupa di te"
Le brillano gli occhi, si sente protetta e poi guarda Dolores, conosco quello sguardo di chi comincerà a raccontare aneddoti sulla mia vita di quando ero piccino. La fermo a tempo.
"Beh"- dandomi un tono da attore consumato che sta per uscire dalla scena sul palcoscenico di un teatro - "Io devo andare, mamma sei in buone mani - poi rivolgendomi a Dolores le stringo una mano - "Grazie, grazie mille dell'aiuto che mi darà".
Il sorriso di Dolores mi conforta.
Sono in auto, scommetto che il sorriso di Dolores sarà diventato una risata. Già mi sembra di sentire mia madre raccontare i "famosi aneddoti" di un piccolo Rino che ancora, illuso, si permetteva di vivere d'istinti e d'istanti (frase da boomer lo so).
Come quando mia madre, a un cambio del pannolino, si divertiva a "rubarmi il pisello" come si fa con il naso dei bambini, solo che io per assicurarmi che non lo avesse preso davvero le pisciai in volto.
O quella volta che entrai in una cabina al mare, credendo che fosse la nostra per cambiarmi il costumino pieno di sabbia, invece era di un'altra famiglia. La ragazza, penso allora ventenne, che stava dentro (nuda) non si scompose più di tanto, avevo cinque anni più o meno, e mi disse "ma tu bel bambino da dove sbuchi?". Sorrise.
Io no, rimasi pietrificato guardando una micia. Non sapevo che dei micini vivessero proprio lì nei costumi delle donne. Uscii dalla cabina rosso in volto, con una paresi facciale e la
Voglia di remare
Fare il bagno al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni, -oni, -oni
Da allora nessuna donna mi ha più sorriso se entravo per sbaglio in una cabina o uno spogliatoio dove ci stava una di loro. Va beh, forse quando ci provai ero troppo avanzato con l'età. Credo di averne avuto venti o venticinque in più, di anni intendo.
Oppure le racconterà di quando, la sera di una Vigilia di Natale con cenone ben disposto sulla tavola e ospiti pronti al pasto, stando in piedi sulla sedia all'urlo "Sono la tigre di Mompracem!", persi l'equilibrio e arrivai preciso con la faccia nell'insalatiera che conteneva chili di insalata russa.
Ecco perché crescendo sono traumatizzato dalle patate femminili e le insalate russe.
Però mi piace cucinare.
E mangiare.
Grazie mamma per avermi fatto empatico e rispettoso degli altri, ma anche molto meno andava bene. Per dire.
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theladyorlando · 1 year
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Il mio amico Nando
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Scoprire che Pavese sia stato innamorato di Fernanda Pivano mi ha fatto saltare sulla sedia: eppure adesso mi sembra un'informazione scontata, un'evidenza inevitabile. Ci sono persone che si chiamano, da lontano, questo mi è ormai chiaro. Fernanda Pivano era stata alunna di Pavese, e poi si erano ritrovati alcuni anni dopo il liceo di lei. A me fa tanta tenerezza l'idea di lui che ormai è un uomo fatto, che si è scontato un anno di confino per non tradire ai fascisti la sua "donna dalla voce rauca", che è tornato a casa solo per scoprirla sposata, e che già si lascia "accarezzare" la coscienza dall'idea di togliersi la vita; ecco, mi fa una tremenda tenerezza pensare che lui si sia innamorato come un bambino di una ragazza che aveva conosciuto da studentessa, una ragazza che voleva tradurre l'antologia di Spoon River e che si vestiva da maschio. La chiama "il mio amico Nando" in una lettera in cui racconta, come in un tema di scuola, le vacanze d'estate a Torino in sua compagnia:
"il pensiero è questo: che vorrei cambiare sesso ed essere una compagna di Nando per poterlo sposare io, tanto gli voglio bene. Ma penso che, se fossi una ragazza, non avrei l'occasione di andare con lui in bicicletta e allora è meglio che sia così e che siamo amici... Nando è un ragazzo simpatico e intelligente che, visto di profilo, pare già un uomo fatto, e di faccia invece è giovanissimo, perché ha due grandi occhi che si stupiscono e sorridono sempre. è sempre molto pulito e riavviato, non come me che dimentico qualche volta di pettinarmi."
Questo per me significa abbassare ogni barriera, una cosa che ho scoperto succedere specialmente nelle lettere: e il gioco dei sessi è bellissimo: chi è l'uomo? chi la donna? e chi il maestro e chi l'alunno? Pavese lo scontroso, il burbero, qui è tornato bambino.
Lui l'aveva introdotta alla letteratura americana e lei si era laureata su Melville. E poi erano trascorsi cinque anni in cui non era passato un giorno senza che i due si vedessero, in bicicletta, per Torino. A leggere quello che le scrive, c'è da chiedersi come sia possibile che lei abbia rifiutato di sposarlo per ben due volte. O forse è fin troppo chiaro. Perché è una resa incondizionata, quella di lui, anche se di una dolcezza disarmante. "Analisi amorosa di P." è il titolo che Pavese dà alla lettera dove letteralmente si spoglia davanti a Fernanda Pivano:
"Che potrà fare un uomo simile davanti all’amore? La risposta è evidente. Nulla, cioè infinite cose stravaganti che si ridurranno a nulla. Una volta che sarà innamorato, P. farà esattamente ciò che gli detta la sua indole e che è appunto ciò che non va fatto. Lascerà capire, innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro; vorrà confessare tutti i pensieri più segreti che gli passeranno in mente; dimenticherà sempre di mettere la donna in posizione tale che essa lasciandolo si comprometterebbe. Questa, che è la prima elementare precauzione del libertino (il solo che applichi con impeccabilità la strategia amorosa), in P. invece si rovescia addirittura. P. si dimentica d’innamorare di sé la donna in questione, e si preoccupa invece di tendere tutta la propria vita interiore verso di lei, d’innamorare di lei ogni molecola del proprio spirito. Ecco la mania di assoluto, di simbolismo, che si diceva in principio. P. gioca (plays) fino in fondo la sua parte amorosa, primo per il suo bisogno feroce di uscire dalla solitudine, secondo per il bisogno di credere totalitariamente alla passione che soffre, per il terrore di vivere un semplice stato fisiologico, di essere soltanto il protagonista di un’avventuretta. P. vuole che ciò che prova sia nobile-, significhi, simboleggi una nobiltà sua e delle cose; diventi un idolo, insomma, cui valga la pena di sacrificare anche la vita, o l’ingegno – che sa di avere grande."
