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Il filo nel cuore di Milano
C’era una volta un filo.
Un filo fatto con tutti i colori dell’arcobaleno.
Era un filo fatto di luce. Per questo impossibile da tagliare. Difficile da spegnere.
Difficile, ma non impossibile.
Bastava che per un po’ di tempo quel filo non fosse più alimentato dalla vitalità delle persone che lo indossavano sottoforma di sciarpe, calze, maglioni... che questo filo a poco a poco si indeboliva: la fibra si sfilacciava, i sette colori di cui era composto man mano si desaturassero e diventassero sempre più smorti e grigi.
In breve tutto diventava infeltrito, sfibrato e trasparente. Anzi non trasparente, che almeno avrebbe lasciato scorgere un po’ di colore della pelle... no! Era proprio grigio!
Il filato di quel gomitolo lì diventava proprio come di cenere, ammantando così il corpo che copriva.
Ma un sarto si era dato una missione:
rammendare quei fili smunti e sostituirli con dell’altro filo arcobaleno, non prima di aver ridato vita alla persona che indossava quei capi così sdruciti e rovinati, che il sarto stesso trovava oltremodo demodè.
Per destare il malcapitato da quello stato apatico e di glaciale torpore, al sarto occorreva prima di tutto il suo ago. Un ago magico che se puntato, e appuntato, dritto al cuore, faceva sgorgare una sola goccia di sangue, di un bel vermiglio acceso, che spiccando su quel grigiume indossato, infondva nuova consapevolezza della propria esistenza, della propria vitalità, del fatto che da quel cuore potesse nuovamente nascere amore.
Ecco perché Milano porta ancora ben piantato nel suo centro un ago con un filo colorato che le corre dentro: perché si accorga sempre che ha un cuore e che il suo cuore, e quello dei suoi abitanti, è ancora capace di generare amore.
“Leggende immaginarie in città reali” Aa.Vv. Ed. Cittadine
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Libertà
Libertà
Non aveva mai riflettuto sulla parola libertà.
Quell’accento sulla “a”. Ad esempio.
Proiettava tutto in sù (come la “u” di sù per altro!) e rendeva leggera volatile una parola che in sé conteneva già un senso di... libertà appunto. Nessun legaccio, nessuna briglia, nessun nodo, che non precludeva la possibilità di creare legami, belli, duraturi e felici.
Anzi: più un legame lascia libero, e più un legame è forte.
Forse l’unico errore che fece era quello di considerare un legame libero, un legame immutabile nel tempo. Ma non è così, tutto cambia, tutto evolve e anche se non si comprende subito il senso, ad un certo punto scopri che in quella parola “Libertà” si nasconde la parola “Felicità” e allora tutto assume un senso. La “à” è il senso. La A di amore, A di amicizia, ma con l’accento. Che rende tutto molto più leggero. Più Libero.
“Parole con l’accento” E.Però ed. words #98
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Avevo problemi, da piccolo, a pronunciare "Pierce Brosnan". Poi anche Alba divenne un'attrice famosa e al difficile Brosnan si aggiunse la contorta e arrotata Rowgrwrrdfgrjgrwaker (Rohrwacher).
Ma noi Palermitani, probabilmente per pigrizia, ci siamo abituati a storpiare le "palore" e così il wurstel diventa "wiustrel" (o qualcosa di simile) e i "Take That" per me sono sempre rimasti i "Tic Tac".
Quest'arte mi fu trasmessa da mio nonno, Vincenzo, buon anima e genio incompreso della linguistica sicula. Lui risolse tutto chiamando le cose con nomi diversi o onomatopeici. Così "passami l'olio" diventava "passami il discorso" e "prendi lo sciu sciu" stava per "prendi lo spray contro gli insetti" alias il "ddt" anche se credo che nonostante fossero solo i primissimi anni ottanta, tale prodotto fosse già fuori produzione grazie a un qualche editto ambientalista dell'OMS.
Mio nonno poi è famoso nella storia della mia vita, perché quando nacqui, ultimissimi anni settanta, in mia sorella rimase impressa la visione — la cui narrazione mi è stata da lei reiterata almeno un migliaio di volte —, di lui e del suo cappello pieno di neve.
