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#identificazione
scogito · 7 months
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In cosa ti identifichi oggi?!
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klimt7 · 6 months
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Pomeriggio di marzo
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Un pomeriggio di marzo, un pensiero insolito
lo venne a visitare.
"Se lei potesse vedersi attraverso i miei occhi
cambierebbe il suo modo di rapportarsi
alla Vita, alla Realtà, perfino a sè stessa.
Se lei potesse vedere ciò che scorgo io, di lei
da quà fuori, cambierebbe anche il suo modo
di avvertire sè stessa.
FORSE È' QUESTO L'AMORE
Qualcuno che da fuori ti offre sè stesso come specchio. Perchè tu finalmente ti veda come persona intera e completa.
È UN DONO. È UN ATTO MAGICO.
È UNA TRASFORMAZIONE.
È insieme, un cambiamento di prospettiva del tuo sguardo e un processo di identificazione.
CONOSCI TE STESSO NEL MOMENTO IN CUI VEDI LO SGUARDO DELL'ALTRO.
È un atto miracoloso e insieme una epifania.
Tramite l'Altra persona, infine, sai chi sei e da quale stella polare vuoi essere guidato
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loveint-diario · 1 year
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Capitolo 31 - Il sonno della coscienza genera mostri
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“… intorno a lui fu consultato il vate profetico per sapere se avrebbe visto i lunghi giorni di una matura vecchiaia: «Se non si conoscerà» egli disse. La profezia dell’augure a lungo sembrò menzognera, ma la confermarono la fine, gli avvenimenti, nonché il genere di morte e la singolarità della follia.”
Metamorfosi di Ovidio
Il lui della citazione è Narciso e come ci racconta Ovidio, era un giovane di straordinaria bellezza che dopo essersi specchiato nelle acque di un lago, s’innamora follemente della sua immagine riflessa e nel tentativo di afferrarla cade in acqua e muore annegato. La singolarità della follia è quella di amare sé stesso più di qualsiasi altro essere al mondo e come da profezia, la morte avviene nel momento in cui si conosce, si vede per la prima volta.
Il mito di Narciso è tra i più conosciuti della mitologia greca e tra i più utilizzati in psicologia come in letteratura per raccontare individui insensibili e manipolatori o descrivere società basate sull’egotismo e l’apparenza.
In Introduzione al narcisismo (1914), Sigmund Freud definisce narcisismo originario un particolare stadio dello sviluppo psichico durante il quale il bambino, o la bambina, basta a sé stesso, nel senso che il suo corpo è il punto di partenza e di arrivo delle pulsioni e del piacere. È quel momento in cui dipendiamo completamente dall’accudimento materno, il momento in cui ogni nostra necessità viene soddisfatta senza che sia necessario far nulla fuorché piangere, è il momento in cui la simbiosi con chi ci accudisce è assoluta, non siamo capaci di distinguere ciò che è io da ciò che è il corpo dell’adulto che ci accudisce. Abbiamo fame, sete, vogliamo dormire, essere coccolati oppure vogliamo giocare o essere cambiati e senza nessun altro sforzo che sia quello di agitarci scompostamente e piangere, otteniamo ciò che desideriamo, quello di cui abbiamo bisogno. Nel momento di massima dipendenza siamo quasi come degli dei, otteniamo pronta soddisfazione senza la necessità di affidare alle parole la nostra richiesta e solo con il movimento.
Crescere comporta però ripetere continuamente l’esperienza dell’essere incapaci, da soli, di soddisfare le nostre necessità, di essere fisicamente e psicologicamente inadatti a rispondere alle richieste dell’ambiente; crescendo ci scontriamo con i limiti che l’educazione pone al soddisfacimento del nostro piacere e con la frustrazione che deriva dai divieti morali e civili che la nostra società impone. Questo è il momento edipico, un momento fondamentale secondo Freud nello sviluppo psichico normale e in quello patologico dell’essere umano e per spiegarlo prende a prestito un altro mito di origine greca, quello di Edipo.