Questo Pavese mi fa letteralmente sentire ubriaca. Rido e piango. Mi fa ridere quando lo leggo, perché lui è così disperato di sé stesso che lo sento proprio sganasciarsi da solo ("si dimentica di innamorare di sé la donna in questione"); eppure lo sento anche piangere amaramente, e fa piangere anche me. Mi fa piangere perché non ho mai letto niente di più intimo e indifeso di questa lettera di arrendevole "analisi amorosa". Sento mio quel "terrore di vivere un semplice stato fisiologico": anche io voglio che sia nobile ciò che provo, e Pavese aveva davvero ragione. E non lo ha detto al mondo, no: lo ha detto a Fernanda Pivano. E anche se capisco bene che lei lo abbia rifiutato per due volte, perché un uomo con una sensibilità del genere deve fare davvero paura, allo stesso tempo non posso credere che lei lo abbia lasciato andare. Non riesco a credere che lei abbia voluto vivere una vita intera senza di lui: senza saperlo al mondo. Lui che in cinque anni non ha provato a baciarla mai, neanche una volta. La prova che i baci necessari esistono e che possono benissimo restare non dati, per sempre. Pavese è un autore che mi dà sicurezza e ho capito perché: perché è così sbagliato che ride di sé, perché vive in mezzo alla guerra e pensa solo alla croce della donna che non ha, ma molto più banalmente perché è un suicida. In questo, il suo pare un trionfo sulla morte, perché lui la controlla, la decide, in qualche modo. La sua biografia mi illude che lui abbia insomma governato la morte. Ma poi non può decidere della vita, tanto meno di quella di lei. Ho preso l' autobiografia di Fernanda Pivano che stava tra i libri di mio padre, e c'è un lungo inserto fotografico in cui è ritratta con tutti gli autori Americani della Beat Generation (questi sconosciuti). Senza Pavese non ci sarebbe stato niente di tutta quella vita, e da quella vita lui è assente, non c'è. Non è incredibilmente ingiusto? Che due persone si chiamino da lontano, a sbracciarsi, e non riescano a incontrarsi, a trovarsi per bene, come si deve? ad avere almeno una foto insieme? a darsi anche solo un bacio? onestamente sono un po' risentita con Fernanda Pivano.
La lettera più bella che le scrive secondo me è questa:
"Cara Fernanda,
se lei ignora l’odore del grano, intendo del grano in pianta, maturo, dondolante, sotto le nuvole e la pioggia estive, è sventurata e La compiango. Pensi che io non avevo mai sentito il grano in pianta, perché venivo sempre in campagna alla metà di luglio quand’è già mietuto, e questa volta è stato come quando un marito, separato dalla moglie da anni, ritorna a trovarla e gli pare un’amante – essa ha cioè delle parole, dei gesti, dei momenti a lui ignoti, a lui sfuggiti al tempo dell’amorosa passione, e che ora gli paiono rivelargli tutto il dolce del primo amore.
Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia e mi riguardo con cautela le grandi colline – tutte, quella enorme e ubertosa come una grande mammella, quella scoscesa e acuta dove si facevano i grandi falò, quelle ininterrotte e strapiombanti come se sotto ci fosse il mare – e sotto c’era invece la strada, la strada che gira intorno alle mie vecchie vigne scomparse, alla svolta, con un salto nel vuoto. Da questo salto non ero mai passato; si diceva allora che la strada proseguiva sempre a mezza costa, sempre affiancata da colline di così enorme estensione da apparire, viste sopra la spalla, come un breve orizzonte a fior di terra. Ero sempre arrivato soltanto a quest’orizzonte, a questi canneti (capisce? E come quando stesi nel prato, si guarda l’erba: chiude il cielo e sembra una foresta), ma presentivo di là dal salto, a grande distanza, dopo la valle che espande come un mare, una barriera remota (piccina, tanto è remota) di colline assolate e fiorite, esotiche. Quello era il mio Paradiso, i miei Mari del Sud, la Prateria, i coralli, l’Ophir, L’Elefante bianco ecc. Stamattina che non sono più un ragazzo e che il paese in quattro e quattr'otto l'ho capito, mi sono messo per questa strada e ho camminato verso il salto e ho intravisto le colline remote e ripreso cioè la mia infanzia al punto in cui l'avevo interrotta. La mia valle era vaporosa e nebbiosa, la barriera era lontana, chiazzata di sole e di campi di grano, era quel che dev'essere il corpo della propria donna quand'è bionda. Qui naturalmente non parla piu il bambino, l'infante, ma un uomo che è stato quel bambino e adesso è felice di esser uomo e di ricordarsi di Fernanda.
Ciao
                Pavese."
Pavese dice che descrivere i paesaggi è cretino. E infatti qui lui non sta affatto descrivendo un paesaggio, no. Qui Pavese sta iniziando Fernanda Pivano al mito della sua infanzia e della sua adolescenza, ma le sta dicendo anche qualcos'altro: cara Fernanda, anche se abbiamo scherzato più volte, io non sono un bambino; sono un uomo, e ti amo. E per renderglielo come più tangibile, questo amore, lui la prende e la innesta nel suo mito come fosse una pianta, nelle sue colline, fin dentro al grano: pura bellezza. Io quando leggo quel ciao alla fine, scritto dopo averle dato del lei tutto il tempo, penso proprio che per quella bellezza avrei rifatto il viaggio della lettera al contrario, mi sarei messa in ginocchio davanti a quest'uomo pieno di problemi e gli avrei riempito le mani di baci: poi lo avrei implorato, per carità, di sposarmi. 
