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#nazionalismo irlandese
gregor-samsung · 23 days
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" Sto qui, sulla soglia di un altro mondo palpitante. Possa Dio avere pietà della mia anima. Sono pieno di tristezza perché so di aver spezzato il cuore della mia povera madre e perché la mia famiglia è stata colpita da un’angoscia insopportabile. Ma ho considerato tutte le possibilità e ho cercato con tutti i mezzi di evitare ciò che è divenuto inevitabile: io e i miei compagni vi siamo stati costretti da quattro anni e mezzo di vera e propria barbarie. Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra. Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all’indipendenza sovrana, e credo in essa, così come credo nel diritto di ogni uomo e donna irlandese a difendere questo diritto con la rivoluzione armata. Questa è la ragione per cui sono carcerato, denudato, torturato. "
Bobby Sands, Un giorno della mia vita, introduzione di Sean MacBride, Premio Nobel per la Pace, e di Gerry Adams, Presidente dello Sinn Féin; traduzione e cura di Silvia Calamati, Edizioni Associate, Roma, 1989¹; p. 115.
[Edizione originale: One Day in My Life, The Mercier Press, Cork, Ireland, 1982]
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theperfectpints · 4 months
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The Liberties è un quartiere che non passa inosservato. Piacevole, affascinante, popolare. Francis Street ne è lo specchio, "The Liberty Bell" ne è la prova. Il pub sito al civico 33 della via principale di uno dei quartieri simbolo di Dublin 8, rappresenta un posto magnificamente attraente per i clienti locali e per i turisti curiosi di toccare con mano la vera dublinesitá. Atmosfera tranquilla ma vera, puramente irlandese: divanetti old style e moquette, pinte a volontà e musica dal vivo ogni venerdì sera. Insomma, un bel mix a cui aggrapparsi. "The Liberty Bell" si ispira ad una figura iconica della storia irlandese, Anne Devlin. Governante e confidente del membro degli "United Irishmen" Robert Emmet, fu una delle protagoniste nell'organizzazione della ribellione del 1803. Dopo il fallimento dell'operazione, Anna fu imprigionata e costretta a subire maltrattamenti e soprusi di ogni genere. Esempio di tenacia e di coraggio, Anne Devlin è uno dei personaggi chiave del nazionalismo irlandese. Magari senza aver trovato il giusto riconoscimento all'interno della storia dell'isola, "The Liberty Bell" le rende il giusto omaggio. 🇮🇪🍻✊️
© Irish tales from Rome
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angieakastral · 7 years
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“Ci sarà un’esplosione” disse Mori “Oh che bello, un vero piacere. Sarò coinvolto anche in questa o c’è la possibilità di vederla un po’ più da lontano?”
Keita Mori e Thaniel Steepleton in "L'orologiaio di Filigree Street", N.Pulley, citazione p. 270 
 La mia ultima recensione sul blog! :)
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LA GEOGRAFIA DEI MOVIMENTI SOCIALI
I movimenti sociali non nascono casualmente, la geografia dei movimenti sociali può essere analizzata, poiché esistono differenze geografiche nello sviluppo di determinati movimenti sociali. Nel successo di un movimento sociale influisce molto la capacità di un gruppo di trovarsi in una parte del mondo dove le risorse sono facilmente accessibili. 
Quando si parla di una geografia dei movimenti sociali si può notare come questi siano localizzati nella parte più ricca del pianeta.
Un’altra dimensione geografica dei movimenti sociali è la scala a cui operano. Ogni movimento sociale ha quindi una sua geografia: che tipo di analisi se ne può fare? Un primo tipo di analisi è quello del modo in cui i movimenti sociali si strutturano a seconda del luogo, e quindi delle risorse e delle opportunità di sviluppo che queste offrono ad un determinato movimento sociale. Un’altra geografia dei movimenti sociali può essere fatta a partire dai temi di questi movimenti sociali, cioè dove si distribuiscono. I movimenti per il disastro nucleare non erano uniformemente distribuiti anche nel mondo occidentale. O i movimenti ambientalisti, di cui si sente spesso parlare a proposito dei limiti della rappresentanza politica dell’ambientalismo italiano, rispetto ai Paesi del nord dell’Europa.