Questa volta a consultare l’indovino Tiresia sono il re Laio e sua moglie Giocasta, al quale pongono la stessa domanda che i genitori di Narciso posero all’augure: il loro primogenito vivrà sereno e abbastanza a lungo da godersi la vecchiaia? Sì, il bambino vivrà a lungo, abbastanza da invecchiare ma sarà causa di morte per il padre, è la risposta del veggente. I genitori sconvolti dalla profezia, decidono di uccidere il bambino, ma non essendo capaci di farlo affidano il neonato a un cacciatore, chiedendogli di abbandonarlo nel bosco così che muoia di fame e di freddo. Il cacciatore compassionevole non esegue però l’ordine del re, salva il bambino affidandolo alle cure di altri due genitori regali, senza figli, che lo accolgono con immensa gioia.
Una volta cresciuto, Edipo per dimostrare il suo valore di uomo e di futuro re, si mette in marcia, esercito a seguito, con l’intenzione di conquistarsi un proprio regno. Durante il cammino giunge dinnanzi ad una strettoia, all’altro capo della quale c’è Laio con il suo esercito in marcia. Nessuno dei due sa chi sia l’altro, ma entrambi sanno che il diritto di passaggio spetta a Laio in quanto re e in quanto anziano. Come sappiamo Edipo freme dalla voglia di mostrare le sue doti virili e i suoi talenti da guerriero così, invece di cedere il passo a Laio in rispetto alle leggi e agli dei, comanda al suo esercito di attaccare per imporre il suo diritto di passare per primo. Sarà proprio la sua spada ad uccidere il padre. Edipo trionfante e inconsapevole conquista il regno di Laio, sposa la madre e dall’unione dei due nascono ben quattro figli. Dei miti greci e delle leggende la cosa che più mi piace è che la verità anche se giace nascosta per anni e anni, trova sempre il modo di manifestarsi e una volta nota a tutti, la giustizia segue implacabile. Edipo venuto a conoscenza dell’orrida verità, si accecherà con le sue stesse mani e si costringerà a una vita in esilio vagando per strade sconosciute coperto di stracci.
Freud utilizza il mito di Edipo per spiegare un passaggio fondamentale della maturazione psichica durante il quale l’Io smette di trovare godimento in sé stesso e si rivolge all’ambiente, cerca di soddisfare i suoi bisogni nella relazione con i genitori, uno dei quali diventa l’oggetto del suo amore, l’altro diventa oggetto d’identificazione e d’imitazione, una sorta di ideale. Il primo atto costitutivo dell’Io come Essere in relazione con è una scelta d’amore e contemporaneamente è il desiderio di voler essere come quel modello in grado di possedere l’oggetto amato.
Il processo di identificazione è alla base del complesso edipico, il bambino s’identifica con l’oggetto amato che vuole per sé e con il quale non ammette distanza o separazione, ma s’identifica anche con il rivale in amore, l’altro genitore al quale vuole somigliare, che imita e che vorrebbe sostituire. L’identificazione è il primo legame emotivo che istauriamo con un’altra persona perché sia nell’innamoramento che nell’ammirazione tendiamo a emulare il comportamento delle persone amate e ammirate, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) Freud dice che a volte l’Io copia la persona amata a volte quella non amata (quella ammirata) e che l’identificazione è immedesimazione, la stessa che utilizziamo per comprendere l’Io estraneo di altre persone, la stessa che sta alla base dell’empatia. L’Io dunque crea un legame emotivo identificandosi con il soggetto che ammira e dunque con ciò che vorrebbe essere oppure con l’oggetto e dunque con ciò che vorrebbe avere.
Il legame emotivo che si istaura mediante l’identificazione è ambivalente, tende all’avvicinamento e alla tenerezza con l’altro con cui ci si identifica ma allo stesso tempo tende all’allontanamento e a cercare di separarsi da questo. Le forme di relazione basate sull’identificazione sono forme primordiali di relazione, l’altro è vissuto come un oggetto, come qualcosa che si vuole avere interamente, o in parte appropriandosi dei suoi attributi, in questo aspetto predatorio e aggressivo risiede l’ambivalenza del legame.