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valentina-lauricella · 5 months
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Una giornata di sole
È una giornata piena di sole, una di quelle in cui egli trascorre un'ora al balcone a capo scoperto, come gli ha consigliato il medico. La sua carnagione, di solito, è pallida, ma il sottotono olivastro della sua pelle gli impedisce di arrossarsi e scottarsi, cosicché egli si abbronza, assumendo un'aria più sana. Ed è solo per esibire al medico questa illusione di salute che si sottopone al bagno di sole. Gli chiedo, mentre guardo la strada sottostante, popolata di venditori ambulanti e ragazzetti che si rincorrono, se avverta un miglioramento nelle proprie condizioni. "Sì, come ogni anno quando finisce l'inverno," ma conclude la frase con un colpo di tosse. Volgo le spalle alla ringhiera del balcone e immergo gli occhi nella penombra della stanza dove in fondo, proprio sopra il letto, sulla parete azzurra, è appeso un grande rosario dai grani di legno scuro. "E così reciti le preghiere prima di andare a dormire," dico per scherzo. "Oh sì," risponde lui con gravità, "tridui e novene".
"Quella ragazzetta ha lo sguardo vispo," sussurro accennando a colei che sembra affaccendarsi riassettando le carte sopra uno scrittoio. "Ti assiste con amore?" "Amore di carità," soggiunge lui. "Le invidio che sappia leggere il greco, il latino e il francese; sapessi farlo anch'io, le farei recuperare tutto il sonno che ha perduto in queste notti." La ragazza esce dalla stanza senza salutare, con passo zoppicante, ma leggero. Ha lasciato sullo scrittoio una Bibbia, accanto a un'Iliade.
"Nella Bibbia è scritto che i morti dormono," dico trasognata. "E nell'Ade gli eroi non sono altro che ombre," prosegue lui. "Ma allora, se questa vita è sogno, e poi continueremo a dormire, non ci sveglieremo mai? Conosceremo soltanto il sonno?"
Lui tiene gli occhi chiusi al sole. "Io credo che stiamo facendo esattamente ciò a cui la necessità ci spinge. Tutto in noi è materia," prosegue. "Da bambino trascorrevo molte ore in ginocchio, pregando di essere risparmiato dall'inferno; poi da ragazzo sognai di poter entrare in paradiso con una corona di lauro. In realtà non ci spettano premii né castighi, dal momento che siamo esseri governati dalla fortuna. L'unico bene sarebbe non ricordare mai più di essere stati, e che qualcosa vi sia".
"E se la tua coscienza sopravvivesse?"
"Immagino che la natura dei morti non li faccia riguardare più la vita. In nessun modo. L'istinto di conservazione, la speranza...sono nelle fibre di questa carne."
"Torneresti?..." gli chiedo.
"Se fosse utile."
"A te o ad altri?"
"A chiunque, anche a un topolino. Purché ne avessi certezza."
"Se gli dei vogliono continuare a giocare con noi, dovranno farlo a carte scoperte," azzardo.
"Vorrei non capirli mai, gli dei."
"Ma se hai detto che vuoi certezza..."
"Ho risposto alla tua domanda: mi chiedevi se sarei tornato, non cosa volessi. Io voglio esattamente questo silenzio, questo mistero, in cui si è identici a prima di nascere e si può ignorare sia la vita che la morte, e che esistono differenze. Se un dio si chiarisse, ci darebbe la vita, e con essa la morte."
"Infatti Dio si è espresso," spiego accennando alla Bibbia.
"No," dici: "Quello lo abbiamo sognato..."
"Sai qual è l'espressione più evidente di Dio?" Lancio la sfida, e proseguo: "Quella ragazza. Si sacrifica per te, e potrebbe non farlo. Questo si chiama libero arbitrio, non necessità".
"Lo fa per ambizione," sorride amaramente, "vuole diventare santa, per compiacere suo fratello, l'unico uomo che non l'abbandonerà. Se morissi prima di stanotte, per lei sarebbe un sollievo."
"Che dici!" Protesto. Ma dentro di me so ch'è vero.
"Io e lei siamo due infelici che non s'incontreranno mai. E ora sono stanco, vorrei riposare un po'."
Lo accompagno a letto. Gli sistemo i due grossi cuscini che tiene sotto la testa e, mentre lo faccio, avverto qualcosa di duro tra l'uno e l'altro. "E questi?" Dico, vedendo un cartoccio di confetti.
"Me li ha regalati lei. La mia dolce morte. Stanotte, lei potrà finalmente riposare."
"Piantala," gli dico brusca. "Stanotte penserò io a intrattenerti. Ti leggerò le mie poesie e i miei racconti."
"Tu scrivi?" Chiede con una sfumatura sarcastica, inarcando leggermente le sopracciglia.
"Ma certo. Ti ho dedicato tante poesie..." Gliene recito subito una.
"Sono frasi, non è poesia. Non c'è metrica. E il linguaggio è colloquiale, direi trasandato."
"Questa è poesia contemporanea," spiego. "Si chiamano versi liberi."
"I versi sciolti sono tutt'altra cosa..."
"Infatti questi non sono sciolti, ma proprio liberi. Come i pensieri, come il vento..." sorrido. "Vuoi provare anche tu?"
"Certo. Sembra facile come parlare nel sonno."
Io assaggio un confetto, mentre lui sussurra con aria canzonatoria: "Dalla vita  volevo fuggir via,
perché la morte sola beltà mi apparia;
ma la mia vile anima immortale
mi parla e dice che ancora avrò a dare
e la beltà di ciò che darò
è così grande che più non morirò!"
"Ecco, bravo," lo incoraggio ridendo. Forse attratta dalle risate, entra la graziosa ragazzetta zoppa. "Vuoi?" Dico offrendole il cartoccio di confetti. "Questo screanzato li aveva rubati per suicidarsi prima di stanotte," dico scrollando il capo.
Lei arrossisce e si torce le mani. "Il suicidio è peccato mortale..." finge di rimproverare il malato con lo sguardo fisso alla punta delle proprie scarpe. Esce portandosi via i confetti.
"E ora?" Mi chiede lui.
"Faremo versi tutto il pomeriggio e la notte. I più liberi e sciocchi che riusciremo a fare. Ma prima voglio leggerti un mio racconto."
"Come s'intitola?" Chiede rassegnato.
"Una giornata di sole"...
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bodyswap-it · 1 year
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Sono un eroe (parte 1)
“Martinelli” “Martinelli” strilla il prof di lettere, il mio sguardo va alla lavagna, poi lo abbasso alle mie mani ossute e sudate che tengono una penna, vedo tutto sfocato, sento che sto per vomitare, non riesco a muovermi ne a reagire. Sta succedendo di nuovo. Il mio battito è accelerato, il caldo è insopportabile ed ecco che diventa tutto nero.