Sì che era il 6 gennaio, ma pur sempre a Palermo, in Sicilia, eravamo. E a Palermo è sempre un po' esotico vedere la neve.
Nascere con la neve. Vorrà dire qualcosa.
Avrà influito in qualche modo sul mio carattere. Penso. Se poi è così che è andata a finire.
“Mi piaci, ma non ti preoccupare” V.Cammarata ed. Biobio #94
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Sulla perfezione delle donne. La donna nel XXI secolo deve scontrarsi con dei canoni estetici palesemente sofisticati. In particolare in questo primo ventennio, dove sofisticazioni alimentari quali lo pseudo-veganesimo e il celiachismo psico-ipocondriaco, supportato da un dirompente socialismo mediatico, si è già delineato e caratterizzato per inquietudine, indeterminazione e un predominante senso di disperato sconforto e impotenza, identificato comunemente con l'hashtag #mainagioia. In questo contesto una variabilmente giovane donna perfetta, potrebbe apparire disorientata. Tuttavia, ore e ore di osservazione sul campo, ci hanno portato ad affermare che la perfezione non esiste. Non occorre quindi cercarla. Godremo invece nella condivisione dell'Incerto con ella, senza avere la pretesa di salvarla come fossimo principi su cavalli più o meno albini o di farci incantare come fossimo novelli Ulisse. Tuttalpiù affronteremo la vita come usano fare loro, con la perfezione di un sorriso.
— "La perfezione" A.A.V.V., ed.OK #83
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Il pollice scorre. Destra. Sinistra. Destra. Destra. Sinistra. Sinistra. Like. Nope. Like. Like. Nope. Nope. E poi ancora... scegliendo, peggio, giudicando, scartando, selezionando. Belle da brutte. Interessanti da noiose. Divertenti da chi si prende troppo sul serio. Vegane, animaliste, sportive, viaggiatrici, sognatrici, lunatiche – autodefinizione paracula di chi giustifica così un cambio d'umore tale da passare sopra come un caterpillar le esigenze di affidabilità degli altri esseri umani – polemiche, autoironiche, tatuate, esibizioniste, single, stufe, sole. Oggi mi sono ritrovato a fare questo "gioco" mentre camminavo lungo il corso affollato che dalla stazione avanzava in senso opposto al mio. Un pollice enorme bloccava le persone e le spostava sul marciapiede di destra se "like" e quello di sinistra se proprio "nope". Non necessariamente "fighe" da "sfighe" perché c'erano delle "strafighe", ad esempio, che venivano spostate sul marciapiede dei "nope". I "Nope" sembravano appartenere ad un un popolo della mitologia celtica... uno di quei popoli da evitare tipo i "germanici" per gli antichi romani. Poi scosso da questi pensieri, mi accorsi di star camminando sul lato sinistro della strada. Ero uno di loro. Un Nope. E la cosa era chiara, visto che da tre giorni non avevo "metchato" con nessuna. L'illuminazione era arrivata cosi: farmi piacere i e da "nope". Quella la soluzione.
“La terra dei Nope” di G.Like, ed.Tinder #81
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Vi è mai capitato di soffermarvi ad osservare il perlage di una coppa di champagne appena riempita?
Osservare quel bianco, così leggero e denso di anidride carbonica che sembra quasi un accalcarsi di bambini all’uscita della scuola, l’ultimo giorno di scuola.
A me capita spesso. Sì ogni volta che bevo champagne, penso all’ultimo giorno di scuola.
A com’era bello farsi scoppiare nell’aria ancora tiepida d’inizio estate quando, liberi, si mettevano da parte i libri e i quaderni e i compiti e si pensava solo a quando, si sarebbe andati a giocare al mare.
Ma l’ultimo anno, in terza, non fu così. Bello, intendo.
Quell’anno a sostituire il prof di scienze che l’anno precedente decise di trasferirsi in Polinesia credo, venne chiamata una giovane professoressa proveniente proprio dai possedimenti d’Oltremare, dalle Isole Marchesi del Pacifico. Virginia il suo nome. Sembrava provenire da un quadro, uno di quelli di Gauguin.
