Tumgik
#mondo psichico
papesatan · 4 months
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Trovo che nulla parli di noi come le nostre lacrime. Di conseguenza, ho deciso di trascrivere qui una lista di eventi e situazioni che mi fanno piangere inconsolabilmente:
le lettere scritte da mia madre e nascoste in un vecchio diario di scuola, quando andavo ancora alle medie. Le ho scoperte soltanto pochi mesi fa, riaprendolo casualmente, e sono scoppiato a piangere,
il finale di Mary Poppins, quando dopo essere stato licenziato, il signor Banks torna a casa con l’aquilone finalmente riparato e comincia a giocare coi figli, correndo fuori con loro per farlo volare nel parco (scena tuttora inguardabile per me senza cominciare a frignare),
gli abbracci alla stazione,
l’episodio di Doraemon in cui Nobita vorrebbe ringraziare la persona che, durante una gita all’asilo, lo aiutò a rialzarsi, scacciando i bruchi pelosi che lo ricoprivano. Tuttavia, Nobita non riesce a ricordare il suo volto, così Doraemon gli offre l’opportunità d’incontrare chiunque voglia nella Stanza del Rivedersi,
la perduta innocenza,
il finale dell’Uomo dei Sogni, quando Ray incontra suo padre, morto da tempo, e prima che questi svanisca gli chiede: “Ehi papà, vuoi giocare un po’ con me?” (tema a quanto pare ricorrente, dovrei forse dedurne qualcosa?),
l’inesorabile decadimento fisico e psichico dei miei genitori, ormai pressoché anziani,
la tenerezza del mio cagnolino e la consapevolezza della sua ineluttabile caducità, 
questo mio talento letterario negletto e sprecato, gettato ormai ad appassire come giardino incolto,
il finale della terza stagione di Person of Interest, quando Samaritan sembra aver ormai vinto, ma il monologo di Root ci ricorda che nonostante tutto il male che ci opprime, non dobbiamo mai smettere di sperare,
Exit music for a film dei Radiohead, dal minuto 2:50, ovvero lo smanioso desiderio di rivalsa che da sempre m’avvampa e mi corrode animo e viscere dopo ogni mortificante derisione, al pensiero che sì, un giorno tutti sapranno, e allora, beh, gliela farò vedere io… (me ne rendo conto, di solito è così che nascono i serial killer). Questa parte, ad ogni modo, mi emoziona a tal punto da avermi spinto a scrivere il finale della mia storia: “Un ventoso mattino di settembre, i servi del marchese  avrebbero forzato le porte dello studio, ove il misero scrittore soleva rinchiudersi di notte, e lo avrebbero trovato morto, riverso fra le sue carte in una pozza di vomito. Spalancate le finestre a lutto, i poveri disgraziati sarebbero stati travolti allora dall'empia ferocia di quegli astiosi fogli sdegnati dal tempo e, così finalmente libere, pagine e pagine d'inchiostro si sarebbero riversate in strada, pronte a prender d'assalto case e negozi, scuole e caserme, mulinando burrascose sulla città, fra le strida dei borghesi impazziti e le urla dei bambini accalcati contro i vetri, fino a seppellire il mondo, terra e cielo, sotto cumuli di scritti dissotterati dal fuoco e dagli abissi”,
la morte di Due Calzini in Balla coi lupi (e il tema ad esso collegato), quando il lupo segue fedelmente Dunbar ormai prigioniero e i soldati gli sparano addosso per dimostrare la loro tonitruante possenza di coraggiosissimi esseri umani supercazzuti, finché non l’ammazzano senza pietà. 
la lettera di Valerie da V per Vendetta, (credo non occorrano spiegazioni né commenti qui),
la mia sciagurata impotenza dinanzi al dolore degli amici,
la morte del commissario Ginz ne Il dottor Živago: “Soldati armati di fucili lo seguivano. ‘Cosa vorranno?’ pensò Ginz e accelerò il passo. Lo stesso fecero i suoi inseguitori. [...] Dalla stazione gli facevano segno di entrare, lo avrebbero messo in salvo. Ma di nuovo il senso dell’onore, educato attraverso generazioni, [...] gli sbarrò la via della salvezza. Con uno sforzo sovrumano cercò di calmare il tremito del cuore in tumulto. Pensò: ‘Bisognerebbe gridargli: - Fratelli, tornate in voi, come volete che sia una spia! - Qualcosa di sincero, capace di svelenirli, di fermarli.’ [...] Davanti all’ingresso della stazione si trovava un’alta botte chiusa da un coperchio. Ginz vi balzò sopra e rivolse ai soldati alcune parole sconvolgenti, fuori dell’umano. Il folle ardire del suo appello, a due passi dalle porte della stazione, dove avrebbe potuto rifugiarsi, sbigottì gli inseguitori. I soldati abbassarono i fucili. Ma Ginz si spostò sull’orlo del coperchio della botte e lo ribaltò. Una gamba gli scivolò nell’acqua, l’altra rimase penzoloni fuori della botte. [...] I soldati accolsero la sua goffa caduta con uno scroscio di risate: il primo lo colpì al collo, uccidendolo. Gli altri gli si gettarono sopra per trafiggere il morto a baionettate”. Non riesco a dire come questa fine mi commuova, ma credo abbia a che fare con goffaggine, spietatezza e umiliazione, cose che mi colpiscono tutte enormemente,
l’episodio de La casa nella prateria, in cui il signor Ingalls realizza una scarpa speciale per la piccola Olga che zoppica a causa di un’asimmetria nelle gambe. Il padre però non vuole che giochi con le altre bambine perché teme possano deriderla o che, ancor peggio, possa farsi male. Aggredisce così il signor Ingalls per essersi intromesso, ma all’improvviso vedendo la figlia giocare felice in cortile, muta espressione commuovendosi profondamente, ed io con lui. È la gioia d’un padre che comprende che sua figlia è finalmente felice. 
la vittoria dell’Italia alle olimpiadi di Torino 2006 nel pattinaggio di velocità, inseguimento a squadre maschile. Avevo 17 anni, avevo finito da poco i compiti e non so perché, restai paralizzato di fronte alla tv ad ammirare l’impresa di Enrico Fabris e compagni, esplodendo poi in un inspiegabile pianto liberatorio che ancora oggi sa per me d’imponderabile (disciplina mai più seguita, che quel giorno però mi regalò un’emozione eguagliata solo dall’oro di Jacobs nel ‘21 - senza lacrime),
la canzone Ave Maria, donna dell’attesa: dal matrimonio di mia sorella ad oggi son passati sette mesi, eppure questa canzone mi fa ancora lo stesso perturbante effetto, scuotendomi ogni santa volta.
Isengard Unleashed dalla colonna sonora del Signore degli Anelli, in particolare, il momento coincidente con la marcia degli Ent (vedi sogni di furiosa rivalsa), dal minuto 2:18,
la comprensione altrui,
ogniqualvolta ho dovuto accompagnare qualcuno all’Eterna Porta e dirgli addio in Spiritfarer,
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trovare ricci spiaccicati sulla strada,
gli immarcescibili sensi di colpa per la morte del gattino Figaro, quando avevo cinque anni,
le storie di grandi insegnanti, capaci di lasciare tracce di sé nei loro alunni.
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falcemartello · 4 months
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SHHH!!
Silenzio mi voglio rilassare..
Esiste un luogo che potrebbe farvi ricredere sugli effetti terapeutici del silenzio assoluto: si tratta della stanza anecoica degli Orfield Laboratories, in Minnesota, che nel 2008 è entrata del Guinness dei Primati con il titolo di luogo più silenzioso al mondo.
L’idea di passarci un po’ di tempo potrebbe sembrare rilassante, ma non lasciatevi ingannare: nessuno è mai riuscito a rimanerci per più di 45 minuti. Il motivo?
La stanza anecoica è talmente silenziosa che può portare alla follia in meno di un’ora.
La stanza del silenzio è composta da due camere costruite l’una nell’altra, realizzate con materiali fonoassorbenti e fonoisolanti che hanno la capacità di assorbire i suoni al 99%.
La camera più interna è isolata da uno strato in fibra di vetro spesso 1 metro e le sue pareti sono rivestite da una tappezzeria in schiuma sintetica.
Anche il pavimento è a prova di rumore tanto che camminandoci sopra tende a cedere leggermente in modo da attutire eventuali vibrazioni o fruscii.
Perché è impossibile resistere al suo interno?
Chi si trova nella stanza anecoica (che, come suggerisce il nome, non produce eco) diventa l’unica fonte di rumore; inizia a percepire il suono dei propri organi, il sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il gorgogliare dello stomaco. In pratica, vive un’esperienza extrasensoriale capace di far perdere sia l’equilibrio fisico che psichico.
Steve Orfield, il responsabile della struttura, spiega che a luci spente si sperimenta uno stato di deprivazione sensoriale totale che poco a poco fa perdere al cervello ogni riferimento. Per orientarci infatti noi usiamo anche i suoni, che ci forniscono equilibrio e facilitano i movimenti: la loro assenza produce un disorientamento tale da indurre claustrofobia, vomito, attacchi di panico e allucinazioni. 
È quasi d’obbligo inoltre rimanere seduti, perché nella stanza stare in piedi e camminare diventa pressoché impossibile.
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ambrenoir · 1 month
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Volete essere felici? Ebbene, invece di cercare di ottenere ciò che ancora non avete, iniziate con l’essere riconoscenti per tutto ciò che avete già sul piano fisico, psichico e spirituale, e sforzatevi di farne beneficiare gli altri. Per essere felici, coltivate la facoltà di rallegrarvi e ringraziare, e fatelo specialmente per le cose che fino a quel momento avevate trascurato o disdegnato. Ogni giorno cercate di trovare almeno un avvenimento, un incontro, un pensiero che vi faccia del bene o che vi incanti, e mettetelo nella vostra mente, nel vostro cuore.
Se saprete ringraziare ogni giorno il Signore, se saprete apprezzare tutto ciò che Egli vi dà, possiederete il segreto magico che può trasformare la vostra vita, e le entità luminose del mondo invisibile si avvicineranno per aiutarvi. È questa la felicità.
Omraam Mikhaël Aïvanhov
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susieporta · 3 months
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La Torre.
"La frattura del Muro Cosmico"
Stiamo assistendo ad un crollo Sistemico Energetico senza precedenti.
Mentre siamo impegnati nell'affrontare ondate di Frequenze altamente debilitanti, potremmo percepire che nel disagio più inaccettabile, si trova la nostra più grande Risorsa.
Molte Anime potrebbero ardentemente contestare che il livello di impatto sul loro Sistema Nervoso è troppo sfiancante per condurre una Vita piena o perlomeno "sostenibile" sul piano fisico e psichico.
Ma "Sentire" il Cambiamento, per quanto faticoso, ci consente di beneficiare dell'immensa opportunità di vivere il Presente nella Consapevolezza e nella Scelta.
Il resto sono solo "disagi" che, per quanto pesanti e sofferti, con pazienza, ispirazione e tanta cura e amore per noi stessi, si possono parzialmente governare.