Finalmente riapro gli occhi.
Davanti a me una corda alla quale sono strette due mani enormi e piene di calli, sul mio busto c’è avvinghiata una donna. Alzo lo sguardo e vedo il cielo. “Oh cazzo sono sospeso su un palazzo in fiamme. Ok, niente panico questo corpo saprà cosa fare, devo solo usare la sua memoria muscolare”.
Guardò in basso e vedo due grossi stivali da pompiere. “Andiamo sono nel corpo di un eroe, basta perdere tempo devo scendere”.
Sento gli incitamenti dei miei compagni da terra, allento un po’ la presa e con dei lunghi salti iniziò a calarmi giù. La ragazza strilla e si stringe più forte a me. Corro verso i miei compagni e cerco di mettere giù la donna ma lei non vuole lasciarmi “andiamo sei al sicuro ora, puoi lasciarmi fatti controllare dai paramedici”. Diavolo la mia voce e incredibilmente profonda e mascolina.
Finalmente mi lascia tremante e mi guarda senza dire una parola.
Mi guardo intorno e vedo tutti i miei colleghi, vedo sopra tutte le loro teste, allora è questo che si prova ad essere alti!
“C’è ancora un uomo intrappolato al quinto piano” strilla la radio.
Qualcosa scatta in me e iniziò a correre verso il palazzo in fiamme, salgo sul camion e percorro tutta la scala e salto sul tetto, ignoro tutti gli avvertimenti dei miei compagni di squadra, aggancio la corda alla vita e mi lancio verso il basso, sta volta a velocità molto più elevata dell’altra volta. Sento le urla dell’uomo e capisco dov’è. “Stai indietro” urlo con la mia nuova voce potente.
Mi lancio nuovamente nel vuoto e i miei piedi atterrano su una finestra mandola in frantumi. Ok sono dentro. Seguo le urla dell’uomo in mezzo al fumo, batte dietro una porta del corridoio, cerco di aprirla ma chiusa. “Allontanati dalla porta” intimo.
Poi do un calcio alla porta che va in frantumi. L’uomo sta a terra gli metto le mani sotto le ascelle per aiutarlo ad alzarsi e sono meravigliato da quanto sia stato semplice, ora siamo faccia a faccia lo guardò negli occhi lo tranquillizzo e gli dico che era deve correre dietro di me.
“Vvv va bbbene, però potresti mettermi giù ora?” Mi dice con voce tremante. Abbasso lo sguardo e vedo i suoi piedi penzolare nel vuoto, accidenti lo sto tenendo sospeso da terra e quasi non ne sento il peso, questo corpo è fantastico! Lo metto a terra e la sua testa ora arriva a stento al mio petto. “Ok dobbiamo correre ora”. Arriviamo alla finestra e mi aggancio di nuovo alla corda spingendomi fuori dalla finestra.
“Ok, ora vieni verso di me e stringiti al mio collo” dico con voce più calma possibile. Ma lui ribatte spaventato:
“No, non posso farlo, non posso”
Merda non c’è davvero tempo per questo, salto di nuovo dentro da lui e mi abbasso per prenderlo lui strilla e mi colpisce coi pugni sul petto, sono irritato dal suo comportamento ma allo stesso tempo divertito ho davanti a me un uomo adulto che sembra un bambino: piange e mi colpisce incapace di provocarmi alcun dolore. Lo ignoro, stringi un braccio attorno alla sua vita e mi lancio giù dalla finestra, in pochi salti sono a terra. Vado verso la squadra tenendolo come un bimbo.
“Ehi va tutto bene adesso fifone”
“Ehi”
Merda è svenuto. Lo adagio sulla barella mentre la ragazza di prima corre da lui. I ragazzi mi danno pacche ed elogiano la mia performance, mi sento da Dio, non posso credere a quello che ho appena fatto. Mi appoggio al camion e mi rilasso bevendo un po’ d’acqua. Poi vedo l’uomo di prima venire verso di me, vorrà ringraziarmi immagino.
L’ometto arriva da e inizia urlare diventando subito paonazzo:
“ potevi uccidermi, quello che hai fatto è stato stupido e pericoloso farò causa ai vigili del fuoco per questo”
“Ci farai causa per averti salvato la vita?” Controbatto confuso.
“Hai ignorato le mie richieste e contro la mia volontà hai usato la forza per mettermi in pericolo” continua lui.
Sento la rabbia montarmi dentro per le parole di questo ingrato, stacco le mie spalle dal camion e mi avvicino a lui guardando in basso verso i suoi occhi. Non strilla più ora. Ma ahimè sento una mano sull’addome spingermi via. “Andiamo ragazzo, non fare stupidagini” dice il capitano. Che poi va a parlare con l’uomo mentre io cammino via nervoso e mi accendo una sigaretta.
“Posso fare un tiro” dice una voce femminile, alle mie spalle ancora seduta sulla barella la ragazza che avevo appena salvato. La guardò e sorridendo dico:
“Non pensi di averne respirato abbastanza di fumo oggi?”
“Una boccata in più non farà male” dice lei. Così le metto la sigaretta in bocca e le faccio fare un tiro.
Buttando fuori l’aria mi dice:
“Sai mi spiace per il mio ragazzo, lui è fatto così vuole sempre farsi odiare da tutti, grazie per averci salvati. Appena finisce la sua sceneggiata provo a parlargli”
“È stato un piacere, e non ti preoccupare, lo capisco era sotto shock ha bisogno di sfogare la paura” dico mettendole la sigaretta in bocca. “Meglio che torni dalla squadra, ciao bella”.
E ancora una volta vengo fermato dal capitano che inizia blaterare di come sto tizio sia un avvocato, amico di tanti politici. E che debba scusarmi con lui. A nulla sono valsi i miei rifiuti.
“Tieni prendi il camion e accompagnali a casa, la gente adora salirci sarà più propenso a chiudere un occhio se è felice” dice il capitano.
Continua…
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emz26 · 1 year
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Zelda
Volevo solamente raccontare delle storie...ma questa non è una storia, è una leggenda.