Narciso vuole afferrarsi ed Edipo non vuole solo diventare re, vuole essere re come Laio, vuole il suo regno, il suo esercito e la sua regina.
“[L’identificazione] Si comporta come una propaggine della prima fase orale dell’organizzazione libidica nella quale l’oggetto bramato e apprezzato veniva incorporato durante il pasto e perciò distrutto in quanto tale. Come è noto il cannibale rimane fermo a tale stadio; egli ama i nemici che mangia e non mangia se non quelli che in qualche modo può amare.”
Tre saggi sulla teoria sessuale (1905)
È sempre Freud a parlare e sembra far eco al poeta che dal carcere di Reading canta:
“Troppo poco si ama, o troppo a lungo;
C’è chi vende l’amore e chi lo compra,
Chi commette il delitto lacrimando
E chi senza un sospiro:
Poiché ogni uomo uccide ciò che ama,
Ma non per questo ogni uomo muore.”
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Infatti a morire sono solo le donne che vengono divorate da uomini che amano solo sé stessi. I dati circolati dopo la morte di Giulia Tramontano, la giovane donna incita di sette mesi uccisa dal suo compagno, dicevano che in Italia 3 donne al giorno sono vittime di violenza e l’85% di loro muore uccisa da compagni, mariti, padri e figli, proprio da quegli uomini che le amano di quel tipo d’amore che le considera soltanto oggetti utili al loro nutrimento e al loro piacere. Ecco che tipo di amore è quello di ogni uomo che uccide ciò che ama, lo stesso tipo di amore in nome del quale chi mi stalkerizza giustificava la sua azione abusante nei miei confronti. In questi anni mi sono chiesta come potesse una persona, che mi ossessionava con la sua presenza sempre lì dov’ero io ad ascoltare ogni mio respiro, a guardare ogni mia azione, sempre pronto a sottolineare i miei gesti, gli eventi della mia vita con poesie d’amore, canzoni, articoli, sempre lì a ripetere le mie parole, i miei argomenti, a imitare i miei gesti, i miei modi di dire, che a ogni mio tentativo di liberarmi da questa sorveglianza globale rispondeva che sarebbe rimasto per sempre perché mi amava troppo, come può questo uomo non aver mai nemmeno tentato, di avere una relazione normale con me? Non aver mai cercato d’incontrarmi o di parlarmi per comunicare, non soltanto per ripetermi come un’eco infinita. In linea con Freud ritengo che la risposta stia proprio nella fame smodata e insaziabile dell’oralità, e nella violenza dell’identificazione come esporrò nel prossimo capitolo.
Adesso, dopo aver parlato di uomini, di miti e di parole ripetute, mi piacerebbe concludere con la storia di un personaggio femminile Eco, la ninfa ripetente, così come l’ho trovata nel libro di Christoph Ransmayr, Il mondo estremo.
La storia è ambientata agli estremi confini del mondo conosciuto, nella città di Tomi, sul Mar Nero, dove Ovidio fu esiliato e dove morì. Il protagonista è Cotta, amico del poeta, che aveva assistito al suo ultimo discorso pubblico a Roma prima dell’esilio. Cotta si reca nella città selvaggia perché vuole rintracciare le ultime tracce di Ovidio e delle Metamorfosi, muovendosi in un mondo in cui il mito si trasfigura in realtà. In questo romanzo Eco è una donna straniera, povera e sola, dalla pelle così chiara e delicata che se si espone al sole inizia a squamarsi e a decomporsi, per questo vive in una caverna in cima alla montagna. Eco è capace di discorrere di molte cose, sa molto e ha vissuto a servizio di Ovidio fino alla morte di quest’ultimo, ma a Tomi generalmente quando le rivolgono la parola si limita a ripetere le ultime parole di chi le ha parlato. Essendo una straniera, povera e donna, gli uomini della città ferrigna, si presentano di notte nella sua caverna e portando polli, stoffe, grano o farina pretendono di accoppiarsi con lei, lei per sopportare quei momenti, rimane in silenzio e immagina di trovarsi a passeggiare per sentieri di montagna. Cotta è l’unico a sapere che Eco non ripete soltanto parole, ma parla in modo tale da fargli venire il sospetto che Ovidio stesso possa aver scritto le  Metamorfosi ripetendo le storie ascoltate dalla donna. Nonostante questo, o forse proprio per questo, anche Cotta la violenta.