Un’altra questione propriamente geografica è la capacità di un gruppo dirigente, cioè di un movimento sociale, di usare consapevolmente la questione della scala, per lottare e perseguire i propri obiettivi. L’uso consapevole della scala, vuol dire essere consapevoli che mettersi in rete con altri movimenti simili, può aumentare le chance di successo di una battaglia, piuttosto che restare inscritti ad un livello locale. Quindi mettersi in rete con altri movimenti simili, ma allo stesso tempo essere capaci di incidere localmente. Per incidere localmente non bisogna per forza rinchiudersi nella scala locale. 
Ad esempio si può prendere il movimento No Border, che è contro l’esistenza dei confini, ed è quindi transnazionale per definizione, perché ritiene che i confini riducano, o influiscano ingiustamente sulla libertà di movimento delle persone, distinguendo tra una parte del mondo che può muoversi liberamente, e una parte del mondo, la più grande, i cui abitanti sono soggetti a delle limitazioni di movimento. Tutti i gruppi No Border che normalmente si formano a livello locale, si danno però appuntamento, per agire nello spazio pubblico, in un certo posto, agendo tutti insieme.                                                              Quindi in questo caso c’è una doppia azione: a livello locale, per organizzare un nucleo d’attività, e poi una seconda scala translocale, in cui, invece, operare collettivamente.
Qualcosa di molto simile avveniva tra i primi precursori dei movimenti sociali, i movimenti per la lotta per i diritti dei lavoratori, i sindacati, che quando si erano formati apparivano più delle riunioni informali di lavoratori delle incipienti industrie di quello che sarebbe diventato il Nord del mondo. Con una funzione molto particolare, come gli altri movimenti sociali, non si propongono, contrariamente ai partiti politici, di elaborare dei progetti di convivenza civile. I sindacati nascono sull’esigenza di difendere i diritti dei lavoratori, lottare per l’ampliamento di questi diritti, e per lottare per il salario di questi lavoratori. Quest’azione inizialmente è molto localizzata, si localizza settorialmente per ogni fabbrica, è solo con una costruzione successiva che c’è questa operazione di networking. I sindacati, come poi riconosciamo a partire dalla fine dell'Ottocento, si formano su questo mettersi in relazione di movimenti con obiettivi simili - la lotta per i diritti e per il salario dei lavoratori -, spesso riflettendo anche la divisione tra città e campagna (i fasci socialisti degli inizi del Novecento erano l’espressione rurale dei movimenti sindacali nelle fabbriche). L’idea del sindacalismo ci offre l’esempio evidente di come tutto questo può essere analizzato a strati diversi, e addirittura come i sindacati stessi abbiano cercato di superare la loro organizzazione nazionale, quando hanno cominciato a parlare diInternazionale socialista, l’unione di tutti i partiti socialisti, dei sindacati che si battono per i lavoratori, superando la scala nazionale. Anche il sindacalismo, come tutti gli altri movimenti sociali, ha una propria geografia, legata all’industrializzazione; se si dovesse fare la cartografia storica nei termini del sindacalismo, lo si vedrebbe nascere nei Paesi di prima industrializzazione, e si potrebbe vedere come i linguaggi adottati dai primi sindacati (in Inghilterra, in Francia o in Germania) sono stati poi adottati in altri movimenti che nascono successivamente.
Si mette così in luce, nell’analisi di questi fenomeni, il concetto di transcalarità: tutti i movimenti sociali possono essere analizzati a scala diversa. 
Il problema della scala è una delle strategie dei movimenti sociali, perché questi, al contrario delle associazioni di quartiere, hanno la caratteristica di operare ad una scala diversa da quella locale, o per lo meno non accontentandosi solo di essa. 
Quindi, tra le preoccupazioni dei militanti di varie forme di movimenti, c’è quella di fare networking con altre forme di associazioni simili, e quindi superare una forma di isolamento.