Una Vita "non scelta" è il vero dramma.
Se non mi accorgo di nulla e vado diritto con il mio paraocchi contro gli spigoli, prima o poi lo schianto arriva. E pure bello grosso.
Prima o poi, ciò che ho tentato in tutti i modi di nascondere a me stesso e agli altri, mi sbatte in faccia l'evidenza.
Non denigrate i vostri Doni.
Sono strepitosi. E originano dal Divino.
Il vostro Sentito "sente" troppo?
Lo farà sempre di più.
La Strumentazione che si sta attivando negli ultimi mesi non è pensata per condizioni di "congelamento interiore", ma per l'Interattività tra il Mondo Visibile ed Invisibile. Per originare e ripristinare Equilibri Ancestrali perduti.
Se abbracciamo questa Trasformazione con tutte le nostre Forze, anziché subirne solo la parte della stanchezza fisica e psichica, scopriremmo che buona parte della nostra condizione di "sfinitezza" dipende dal fatto che stiamo conducendo un'Esistenza molto lontana da ciò che servirebbe al nostro piano di Struttura ora.
Riproponiamo e ci imponiamo ancora schemi antichi di funzionamento a fronte di una apparecchiatura molto più potente e sofisticata, a cui dovremmo costruire un Setting molto diverso e più individualizzato.
Non possiamo più circondarci da condizioni di Vampirismo, di Rumore, di Immaturità, di Manipolazione.
Il nostro Sistema si ammala. Reagisce con movimenti di arretramento immediati e inequivocabili.
Va in "over istantaneo".
Perché gli "strani" stavolta non siamo più noi.
Ma coloro che sono rimasti "indietro" e hanno continuato a riprodurre modelli di Vita superati e dannosi per la nuova Struttura Interiorizzata.
Occorre ripensare ai propri Spazi di Vita.
Sta giungendo il Tempo.
Devono essere sostenibili e accuratamente scelti per supportare le nuove Caratteristiche di Sistema.
Bisogna volersi bene e accogliere i nostri nuovi bisogni. Fisici, psichici e spirituali. Accoglierli, anziché denigrarli e continuare a lamentarsi della fatica che impongono.
La chiave di volta sarà il Cambiamento Materiale delle nostre Abitudini, affinché possa essere adattato pienamente ogni contesto di Vita quotidiano all'avvenuto potenziamento della Strumentazione interiore.
Il Sentito ci guiderà sempre di più verso la nostra nuova Esperienza di Autenticità.
Saremo chiamata alla Responsabilità.
Non si possono più abbracciare le Condizioni di prima.
Siamo completamente cambiati.
Non possiamo più sostenere il Vecchio. Ci inquina, ci contamina, ci uccide.
E' ora di Nuovo. Di nuove Scelte. Di nuovi Orizzonti. Di nuovi Luoghi dello Spirito.
Non sarà più il Dentro a doversi adattare al Fuori.
Ma le nostre Scelte Materiali dovranno corrispondere perfettamente alle esigenze dei nostri nuovi Spazi Interiori.
Giugno intanto ce lo farà sentire come esigenza non più procrastinabile. E poi, pian pianino, verremo portati dall'ispirazione a compiere quelle Scelte di Coerenza e di assoluta Novità, che da tempo stiamo cercando di raggiungere e interpretare correttamente nella Materia.
Ma il prerequisito essenziale resta "l'Amore per Se stessi", che è il tema caldo di queste giornate così intense e scardinanti.
Questa spinta ad Amarci profondamente sarà la chiave di volta degli avvenimenti che si manifesteranno a Settembre.
Stiamo solo scaldando i motori.
Il Bello deve ancora arrivare.
Ma intanto abbiate cura di voi stessi. Siate accudenti verso il vostro Corpo e la vostra Salute Psichica. Concedetevi spazi di Bellezza e di Natura.
Non condannatevi alla lamentela e alla vittimizzazione dei vostri Sintomi.
Ci sono. Ma possono essere leniti e aiutati con riposo e pulizia energetica.
Immense trasformazioni stanno avvenendo dentro.
Ne abbiamo solo limitata Coscienza al momento. Ma quando riusciremo a collegare tutti i fili che legano il processo, allora lo stupore sarà inimmaginabile.
Buon sabato. Di Vita e di Amore. E di crolli.
Mirtilla Esmeralda
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kon-igi · 1 year
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SOPRACCIGLIA E BARBA ROSSA
Questa è una storia su di me... a tratti noiosa e/o delirante, autocelebrativa e antipatica per taluni, commovente e sincera per altri.
Nel video che si trova fissato in alto nel mio tumblr, invito chi mi conosce da poco (oppure da molto ma superficialmente) a non confondere persona, personaggio e professionista.
Intendiamoci, non esistono tre Kon-igi schizoidi che in ogni momento non sai con quale interagisci ma di sicuro in questi spazi è molto facile che un muro scrostato e vecchio io ve lo intonachi con stucco veneziano e magari ci allestisca pure una mostra di arte contemporanea con giochi di luci meravigliose... ma comunque rimane un muro vecchio e scrostato, sull'imbellimento fantasioso del quale non ho mai mentito o promesso comodati d'uso a contratto capestro.
Mi piace citare cultura pop, video cringe, videogiochi, giochi di ruolo oppure anime e manga che abbiamo visto o letto in tre...
Ma sono nato nel 1972 e quindi sono mediamente vecchio, anche se non di merda (spero).
Nonostante tutto, difficilmente mi vedrete interagire con persone della mia età che non siano quei quattro famigerati gatti qua su tumblr, che per fortuna hanno resistito dal diventare quei vecchi di merda di cui è popolato il mondo reale e con cui faccio una miserabile fatica anche solo a prendeci assieme un caffè alla macchinetta a base di calcio&figa.
Mi autoelogio nel definirmi uno invecchiato bene... perlomeno nella testa e nel cuore (il corpo vabbe').
Ho imparato a frenare il mio paternalismo, il mio man(kind)splaining e la mia sindrome del salvatore, tenendo a bada anche una certa impiccionaggine nel voler sapere le cose degli altri per condividere ed essere d'aiuto.
Ma come state giusto ora sperimentando, perdo il prezioso dono della sintesi quando devo parlare di cose radicate ben dietro il personaggio, nella parte più profonda della mia persona.
In un post di qualche mese fa, quello in cui raccontavo in tono scherzoso del ricovero di Figlia Piccola, ho preso in prestito da uno dei miei anime preferiti (Le Bizzarre Avventure di Jojo) il concetto di STAND - una sorta di potente proiezione delle nostre energie psichiche dotata di poteri particolari - e l'ho usato come allegoria della sua enorme forza d'animo nel non farsi piegare dal dolore, fisico e psichico.
Continuiamo questo sciocco gioco metaforico e fate cortesemente finta di rimanere stupiti e sconvolti positivamente dalla descrizione del mio Stand e dei suoi poteri...
HEART ON JOHN
Se non lo sapevate ora ve lo dico, la pronuncia in giapponese è molto simile a quella del nome del famosissimo cantante e pianista inglese, a cui ho sottratto il titolo di una delle sue canzoni più famose per definire il suo attacco speciale
ROCKET MAN
Ma prima di dirvi quali sono le caratteristiche di Rocket Man, mi preme spiegarvi il titolo del post, frutto del mio citazionismo colto (ma manco per il cazzo).
Nella mitica serie 'Scrubs', a un certo punto JD si mette assieme a una collega psichiatra e la sua amica e collega Elliot, una bomba a mano emotiva, si mette di mezzo e bulleggia questa dottoressa, affermando che questa può dirle qualsiasi cosa che tanto lei è una donna equilibrata e forte... la camera inquadra la psichiatra che sorride e sussurra a Elliot 'SOPRACCIGLIA', con JD che controbatte 'Ma cosa c'è di male nella parola sopracc...' se non che la camera ritorna un attimo dopo su Elliot singhiozzante e disperata col mascara colato.
Barbarossa, invece, si riferisce a una delle scene per me più toccanti della serie 'Sherlock', quando il protagonista viene ferito quasi a morte da una certa persona (no spoiler per chi si fosse appena svegliato da un coma di 13 anni) e nel suo palazzo mentale rivive episodi del suo passato per cercare di trovare un modo per salvarsi, tra cui l'incontro col suo setter Barbarossa, l'unico essere vivente con cui da bambino abbia mai interagito con amore.
Ecco cosa fa Rocket Man.
Di chiunque entri nel suo raggio d'azione io posso vedere sia le sopracciglia che la barba rossa.
Di chiunque.
Di tutti.
Venite pure avanti con la vostra faccia di cazzo, con le vostre pretenziose idee di merda, con le vostre lamentele autocentriche di persone sfortunate o di individui speciali a cui tutto è dovuto, la cui unica dote è sparare cazzate con un potentissimo filtro instagram che sembra quasi riuscire a cancellare la stupida vacuità.
Il primo pugno manda in frantumi la vostra scintillante armatura di fasulla perfezione, il secondo vi riporta indietro all'ultima persona che vi ha detto di no, il terzo a quando anni prima il mondo vi sembrava pieno di promesse e luce e così via finché davanti a me non ho il bambino piangente a cui è stato negato un gesto di amore.
E quando l'ultimo pugno sembra poter cancellare ogni cosa, io invece vi abbraccio fortissimo e vi riporto indietro al presente, in mezzo ai frammenti di ciò che non volevate essere ma che siete stati costretti a diventare per non sentire il dolore.
Vi piace il potere del mio Stand?
Non l'ho scelto io e nella vita reale ovviamente non ci sono pugni, solo la mia consapevolezza di tutte le vostre sopracciglia e la mia scelta di voler arrivare fino a Barbarossa, accanto al quale giace in solitudine il bambino piangente che era stato felice quell'ultima volta.
Magari non vi sembrerà ma io a quel vostro bambino ci arrivo sempre.
E se suona come una promessa infatti lo è.
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arreton · 1 year
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Oltre la salute mentale - Il Tascabile
Nel suo articolo La meditazione che fa bene al capitale, Ronald Purser spiega come la tecnica buddista della Mindfulness sia diventata la ricetta perfetta da vendere sul mercato perché ci rende pacifici, cioè “vuole convincerci che le cause della nostra sofferenza vanno ricercate soprattutto dentro noi stessi, e non nel contesto politico ed economico che determina il modo in cui viviamo”. In questo caso si tratta di una forma mercificata della mindfulness, che di per sé può invece essere un utile strumento per gestire lo stress, l’ansia e modificare alcuni automatismi mentali che ci fanno soffrire. Il problema si presenta quando viene ridotta a una ricetta per il successo e si trasforma nella panacea di tutti mali, o addirittura come una filosofia rivoluzionaria necessaria per cambiare il mondo.