Roma, 12 giugno 2023 h 9.33 a. m. – 15 giugno 2023 h 3.05 p. m.
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nicksalius · 2 years
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Per essere nella presenza - Chandra Livia Candiani
Cosa bisogna fare, come ci si dovrebbe comportare, per quali scelte di vita bisognerebbe optare ��� per essere nella presenza? Si, ma cos’è, in fin dei conti, questa benedetta “presenza” di cui si tessono così sovente e con tanta enfasi – al punto da sembrare una sorta di panacea universale per i ricercatori più sprovveduti sulla via della meditazione – le lodi? Bene, ho introdotto tutto d’un…
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divulgatoriseriali · 6 months
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Goodbye Volcano High: L'amore, la musica e il coraggio di Fang
Lasciatevi trasportare in un mondo preistorico dove la fine di un’epoca si intreccia con l’inizio di una storia d’amore. Goodbye Volcano High, l’avventura narrativa ramificata recentemente approdata sulla piattaforma PlayStation, ci immerge in un turbine di emozioni, musica e cambiamenti epocali. In questo gioco, ci troviamo ad affrontare la vita di Fang, un giovane dinosauro diciottenne più…
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yourealpurpose · 7 months
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L'identificazione è il guaio del secolo perché non ti fa staccare dall'ego nemmeno se preghi. 
Anna
▶︎ Il tuo Scopo ▶ T.me
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sophiaepsiche · 2 years
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Il peccato mortale
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L’idea che ci facciamo delle nozioni spirituali o religiose, prima di incamminarci davvero nella vita spirituale, è solitamente un totale fraintendimento personale. Spesso quando si vive la pratica, la comprensione di quella data nozione viene completamente ribaltata. Ai nostri tempi, nessuno ritiene  più utile né tanto meno allettante il concetto di ‘peccato’. Sappiamo anche che non è presente in tutte le tradizioni o gli insegnamenti e questo ci consola molto, soprattutto se siamo ‘peccatori’ incalliti. Quest’ultima parte però non è molto accurata. Direi piuttosto che, nelle altre tradizioni, si tende solo ad usare un linguaggio  diverso. Oggi ci dedichiamo al ‘peccato mortale’ per sfatare qualche mito, comprenderne il vero significato e fare chiarezza su un aspetto molto sottile.
Partiamo da questa sottigliezza. A volte mi domandate se una particolare abitudine o tendenza naturale che avete possa essere o meno un ostacolo alla spiritualità. La mia risposta è invariabilmente ‘no’ ma dobbiamo capire bene perché è no. Potreste pensare, e all’inizio è quasi naturale farlo, che il no significhi che potrete tenere la vostra abitudine anche dopo. Non è così scontato. Per essere più precisi, il ‘no’ è dovuto più al fatto che, se praticate, qualsiasi tendenza contraria alla spiritualità sarà trascesa. Dunque non importa affatto come cominciate, perché è la pratica a trascendere le tendenze. Non dobbiamo diventare santi prima di iniziare un percorso spirituale ma è piuttosto la spiritualità che ci renderà man mano più puri. Se avete intenzione di iniziare, vuol dire che avete quanto basta in termini di distacco e di discernimento per incamminarvi e il resto lo farà il percorso stesso.
Gli unici ostacoli possibili al conosci te stesso sono la mancanza d’onestà e di perseveranza. All’inizio, quasi tutti noi siamo inclini a ‘lavorare’ solo su quello che vogliamo togliere e siamo invece molto indulgenti sui vizi a cui siamo ‘attaccati’ ma, se siamo onesti, pian piano ci renderemo conto che quell’attaccamento ci causa dolore e, volendo togliere il dolore, ci occuperemo anche di quell’attaccamento.