Un nido di capelli ricci e folti che facevano da contorno ad un sorriso che, per usare le parole di Neruda, si espandeva sul suo volto come una farfalla.
Fu un anno pieno di scoperte, di chimica, di biologia, di alchimia soprattutto. Ogni volta che entrava in aula si faceva a gara per farsi interrogare. Io incrociai una volta il suo sguardo e sentii dentro di me, come un moto, di felicità e di frizzantezza: una cosa che non avrei provato più per molto tempo.
Quell’estate, un brivido di freddo mi percorse la schiena, quando dietro di me lasciavo la mia infanzia, le medie e il mio primo batticuore.
Se lo champagne è felice, il perlage è fine, persistente, intenso. Quell’anno non lo era.
Quell’anno io ero l’ultima bollicina a voler rimanere attaccata triste e disperata al bicchiere.
Fin quando non esplose anch’essa.
Cinque anni dopo, ormai diciottenne, incontrai quei ricci, quella farfalla, proprio al bistrot sotto casa, in rue de Montparnasse 92.
— Salut.
“Alchimia” V.LaChat ed.Brut #93
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Nacqui Settimino.
Gracile, leggero come un pulcino che non ha ancora finito di nutrirsi del suo uovo.
Sono sempre stato il più basso dei miei compagni di giochi e di scuola. Mia madre e mio padre ormai non speravano più in una febbre improvvisa che mi avrebbe fatto superare il metro e mezzo a cui ero condannato.
Un nano. Ma senza esserlo.
Giunto il momento di cercare lavoro, l’unica cosa che potevo fare in città, senza ripiegare sulla condanna a vita dentro il giallo di una miniera di zolfo, a sudare sangue, era quella di puntare sulla mia destrezza. Da ragazzino ero diventato bravissimo nel saltare da un muretto all’altro scavalcando ostacoli e arrampicandomi per scale improbabili, nate per essere tali o improvvisate, aiutato anche dal mio peso settimino che mi faceva spiccare balzi gatti, quasi come se volassi.
All’età di quattordici anni, infatti, fui assunto al Monte di Pietà. Anche se di Monte si parlava, le uniche montagne che si scalavano erano quelle fatte di tessuti, materassi, lenzuola, coperte, tovaglie e vestiti, che la povera gente impegnava lì in cambio di qualche soldo per poter continuare a mangiare qualcosa o, sempre più spesso, per racimolare il necessario per fare il grande salto, a bordo di una nave, verso il Nuovo Mondo.
Si entrava la mattina con il buio e si usciva la sera che già il sole era tramontato: vivevo, pallido, in un completo stato di penombra per il maggior tempo della mia vita.
All’interno di un vecchio palazzo nobiliare a cui era stato tolto il pavimento che separava il piano nobile da quello della servitù, in questo modo si era creato un enorme magazzino suddiviso nelle varie stanze altissime con alle pareti enormi impalcature e scale e scaffali numerati. Il tutto in legno di risulta, così da essere rapido da montare come un’impalcatura ed economico soprattutto.
Ma era tutto così fragile che per arrampicarsi bisognava essere come me: bassi, leggeri ed agili, senza paura per le altezze soprattutto.
Avevamo una speciale indennità, noi che ci occupavamo di riporre gli effetti, gli affetti e i ricordi di quella povera gente che al cappio dello strozzino aveva preferito affidare a noi i suoi averi, poveri, ma preziosi.
Eravamo gli “uomini scimmia”. Così fra i dipendenti di quel Palazzo, venivamo chiamati.
Questo quello che eravamo.
Ma un giorno qualcosa andò storto.
“La paura degli uomini scimmia” P.Branciforte ed.Pietraperzia #91
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Qual è la cosa che desideri di più?
Soldi, una moto, fama, essere il più bravo, essere il migliore, la bellezza, affascinare, sedurre, avere tanti amici, innamorarti, avere qualcuno accanto, qualcuno che ti renda importante, qualcuno che ti renda felice, qualcuno da rendere felice, viaggiare, vedere posti incredibili o incontrare persone incredibili, fare qualcosa che non avevi mai fatto prima, raccontare storie... la libertà? Forse.