Qualcosa di simile potrebbe succedere con le terapie psicologiche quando si paventa la possibilità di risolvere qualsiasi problema semplicemente iniziando una terapia. Quando problemi strutturali come la povertà, la violenza domestica, lo sfruttamento, la disoccupazione o la distruzione dell’ecosistema diventano questioni personali, allora il campo d’azione si riduce alla depressione, al self empowerment, allo stress da lavoro correlato, all’abuso di sostanze o all’ansia. Il contesto sociale rimane sospeso, lasciando spazio esclusivamente all’interpretazione e gestione dei sintomi della paziente. Il processo clinico della terapia è un’ottima risorsa che aiuta le persone a conoscersi e curarsi ma non può essere la bacchetta magica per risolvere i conflitti che riguardano la collettività. Per esempio, una campagna di sensibilizzazione sul burnout lavorativo lanciata su Instagram propone come unica soluzione rivolgersi a un servizio di psicoterapia online a prezzi calmierati. Organizzarsi per migliorare le condizioni di salubrità, i ritmi di lavoro, la cultura aziendale, ridurre i turni e la competizione sfrenata rimangono invece rimossi dai possibili scenari d’azione.
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Mi augurerei di essere felice ma è tutta la vita che me lo auguro e sono stufa di seguire un desiderio così effimero. Se solo fossi una testa di cazzo come altri miliardi su questo mondo che si augurano una Ferrari, una vacanza di merda a Ibiza, tutte stronzate conquistabili con il dio soldo. No io dovevo nascere come quella che durante catechesi a 9 anni quando ti chiedevano che cazzo vuoi dalla vita la risposta era sempre "felice" come se qualcuno sapesse come cazzo arrivarci. Allora negli ultimi anno ho cominciato a mettere paletti per raggiungere questa meta tanto ambita. Paletti messi in modo molto intelligente se non fosse che gli ultimi dieci mesi mi hanno e tutt'ora stanno distruggendo a livello psichico. Quello che voglio allora per quest'anno è semplicemente trovare una traccia, una direzione da seguire che sia a livello lavorativo che sia a livello di dove vivere. Voglio cominciare a creare delle basi il più solide possibile e poi possibilmente dovermi muovermi, stravolgere la mia vita il meno possibile.
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veritanascoste · 9 months
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Siamo particelle di Dio Fonte,Sorgente  discese in questo mondo prigione per fare esperienza di come era un tempo la vita biologica.
Purtroppo ci è stato teso un tranello, una tecnologia potente ci ha cancellato la memoria, identità e capacità extrasensoriali ma  tutto questo può essere recuperato attraverso la congiunzione mistica che è una delle visioni religiose più radicali dell'Occidente.
Lo gnosticismo parte dal presupposto che il mondo apparente sia una frode che nasconde la vera realtà. Da qui la necessità di rivelare la Gnosi.
Siamo "segretamente" in una grande prigione, "segretamente" in schiavitù. C'è un deliberato occultamento praticato su di noi dai carcerieri nemici.
La verità ci viene deliberatamente nascosta per tenerci nell'ignoranza.
Se conoscessimo la verità, tutto ciò che vediamo crollerebbe. Scoprire è rovesciare, rovesciare è rivelare. Nello gnosticismo c'è quindi una base rivoluzionaria e sovversiva che combatte contro i poteri che governano questo mondo.
Gli gnostici distinguono il vero Dio sconosciuto (Primo Eone) dal malvagio Dio minore Yaldabaoth (o Demiurgo), le cui leggi e l'universo materiale sono stati creati per catturare le anime degli uomini. Gli arconti sono concepiti come esseri invisibili che controllano gli esseri umani a livello psichico. Ogni essere umano che viene al mondo ha un arconte al fianco che lo allontanerà dal proprio vero essere..
Li tiene in schiavitù, impedisce loro di sperimentare la verità, di riconoscere in loro la scintilla divina che li collega a Dio. Questa è la conoscenza di cui le persone vengono derubate.Queste entità parassite vivono in gerarchie.
Il più grande ha bisogno del più piccolo ma tutti per lo stesso fine,e cioè la sopravvivenza, addormentandosi nell' illusione .
Loro stesse sono vittime del demiurgo corrotto.
Dopo la glaciazione questo mondo fu ricostruito. Fu allora che la luna ci aggancio'  per non fare precipitare la terra ma la ricostruzione avvenne secondo le leggi del demiurgo che si spacciava per la Fonte.
Fu allora che ci fu lo sparti acque citato anche dalla Bibbia e ci chiusero sotto una cupola con un bel firmamento dipinto olograficamente. Durante quella catastrofe morirono molti terrestri ma non li fu data la possibilità di uscire fuori da questo universo virtuale perché l'architetto stabilì la ruota del Samsara che trattenne tutte le scintille. Lavorò ininterrottamente per ricreare celle di contenimento,ogni creazione esperimento,ruolo gerarchico per nutrire dal più piccolo al più grande. Divenne lui il dio di questo mondo e tutte le scritture manipolate si basano sulle sue volontà.
Codice Genesi su Telegram
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t-annhauser · 2 years
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youtube
L'ultimo ascolto ossessivo in ordine di tempo, sono uno di quei fruitori di musica che quando trovano un pezzo che suona bene nella testa lo ascoltano e riascoltano fino a cavargli tutta la polpa, come i pomodori strizzati due e tre volte della nonna di giù quando faceva le bottiglie.
Leggo che hanno conquistato Billy Corgan che li ha voluti come spalla ai concerti degli Smashing Pumpkins, leggo che li definiscono "tragicwave", che dovrebbe essere un gradino sopra la darkwave in termini di lamentosità, dove la darkwave coglie invece quel particolare stato d'animo che i greci chiamavano thaumazein, cioè il turbamento attonito, lo stupor nero di fronte al destino mortale.
Mi ricordavano tanto qualcuno, a forza di leggere ho scoperto chi: i Chameleons, ma annegati come polpette nel riverbero.
Chiedetelo a quelli che mi seguono da tanto, mi era venuta la fissa per Il Trovatore e per l'opera lirica, avrò riascoltato il Te Deum della Tosca un centinaio di volte, cantavo Del mio permesso amato dentro la vasca, Questa e Quella (per me pari sono) mentre lavavo i piatti.
Ho fame di bello, ho fame di cose belle, l'ideale sarebbe una disordine psichico che annulla l'assuefazione e che mi fa sentire ogni volta il mondo come lo sentivo da ragazzo, quando mi investiva come un'emozione.
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scumbookclub · 1 year
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"Quando le lesbiche non erano donne" di Teresa de Lauretis.
Articolo scritto per l'incontro "Autour de L'oeuvre Politique, Theorique, et littéraire de Monique Wittig". Parigi, 16-17 giugno 2001.
C'è stato un tempo, nello spazio discontinuo, uno spazio disperso nei continenti, in cui le lesbiche non erano donne. Non voglio dire che ora le lesbiche sono donne, anche se alcune si definirebbero tali, mentre altre si dicono butch o femme; molte preferiscono definirsi queer o transgender; e altre si identificano con la mascolinità femminile - ci sono un sacco di opzioni per le lesbiche oggi. Ma allora, era chiaro che le lesbiche erano una cosa: non donne. E tutto sembrava così semplice.
Sarebbe forse opportuno, in questa felice occasione, ora che siamo riuniti per celebrare l'opera di Monique Wittig, raccontarvi una storia, una fiction nello stile di Les guérillères, o un'allegoria come Paris-la-Politique, o una riscrittura di un poema epico come Virgil, non. Wittig stessa è ormai una specie di leggenda. Ma non vi racconterò una storia, o non proprio una storia. Voglio riflettere, guardando al passato, su ciò che il suo lavoro ha significato per me nel 1980, quando lavoravo negli studi femministi e lesbici, e come si interseca con le domande critiche di cui mi occupo ancora.
Negli anni '80, è stata la lettura di Wittig, e le poche ma meravigliosamente intense conversazioni che ho avuto con lei nel nord della California, che mi ha spinto a iniziare il progetto di scrivere la teoria lesbica come distinta da quella femminista. La distinzione si è chiarita nella mia mente solo dopo aver letto tre testi cruciali: "Il pensiero straight," "One is not born a woman," e Il corpo lesbico.
In retrospettiva, mi sembra che una nuova figura - una figura concettuale - sia emersa da quelle opere e che sia stata incapsulata nella dichiarazione "le lesbiche non sono donne." [1] Pur essendo stata generalmente fraintesa e criticata da più parti, quella dichiarazione ha arroventato l'immaginazione di molti e anzi, possiamo dirlo oggi, si è rivelata profetica: come ho detto un momento fa, le lesbiche di oggi sono molte cose - e solo raramente donne. Ma, a quel tempo, l'affermazione "le lesbiche non sono donne" aveva il potere di aprire la mente e di rendere visibile e pensabile uno spazio concettuale che fino ad allora era stato reso impensabile da, appunto, l'egemonia della mente etero - come lo spazio definito "punto cieco" è reso invisibile nello specchietto retrovisore di una macchina dalla carrozzeria o lo chassis della macchina stessa. La scrittura di Wittig ha aperto uno spazio concettuale, virtuale, che era proibito a tutte le conversazioni e ideologie di sinistra e di destra, incluso il femminismo.
In quello spazio concettuale e virtuale, mi apparve un tipo diverso di donna, se posso dirlo dopo il titolo del libro che leggemmo al tempo. [2] L'ho chiamata il soggetto eccentrico. [3] Perché, se le lesbiche non sono donne, sono comunque, come me, di carne e ossa, esseri pensanti e scrittori che vivono nel mondo e con cui interagisco ogni giorno, e allora le lesbiche sono soggetti sociali e, con ogni probabilità, anche soggetti psichici. Ho chiamato quel soggetto eccentrico non solo nel senso di "deviato dal percorso convenzionale, normativo", ma anche ek-centrico in quanto non si pone nell'istituzione che supporta e produce la mente straight, cioè l'istituzione dell'eterosessualità. Infatti, quell'istituzione non previde tale soggetto e non avrebbe potuto comprenderlo, concepirlo.
Ciò che caratterizza il soggetto eccentrico è un doppio spostamento: in primo luogo, lo spostamento psichico dell'energia erotica su una figura che supera le categorie di sesso e genere, la figura che Wittig chiama "la lesbica"; in secondo luogo, l'auto-spostamento o la disidentificazione del soggetto dalle ipotesi culturali e pratiche sociali che accompagnano le categorie di genere e sesso. Ecco come Wittig ha definito quella figura:
Lesbica è l'unico concetto che conosco che è al di là delle categorie di sesso (donna e uomo), perché il soggetto designato (lesbica) non è una donna, sia economicamente, o politicamente, o ideologicamente. Perché ciò che rende una donna è una specifica relazione sociale con un uomo, una relazione che abbiamo precedentemente chiamato servitù, una relazione che implica un obbligo personale e fisico e un obbligo economico ("residenza forzata", corvée domestica, doveri coniugali, produzione illimitata di bambini, ecc.), una relazione da cui le lesbiche fuggono rifiutandosi di diventare o rimanere eterosessuali.