Se non ci fermiamo, capiremo inoltre che non è la particolare ‘abitudine’ di per sé a causarci  problemi ma è l’attaccamento in generale a qualsiasi abitudine e tendenza, a qualsiasi cosa o persona a ricreare il dolore e, conseguentemente, l’indulgenza sarà sempre meno presente.
Il conosci te stesso è un metodo nel quale parlare di peccato non ha quasi senso, perché nulla può impedirvi di conoscervi ma, ragioniamo su questo, l’aspetto più sottolineato riguarda la nostra stessa identificazione. Leggiamo sin da subito che questo percorso ha a che fare con una sorta di cambio d’identificazione o perdita d’identificazione psicologica ma, non capendo cosa implica e quant’è profonda questa trasformazione, ci preoccupiamo di particolari secondari. Avendo capito che il punto centrale è l’attaccamento e non le particolari tendenze, riformuliamo il concetto di ‘peccato’ con quello di ‘attaccamento alla materia’ e vedrete che, ahimè, non fa una piega, anche in termini d’identificazione.
Ogni indole di attaccamento verso l’esterno, a cose e persone, è sia sintomo che causa del ‘sentirci una cosa’, ossia della nostra identificazione con la materia. Quando  cominciamo a distaccarci dai desideri esterni è perché cominciamo a sospettare che la felicità non si trovi da quelle parti. Ci è sempre più chiaro che qualcosa non va a livello basilare nella ricerca del piacere. È lì che, solitamente, sentiamo la prima ‘chiamata’ o la prima fascinazione per la filosofia spirituale. Quando poi si inizia finalmente a praticare, ci si distacca dal desiderio interiore. Avendo sviluppato sufficiente distacco dalla materia esterna e grossolana, passiamo ad occuparci della materia sottile. Che la chiamiamo meditazione, ‘conosci te stesso’, osservazione passiva, testimoniare o esame di coscienza, quello che attuiamo è un primo distacco dalla materia sottile, così da conoscerla e comprenderla, esattamente come abbiamo fatto precedentemente con quella esterna. Se questo processo non viene interrotto e arriva a maturazione, scatta la contemplazione, il silenzio o il samadhi. Qui scopriamo che la nostra vera natura non è materiale. 
Più stiamo qui, più l’identificazione materiale e mentale si perde.
Il succo quindi è che più abbiamo attaccamento alla materia più ci sentiremo materia. Ovviamente questo equivale a sentirci mortali. Dunque tutto il concetto di peccato mortale si rivela vero e, non tanto come condanna da scontare, ma come stato effettivo e presente della nostra condizione umana. Solo attraverso la pratica spirituale costante perdiamo il vizio di attaccarci alla materia e smettiamo allora di sentirci ‘materia’, di sentirci ‘mortali’, il che cambia notevolmente anche il nostro approccio agli altri, che non tratteremo mai più come oggetti.
Mi raccomando allora, non ci fasciamo la testa prima di iniziare e non ci dedichiamo troppo al controllo delle azioni esterne. Il punto focale è l’attaccamento. Quando la comprensione delle dinamiche interiori aumenterà, il distacco sarà più forte e le azioni subiranno un cambiamento naturale e spontaneo. 
Tenete solo presente che non vi si promette che quello a cui siete attaccati rimarrà, perché questo è il meraviglioso effetto naturale della trascendenza.  
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ufimaro-psicologo · 2 years
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Il benessere nasce nella flessibilità psicologica. La possibilità di seguire i nostri valori nella vita senza farci frenare da emozioni e pensieri che ci intrappolano.
Siamo psicologicamente flessibili quando non siamo persi nella nostra mente ma riusciamo a vivere nel presente, non siamo così identificati nell’immagine di noi stessi da non poterci sentire liberi di esprimerci diversamente e possiamo collegarci a quella parte di noi che osserva sia ciò che accade, sia come ci sentiamo. I pensieri, anche se presenti non hanno presa su di noi, non ci facciamo prendere emotivamente da loro e riusciamo a percepire le nostre emozioni e a starci.