Domani esce il nuovo Zelda, e Zelda è una leggenda, nasce dalla mente di Shigeru Myamoto, quando in un momento di crisi creativa si ricordò dei suoi giochi di bambino, si ricordò di quando attraversando un bosco, immaginandosi di combattere con mostri e draghi scoprì un lago, un lago mai visto, mi immagino gli occhi di un Mya bambino spalancarsi di stupore, e con questa immagine nella mente e con il cuore vibrante nel 1986 creò il primo leggendario Zelda, che ci crediate o no è questo che accade al giocatore quando prende il controllo di Link, torna bambino, torna il desiderio della scoperta, torna la voglia di scalare un'altra montagna, di guadare un altro fiume e di esplorare un'altra caverna, tutto con gli occhi sgranati e pieni di meraviglia.
Zelda, in onore di Zelda Fitzgerald, una delle prime donne libere, Link, il protagonista, colui che permette il «legame» tra il mondo di gioco e il giocatore, Hyrule, il mondo da esplorare, l'incredibile parco giochi messoci a disposizione.
Cosa significa Zelda per me? rinascita, significa questo.
Erano due anni che non riuscivo ad ascoltare musica, mi venivano i conati di vomito ad ogni tentativo, niente autoradio, niente colonna sonora nei videogames(si può eliminare), niente film, ma Zelda è famoso per la sua colonna sonora, per la qualità dei suoi suoni ambientali, è letteralmente immerso nella musica, non potevo perdermi una parte cosi importante dell'esperienza, tentai, ne venni accarezzato, mi prese e mi invitò ad essere ascoltata e amata.
Nella vita ho visto molti cieli, ho visto quelli solcati dai draghi di Escaflone, quelli con più astri solari del dovuto, quelli vaniglia, ho visto il cupo cielo di Nosgoth scalato dagli altissimi pilastri dell'equilibrio, li ho visti corrompersi e crollare per poi tornare integri in un loop infinito di morte e rinascita, sotto di essi ho visto un'anima tormentata tentare la sorte infinite volte sperando che quella fottuta moneta dalle due facce mortali per una volta cadesse di taglio, ho visto i movimentati cieli di una notte stellata, li ho scorti tra le parole di un «canto notturno di un pastore errante», ho visto i cieli luminosissimi di Makoto Shinkaie e ho immaginato quelli di «to the moon», ma il cielo sotto quale desidero stare è quello della mia nuova terra «natia», sotto i cieli di Hyrule.
Nel suo peregrinare il buon Mya incontrò la sede di un vecchio clan giapponese, il simbolo del clan erano tre triangoli dorati uniti in modo da formarne uno più grande, in origine simboleggiavano 3 scaglie di drago, nel gioco rappresentano la triforza... forza, saggezza e coraggio, le doti che il nostro eroe deve trovare, ed è proprio la ricerca di queste che porta a possederle, non è la fine del percorso che te le regala, ma sono le prove che vengono superate durante il tragitto che ti donano queste ultime.
Forza, saggezza e coraggio sono le doti che ci servono per affrontare la vita, ma è l'affrontarla che ce le dona, l'importate è fare il primo passo.
Vi lascio alcuni link dove potrete ascoltare le musiche di zelda, alcuni puntano alle musiche originali, altri a delle reinterpretazioni.
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bones39 · 6 months
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- Hai cambiato letto.
- Sì.
- Quando?
- Non mi ricordo. Saranno quindici anni.
- Questo ha il cassettone.
- Sì.
- E non m’hai detto niente?
- Scusa.
- È una questione di rispetto.
- Lo so, scusa.
- Mettiti nei miei panni, in quanto mostro sotto il letto, la struttura del letto ha un ruolo
fondamentale per il corretto svolgimento del mio lavoro. Se tu me la cambi, ci va di mezzo
la qualità del servizio.
- Mi rendo conto.
- Non vorrei dovermi rivolgere al sindacato.
- Vedo cosa posso fare.
- Grazie.
- Aspetta… io ho un mostro sotto il letto?
- Avevi. Abbiamo lavorato insieme dal ’90 al ‘98. Ti risulta?
- Forse.
- Mi chiamavi Tommyknocker, te lo ricordi?
- Ah già.
- Cos’era?
- Un brutto film tratto da un brutto libro di Stephen King.
- Ti faceva così paura?
- Non l’ho mai visto. Mi faceva paura il nome.
- Il nome. E le dita. Te le ricordi le dita? Dita lunghe, dita di morto, dita con falangi magre
che graffiavano e spiavano, e poi chissà, occhi vuoti, tre file di denti, tutto quello con cui la
fantasia poteva torturate un bambino. Scivolavo nel buio come un insetto, come un
annegato. E mentre mamma e papà litigavano nell’altra stanza, tu chiudevi gli occhi e
fissavi il muro. Perché la regola era…
- Che se ti vedo, mi prendi.
- Che se mi vedi, ti prendo. Non ci siamo più sentiti. Com’è?
- Ho avuto un sacco da fare.
- Vuoi che ti faccia paura?
- A te farebbe piacere?
- Ma sì, in ricordo dei vecchi tempi.
- Va bene.
- Allora adesso allungo una mano e ti afferro un piede.
- Okay.
- Com’è?
- Ho molta paura.
- Non sembra.
- No, no, davvero, sono pietrificato.
- Non è vero.
- Invece sì.
- Smettila di essere condiscendente. Lo capisco quando fingi.
- Scusa, è che c’ho la testa da un’altra parte. Mi sono arrivati un sacco di lavori tutti
insieme, un mucchio di scadenze, e poi…
- E poi?
- Lasciamo perdere.
- No, no, dimmi.
- Non è per sminuirti, è che adesso mi fanno paura cose diverse.
- Tipo?
- Beh, così su due piedi.
- Dai, magari mi aiuta, facciamo un corso di aggiornamento.
- I parcheggi a esse.
- Cioè?
- Mi fanno paura i parcheggi a esse. Non li so fare. Vado nel panico.
- Ma come faccio a farti parcheggiare qua nella tua stanza.
- C’hai ragione.
- Qualcos’altro?
- Le raccomandate.
- Le lettere?
- Sì, le buste delle raccomandate. Di solito è una multa, ma c’ho sempre paura che sia
qualcosa di peggio. Una di quelle cose che ti rovina la vita.
- Mi potrei vestire da postino…
- Ma non è il postino in sé, è più…
- La busta, ho capito. Non posso passarti buste da sotto il letto, dai.