Rifiutare il contratto eterosessuale, non solo nella propria pratica di vita, ma anche nella propria pratica di conoscere - quella che Wittig chiamava "pratica soggettiva e cognitiva"- costituisce un cambiamento epistemologico in quanto cambia le condizioni di possibilità di sapere e di conoscenza, e questo costituisce un cambiamento nella coscienza storica. [4]
La coscienza dell'oppressione [scrisse Wittig] non è solo una reazione (per lottare) contro l'oppressione. È anche l'intera rivalutazione concettuale del mondo sociale, la sua intera riorganizzazione con nuovi concetti, dal punto di vista dell'oppressione... chiamiamola una pratica soggettiva e cognitiva. Il movimento avanti e indietro tra i livelli della realtà (la realtà concettuale e la realtà materiale dell'oppressione, che sono entrambe le realtà sociali) si realizza attraverso il linguaggio.
Il lavoro del linguaggio in quel movimento avanti e indietro è iscritto nel titolo del saggio di Wittig del 1981, "On ne naît pas femme." Se la filosofa de Beauvoir aveva detto: "Donna non si nasce, si diventa" (e così, a suo modo, aveva detto Freud), la scrittrice Wittig disse: "Non si nasce donna" (enfasi aggiunta). Quasi le stesse parole, eppure una tale differenza di significato - per non dire una tale differenza sessuale. Spostando l'enfasi dalla parola "nata" alla parola "donna", la citazione di Wittig della frase di de Beauvoir invocava o mimava la definizione eterosessule della donna come "il secondo sesso", contemporaneamente destabilizzando il suo significato e dislocando i suoi fulcri.
Un tale cambiamento comporta una dislocazione e un autospostamento: lasciare o rinunciare a un luogo conosciuto, cioè "casa" - fisicamente, emotivamente, linguisticamente, epistemologicamente - per un altro luogo sconosciuto, non solo emotivamente ma concettualmente sconosciuto; un punto di partenza da cui parole e pensieri posson essere solo tentativi, incerti, non autorizzati. Ma andarsene non è una scelta, perché rimanere dove si viveva era proprio impensabile. Quindi tutti gli aspetti dello spostamento, da quello geopolitico a quello epistemologico e affettivo, sono dolorosi e rischiosi, perché comprendono un costante attraversare indietro e avanti, una rimappatura dei confini tra corpi e discorsi, identità e comunità. Allo stesso tempo, però, permettono una riconcettualizzazione del soggetto, delle relazioni della soggettività alla realtà sociale, e una posizione di resistenza e agency che non è fuori ma, per meglio dire, eccentrica rispetto all'apparato socioculturale dell'istituzione eterosessuale.
Ricordo di aver pensato, allora, che la possibilità di immaginare un soggetto eccentrico costituito attraverso la disidentificazione e lo spostamento era in qualche modo legata alla propria dis-localizzazione geografica, linguistica e culturale, quella di Wittig, dalla Francia agli Stati Uniti; la mia, dall'Italia agli Stati Uniti. Solo più tardi ho scoperto che una simile concezione del soggetto stava emergendo nella teoria postcoloniale e sarebbe successivamente articolata nella nozione di Homi Bhabha di ibridità culturale e i recenti studi sul soggetto transnazionale. [5] Tuttavia, già allora, negli anni '80, ho notato la parentela della "lesbica" di Wittig con altre figure di soggetti eccentrici che emersero dagli scritti di donne o lesbiche di colore, come Trinh T. Minh-ha, Gloria Anzaldúa, Barbara Smith e Chandra Mohanty. Direi, quindi, che gli scritti critici di Wittig anticipavano alcuni dei punti enfatizzati dal femminismo postcoloniale di oggi.
Con de Beauvoir e con altre femministe della nostra generazione in Francia, Italia, Gran Bretagna e Americhe, Wittig ha condiviso la premessa che le donne non sono un "gruppo naturale" la cui oppressione sarebbe una conseguenza della loro natura fisica, ma piuttosto una categoria sociale e politica, un costrutto ideologico e il prodotto di un rapporto economico. La maggior parte di noi, a quel tempo, condivideva una comprensione marxista della classe e un'analisi materialista dello sfruttamento, sebbene in Europa questa comprensione precedesse il femminismo, mentre in America anglofona spesso seguiva e derivava dall'analisi femminista del genere. Non c'è bisogno che vi parli della teoria del femminismo materialista, poiché alcuni di coloro che l'hanno articolata più chiaramente sono qui presenti. [6] Dirò solo che la definizione di oppressione di genere come categoria politica e soggettiva, che si arriva dal punto di vista specifico degli oppressi, nella lotta e come forma di coscienza, era distinta dalla categoria economica, oggettiva dello sfruttamento. E questa ridefinizione fu condivisa anche da altri in Nord America, come il gruppo femminista nero The Combahee River Collective, per cui l'oppressione di genere era indissociabile dalla dominazione razzista. [7]
Ma Wittig andò oltre: se le donne sono una classe sociale la cui condizione specifica di esistenza è l'oppressione di genere, e la cui coscienza politica offre loro un punto di vista, una posizione di lotta e una prospettiva epistemologica basata sull'esperienza vissuta, allora quello che Wittig vedeva come l'obiettivo del femminismo era la scomparsa delle donne (come classe). Un curioso paradosso si è verificato nella storia del femminismo negli ultimi 30 anni in relazione a questa idea. Tornerò su questo punto tra un attimo, ma prima permettetemi di continuare il mio resoconto della questione.
Per immaginare come sarebbero le donne in una società senza classi (cioè senza sessi), Wittig non ha offerto un mito o una finzione, ma ha fatto riferimento all'effettiva esistenza di una "società lesbica" che, per quanto marginalmente, ha funzionato in un certo modo autonomamente da istituzioni eterosessuali. In questo senso, ha affermato, le lesbiche non sono donne: "il rifiuto di diventare (o rimanere) eterosessuali intendeva sempre rifiutarsi di diventare un uomo o una donna, consapevolmente o meno. Per una lesbica questo va oltre il rifiuto del ruolo "donna". È il rifiuto del potere economico, ideologico e politico di un uomo". [8] Beh, la frase "società lesbica" ha fatto infuriare tutti. L'hanno interpretato come una descrizione di un'organizzazione sociale, o un progetto per una società futuristica, utopica o distopica come le amazzoni di Les Guérillères o come le comunità femminili immaginate nel romanzo di fantascienza di Joanna Russ, The Female Man. Dissero che Wittig era un'utopista, un'essenzialista, una separatista dogmatica, persino un'"idealista classica." Non si può essere marxisti, dicevano, e parlare di società lesbica. Si può parlare di società lebica solo nella prospettiva politica liberale della libera scelta, in cui ognuno è libero di vivere come vuole, e questo ovviamente è un mito capitalista.
In effetti, Wittig mobilitò sia il discorso del materialismo storico che quello del femminismo liberale in una strategia interessante, una contro l'altra e l'altra contro se stessa, dimostrando che entrambi erano inadeguati a concepire il soggetto in termini materialistici femministi. [9] A tal fine, ha sostenuto, il concetto marxista di coscienza di classe e il concetto femminista di soggettività individuale devono essere articolati insieme; ha chiamato la loro unione una "pratica soggettiva, cognitiva," che implica la riconversione del soggetto e le relazioni di soggettività alla socialità da una posizione che è eccentrica all'istituzione dell'eterosessualità e quindi supera il suo orizzonte discorsivo-concettuale: la posizione del soggetto lesbico. Ora, dunque, capiamo perché Wittig propose la scomparsa della donna come obiettivo del femminismo.
Le critiche arrivarono da tutti i gruppi del femminismo, comprese molte fazioni lesbiche; per esempio, le lesbiche che volevano rivendicare la femminilità per le donne e riabilitare i suoi tratti di premura, compassione, tenerezza e cura come pari ai cosiddetti tratti maschili; furono le stesse che avevano accusato il libro già famoso di Wittig Il corpo lesbico di essere "violento". Le critiche vennero da chi voleva promuovere una cultura femminile, concepita non come classe ma come comunità di donne "identificate-donne", e da chi favoriva l'idea di un "continuum lesbico" a cui ogni donna che, per qualsiasi ragione, aveva rifiutato o resistito l'istituzione del matrimonio potrebbe giustamente appartenere - ed essere considerata lesbica indipendentemente dalla scelta, comportamento o desiderio sessuale. E le critiche arrivarono anche da coloro che, d'altra parte, consideravano la sessualità e il desiderio centrali nella soggettività lesbica, ma sostenevano che l'eterosessualità necessariamente definisce l'omosessualità e detta le forme di sessualità lesbica e gay, per quanto sovversive o parodiche possano essere.
Queste critiche non colsero innanzitutto che la "lesbica" di Wittig non era solo un individuo con una personale "preferenza sessuale" o un soggetto sociale con una semplice priorità "politica", ma il termine o figura concettuale per il soggetto di una pratica cognitiva e una forma di coscienza che non sono primordiale, universale, o coestensivo con il pensiero umano, come de Beauvoir avrebbe voluto, ma storicamente determinato e ancora soggettivamente assunto; un soggetto eccentrico costituito in un processo di lotta e interpretazione; di traduzione, detraduzione e ritraduzione (come la mise Jean Laplanche); una riscrittura del sé in relazione a una nuova comprensione della società, della storia, della cultura.