Tuttavia non sempre le cose filano lisce e spesse volte i pensieri ci agganciano emotivamente facendoci vivere periodi o momenti di disagio e malessere. Quali caratteristiche hanno i pensieri che riescono ad avere questo potere su di noi?
I pensieri che ci agganciano sono tutti quei pensieri che friggeranno, cioè vanno a colpire un nostro dolore. Alcuni eventi, specie da piccoli, sono stati emotivamente dolorosi per noi e quel dolore ci è rimasto dentro . Quando accade un evento che lo ricorda, anche lontanamente, ecco che quel dolore si risveglia ed è questo che ci mette in allarme. La mente pensa e ripensa perchè fa ciò che sa fare: risolvere problemi. Così il dolore diventa un problema da risolvere e la mente si aggancia a questi pensieri nel tentativo di trovare una soluzione.
Guardando le diverse teorie in psicologia si possono rintracciare 4 tipi di dolori
Inaffidabilità delle cure
Scarso valore di sè stessi
Sfiducia nel futuro
Problemi con il limite ed i confini
Rientrano nell’inaffidabilità delle cure il sentirsi soli, abbandonati o la non certezza della presenza dell’altro: “a nessuno interessa di me”, “bisogna cavarsela da soli”, “chi vuoi che mi aiuti”, “non ho bisogno di nessuno”…
Nel secondo caso troviamo pensieri al nostro scarso valore, al non essere mai abbastanza o al non essere capaci o in grado: “non ci riesco…”, “non sono abbastanza…”, “non valgo niente…”, “magari potessi…”
La sfiducia nel futuro ha a che fare con quei pensieri riferiti al fatto di non aspettarsi o meritarsi nulla di buono o di aspettarsi punizioni: “figurati se succede a me…”, “mai una volta che le cose vanno bene”, “te la sei voluta…”
Infine, i problemi con il limite riguardano le situazioni in cui ci siamo sentiti invasi con critiche e giudizi o in cui i confini erano troppo laschi e i nostri impulsi non venivano canalizzati ma erano lasciati a noi stessi, di conseguenza quando le cose non sono come vorremmo abbiamo difficoltà a prenderci le nostre responsabilità o ci sovraresponsabilizziamo ponendoci standard elevati e diventando perfezionisti: “perchè lui/o lei non è come dico io…”, “basterebbe che lui o lei facesse…”, “devo essere perfetto…”, “non posso fallire”, “faccio ciò che voglio…”
Ovviamente ognuno ha determinati pensieri che lo agganciano meglio. Tutti questi pensieri hanno in comune una cosa sola: la paura. La paura che accada un fatto o un evento che triggera quel dolore specifico che più temiamo.
La base di ogni sofferenza è la paura. Il punto è che a noi sembra di temere l’evento esterno ma in realtà temiamo le sensazioni ed i pensieri che potremmo avere in relazione a quell’evento. Fino a quando non riusciamo a fare pace con la paura ci troveremo in balia della nostra mente.
concludo quindi con una frase che mi piace molto:
Libertà è non aver più paura di noi stessi
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falsenote · 2 months
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Identification of a Woman (1982)
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cerescereso · 7 months
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anamon-book · 1 year
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ある女の存在証明 CINE VIVANT No14 シネセゾン 監督=ミケランジェロ・アントニオーニ/出演=トーマス・ミリアン、ダニエラ・シルベリオ ほか   
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scogito · 1 month
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klimt7 · 7 months
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loveint-diario · 1 year
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Capitolo 33 - Spazio d'immagine
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Nel 2001 in occasione della prima edizione di Yohokohama Triennale, oggi alla sua ottava edizione, Yayoi Kusama partecipa con due opere che vogliono essere il suo personale omaggio al nuovo inizio dell’arte contemporanea in Giappone e all’inizio del XXI secolo. Per la prima opera, ospitata al chiuso nella sala del Pacifico Yokohama, Kusama riveste di specchi un’intera stanza, al soffitto appende delle sfere riflettenti e infine ricopre anche il pavimento di sfere specchiate, di modo che
“Chi entrava vedeva la propria immagine riflessa in millecinquecento sfere, e riusciva a percepire l’infinito mutamento di prospettiva generato dai propri movimenti, in un’esperienza di repetitive vision.” (Y. Kusama)
Intitola l’opera Endless Narcissus Show.