È la vita. La cosa che dovremmo desiderare più di tutto: solo e soltanto la vita. Una vita da vivere. Con dignità, con responsabilità, con consapevolezza.
Questo pensava di solito, quando stava solo. Quando, una volta solo, pensava.
Anche pensare però è una bella cosa.
Da desiderare.
“Quella volta che iniziai a pensare” V.Rossi es.Cogito #90
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L'Isola è fra le più antiche dell'arcipelago. È un'Isola vulcanica, come le altre, ma a differenza di Lussuria e di Superbia che sono la parte sommitale emersa rispettivamente di uno e due vulcani, questa si formò in tempi antichissimi come la summa di 14 crateri, tutti ormai erosi dalla loro stessa attività: il continuo confrontarsi fra loro a colpi di colate laviche e di attività piroclastiche. Questa competizione continua fra elementi naturali, fuoco, terra, vento e mare, si ritrova nei suoi abitanti. Non importa se indigeni. Nati lì o altrove, non importa, bastava anche solo passarci qualche ora e l'aria di sospetto, di perenne confronto e di insano “rivugghio” interiore verso il prossimo, s'impossessa dell'avventore, così come del fugace turista. Due pescatori, tre supermercati, otto locali di ristoro – fra i quali quattro pizzerie, due ristoranti, un albergo stellato, un bar specializzato in pre e after dinner – un lido attrezzato e una discoteca. Quest'ultima in inverno si trasforma in centro sociale, interna all'Isola, funge da snodo fondamentale per le la striscia di asfalto che raggiunge i quattro angoli di quel piccolo e nero sbuffo di terra emersa. Non c'è un barbiere ma c'è la farmacia e d'inverno una piccola ma attrezzata ferramenta: attività estiva di un figlio d'arte nel settore della brugola residente nella vicina terra ferma. D'estate l'Isola si riempie di artisti, scrittori, giornalisti, musicisti, politici e di turisti stanziali, ormai da anni divenuti residenti. La prima cosa che ho imparato sullo scoglio, imparato a mie spese, è quella di parlare a voce bassa. — Shhh! Mi dissero. “Il nemico ti ascolta!” Mi venne subito in mente l'ammonimento bellico che invitava alla riservatezza in difesa della Patria. Ed in effetti mi ritrovai dopo poco a sussurrare anche io e, cosa peggiore, a ragionare con i miei vari interlocutori della vita e degli affari degli altri abitanti dell'Isola. Finanche Mustafa, il venditore di cappelli marocchino che si era trasferito lì con la sua famiglia, sapeva tutto di tutti e sicuramente tutti sapevano tutto anche di me: fu lui a mettermi in guardia sull'indole degli isolani. Artisti che parlavano con sufficienza di altri artisti, pianisti di scrittori, ristoratori di baristi… e così via. Da un paio di giorni, fra il porto turistico e il lido è ritornata una coppia di Napoli che ha una casa sul mare: perfetta per cenette romantiche al tramonto. Ora i ristoranti sono tre. È riaperto dopo otto anni di chiusura l'Invidia. Sicuramente con un nome così non durerà molto. Chissà chi si credono di essere.