Allo stesso modo, i suoi critici non capivano che la "società lesbica" di Wittig non si riferiva a una certa collettività di donne gay, ma era il termine per uno spazio concettuale ed esperienziale scavato nel campo sociale, uno spazio di contraddizioni, nel qui e ora, che devono essere affermati e non risolti. Quando ha concluso, "Siamo noi che storicamente dobbiamo intraprendere il compito di definire il soggetto individuale in termini materialisti", che quel noi non si riferiva alle donne privilegiate di de Beauvoir, "qualificate per chiarire la ssituazione della donna". [10] Il noi di Wittig era il punto di articolazione da cui ripensare sia il marxismo che il femminismo; era, o così mi sembrava, la parola per una particolare forma di coscienza femminista che, in quel momento storico, poteva esistere solo come coscienza di qualcos'altro; era la figura di un soggetto che supera le sue condizioni di soggezione, un soggetto che eccede la sua costruzione discorsiva, un soggetto di cui sapevamo solo quello che non era: non donna. Rileggiamo la seconda frase di Il corpo lesbico: "Ce qui a cours ici, pas une ne l'ignore, n'a pas de nom pour l'heure." [11]
C'è, come ho detto, un curioso paradosso nella storia del femminismo negli ultimi 30 anni per quanto riguarda la richiesta di Wittig per la scomparsa delle donne. Perché, in un certo senso, le donne sono scomparse dall'attuale lessico degli studi femministi, almeno nel mondo anglofono. È iniziato alla fine degli anni '80, sulla scia della politica di identità e con la crescente partecipazione di donne di colore, lesbiche e eterosessuali, negli studi accademici, quando la parola donne ha iniziato a essere sottoposta alla stessa critica che aveva smontato la nozione di Donna (D maiuscola, la donna) nei primi anni '80. [12] Negli anni '90, quindi, parlare di donne senza modificatori razziali, etnici o di altro tipo geopolitico era dare per scontato un'oppressione comune e uguale basata sul genere o sul sesso, che ignorava le forme concomitanti di oppressione basate su differenze razziali, etniche, di classe e di altro tipo. [13]
La nozione di differenza sessuale fu particolarmente presa di mira e accantonata, non senza buone ragioni, come inadeguata, insufficiente, eurocentrica e centrata sulla classe. Inoltre, nella versione del femminismo poststrutturalista che è diventato popolare nella teoria accademica femminista e queer (dove il termine "poststrutturalista" fa riferimento quasi esclusivamente all'influenza dei primi Foucault e Derrida) le donne sono considerate simulacri dell'immaginario sociale, senza sostanza fisica o psichica intrinseca: le donne, come il genere, la sessualità, il soggetto e il corpo stesso, secondo questa visione, sono tutti costrutti discorsivi, luoghi di convergenza degli effetti performativi del potere. In questa prospettiva, concetti come la "pratica soggettiva e cognitiva" di Wittig o la nozione di esperienza vissuta, che era centrale nella teoria femminista negli anni '70 e '80, sono stati respinti come essenzialisti, naturalizzanti, ideologici [14] o peggio, come umanista - che, nel contesto della moda "postumanista" o postmoderna degli anni '90, era sicuramente una parola dispregiativa. Quindi, in un certo senso, si potrebbe dire che le donne sono scomparse. [15]
Il paradosso è questo: Wittig, che per prima aveva proposto la scomparsa delle donne, è stata lei stessa etichettata come essenzialista, passé o umanista. Nelle parole di un filosofo femminista poststrutturalista, "Wittig chiede una posizione al di là del sesso che restituisce la sua teoria ad un umanesimo problematico basato su una metafisica problematica della presenza." [16] La frase "metafisica della presenza", un segno dell'influenza del primo lavoro di Jacques Derrida, ricorre più volte in Gender Trouble di Judith Butler (1990), il libro che ha portato Wittig all'attenzione dei lettori non lesbiche e non femministe, e per questo motivo gli sarà dedicato un breve riferimento qui.
Commercializzato come un intervento femminista nel campo della filosofia francese, il libro è stato ampiamente citato e tradotto, ed è diventato un testo autorevole di studi di genere e teoria queer. La sua ampia discussione del lavoro di Wittig nel contesto disciplinare della filosofia ha efficacemente integrato Monique Wittig come teorica femminista francese (accanto ai due altri i cui nomi hanno circolato ampiamente nelle università nordamericane, Luce Irigaray e Julia Kristeva). Tuttavia, Butler sollevò obiezioni alla posizione radicale di Wittig, che male interpretò come "prescrittivismo separatista" per usare le sue parole - come se Wittig avesse detto che tutte le donne dovevano diventare lesbiche o che solo le lesbiche potevano essere femministe.
Come gli altri critici, Butler non riuscì a comprendere il carattere figurale e teorico della "lesbica" di Wittig e la sua valenza epistemologica. Il soggetto di una pratica cognitiva basata sull'esperienza vissuta del proprio corpo, il desiderio, la dis-identificazione concettuale e psichica dalla mente diritta, la "lesbica" di Wittig era ben consapevole del potere del discorso di plasmare il proprio sociale e soggettivo (e vorrei aggiungere, psichica) realtà: "Se il discorso dei moderni sistemi teorici e delle scienze sociali esercita un potere su di noi, è perchè adopera concetti che ci toccano da vicino," scrisse Wittig in Il pensiero straight.
Butler, tuttavia, si riferì al soggetto lesbico di Wittig come al "soggetto cognitivo", dotandolo di forti connotazioni cartesiane, e gettò la sua teoria nella discarica delle filosofie superate e scartate: al lettore di Gender Trouble, Wittig sembra essere un'esistenzialista che crede nella libertà umana, un'umanista che presume l'unità ontologica dell'Essere prima del linguaggio, un'idealista mascherata da materialista, e più paradossalmente di tutti, un collaboratore involontario e inconsapevole del regime della normatività eterosessuale. [17] Questo, a mio parere, può spiegare la relativa noncuranza o condiscendenza con cui il lavoro di Wittig è stato trattato negli studi di genere e queer fino ad ora. Finché, intendo, la rinnovata attenzione al lavoro di Wittig da parte di una nuova generazione, che ci ha portato qui oggi, potrà forse riaprire un altro spazio virtuale di pensiero e scrittura lesbica.
Dato che vorrei sottolineare che l'originalità concettuale e l'importazione radicale della teoria di Wittig sono iscritti nella sua narrativa prima di Il pensiero straight: in Les guérillères, la figura della lesbica come soggetto di una pratica cognitiva che permette la riconcettualizzazione del sociale e della conoscenza stessa da una posizione eccentrica all'istituzione eterosessuale è figurata nella pratica della scrittura come coscienza di contraddizione ("la lingua che parli è fatta di parole che ti uccidono"); una coscienza di scrivere, vivere, sentire e desiderare la noncoincidenza di esperienze e linguaggio, negli interstizi di rappresentazione, negli intervalli che i tuoi padroni non sono stati capaci di riempire con le loro parole di appropriatori." [18] E lo troviamo già nella prima pagina di Il corpo lesbico.
Una delle prime a capirlo fu Elaine Marks che, nel suo saggio del 1979 "Lesbian Intertextuality", scrisse: "In Il corpo lesbico Monique Wittig ha creato, attraverso l'uso incessante di iperboli e il rifiuto di utilizzare i codici corporei tradizionali, immagini tanto sfacciate da resistere al riassorbimento nella cultura letteraria maschile." [19] Infatti, il topos tematico del viaggio nella narrativa di Wittig corrisponde al suo viaggio formale come scrittrice. Entrambi sono viaggi senza destinazione fissa, senza fine, più come un auto-spostamento che a sua volta sposta le figurazioni testuali della mitologia classica e cristiana, gli eroi omerici e Cristo, nei generi letterari occidentali e li reinscrive in altri modi: La divina commedia (Virgil, non) e Don Chisciotte (Vojage sans fin), l'epica (Les Guerilleres), la lirica (Il corpo lesbico), il romanzo di formazione (L'opoponax), il dizionario enciclopedico (Brouillon pour un dictionnaire des Amantes), e più tardi la satira (Paris-la-politique), il manifesto politico e il saggio critico (Il pensiero straight).
In Il corpo lesbico, l'odissea del soggetto lesbico j/e è un viaggio nel linguaggio, nel corpo della cultura occidentale, una stagione all'inferno. [20] "Ce qui a cours ici, pas une ne l'ignore, n'a pas de nom pour l'heure." Ici si riferisce immediatamente agli eventi descritti nella diegesi e al processo della loro iscrizione, il processo di scrittura: lo smembramento del corpo femminile arto per arto, organo per organo, muco per muco, è contemporaneamente la decostruzione parola per parola dell'anatomia del corpo femminile per come è rappresentata o mappata dal discorso patriarcale. Il viaggio e la scrittura ignorano quella mappa, superano le parole dei maestri per esporre le crepe, i vuoti di rappresentazione, e sconfinano negli interstizi del discorso per re-immaginare, ri-imparare, ri-scrivere il corpo in un'altra economia libidinale. Eppure, il viaggio e la scrittura non producono una mappa alternativa, un corpo femminile intero, coerente, sano o una narrazione teleologica dell'amore tra donne con un lieto fine, finché morte non ci separi. Al contrario, la morte è assunta nel corpo lesbico, iscritto in esso fin dall'inizio. "Fais tes Adieux m/a très belle": "Ce qui a cours ici" è la morte, la lenta decomposizione del corpo, il fetore, i vermi, il cranio aperto. . . . La morte è qui e ora, perché è il compagno inseparabile e la condizione stessa del desiderio.
Ancora e ancora, negli anni, ho riletto questo straordinario testo che non si lascerà mai leggere in una sola volta o "consumato" una volta per tutte. Che il libro riguardi il desiderio (desiderio non fallico, chiaramente) mi era chiaro dall'inizio. Se Orlando di Virginia Woolf è stato definito la più lunga lettera d'amore della storia (a Virginia Sackville-West), Il corpo lesbico, ho pensato, potrebbe essere chiamato la poesia d'amore più lunga della letteratura moderna. Ma quello che ho capito solo di recente è che Il corpo lesbico non parla di amore; parla di un'estesa immagine poetica della sessualità, un canto o un vasto affresco, brutale ed emozionante, seducente e maestoso.
Fatemi mettere in chiaro questo: non intendo la sessualità come Foucault, nel senso di una tecnologia che produce il "sesso" come la verità dei soggetti borghesi per bene. La intendo nella concezione freudiana della sessualità come impulso psichico che sconvolge la coerenza dell'io; un principio di piacere che si oppone, frantuma, resiste o compromette la logica del principio di realtà, cioè la logica simbolica del nome del padre, la famiglia, la nazione, e tutte le altre istituzioni della società che si basano sulla macroistituzione, e presunzione, dell'eterosessualità. Freud vide queste due forze, il principio del piacere e il principio della realtà, come allo stesso tempo attive nella psiche e in guerra tra loro. Quando in seguito le riconfigurò su una scala al di là dell'individuo, chiamò una Eros e l'altra "pulsione di morte". Ma è quest'ultima, la pulsione di morte, e non l'eros platonico, l'agente della disgregazione, svincolamento, negatività e resistenza che aveva prima identificato nel desiderio sessuale: è la pulsione di morte, e non Eros, che è associata più strettamente e strutturalmente alla sessualità nella metapsicologia di Freud, la sua teoria della psiche. [21]
Questa guerra di due forze psichiche è ciò che vedo ora nel testo di Wittig: la sua iscrizione dell'enigma della sessualità e del desiderio non sacro, non edipico. E questo è forse ciò che ha sempre provocato il mio fascino per Il corpo lesbico e la voglia di ritornarci più e più volte: l'enigma che pone e l'enigma che è.
---- Note ----
[1]    “The Straight Mind” (1980) in The Straight Mind and Other Essays (Boston:  Beacon Press, 1992), p. 32.
[2]    René Vivien, A Woman Appeared to Me [Une Femme m’apparuit, 1904].  (Renée Vivien, née Pauline Tarn, was an Anglo-American poet and friend of Colette, living in France.)
[3]    See Teresa de Lauretis, “Eccentric Subjects,” Feminist Studies, vol. 16, no. 1 (Spring 1990), pp. 115-150; “Soggetti eccentrici” in T. de Lauretis, Soggetti eccentrici (Milano:  Feltrinelli, 1999), pp. 11-57; and “Sujetos excéntricos” in T. de Lauretis, Diferencias:  Etapas de un camino a través del feminismo (Madrid:  Editorial horas y HORAS, 2000) pp. 111-152.
[4]   A similar point is made by Namascar Shaktini:  “Wittig’s reorganization of metaphor around the lesbian body represents an epistemological shift from what seemed until recently the absolute, central metaphor—the phallus” ( “Displacing the Phallic Subject:  Wittig’s Lesbian Writing,” Signs 8:1 [1982]: 29).