Nella seconda opera, questa volta all’aperto, le sfere riflettenti sono duemila, hanno un diametro di 30 centimetri, sono di acciaio inossidabile e bagnate galleggiano in una sezione del canale lungo la passeggiata che collega la stazione ferroviaria Sakuragicho all’area portuale di Shinko. Assecondando il flusso delle onde e i loro movimenti, le duemila sfere riflettono per gli spettatori il profilo delle nuvole, il bagliore intermittente della luce, le geometrie del porto. Il titolo dell’opera è Narcissus Sea e l’artista così ne descrive l’effetto
“Le infinite palle a specchio si avvicinavano e poi si allontanavano, tornavano ogni volta a mutare il loro aspetto in risposta al movimento continuo e senza posa del canale. Emettevano suoni delicati, ora un ticchettio, ora un cicalio. Era una visione stupefacente: creature enigmatiche che si moltiplicavano nell’acqua.”
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Da una stanza tutta per sé del primo trentennio del Novecento siamo passati a una stanza tutta piena di sé del nuovo Millennio, dove con un movimento spontaneo e naturale gli individui della società liquida di Z. Bauman del XX secolo, seguendo il flusso della corrente senza sosta, si sono riversati nel narcisismo senza fine di Kusama e degli individui del XXI secolo.
Le esperienze di repetitive vision affollano i nostri schermi e le immagini che più si ripetono sono autoritratti estemporanei e giornalieri di persone comuni e di personaggi famosi. I selfie si diffondono nei primi anni del Duemila, arrivano con l’uso delle fotocamere digitali, che permettono di duplicare un’immagine all’infinito e l’uso delle piattaforme social, con le quali è possibile condividere e diffondere la propria immagine infinitamente.
La prima piattaforma che permetteva di pubblicare il proprio autoritratto fu MySpace, la piattaforma offriva uno spazio di presentazione di sé stessi e un modo di affermarsi fu proprio occupare lo spazio della galleria fotografica, non con le proprie opere ma inserendovi i propri selfie, prendere il proprio spazio significava fare mostra e negozio di sé stessi.
La parola selfie viene dall’Inglese ed ha la stessa radice del termine selfish che definisce chi non tiene in considerazione gli altri e i loro bisogni, chi è o si comporta da egoista. Non voglio né insinuare né affermare che chi si faccia dei selfie sia egoista o per forza narcisista. Amo ricevere i selfie delle persone che mi sono care, amo vedere i loro volti, leggere sulle loro espressioni come stanno e penso che sia una meravigliosa opportunità quella di comunicare usando la propria immagine ma ritengo comunque significativo porre l’attenzione sulla diffusa abitudine di ritrarre sé stessi e su quanto sia diventata necessaria sia a livello individuale sia a livello sociale.
Un tempo chi voleva rintracciarci aveva bisogno di conoscere il nostro indirizzo di posta fisico o il nostro numero di telefono fisso, adesso basta che digiti il nostro nome su una qualsiasi App social per trovarci subito dopo, sorridenti sulla foto del nostro profilo. Mentre prima bisognava recarsi all’indirizzo e suonare il citofono per raggiungerci o telefonarci per parlare con noi, adesso raggiungerci significa accedere ai nostri contenuti social, conoscerci significa guardare le nostre foto e leggere i nostri slogan.
Facebook è stata la prima piattaforma social completamente basata sull’identità degli iscritti, tanto da avere la parola Face nel proprio nome, per essere riconosciuti e connettersi alla propria comunità di seguaci bisognava metterci la faccia. In Facebook, come anche in altri social, Instagram incluso, l’uso dei selfie è indispensabile per il successo di un account e di recente alcune aziende, alla vecchia lettera di presentazione preferiscono l’invio di un video di pochi minuti, in cui i candidati che aspirano a ricoprire la posizione offerta, si presentano rispondendo alla domanda: perché saresti la persona giusta per questo lavoro?