“L'Isola d'Invidia” in “Atlante geografico del Mare dei Vizi” di V.Pecoroni ed.Eoliche #88
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Io, Santino Rando, non imparai mai a fischiare come i veri professionisti del settore. Eppure pastore lo ero. Anche se la nostra era pastorizia da isola. Anzi da isoletta. Intendiamoci, per me Filicudi era e sarà un'Isola con la “I” maiuscola, ma non troppo grande da potersi permettere pascoli verdi tutto l'anno, visto che Irlanda non è. Ed io aiutavo mio padre Elio, figlio di Gino, unico carnezziere dell'Isola, in questo che per noi era divenuto più uno sport estremo che un'attività di cui vivere. In pratica noi eravamo gli unici al mondo a combinare allevamento e pesca. Sì perché noi le pecore le pescavamo. Vi spiego. Eravamo pastori ma non c'era un solo ovile in tutta Filicudi. Era Filicudi stessa ad essere un enorme ovile e, insieme, un discreto pascolo. Le pecore infatti, non venivano “allevate”. Venivano lasciate scorrazzare sull'Isola. A loro davamo piena fiducia. Loro trovavano autonomamente qualcosa da brucare, soprattutto nella parte disabitata, quindi selvaggia dell'Isola. Per bere, erano in grado di trovare fonti d'acqua anche meglio di noi. Pecore selvagge, allevate non come ora in loculi microscopici dove le bestie stanno ammassate, ma lasciate brade, ruspanti, e un po’ anche all'avventura, come tutti quei frikkettoni forestieri che negli anni 70 praticavano campeggio libero e che furono all'origine della nuova colonizzazione dell'Isola e, forse anche della scomparsa di questo tipo di allevamento. Libere insieme a qualche capra che ancora sopravvive sulla costiera nord. Libere. Almeno fino a metà marzo. Poi c'era la chiamata. Puntuale come ogni anno, una settimana prima del primo plenilunio di primavera, avveniva tutto. Non si era ancora fatta luce in cielo, lì, dietro la sagoma di Salina, che già ci arrampicavamo lì dove il sole sarebbe tramontato, fino ad arrivare ai bordi della sciara. Il nostro compito, il compito di noi ragazzini, era quello di radunare — con l'aiuto di Ciro, Sam e Ugo, fedelissimi colleghi che ogni primavera ricordavano di essere pure cani di mannara —tutto il gregge sparso, quasi come se si giocasse a nascondino o ad acchiapparello. Si stanavano anche le pecore che stambeccavano a 700 mt, fino in cima al monte. Trovati tutti i capi, si costringevano verso un alto punto della scogliera a strapiombo sul mare, Punta Perciato. Poi, una ad una si stendevano le pecore su di un fianco. Io le tranquillizzavo accarezzandone il vello, mentre mio zio ne legava le zampe. Poi giù. Nel Blu. In acqua stavano per pochissimo tempo, perché era già pronta la flotta dei “pescherecci”, barche basse che recuperavano i lanuti esseri che ormai avevano capito che qualcosa nella loro monotona vita, stava cambiando. In anni di tuffi, nessuna pecora è mai annegata. In fondo, qualche giorno dopo, veniva la Santa Pasqua. Fui io a dare la notizia da Elio: “Papà l'anno prossimo ci correte voi appresso alle pecore!” Stavo diventando grande e correre per andare a pecore non portava niente di buono solo storte alle caviglie e il rischio di cadere giù al posto delle pecore. Fu così che decretai chiusa la stagione della pesca alla pecora sull'Isola. Eravamo gli ultimi. Qualcuno ancora più creativo praticò per un po’ un'altra disciplina, che però, questa volta, mescolava pesca e caccia: Il tiro alla capra. Praticato dalla stessa barca con la quale veniva recuperato l'ovino impallinato. Ma questa è un'altra storia.
“Saluti dall'Isola” D.Rando ed"Aeolie #87
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Un tatuaggio. Anzi due. Ma come fosse uno. Su entrambe le scapole. In realtà un po' più sopra. Non le classiche ali da angelo o da demone. Qualcosa di molto più semplice ed espressivo al tempo stesso. Due coppie di virgolette, all'inglese, come ad aprire e chiudere un discorso. Un pensiero. E tutto quello che c'è in mezzo è un concetto: la curva delle spalle, il collo, il ciuffetto di capelli che le adorna la nuca, la testa. Il suo cervello. Ho ripensato a quelle "virgolette" e al loro significato. Perché, sì la punteggiatura ha un senso, ma va contestualizzata. In questo caso conta quello che sta fuori da ciò che racchiudono. Non è mica sempre detto indichino le parole di qualcuno, qualcosa di detto. Chi parla in questo caso? Non sta scritto. Ma soprattutto potrebbe non essere un "discorso". Potrebbe racchiudere una parola che diventa una metafora, un'antonomasia... quell'odioso gesto molto "americano" che si fa alzando le mani mentre si parla sottolineando visivamente con una veloce ripetizione di indice e medio che curvano per un paio di volte verso il basso... Potrebbe essere lei stessa una metafora. In tutta questa serie di pensieri grammaticali — anche i suoi pensieri possono essere contenuti da quelle virgolette, anzi lo sono sicuramente — mi sto accorgendo di aver fin qui trascurato tutti gli aspetti tipografici. Imperdonabile se come me avevi studiato grafica. Garamond Simoncini Bold il font usato. E le virgolette tipografiche e, come dicevo prima, "all'inglese": vale a dire, apertura con la punta delle virgole che vanno verso destra in alto e, viceversa, chiusura con virgole puntate verso il basso e verso sinistra. Chissà se è stata lei ad aver scelto font o il suo tatuatore. La voglia di farla girare toccandole due volte la virgoletta sulla spalla destra e dare soluzione alla mia curiosità si fa sempre più forte.
