Apro la porta del bagno, che non chiudiamo mai a chiave perché non abbiamo segreti. Vedo lo spettacolo più bello che abbia mai visto fino a questo momento: la mia donna che lava via ogni traccia esteriore del rapporto avuto stanotte. Lei cerca di riprendere un po' di razionalità, dopo essersi concessa completamente. Ho potuto godere di lei in ogni modo possibile. E più chiedevo, più lei me ne dava. Se questo non è amore, ditemi voi cosa lo è. Ora s'è accorta di me: mi guarda di traverso. Continua a lavarsi e sorride, orgogliosa della sua bellezza. Si apre appena, mentre la sua mano si infila nel solco anale. Dio, quanto la amo.
«Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me." "Cosa? In che senso?" "Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare. Sto parlando di attraversare la notte insieme. Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?»
La macchina del mio nonno paterno mi piaceva perché era diversa da tutte le altre.
Era una Fiat color blu scuro.
Il modello non lo ricordo.
Ma ricordo per cosa si distinguesse dalle altre auto.
Aveva il cambio delle marce attaccato al volante, sulla destra.
Ogni tanto sedevo davanti, di fianco a lui.
Gli chiedevo se potevo cambiare io la marcia.
Me lo permetteva.
E io ero felice.
Apprendo con dispiacere che il giorno di Natale ci ha lasciato Nara Lotti, staffetta partigiana della Brigata Garibaldi. Nel gennaio del '44 aveva 15 anni e scelse di salire in montagna e unirsi ai partigiani. "Io li ho conosciuti i fascisti - raccontò alcuni anni fa - Picchiavano le persone senza un motivo. Eravamo vicini di casa. Abitavamo nelle stesse strade. Io non capivo quella violenza, io domandavo. A Santa Sofia c’era il comitato antifascista, erano tutti uomini e io mi chiedevo come mai loro rimanessero a casa; poi ho capito che avevano famiglia e anche paura. Io invece non avevo paura di nulla."
When I was young, it seemed that life was so wonderful
A miracle, oh, it was beautiful, magical
And all the birds in the trees, well they'd be singing so happily
Oh, joyfully, oh, playfully watching me
But then they sent me away to teach me how to be sensible
Logical, oh, responsible, practical
Then they showed me a world where I could be so dependable
Oh, clinical, oh, intellectual, cynical
There are times when all the world's asleep
The questions run too deep
For such a simple man
Won't you please, please tell me what we've learned?
I know it sounds absurd
Please tell me who I am
Fu scritta da Roger Hodgson e racconta della sua esperienza giovanile in un collegio:
“Sono stato in un collegio per dieci anni e quando ne sono finalmente uscito avevo in mente un sacco di domande.
'E adesso, cosa diavolo mi succederà? Qual è il significato della mia vita?'. Mi chiedevo perché molte delle cose che mi avevano insegnato fossero per me prive di senso.
'The Logical Song' era un mezzo per affermare con ironia qualcosa di molto più profondo.
Mi avevano insegnato a uniformarmi agli altri, a essere presentabile, accettabile e tutto questo genere di cose, tralasciando quello che per me era invece fondamentale.
Nessuno mi aveva mai detto chi io fossi o quale fosse il significato della mia esistenza.
Desideravo trasmettere un messaggio molto profondo, nel quale molte persone si riconobbero”.
Filadelfia, 7 aprile 1915 – New York, 17 luglio 1959
[ Nella vita, per prima cosa devi avere da mangiare e un po' d'amore.]
Mi hanno detto che nessuno canta la parola "fame" e la parola "amore" come le canto io. Forse è perché so cosa han voluto dire queste parole per me, e quanto mi sono costate . Forse è perché son così orgogliosa da volere per forza ricordare Baltimora e Welfare Island, l'istituto cattolico e il tribunale di Jefferson Market, lo sceriffo davanti al ritrovo nostro di Harem, e le città sulla costa da un oceano all'altro dove ho preso le mie batoste e le mie fregature, Filadelfia e Alderson, San Francisco e Hollywood; ricordare metro per metro ogni dannato pezzo di tutto questo. Tutte le Cadillac e i visoni di questo mondo, e io ne ho avuti un bel po', non possono ripagarmi e nemmeno farmi dimenticare. Tutto quel che ho imparato in tutti questi posti da tutta questa gente si può riassumere in quelle due parole: nella vita, per prima cosa devi avere da mangiare e un po' d'amore.
ph Herman Leonard: Billie Holiday, NYC, New York, 1949
La storia di Billie Holiday è roba da racconti di Charles Dickens. Una infanzia disgraziata e di stenti con la madre che si arrabatta a far di tutto, pure la puttana per mangiare. Un quarantenne che la violenta a undici anni. Una zia sadica e fuori di testa di cui è vittima. Il misero collegio dove passa gli anni dell'adolescenza. Pochi motivi per essere allegra. Le cose cambiano, apparentemente in meglio, quando la sua meravigliosa voce diventa nota, prima nei piccoli ambienti jazz poi sempre a più persone. Nasce così Lady Day. Nasce così Lady sings the blues. Ma la fama non lenisce ciò che è stato, e allora per resistere e campare ci vogliono droghe e alcool e amori tutti sbagliati. Lei ne e' consapevole, ma, dice: "Sono stufa di passare le notti sola con i miei cani in albergo, dopo un concerto". O peggio "risvegliarmi ogni mattina accanto a un uomo diverso". Quando il 17 luglio 1949 si spegne ha solo 44 anni. Dirà Miles Davis: "Era una donna molto dolce, molto calda; sembrava un'indiana con la pelle vellutata, marrone chiaro. Era una donna splendida prima che l'alcool e la droga la distruggessero. Ogni volta che mi capitava di incontrarla le chiedevo di cantare "I Loves you, Porgy", perché ogni volta che lei cantava "non lasciare che mi tocchi con le sue mani calde" potevi praticamente sentire quello che sentiva lei. Il modo in cui la cantava era magnifico e triste. Tutti quanti amavano Billie".