[5]    See Homi K. Bhabha, The Location of Culture (London:  Routledge, 1994).
[6]   Il testo che circolava nel mondo anglosassone era di Christine Delphy, Close to Home:  A Materialist Analysis of Women’s Oppression, trans. and ed. by Diana Leonard (Amherst:  Univ. of Massachusetts Press, 1984).
[7]   See “The Combahee River Collective Statement” in Barbara Smith, ed., Home Girls:  A Black Feminist Anthology (New York:  Kitchen Table:  Women of Color Press, 1983), pp. 272-282.
[8]    “One Is Not Born a Woman,” in The Straight Mind, p. 13.
[9] First she deployed the marxist concepts of ideology, class and social relations against liberal feminism: she argued that to accept the terms of gender or sexual difference, which construct woman as  an “imaginary formation” on the basis of women’s biological-erotic value to men, makes it impossible to understand that the very terms “woman” and “man” “are political categories and not natural givens,” and thus prevents one from questioning the real socioeconomic relations of gender.  Second, however, Wittig claimed the feminist notion of self as a subject who, although socially produced, is apprehended and lived in its concrete, personal singularity; and this notion of self she held against marxism, which denied an individual subjectivity to the members of the oppressed classes.  Although “materialism and subjectivity have always been mutually exclusive,” she insisted on both class consciousness and individual subjectivity at once:  without the latter “there can be no real fight or transformation.  But the opposite is also true; without class and class consciousness there are no real subjects, only alienated individuals” (p. 19).
[10]   Simone de Beauvoir, The Second Sex, trans. H. M. Parshley (New York:  Vintage, 1974 [1949]), p. xxxii.
[11]   Monique Wittig, Le corps lesbien (Paris:  Minuit, 1972), p. 7.
[12]   See de Lauretis, Alice Doesn’t:  Feminism, Semiotics, Cinema (Bloomington:  Indiana University Press, 1984).
[13]    See Robyn Wiegman, “Object Lessons:  Men, Masculinity, and the Sign Women,” Signs:  Journal of Women in Culture and Society 26. 2 (2001):  355-388.
[14]   See Joan Wallach Scott, “The Evidence of Experience,” Critical Inquiry 17 (Summer 1991): 773-797.  Interestingly enough, the notion of expérience vécue has now become central to postcolonial and critical race theory stemming from the rereading of Frantz Fanon, while the concept of experience is now being revaluated in the very writings of Foucault, which were formerly read as the staunch basis of the social-constructionist position against the essentialist position allegedly represented by “the evidence of experience.”
[15]    A recent move to replace academic programs in Women’s Studies with Gender Studies has met with very few objections.  See Leora Auslander, “Do Women’s + Feminist + Men’s + Lesbian + Gay + Queer Studies = Gender Studies?,” differences 9. 3 (1997):  1-25.  The author’s answer to her title question is an enthusiastic yes.
[16]    Judith Butler, Gender Trouble:  Feminism and the Subversion of Identity (New York:  Routledge, 1990), p. 124.
[17] Here are some typical passages from Gender Trouble:
Wittig’s radical feminist theory occupies an ambiguous position within the continuum of theories on the question of the subject.  On the one hand, Wittig appears to dispute the metaphysics of substance, but on the other hand, she retains the human subject, the individual, as the metaphysical locus of agency. (p. 25)
In her defense of the “cognitive subject,” Wittig appears to have no metaphysical quarrel with hegemonic modes of signification or representation; indeed, the subject, with its attribute of self-determination, appears to be the rehabilitation of the agent of existential choice under the name of the lesbian.  (p. 19)
As a subject who can realize concrete universality through freedom, Wittig’s lesbian confirms rather than contest the normative promise of humanist ideals premised on the metaphysics of substance.  (p. 20)
Clearly her belief in a “cognitive subject” that exists prior to language facilitates her understanding of language as an instrument, rather than as a field of significations that preexist and structure subject-formation itself. (p. 154, note 27)
Wittig’s radical disjunction between straight and gay replicates the kind of disjunctive binarism that she herself characterizes as the divisive philosophical gesture of the straight mind. (p. 121)
Lesbianism that defines itself in radical exclusion from heterosexuality deprives itself of the capacity to resignify the very heterosexual constructs by which it is partially and inevitably constituted.  As a result, that lesbian strategy would consolidate compulsory heterosexuality in its oppressive [as opposed to “volitional or optional”, p. 121] forms.  (p. 128)
Wittig’s materialism... understands the institution of heterosexuality as the founding basis of the male-dominated social orders.  “Nature” and the domain of materiality are ideas, ideological constructs, produced by these social institutions to support the political interests of the heterosexual contract.  In this sense, Wittig is a classic idealist for whom nature is understood as a mental representation.  (p. 125)
[18]   Les Guérillères, trans. David LeVay (Boston:  Beacon Press, 1985), p. 114.
[19]   Elaine Marks, “Lesbian Intertextuality,” in Homosexualities and French Literature, ed. George Stambolian and Elaine Marks (Ithaca:  Cornell University Press, 1979), p. 375.
[20]   As I pointed out elsewhere, the linguistically impossible subject pronoun j/e may be read in several theoretically possible ways that go from the more conservative (the slash in j/e represents the division of the Lacanian subject) to the less conservative (j/e can be expressed by writing but not by speech, recalling Derridean différance), to the radical feminist (“j/e is the symbol of the lived, rending experience which is m/y writing, of this cutting in two which throughout literature is the exercise of a language which does not constitute m/e as subject” (Wittig, quoted in Margaret Crosland’s introduction to The Lesbian Body in the paperback edition I own (Boston:  Beacon Press, 1986); and the play of j/e-tu may suggest the butch-femme double subject of lesbian camp performance envisaged by Sue-Ellen Case.  See Teresa de Lauretis, “Sexual Indifference and Lesbian Representation,” Theatre Journal  40. 2 (May 1988):  155-177; translated as Differenza e indifferenza sessuale:  Per l’elaborazione di un pensiero lesbico (Firenze:  Estro, 1989), Film in Vidno (Ljubljana:  SKUC, 1998), and “Diferencia e indiferencia sexual” in T. de Lauretis, Diferencias:  Etapas de un camino a través del feminismo (Madrid:  horas y HORAS, 2000).
[21]   Jean Laplanche, Life and Death in Psycho-Analysis, trans. by Jeffrey Mehlman (Baltimore:  The Johns Hopkins University Press, 1976), ch. 6.  See also Laplanche, “La pulsion de mort dans la théorie de la pulsion sexuelle,” in La pulsion de mort (Paris:  PUF, 1986).
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loveint-diario · 1 year
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Capitolo 31 - Il sonno della coscienza genera mostri
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“… intorno a lui fu consultato il vate profetico per sapere se avrebbe visto i lunghi giorni di una matura vecchiaia: «Se non si conoscerà» egli disse. La profezia dell’augure a lungo sembrò menzognera, ma la confermarono la fine, gli avvenimenti, nonché il genere di morte e la singolarità della follia.”
Metamorfosi di Ovidio
Il lui della citazione è Narciso e come ci racconta Ovidio, era un giovane di straordinaria bellezza che dopo essersi specchiato nelle acque di un lago, s’innamora follemente della sua immagine riflessa e nel tentativo di afferrarla cade in acqua e muore annegato. La singolarità della follia è quella di amare sé stesso più di qualsiasi altro essere al mondo e come da profezia, la morte avviene nel momento in cui si conosce, si vede per la prima volta.
Il mito di Narciso è tra i più conosciuti della mitologia greca e tra i più utilizzati in psicologia come in letteratura per raccontare individui insensibili e manipolatori o descrivere società basate sull’egotismo e l’apparenza.
In Introduzione al narcisismo (1914), Sigmund Freud definisce narcisismo originario un particolare stadio dello sviluppo psichico durante il quale il bambino, o la bambina, basta a sé stesso, nel senso che il suo corpo è il punto di partenza e di arrivo delle pulsioni e del piacere. È quel momento in cui dipendiamo completamente dall’accudimento materno, il momento in cui ogni nostra necessità viene soddisfatta senza che sia necessario far nulla fuorché piangere, è il momento in cui la simbiosi con chi ci accudisce è assoluta, non siamo capaci di distinguere ciò che è io da ciò che è il corpo dell’adulto che ci accudisce. Abbiamo fame, sete, vogliamo dormire, essere coccolati oppure vogliamo giocare o essere cambiati e senza nessun altro sforzo che sia quello di agitarci scompostamente e piangere, otteniamo ciò che desideriamo, quello di cui abbiamo bisogno. Nel momento di massima dipendenza siamo quasi come degli dei, otteniamo pronta soddisfazione senza la necessità di affidare alle parole la nostra richiesta e solo con il movimento.
Crescere comporta però ripetere continuamente l’esperienza dell’essere incapaci, da soli, di soddisfare le nostre necessità, di essere fisicamente e psicologicamente inadatti a rispondere alle richieste dell’ambiente; crescendo ci scontriamo con i limiti che l’educazione pone al soddisfacimento del nostro piacere e con la frustrazione che deriva dai divieti morali e civili che la nostra società impone. Questo è il momento edipico, un momento fondamentale secondo Freud nello sviluppo psichico normale e in quello patologico dell’essere umano e per spiegarlo prende a prestito un altro mito di origine greca, quello di Edipo.
Questa volta a consultare l’indovino Tiresia sono il re Laio e sua moglie Giocasta, al quale pongono la stessa domanda che i genitori di Narciso posero all’augure: il loro primogenito vivrà sereno e abbastanza a lungo da godersi la vecchiaia? Sì, il bambino vivrà a lungo, abbastanza da invecchiare ma sarà causa di morte per il padre, è la risposta del veggente. I genitori sconvolti dalla profezia, decidono di uccidere il bambino, ma non essendo capaci di farlo affidano il neonato a un cacciatore, chiedendogli di abbandonarlo nel bosco così che muoia di fame e di freddo. Il cacciatore compassionevole non esegue però l’ordine del re, salva il bambino affidandolo alle cure di altri due genitori regali, senza figli, che lo accolgono con immensa gioia.
Una volta cresciuto, Edipo per dimostrare il suo valore di uomo e di futuro re, si mette in marcia, esercito a seguito, con l’intenzione di conquistarsi un proprio regno. Durante il cammino giunge dinnanzi ad una strettoia, all’altro capo della quale c’è Laio con il suo esercito in marcia. Nessuno dei due sa chi sia l’altro, ma entrambi sanno che il diritto di passaggio spetta a Laio in quanto re e in quanto anziano. Come sappiamo Edipo freme dalla voglia di mostrare le sue doti virili e i suoi talenti da guerriero così, invece di cedere il passo a Laio in rispetto alle leggi e agli dei, comanda al suo esercito di attaccare per imporre il suo diritto di passare per primo. Sarà proprio la sua spada ad uccidere il padre. Edipo trionfante e inconsapevole conquista il regno di Laio, sposa la madre e dall’unione dei due nascono ben quattro figli. Dei miti greci e delle leggende la cosa che più mi piace è che la verità anche se giace nascosta per anni e anni, trova sempre il modo di manifestarsi e una volta nota a tutti, la giustizia segue implacabile. Edipo venuto a conoscenza dell’orrida verità, si accecherà con le sue stesse mani e si costringerà a una vita in esilio vagando per strade sconosciute coperto di stracci.