"Tatootelling" M.Skin ed.Signs #86
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Capelli al vento e armatura in corpo. Era commovente vederle brillare gli occhi davanti a quel moderno mulino a vento, tanto che sembrava, appunto, di mirare una moderna Giovanna d'Arco o meglio ancora una “Donna” Quixotte, sicuramente non una Dulcinea qualunque. La pelle chiara, i capelli castani, la postura dritta, fiera, con la fronte alta e i due seni che puntavano quei giganti e il rumore ipnotico del ronzio dell'alternatore e dell'aria tagliata tre volte ad ogni giro di ruota, creavano un'atmosfera epica, solenne. Lei ad un tratto chiuse gli occhi. Accanto le comparvero un cavallo bianco e una figura robusta, bassa e gentile accompagnata da un mulo. Una folata di vento le accarezzò i vestiti, un brivido le corse sulla schiena la spinse a ritornare presente. Nel presente. Con la mano destra strinse il colletto della sua camicetta portandolo verso la bocca. Nella mano destra teneva la sua cartella in pelle. L'alba era ancora tiepida e un altro cliente aspettava la sua visita, la sua proposta. — Andiamo Ronzinante… Montò in auto e con il braccio fuori dal finestrino, quasi come ad imbracciare una lancia, partì sparendo dietro la collina.
“La ragazza e i mulini” di S.Cervante, ed.eolo #82
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– Ormai è così. Io praticamente lavoro nel tempo libero! E non era solo una battuta. Lui nel "tempo libero", quando un normale lavoratore, stanco si sarebbe riposato, lui, lavorava. Mouse in mano, luce fredda del monitor da 21" ad illuminargli il volto, lui lavorava: sistemava foto, montava video, si occupava di grafica, loghi... e insomma tutto quello che poteva capitargli. Sì, perché doveva pur mantenersi. I sindacati non avevano lottato, in passato, molto per il suo futuro e per quello dei suoi, ormai numerosi colleghi. Ma fra passato e futuro c'era anche un presente. Troppo concreto da permettersi questi pensieri. Un presente fatto di una libera professione, inseguita e voluta e guadagnata, rincorrendo i suoi sogni e le sue ambizioni. Così il 25 aprile, il primo maggio, per lui erano opportunità per mettersi in pari. Ok poteva sembrare disorganizzazione, ma in realtà era un lavorare 24/24, 7/7... perché, anche quando sembrava non lavorare, divertendosi, andando in giro, chiacchierando, bighellonando, oziando, lui (e doveva ripeterselo anche lui) lavorava. In realtà. Raccoglieva idee; faceva PR; faceva sedimentare le idee; le discuteva, le idee; lavorava. Poi c'erano dei periodi in cui si sentiva inseguito. Come se tutti volessero qualcosa da lui. Ma magicamente, con l'avvicinarsi di una scadenza, questa pressione aumentava fini a scaricarsi totalmente con la consegna del suo lavoro. Frutto, del suo tempo libero. Poi c'erano i clienti che il venerdì davano per scontato che il lunedì avrebbero avuto quello che avevano chiesto. Perché un freelance, non riposa. Lui, nel tempo libero, lavora. Nel resto del tempo è libero. Di sognare.
"Buon primo maggio" di K.Max ed.Syndication Bologna #80
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Le ragazze del nord, quando le accompagni a casa, una volta chiuso il portone non si girano a salutare dietro i vetri facendo segno di andare. I ragazzi del nord, evidentemente, non sono abituati ad aspettarle. A sincerarsi con la propria coscienza prima che con la ragazza che hanno appena fatto scendere dalla propria auto che sia entrata e che non ci siano stati ad attenderli improbabili, ma sempre possibili, ostacoli nel di lei cammino.