- No, no, chiaro.
- Mi sentirei uno scemo.
- I debiti.
- Eh?
- Mi fanno molta paura i debiti. L’idea di essere in debito. Mi mette ansia.
- Sì, va bene, ma pure questo è astratto.
- Poi, fammi pensare…
- Guarda, forse è il caso che la chiudiamo qui.
- Vediamo, ho paura di non essere quello che ho detto di essere. Capisci? Un bel giorno
dover andare in giro e spiegare a tutti che mi sono sbagliato, che non è vero che so fare
quello che ho detto di saper fare.
- Va bene, ho capito, facciamo che ci aggiorniamo…
- Ho paura che sia troppo tardi.
- Per cosa?
- Per tutto. E che ogni giorno sia troppo tardi per una cosa nuova.
- Così no, però, così non va bene…
- Vorresti che avessi paura di qualcosa di più concreto, vero? I mostri magari. I fantasmi,
gli alieni?
- Esatto! Esattamente! È proprio quello che cercavo di dirti.
- Ma magari.
- Come magari?
- Magari ci fossero i mostri, magari ci fossero gli alieni, magari ci fosse qualcosa che si
muove nel buio. Io ci spero che le cose che mi facevano paura da bambino siano vere. Io
ci spero che nel buio ci sia qualcosa, perché significherebbe che non sono solo in quel
buio. Che non è tutto qua.
- Basta, ti prego.
- E poi ho paura di me.
- Davvero non…
- Delle mie ipocrisie, delle mie nevrosi, della mia malignità, di una sveglia sul cellulare con
scritto sopra “pagare tasse”. E più di tutto…
- No…
- Ho paura perché credo di aver finalmente capito perché ho paura.
- Smettila…
- Ho paura perché credo di essere come uno di quei quadri impressionisti. Quelli che da
lontano sembrano belli e sensati e più ti avvicini più ti accorgi che non c’è niente, sono
solo macchie di colore. Ed è quello che penso di me.
- Cristo santo. Davvero?
- Sì.
- Io… cavolo, è… è…
- È?
- Terrificante.
- Lo so.
- Oh no.
- Cosa?
- Sei diventato il mio mostro sopra il letto.
Il testo è di Nicolò Targhetta e la grafica di Amandine Delclos.
#nonèsuccessoniente
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...questi giorni, nella rilettura de "Il Pendolo di Foucault" di Umberto Eco, mi sono imbattuto in un passo che ho sempre adorato, un passo molto illuministico, fondamentale per la vita dell’uomo su questo pianeta, una lezione magistrale su come la meraviglia, la verità e la bellezza sulla Terra siano semplici e non è necessario cercare misteri e complicazioni che non rendono migliori le cose ma finiscono semmai per alterarle in maniera patologica.
Lo so è un brano un po’ lungo….ma vi prego leggetelo perché è una meraviglia assoluta e fornisce strumenti per questo tempo. Funziona anche se uno non ha letto il libro ed offre momenti di vera e geniale comicità...
“Mi salvò Lia, almeno per il momento.
Le avevo raccontato tutto (o quasi) della visita in Piemonte, e sera per sera tornavo a casa con nuove notizie curiose da aggiungere al mio schedario degli incroci. Lei commentava:
“Mangia, che sei magro come un chiodo.” Una sera si era seduta accanto alla scrivania, si era divisa il ciuffo in mezzo alla fronte per guardarmi dritto negli occhi, si era messa le mani in grembo come fa una massaia. Non si era mai seduta così, allargando le gambe, con la gonna tesa da un ginocchio all’altro. Pensai che era una posa sgraziata. Ma poi le osservai il volto, e mi pareva più luminoso, soffuso di un colorito tenue. L’ascoltai – ma non sapevo ancora perché – con rispetto.
“Pim,” mi aveva detto, “non mi piace il modo con cui vivi la storia della Manuzio. Prima raccoglievi fatti come si raccolgono conchiglie. Ora sembra che ti segni i numeri del lotto.”
“È solo perché mi diverto di più, con quelli.”
“Non ti diverti, ti appassioni, ed è diverso. Sta’ attento, quelli ti fanno diventare malato.”
“Adesso non esageriamo. Al massimo son malati loro. Non diventi mica matto a fare l’infermiere del manicomio.”
“Questo è ancora da dimostrare.”
“Sai che ho sempre diffidato delle analogie. Adesso mi trovo in una festa di analogie, una Coney Island, un Primo maggio a Mosca, un Anno Santo di analogie, mi accorgo che alcune sono migliori delle altre e mi chiedo se per caso non ci sia davvero una ragione.”
“Pim,” mi aveva detto Lia, “ho visto le tue schede, perché le debbo riordinare io. Qualsiasi cosa i tuoi diabolici scoprano è già qui, guarda bene,” e si batteva la pancia, i fianchi, le cosce e la fronte. Seduta così, le gambe larghe che tendevano la gonna, frontalmente, sembrava una balia solida e florida – lei così esile e flessuosa – perché una saggezza pacata la illuminava di autorità matriarcale.
“Pim, non ci sono gli archetipi, c’è il corpo. Dentro la pancia è bello, perché ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo
sono belli e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe, e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa venire di lì, perché sei venuto di lì anche tu il giorno che sei nato, e la fertilità è sempre in un buco, dove qualcosa prima marcisce e poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab. Ma alto è meglio che basso, perché se stai a testa in giù ti viene il sangue alla testa, perché i piedi puzzano e i capelli meno, perché è meglio salire su un albero a coglier frutti che finire sottoterra a ingrassare i vermi, perché raramente ti fai male toccando in alto (devi essere proprio in solaio) e di solito ti fai male cascando verso il basso, ed ecco perché l’alto è angelico e il basso diabolico. Ma siccome è anche vero quel che ho detto prima sulla mia pancina, sono vere tutte e due le cose, è bello il basso e il dentro, in un senso, e nell’altro è bello l’alto e il fuori, e non c’entra lo spirito di Mercurio e la contraddizione universale. Il fuoco tiene caldo e il freddo ti fa venire la broncopolmonite, specie se sei un sapiente di quattromila anni fa, e dunque il fuoco ha misteriose virtù, anche perché ti cuoce il pollo. Ma il freddo conserva lo stesso pollo e il fuoco se lo tocchi ti fa venire una vescica grossa così, quindi se pensi a una cosa che si conserva da millenni, come la sapienza, devi pensarla su un monte, in alto (e abbiam visto che è bene), ma in una caverna (che è altrettanto bene) e al freddo eterno delle nevi tibetane (che è benissimo). E se poi vuoi sapere perché la sapienza viene dall’oriente e non dalle Alpi svizzere, è perché il corpo dei tuoi antenati alla mattina, quando si svegliava che era ancora buio, guardava a est sperando che sorgesse il sole e non piovesse, governo ladro.”