Presentarsi è mostrarsi seguendo i dettami del marketing, applicando correttamente armocromia e make-up fotografico, post editing grafico per rendere fotogenico qualsiasi volto e la grammatica degli slogan vincenti.
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Gli individui del secolo scorso con relazioni e identità fluide, senza legami duraturi, senza passato e senza progetti gettati nel futuro, immersi nell’eterno scorrere del presente sono confluiti in una società di individui che si autodefiniscono sul dire non sul fare, sull’apparire non sull’essere, sul presentarsi non sull’essere riconosciuti dalla comunità di riferimento in base alle opere compiute. Una società di individui che occupano posti di potere decisionale fondamentali per la comunità, che occupano spazi pubblici con l’opportunità di influenzare il pensiero di molte persone, che occupano spazi educativi e culturali con la responsabilità di formare le nuove generazioni, che occupano spazi di influenza, occupano questi spazi non per il riconoscimento dovuto alle loro opere, perché in possesso di quelle competenze che li rendono i candidati migliori per quel determinato ufficio o servizio, ma perché capaci di presentarsi e abili nell’uso del linguaggio del successo, perché come le palle a specchio di Kusama sono capaci di mutare, pur restando uguali, in risposta al movimento senza posa del canale.
Individui che fondano la loro narrazione sull’essersi fatti da soli, sull’aver raggiunto il successo partendo dal basso e non scoraggiandosi mai, sempre fissi sulla meta, pronti a tutto per raggiungere i propri obiettivi, perseverando sempre. Siamo pieni di narrazioni di individui che non devono ringraziare nessuno per la loro ricchezza e il loro successo, incapaci di riconoscere l’aiuto ricevuto, individui che si appropriano delle intuizioni o delle scoperte di altri e di altre senza darvi il giusto riconoscimento, individui che si presentano come eroi solitari, con capacità straordinarie e una visione del mondo non comune, ostinati nel loro desiderio di realizzare i propri sogni, disposti a tutto per farlo e soprattutto vincenti, vincenti su tutto e tutti.
Questi individui sono come le sfere di Kusama, pianeti solitari che nella perfezione della loro forma sono impermeabili a qualsiasi cosa provenga dall’esterno, assumono i contorni del mondo esterno senza subire cambiamenti, s’identificano con i movimenti della corrente senza esserne trascinati, riflettono l’immagine dell’altro da sé senza esserne tuttavia trasformati, così pericolosamente dissociati da abusare segretamente di quelle stesse donne che pubblicamente, e nella vita virtuale, esaltano difendendone i diritti.  
Sfere di acciaio inossidabile sorde alle sollecitazioni del mondo esterno come a quelle del loro mondo interiore, unità compatte con una separazione netta tra dentro e fuori, continuamente fluttuanti  tra verità e menzogna, tra bene e male, acrobati equilibristi dell’ Endless Narcissus Show.
A Est di Roma, 28 agosto 2023 h 2:04 p. m.
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nicksalius · 2 years
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Scritte a margine (sulla meditazione)
Scritte a margine (sulla meditazione)
Frasi scritte a margine – come commento o per introdurre brevi articoli o filmati sulla meditazione – che sintetizzano – nei rispettivi contesti – riflessioni ben più articolate. Visioni sulla via della consapevolezza. Elaborate dai curatori del sito in più occasioni sono a disposizione di chiunque come massime o adagi o spunti per ulteriori commenti. “Meditazione nel web” –…
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divulgatoriseriali · 2 months
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Violenza di genere intra-familiare: comprendere le radici e le dinamiche
Il tema della violenza di genere intra-familiare è oggi molto sentito e dibattuto. Colpisce tanto le donne, ma anche gli uomini. Si tratta di una questione delicata perché, oltre a smuoverci emotivamente, richiama l’attenzione sulla responsabilità sociale di noi tutti, che costituiamo quel contesto culturale e quell’ordine sociale che talvolta accetta la violenza anziché condannarla. Continue…
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