"Piccolo atlante etologico italiano di ragazzi e ragazze"; G.Della Casa, Ed. Galatee, Ospitaletto #79
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Se lei è qui a dirti questo, a chiederti più rispetto e considerazione, e lo sta facendo senza alzare la voce, senza trucchetti psicologici più o meno consci per attirare la tua attenzione, beh, allora vuol dire che ti ama. Non fartela sfuggire, non lasciarla scappare, non lasciarti lasciare.” Questo avrei voluto dire a quel ragazzo che vedevo solo di spalle, che ascoltava quasi senza replicare quello che bastava solo un po’ di attenzione per essere nettamente chiaro da udire e comprensibile anche a tre tavoli di distanza malgrado il rumore di fondo di un bar all'interno di una libreria una domenica pomeriggio di gennaio. Lei, emozionata ma lucida, smalto rosso passione come la striscia sulla manica del suo maglione di lana grigio, unico vezzo cromatico che contrastava la sciatteria data dai tagli sul ginocchio dei pantaloni neri e collaborava con quel seducente nastro di velluto nero stretto intorno al collo come fosse il collare di una gatta dal manto bianco. I suoi capelli lisci, neri e le sue folte sopracciglia delineavano una personalità forte e saggia. — In una relazione, una relazione fra ragazzi che non hanno problemi particolari, è normale scazzare ogni tanto. Ognuno ha il suo carattere. Inizio promettente ed interessante per chi si trovava ad ascoltare malgrado ci si potesse sforzare di farsi gli affari propri e non continuare a cercare di cogliere ogni singola parola del discorso serio ma appassionato. — Io ogni tanto, con te, mi sento come se tu non mi prendessi sul serio, non mi considerassi, anche per le piccole decisioni, cosa fare, dove andare, con chi.. e invece no. Poi — continuò ridendo — sei più pazzo perfino di mia cugina, a volte qualsiasi cosa io dica, sbaglio e tu urli senza motivo. Mi colpiva questo dispiacere ma al tempo stesso questa dignità ritrovata da parte di quella ragazza che stava bevendo il proprio caffè davanti al suo ragazzo ormai confuso. Pagai e passai dietro lei: avrei voluto posare una mano sulla spalla di lei e dire al suo interlocutore che quel discorso così vero proveniva da chi, si vedeva, l'amava. Altrimenti non sarebbero stati lì. Avrei voluto dirgli di non lasciarla andare via. Ché era fortunato.
“Ciao.” M.Manca ed. Coraggio #78
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«Ma Lei, come fa a scaricare lo stress?» Io non ci avevo mai pensato. Non al tema dello smaltimento, ma al fatto che io potessi essere stressato. Io che fino a quella visita dermatologica, credevo di essere l'uomo più calmo del mondo, quello che era perennemente a fare cose divertenti e per cui non c'erano lunedì già da qualche anno? Non mi riconoscevo. Eppure quel dannato eczema alle caviglie per il luminare era di carattere nervoso, perché se la pelle era l'estensione del sistema nervoso, allora quei dieci minuti passati ad osservare e parlare del mio derma, equivalsero a dieci anni di sedute psichiatriche. Io ero stressato, nervoso. E non lo sapevo. Rimasi a fissare per un po’ i due attestati appesi alla parete verde pistacchio, poi il quadro con un arcobaleno per far distrarre i bambini e mi resi conto che forse non ero mai stato felice. Non avevo mai fatto salti di gioia, in fondo, negli ultimi mesi. Ma nemmeno ero un caso tendente al suicidio. Avevo vissuto medio. Mediamente stressato. Un po’ nervoso. Non bastava sorridere per ingannare il cervello. Salutai e lottando contro il prurito che insorgeva lentamente sulla caviglia sinistra, accettai di poter esserne affetto. Da stress. Meglio! Tornato a casa, avrei detto a tutti di lasciarmi in pace. Che ero nervoso.
“La trilogia dell'Io - vol. I «Io» A.Ego ed.Autoanalisi #47
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