“Sì, mamma.”
“Certo che sì, bambino mio. Il sole è buono perché fa bene al corpo, e perché ha il buon senso di riapparire ogni giorno, quindi è buono tutto quello che ritorna, non quello che passa e va e chi s’è visto s’è visto. Il modo più comodo per ritornare da dove si è passati senza rifare due volte la stessa strada è camminare in circolo. E siccome l’unica bestia che si acciambella a cerchio è il serpente, ecco perché tanti culti e miti del serpente, perché è difficile rappresentare il ritorno del sole arrotolando un ippopotamo. Inoltre se devi fare una cerimonia per invocare il sole, ti conviene muovere in circolo, perché se muovi in linea retta ti allontani da casa e la cerimonia dovrebbe essere brevissima, e d’altra parte il circolo è la struttura più comoda per un rito, e lo sanno anche quelli che mangiano fuoco sulle piazze, perché in circolo tutti vedono nello stesso modo chi sta al centro, mentre se un’intera tribù si mettesse in linea retta come una squadra di soldati, quelli più lontano non vedrebbero, ed ecco perché il cerchio e il movimento rotatorio e il ritorno ciclico sono fondamentali in ogni culto e in ogni rito.”
“Sì, mamma.”
“Certo che sì. E adesso passiamo ai numeri magici che piacciono tanto ai tuoi autori. Uno sei tu che non sei due, uno è quel tuo affanno lì; una è la mia affanna qui e uni sono il naso e il cuore e quindi vedi quante cose importanti sono uno. E due sono gli occhi, le orecchie, le narici, i miei seni e le tue palle, le gambe, le braccia e le natiche. Tre è più magico di tutti perché il nostro corpo non lo conosce, non abbiamo nulla che sia tre cose, e dovrebbe essere un numero misteriosissimo che attribuiamo a Dio, in qualunque posto viviamo. Ma se ci pensi, io ho una sola cosina e tu hai un solo cosino — sta’ zitto e non fare dello spirito — e se mettiamo questi due cosini insieme viene fuori un nuovo cosino e diventiamo tre. Ma allora ci vuole un professore universitario per scoprire che tutti i popoli hanno strutture ternarie, trinità e cose del genere? Ma le religioni non le facevano mica col computer, era tutta gente per bene, che scopava come si deve, e tutte le strutture trinitarie non sono un mistero, sono il racconto di quel che fai tu, di quel che facevano loro. Ma due braccia e due gambe fanno quattro, ed ecco che quattro è lo stesso un bel numero, specie se pensi che gli animali hanno quattro zampe e a quattro zampe vanno i bambini piccoli, come sapeva la Sfinge. Cinque non parliamone, sono le dita della mano, e con due mani hai quell’altro numero sacro che è dieci, e per forza sono dieci persino i comandamenti, altrimenti se fossero dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita, arrivato agli ultimi due deve farsi prestar la mano dal sacrestano. Adesso prendi il corpo e conta tutte le cose che spuntano dal tronco, con braccia, gambe, testa e pene sono sei, ma per la donna sette, per questo mi pare che tra i tuoi autori il sei non sia mai stato preso sul serio se non come doppio di tre, perché funziona solo per i maschi, i quali non hanno nessun sette, e quando comandano loro preferiscono vederlo come numero sacro, dimenticando che anche le mie tette spuntano in fuori, ma pazienza. Otto — mio dio, non abbiamo nessun otto…. no, aspetta, se braccia e gambe non contano per uno, ma per due, per via del gomito e del ginocchio, abbiamo otto grandi ossa lunghe che sballonzolàno in fuori, e prendi queste otto più il tronco e hai nove, che se poi ci metti la testa fa dieci. Ma sempre girando intorno al corpo ne cavi fuori tutti i numeri che vuoi, pensa ai buchi.”
“I buchi?”
“Sì, quanti buchi ha il tuo corpo?”
“Be’,” mi contavo. “Occhi narici orecchie bocca culo, fa otto.”
“Vedi? Un’altra ragione per cui otto è un bel numero. Ma io ne ho nove! E col nono ti faccio venire al mondo, ed ecco perché nove è più divino di otto! Ma vuoi la spiegazione di altre figure ricorrenti? Vuoi l’anatomia dei tuoi menhir, che i tuoi autori ne parlano sempre? Si sta in piedi di giorno e sdraiati di notte — anche il tuo cosino, no, non dirmi cosa fa di notte, il fatto è che lavora diritto e si riposa sdraiato. E quindi la stazione verticale è vita, ed è in rapporto col sole, e gli obelischi si rizzano in su come gli alberi, mentre la stazione orizzontale e la notte sono sonno e quindi morte, e tutti adorano menhir, piramidi, colonne e nessuno adora balconi e balaustrate. Hai mai sentito parlare di un culto arcaico della ringhiera sacra? Vedi? E anche perché il corpo non te lo permette, se adori una pietra verticale, anche se siete in tanti la vedete tutti, se invece adori una cosa orizzontale la vedono solo quelli in prima fila e gli altri spingono dicendo anch’io anch’io e non è un bello spettacolo per una cerimonia magica…”
“Ma i fiumi…”
“I fiumi non è perché sono orizzontali, ma perché c’è dentro l’acqua, e non vorrai che ti spieghi il rapporto tra acqua e corpo… Oh insomma, siamo fatti così, con questo corpo, tutti, e per questo elaboriamo gli stessi simboli a milioni di chilometri di distanza e per forza tutto si assomiglia, e allora vedi che le persone con sale nella testa se vedono il fornello dell’alchimista, tuto chiuso e caldo dentro, pensano alla pancia della mamma che fa il bambino, e solo i tuoi diabolici vedono la Madonna che sta per fare il bambino e pensano che sia un’allusione al fornello dell’alchimista. Così hanno passato migliaia di anni a cercare un messaggio, e tutto era già lì, bastava si guardassero allo specchio.”