Freud utilizza il mito di Edipo per spiegare un passaggio fondamentale della maturazione psichica durante il quale l’Io smette di trovare godimento in sé stesso e si rivolge all’ambiente, cerca di soddisfare i suoi bisogni nella relazione con i genitori, uno dei quali diventa l’oggetto del suo amore, l’altro diventa oggetto d’identificazione e d’imitazione, una sorta di ideale. Il primo atto costitutivo dell’Io come Essere in relazione con è una scelta d’amore e contemporaneamente è il desiderio di voler essere come quel modello in grado di possedere l’oggetto amato.
Il processo di identificazione è alla base del complesso edipico, il bambino s’identifica con l’oggetto amato che vuole per sé e con il quale non ammette distanza o separazione, ma s’identifica anche con il rivale in amore, l’altro genitore al quale vuole somigliare, che imita e che vorrebbe sostituire. L’identificazione è il primo legame emotivo che istauriamo con un’altra persona perché sia nell’innamoramento che nell’ammirazione tendiamo a emulare il comportamento delle persone amate e ammirate, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) Freud dice che a volte l’Io copia la persona amata a volte quella non amata (quella ammirata) e che l’identificazione è immedesimazione, la stessa che utilizziamo per comprendere l’Io estraneo di altre persone, la stessa che sta alla base dell’empatia. L’Io dunque crea un legame emotivo identificandosi con il soggetto che ammira e dunque con ciò che vorrebbe essere oppure con l’oggetto e dunque con ciò che vorrebbe avere.
Il legame emotivo che si istaura mediante l’identificazione è ambivalente, tende all’avvicinamento e alla tenerezza con l’altro con cui ci si identifica ma allo stesso tempo tende all’allontanamento e a cercare di separarsi da questo. Le forme di relazione basate sull’identificazione sono forme primordiali di relazione, l’altro è vissuto come un oggetto, come qualcosa che si vuole avere interamente, o in parte appropriandosi dei suoi attributi, in questo aspetto predatorio e aggressivo risiede l’ambivalenza del legame.
Narciso vuole afferrarsi ed Edipo non vuole solo diventare re, vuole essere re come Laio, vuole il suo regno, il suo esercito e la sua regina.
“[L’identificazione] Si comporta come una propaggine della prima fase orale dell’organizzazione libidica nella quale l’oggetto bramato e apprezzato veniva incorporato durante il pasto e perciò distrutto in quanto tale. Come è noto il cannibale rimane fermo a tale stadio; egli ama i nemici che mangia e non mangia se non quelli che in qualche modo può amare.”
Tre saggi sulla teoria sessuale (1905)
È sempre Freud a parlare e sembra far eco al poeta che dal carcere di Reading canta:
“Troppo poco si ama, o troppo a lungo;
C’è chi vende l’amore e chi lo compra,
Chi commette il delitto lacrimando
E chi senza un sospiro:
Poiché ogni uomo uccide ciò che ama,
Ma non per questo ogni uomo muore.”
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Infatti a morire sono solo le donne che vengono divorate da uomini che amano solo sé stessi. I dati circolati dopo la morte di Giulia Tramontano, la giovane donna incita di sette mesi uccisa dal suo compagno, dicevano che in Italia 3 donne al giorno sono vittime di violenza e l’85% di loro muore uccisa da compagni, mariti, padri e figli, proprio da quegli uomini che le amano di quel tipo d’amore che le considera soltanto oggetti utili al loro nutrimento e al loro piacere. Ecco che tipo di amore è quello di ogni uomo che uccide ciò che ama, lo stesso tipo di amore in nome del quale chi mi stalkerizza giustificava la sua azione abusante nei miei confronti. In questi anni mi sono chiesta come potesse una persona, che mi ossessionava con la sua presenza sempre lì dov’ero io ad ascoltare ogni mio respiro, a guardare ogni mia azione, sempre pronto a sottolineare i miei gesti, gli eventi della mia vita con poesie d’amore, canzoni, articoli, sempre lì a ripetere le mie parole, i miei argomenti, a imitare i miei gesti, i miei modi di dire, che a ogni mio tentativo di liberarmi da questa sorveglianza globale rispondeva che sarebbe rimasto per sempre perché mi amava troppo, come può questo uomo non aver mai nemmeno tentato, di avere una relazione normale con me? Non aver mai cercato d’incontrarmi o di parlarmi per comunicare, non soltanto per ripetermi come un’eco infinita. In linea con Freud ritengo che la risposta stia proprio nella fame smodata e insaziabile dell’oralità, e nella violenza dell’identificazione come esporrò nel prossimo capitolo.
Adesso, dopo aver parlato di uomini, di miti e di parole ripetute, mi piacerebbe concludere con la storia di un personaggio femminile Eco, la ninfa ripetente, così come l’ho trovata nel libro di Christoph Ransmayr, Il mondo estremo.
La storia è ambientata agli estremi confini del mondo conosciuto, nella città di Tomi, sul Mar Nero, dove Ovidio fu esiliato e dove morì. Il protagonista è Cotta, amico del poeta, che aveva assistito al suo ultimo discorso pubblico a Roma prima dell’esilio. Cotta si reca nella città selvaggia perché vuole rintracciare le ultime tracce di Ovidio e delle Metamorfosi, muovendosi in un mondo in cui il mito si trasfigura in realtà. In questo romanzo Eco è una donna straniera, povera e sola, dalla pelle così chiara e delicata che se si espone al sole inizia a squamarsi e a decomporsi, per questo vive in una caverna in cima alla montagna. Eco è capace di discorrere di molte cose, sa molto e ha vissuto a servizio di Ovidio fino alla morte di quest’ultimo, ma a Tomi generalmente quando le rivolgono la parola si limita a ripetere le ultime parole di chi le ha parlato. Essendo una straniera, povera e donna, gli uomini della città ferrigna, si presentano di notte nella sua caverna e portando polli, stoffe, grano o farina pretendono di accoppiarsi con lei, lei per sopportare quei momenti, rimane in silenzio e immagina di trovarsi a passeggiare per sentieri di montagna. Cotta è l’unico a sapere che Eco non ripete soltanto parole, ma parla in modo tale da fargli venire il sospetto che Ovidio stesso possa aver scritto le  Metamorfosi ripetendo le storie ascoltate dalla donna. Nonostante questo, o forse proprio per questo, anche Cotta la violenta.
Roma, 12 giugno 2023 h 9.33 a. m. – 15 giugno 2023 h 3.05 p. m.
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astra-zioni · 1 year
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Non ritieni la psicologia una scienza?
Questa domanda potrebbe essere fonte di un dibattito infinito (e ovviamente gli psicoterapeuti ti risponderanno dal loro punto di vista), ma per rispondere in maniera generale no, non la ritengo una scienza. Per ritenersi scienza dovrebbe poggiare i suoi studi su prove certe e inconfutabili tramite metodo scientifico - cosa che ha la pretesa di fare e che non discuto, discuto più che altro le conclusioni arbitrarie che la psicologia trae e dà a certi meccanismi psicologici. Quel che intendo dire è che - e l’ho visto da paziente, da figlia di persone con disturbi mentali, da persona che frequenta spesso i reparti di psichiatria - la complessità umana è troppo vasta per poterla ricondurre a certi schemi prestabiliti; il tanto decantato equilibrio psichico cosa significa? Chi l’ha detto che si debba ricercare un equilibrio? Il mondo è il caos, non possiamo esimerci dall’esserlo noi stessi. La psicologia pone dei punti fermi: ma io credo non ce ne siano affatto, o non per tutti, o che non ce ne sia necessariamente bisogno. Perché dobbiamo essere tutti consapevoli? Tutti equilibrati? Chi l’ha detto? Un professore in cattedra? Io non voglio far parte di un sistema secondo cui vige una “norma” - passami il termine - e tu paziente diventi quello che svia quella norma lì. La norma non esiste. Nella vita le persone fanno cose inspiegabili da un momento all’altro senza necessariamente avere traumi irrisolti. L’unico discrimine è l’essere funzionali, cercare di vivere una vita degna senza farsi troppo del male o farne agli altri. Ma anche qui…chi l’ha detto che una vita debba essere vissuta in maniera funzionale, laddove si intenda avere vita sociale, mangiare, un lavoro, studiare, e tutte le cose che pertengono alla vita comunemente intesa. Il discrimine allora diventa la sofferenza, la sofferenza di non riuscire a fare queste cose. Ma chi l’ha detto che tutti la provino o che a tutti interessi fare queste cose? Quindi ritorniamo al discorso della norma, che come è abbastanza evidente non esiste, e allora mi dico che in definitiva tutte le ore di chiacchiere in terapia (escludendo le casistiche di acuzie psicologiche) sarebbero meglio impiegate a leggere, a crearsi un proprio percorso, una propria norma. Veniamo continuamente bombardati sui social da stronzate gigantesche propinate da psicologi o psicoterapeuti di dubbio intelletto (che probabilmente stanno messi peggio di noi), che ci dicono come campare, come provare emozioni in maniera sana, cosa non è sano, e via discorrendo, ché basterebbe dessi a una persona il farmaco giusto, la giusta iniezione di dopamina, e poi voglio vedere se ha ancora voglia di chiacchierare di Freud e di traumi per 80 euro all’ora. Tutti gli psicologismi odierni piacciono perché ci proteggono, ci danno l’impressione di farlo, ma non è così, è un’illusione. Non esistono punti fermi. Tutto può cambiare da un momento all’altro. Nessuno può farci niente né può intervenire sulle conseguenze a livello psichico. Ciascuno deve trovare da solo il proprio modo di sopravvivere agli urti, perché nessuno potrà mai sostituirsi agli altri in questo. Gli psicologici sono la nuova religione, un tempo c’era Dio, ora c’è la psicologia. Entrambe le cose le ricerchiamo perché senza ci sentiremmo perduti. Ma proprio come in ogni fede cieca, il dialogo che ne trai non è il rapporto tra te e le cose e il mondo, in maniera scevra da ogni aspettativa o preconcetto, ma sempre e comunque tra come le cose, le persone e il mondo impattano su di te a livello psicologico: un dialogo solipsistico.
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susieporta · 5 months
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Quanto siamo connessi con noi stessi e di conseguenza con gli altri? Siamo coscienti di quello che si muove nella mente, nelle emozioni, nel nostro sistema psichico?
Di ciò che muove i nostri comportamenti, e che poi influisce sugli altri? Ecco, la risposta riguarda appunto quanto il nostro mondo interiore influenza il mondo esteriore, attraverso le persone ovviamente, ma non solo, anche attraverso delle energie - perché noi siamo anche campi di energia, che influenzano altri campi di energia.