“Tu mi dici sempre la verità. Tu sei il mio Me, che poi è il mio Sé visto da Te. Voglio scoprire tutti i segreti archetipi del corpo.” Quella sera inaugurammo l’espressione “fare gli archetipi” per indicare i nostri momenti di tenerezza.
Mentre già mi abbandonavo al sonno, Lia mi toccò una spalla. “Dimenticavo,” disse. “Sono incinta.”
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Ne ho aspettate canzoni, ne ho aspettate di cicogne che nascessero fuori o dentro il cuore: ed erano i miei figli beduini venuti ad assomigliarmi in parole d'amore.
Le canzoni hanno fame, hanno freddo le cicogne e il bambino ha lo sguardo troppo stanco: e mai fu lungo un bacio o breve un viaggio o ingannata la memoria del suo dolore al fianco.
Com'era bello, quella sera, il tuo vestito giallo; com'eri bella tu, mi sembra quasi di toccarlo...
Sai, vorrei tornare indietro e rivederti lì, mi basterebbe solo stringerti di più, perché non c'ero, non ci sono stato mai tutti quei giorni che mi hai amato solo tu.
E vorrei dirti cose come: "Vita mia". Stronzate assurde tipo: "Fammi compagnia". E che son solo, e so che pure tu lo sei. Vorrei... vorrei vederti giovane, vorrei.
Ho cantato da solo questa vita per mestiere, per due lacrime perse in un bicchiere. E intanto se ne andavano i tuoi occhi e la fantasia che accende l'orlo delle tue mutande.
Com'eri bella, quella sera, Daria, com'è lontana quella sera...
Sai, vorrei tornare indietro e non lasciarti mai, mi basterebbe solo stringerti di più, per tutti i giorni che con te non c'ero mai, per tutti i giorni che mi hai amato solo tu.
Sarai la sera quando non mi perderò, la rabbia vera di un pensiero che non ho. L'ombra che scende per dimenticare me, la ninna nanna di un dolore che non c'è.
La storia farà scempio d'uomini e parole, gli uomini non saranno più frasi d'amore ma, nel continuo disperarci che c'è in noi, io so per sempre che tu ci sei.
Roberto Vecchioni
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luigidelia · 2 years
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Mi chiedo ancora se raccontare sia "spingere” o “arretrare". Per me, narratore, e uomo, è domanda cruciale. Come e dove nasce la frizione che può diventare emozione, brivido, spostamento? Da quale “dinamica”? Da una danza, forse, che tra avanzare, fermarsi, lasciare lo spazio ad altro, se va bene crea qualcosa nello spazio tra me e il pubblico. Che sia la storia, l'incanto, il rapimento o chissà cosa. Quando poi di fronte ho bambini e ragazzi la domanda è ancora più cruciale. Le parole, il corpo, l'energia in scena "toccano". E' un potere. E come lo usi, per dire cosa, è domanda non da poco. Se poi "tocchi" le emozioni sono convinto che bisognerebbe farsene mille di domande. Questi giorni ho viaggiato anche con "Tarzan ragazzo selvaggio". E' uno spettacolo con un'energia particolare. Diverso dagli altri, su questo non ho dubbi. Si apre con una scena viva e selvaggia di scimmie che rincorrono le loro prede, senza sconti, e poi lentamente sposta la camera su un bambino perso che quelle scimmie trovano nella foresta. Eravamo a Lucca. Mi avvertono prima di entrare in scena, Teatro del Giglio, che la sala è piena fino in alto e che ci sono bambini di diverse età. Decido allora di uscire a sala accesa per parlare con tutti prima. Lo faccio a volte, per prendere un contatto, creare un tempo di decompressione tra la sistemazione dei ragazzi, gli scuolabus, le faccende delle maestre e la storia. Avanzo in proscenio. Il mormorio diminuisce. Mi basta uno sguardo e capisco che servirà una grande energia. Ecco. Con Tarzan, poi. Sì, ma per cosa: per "spingere o arretrare". La domanda è chiara e tra adulti BISOGNA farsela senza scandalizzarsi. E' una questione cardine nel rapporto di forza tra adulti e minori. Bisognerebbe guardarla davvero questa domanda e le maestre in classe perderebbero molto meno la voce e le energie. Tornando alla sala: è piena. Quattrocento, credo ragazzi e ragazze, fino in galleria. Una bambina sulla sinistra comincia a gridare. Accanto a lei ci sono due maestre. Capisco che sono le sue insegnanti di sostegno. La bambina grida ancora. Forte. Il mormorio si accende di nuovo, gli altri ridono si agitano, come si farà a fare buio e raccontare in silenzio?, è la domanda che si fanno tutti. Cosa accadrà con il buio del racconto? Parlo a quella bambina allora, alle sue maestre, a tutti dicendo che qualcuno ha bisogno di noi oggi, al mio tecnico dicendo che il buio lo faremo molto piano, e parlo parlo ancora dicendo che mi batte il cuore, che ci "sfioreremo" e poi, molto probabilmente, non ci vedremo mai più, senza nessuna promessa, e che nulla ci farà del male in questa storia, di questo mi assumo io la responsabilità e che per il resto non so cosa accadrà ma sarà bello se starete con me. Faccio silenzio. La bambina non grida più. Va tutto bene, dico alle maestre, che intanto si chiedono se portarla fuori o meno. Va tutto bene, dico ancora. Possiamo cominciare. Il mio tecnico, Ciccio, fa buio molto lentamente. Salgo sulla pedana. Invoco un vuoto. Questo lo so. Forse è una preghiera. Comincio a raccontare. Per i primi dieci minuti racconto solo e soltanto a quella bambina, solo a lei su quattrocento. Lei non urla. A poco a poco tutti siamo nella storia. A fine spettacolo si fa luce. La bambina schizza in piedi. Ha gli occhi azzurri, corre sotto il palco, mi viene incontro. Grazie, le dico. Grazie. Le prendo la mano. Lei mi accarezza il piede nudo. Sono commosso. La guardo andare via. "Spingere” o “arretrare"? E' domanda cruciale.
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