Ogni persona nasce come corpo; da bambini siamo corpi ed Essenza/Coscienza. Non c'è ancora la personalità, che si forma dai 6-7 anni in poi, e continua a formarsi più o meno per tutta la vita; il periodo più importante (la prima cristallizzazione di personalità) ce l'abbiamo intorno ai 7 anni, poi a 14, poi a 21 e a 28 - che sono le varie fasi evolutive più importanti della personalità.
Però noi siamo Essenza, mentre la personalità è un'acquisizione esteriore; per cui non nasciamo con la personalità, nasciamo con delle caratteristiche essenziali.
Possiamo anche dire che nasciamo già con una sorta di “personalità”, però questa personalità ce la portiamo dietro da infinite vite; oppure, se uno non accetta l'idea di infinite vite, possiamo dire che nasciamo già con delle caratteristiche, con delle potenzialità, con dei semi da poter sviluppare, con delle qualità da portare fuori.
Per cui non è proprio vero che si nasce come delle lavagne bianche, questo può valere per il cervello ma non per la parte interiore, non per la parte spirituale. In realtà siamo degli adulti in un corpo di neonati e tantissime nostre parti, tante nostre qualità (noi le chiamiamo qualità essenziali, vere qualità), richiedono un terreno adatto per potersi manifestare - terreno che dovrebbe essere la famiglia, nella misura in cui la famiglia riconosce chi siamo, cosa siamo e quali sono le nostre qualità.
La famiglia dovrebbe aiutarci a manifestare le nostre qualità e potenzialità essenziali, e a formare una vera personalità.
La personalità che si forma dovrebbe essere strettamente connessa con l'Essenza, con le qualità essenziali.
Questo però accade solo se la famiglia, i genitori o chi ci educa utilizzano un metodo socratico, e quindi aiutano il bambino o la bambina a portare fuori le sue caratteristiche e le sue qualità, aiutando i suoi semi a trovare un terreno buono per poter manifestare le sue caratteristiche reali.
È diverso invece quando la famiglia o chi ci educa non riesce a percepire cosa realmente siamo, le nostre capacità, abilità e potenzialità, ed è fin troppo preoccupato a educarci secondo gli standard familiari e collettivi.
Quindi ti dicono: “Devi essere così, devi fare questo, devi diventare quell'altro, devi essere un po' più così, un po' più cosà, ma non troppo…”, che va bene, ma se non si tiene conto anche delle vere caratteristiche, che cosa succede?
Che formeremo una personalità falsa, non vera, cioè totalmente autocostruita, che viene interamente dal di fuori, che non tiene conto di ciò che siamo dentro; ed ecco che avremo un conflitto tra essenza - ciò che noi siamo nel profondo - e la personalità che abbiamo formato in seno alla famiglia, ai parenti, alla scuola, a fratelli, sorelle, eccetera.
E questo crea un grosso problema, perché genera uno scollegamento tra la personalità esterna, quindi la falsa personalità (che non è noi, non è connessa a noi) e ciò che siamo dentro, la nostra essenza, che dovrebbe invece formare la vera personalità.
Questo è molto importante perché ci permette di capire che, nella misura in cui veniamo “educati” da mamma, da papà, dai nonni, dalla scuola, e nessuno di loro tiene conto di ciò che siamo dentro, ognuna delle persone che ci educa e ci dice delle cose su di noi formerà un io, una parte della falsa personalità, ognuna diversa dall'altra, perché nessuno tiene conto di ciò che siamo; per cui il papà si aspetterà che noi siamo così, così, così… la mamma si aspetterà questo, questo, quello… i fratelli maggiori, i nonni, gli insegnanti, gli educatori o tutte le persone della nostra vita, ognuno ci metterà un'etichetta, si aspetterà qualcosa da noi, vorrà che noi diventiamo più questo e meno quello etc.
Alla fine, crescendo, saremo sempre più scollegati da ciò che siamo in profondità e sempre più proiettati in una falsa personalità, che è a sua volta suddivisa in tante sub-personalità, ognuna sviluppata per soddisfare le aspettative di chi ci ha educato e ha grandi aspettative su di noi, (che potrebbero essere anche gli insegnanti, fino all'università).
E quindi noi non siamo uno, connessi, non abbiamo una sola personalità, ma abbiamo tante personalità che nel lavoro chiamiamo io divisi.
Questo è un problema che chiamiamo frammentazione: è come avere non un unico io, un'unica personalità e un'unica essenza, ma una multi-personalità che cambia a seconda di chi abbiamo davanti, in base a quello che evoca, e che dipende molto dall'educazione fino ai 28-30 anni.
Tutto questo non è assolutamente connesso con ciò che noi veramente siamo.
ROBERTO POTOCNIAK
Poi aggiungiamo a questo anche tutto il nostro vissuto, la nostra storia personale, le ferite, tutto quello che abbiamo vissuto - piaceri e dolori, abbandoni, tradimenti, problemi di licenziamenti, problemi con il lavoro, problemi di soldi, problemi con la famiglia… ed ecco che abbiamo, nella struttura di adulti, un'essenza totalmente circondata e bloccata da una storia personale spesso molto pesante, e uno spesso strato di personalità, sempre sulla difensiva - perché deve difendere la sofferenza che ci portiamo dietro nella storia personale. Nella storia personale c'è tutto quello che hai vissuto, soprattutto quello che ha creato ferite e sofferenza, dalla prima infanzia in poi. La personalità in qualche maniera tiene a bada la sofferenza e ti dà una facciata, una maschera, una serie di maschere, una serie di io e quindi una serie di maschere, che ti permettono di relazionarti con le persone.
Questo è per dare un accenno, perché in realtà c'è molta altra roba, ma intanto lavoriamo su questo. Quindi: quando entro in relazione con gli altri, devo sapere che ho una personalità frammentata, in cui ogni parte è diversa dall'altra; ho una storia personale molto spesso carica di dolore e sofferenza, e ho la mia piccola essenza, non sviluppata perché non è mai stata finita di sviluppare, che è bloccata all'interno e dalla quale sono praticamente disconnesso.
Quando entriamo in relazione dobbiamo tener conto che portiamo tutta questa roba all'interno della relazione. Qui non ho messo tutte le varie sfumature della storia personale, tutte le altre caratteristiche della personalità e dell'essenza - che non è per nulla sviluppata. Ma è come se fuori sembrassimo un adulto bello, fatto, finito, forte (oppure anche in crisi, non ha importanza), mentre all’interno c'è un mare di sofferenza e di problemi, e dentro, ancora più in profondità, c'è un bambino o bambina in panico, arrabbiato, arrabbiata, carica di paura ma anche piena di potenzialità, mai sviluppata, mai cresciuta, che aspetta di venire fuori.
E tutto questo poi, quando cominciamo a relazionarci con l'altro sesso - crescendo, soprattutto da adulti - tutto questo comincia a spingere, spingere, spingere... Si parte sempre dall'amore, dall'innamoramento, dall'amicizia, e poi nel tempo vengono fuori i disastri, perché ci relazioniamo solo dalla personalità frontale, che è più un insieme di maschere, senza tener conto della frammentazione della storia personale, delle ferite, della sofferenza e della nostra essenza bambina - che al minimo problema piange, scappa, protesta, proprio come un bambino di 5-6 anni anche se ne abbiamo 40, 50, 60.
E questo ci dovrebbe far riflettere sul perché, da dove arrivano tutte queste aspettative della relazione, da dove deriva la rabbia, la frustrazione, la delusione, come mai non riusciamo a ripartire puliti in una nuova relazione.
Roberto Potocniak
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violamilalba · 2 years
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non è possibile mai che in vita, la mia, ci si ami entrambi contemporaneamente. o l'uno o l'altro, ci si scambia l'enorme privilegio di disporre risvegli e tramonti, arresi e un po' troppo romantici a quei rosa di didascalica solitudine, coi piedi posati sulla ringhiera del balcone. sbuffando. quando non mi vedi io, per te, non esisto. immagino. ti immagino immaginare, ma non me. durante una doccia o accendendo i fornelli, mai me, neanche rivolgendoti la parola. fino a che non mi tocchi. che forma ho allora? dove mi colloco nella tua stanza. io saprei dove stare, se potendo varcare il mondo psichico abitassimo una sola esistenza. se mordendo coi canini, potessi rompere la leggera patina che irrimediabilmente separa ognuno dall'altro. è sciocco ed è importante, ma ci credo e non ci credo, come quando la notte ti appaiono in sogno i numeri e tu speri ricalchino qualcosa di reale. io non lo so. ti penso.
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arreton · 6 months
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"I sé scissi-dissociati sono visioni del mondo, filiere di idee, atteggiamenti verso l’esistenza.
Essi danno voce a un punto di vista, temuto e incapsulato, ma presente, tra tanti, nel mondo interno. Per Luigi questi comportamenti portavano con sé quello che lui sentiva come il suo profondo cinismo, la sua sfiducia nell’incontro, i suoi impulsi sadici a mortificare e schiacciare l’altro. Le pulsioni parziali rigettate e rinnegate erano andate a organizzare personalità alternative e coatte. Luigi non aveva bisogno di una analisi per raggiungere il suo interno bambino sofferente, ma per contattare e modulare questo sé alieno, precipitato di identificazioni con alcuni aspetti genitoriali. Contattarlo voleva dire, per l’analista, intuirlo nel mezzo dei discorsi sul “buco nero”, sul senso di soffocamento, sul sentirsi un alieno, era lì, in quei territori che Luigi aveva bisogno di un analista che accettasse di accostarsi e ambientarsi in questa zona oscura di mancanza di senso e di disprezzo per la vita, sormontando la sua vergogna a parlarne.
In definitiva una delle scoperte più fertili di Freud è stata proprio quella relativa ad un Io diviso, non padrone di sé, decentrato, e ad una concezione della mente come estesa. L’apparato psichico nel suo funzionamento è modellato tanto dal conflitto intrapsichico, quanto dai meccanismi di scissione fino alla dissociazione. Vale a dire che l’apparato psichico è caratterizzato da stati di consapevolezza mutevoli, discontinui e non lineari, e che il senso di un sé unitario è una illusione.
La caratteristica di base di questo funzionamento è un movimento dialettico tra diverse filiere di significato e tra diversi stati del sé; mentre la patologia sarebbe piuttosto connessa con l’irrigidimento su una posizione diventa statica e satura che tenta (invano) di tacitare le altre."
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"Tu sei qui per risvegliarti, non avere paura di aprire gli occhi, il mondo sarà migliore se conoscerai la verità.
Quello che ora sta leggendo queste righe non sei Tu inteso come Anima, ma è il tuo cervello umano, ma le informazioni che sono qui, all’interno delle mie frasi, stanno facendo scattare qualcosa dentro di te.
Lo senti? È sottile ma profondo, è quasi impercettibile eppure sai che è un sentimento antico che ti porti dietro da molto tempo.
Preparati a vedere un nuovo mondo, lo stesso che già credevi di conoscere in realtà, ma con occhi diversi."
#AngelJeanne ✨
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