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pangeanews · 4 years
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“Volgiti a me, MacDiarmid, pazzo di scrittura”. Comunista, nazionalista, eccessivo, gran bevitore: ode al poeta geniale che non possiamo leggere
Sono un uomo piccolo, sto sul palmo di una mano, e mi emoziona pensare il poeta che s’incunea a Whalsay, ferita rocciosa delle Shetland. Cercate Whalsay, ora, nel sobborgo metropolitano dove state, e svanite in quel rosario di rocce, in quella mistica oceanica. Il poeta voleva far parlare le pietre, dare nitore al bisbiglio roccioso che le convalida. Anche le rocce sognano.
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“Leggenda vuole che… avesse trascorso tre giorni sulla spiaggia di West Linga dormendo in una grotta e appuntandosi ogni tipo di osservazione sulla geologia del posto, sui colori delle pietre e sui mutamenti di luce di quel cielo nordico” (Marco Fazzini). Era il 1933. L’anno dopo il poeta pubblica Stony Limits and Other Poems. In quella raccolta spicca il capolavoro. On a Raised Beach. Il poeta si chiama Christopher Murray Grieve, ha 42 anni, è un tipo strano, tra il rivoluzionario e il profeta, politico e biblico; i poeti lo conoscono come Hugh MacDiarmid, indossa quel nome dal 1922. In un busto scolpito nel bronzo, Hugh ha capelli che paiono un’aquila, occhi stretti come pugnali. Quell’anno, nel 1922, T.S. Eliot pubblica La terra desolata, e, beh, posto che valgano questi giudizi sommari – ma la vita, in fondo, è una somma di eventi sommari – On a Raised Beach è un poema più grande, selvaggio, possente. Spaventa. Ecco.
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Il poema pare Giobbe ripetuto dalle labbra di Melville, una litania capace di ipnotizzare papà Atlantico. M’impressione il vigore, la forza che ha una cosa viva, con un muso e dei denti. Va letto, perciò, anche, come abbecedario d’etica, questo poema. Ne estraggo alcuni versi, a vortice:
“Dobbiamo essere umili. Siamo così facilmente vanificati dalle apparenze Che non ci accorgiamo che queste pietre sono un tutt’uno con le stelle”
“È misero affare tentare di abbassare L’arduo furore delle pietre alle fantasie futili degli uomini”
“La luna muove l’acque avanti e indietro, Ma non si possono invogliare le pietre a procedere Neanche un pollice al di qua o al di là dell’eternità”
“Sarà sempre più necessario trovare Nell’interesse di tutta l’umanità Uomini capaci di rifiutare tutto ciò che pensano tutti gli altri Uomini, come una pietra rimane Essenziale al mondo, inseparabile da quello, E rifiuta ogni altra forma di vita”.
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Hugh MacDiarmid è la leggenda della letteratura scozzese contemporanea. Piuttosto: ne è l’evocatore, il bardo, il guerriero, il re che ha scelto di deporre la corona per imbracciare il forcone. Giornalista di talento, MacDiarmid diventa poeta per scardinare dalle pastoie inglesi il gergo di Scozia. “L’uso dello scots che MacDiarmid propugnò sin dal 1922 intendeva svincolare questo vernacolo dall’oblio a cui era stato relegato… Ciò che diede forza ed efficacia alla così detta Rinascenza scozzese fu la mistura esplosiva di poetica ed azione politica portate all’eccesso, in definitiva, da un solo intellettuale: Hugh MacDiarmid” (Fazzini). A Drunk Man Looks at the Thistle, pubblico nel 1926 è il punto di svolta della letteratura scots. Per MacDiarmid l’opzione estetica è sostanzialmente politica: nel 1928 è tra i fondatori del National Party of Scotland, da cui viene espulso; dagli anni Trenta s’impegna tra le fila del partito comunista inglese, da cui viene espulso un paio di volte.
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“La mia è la storia di un assolutista, i cui assoluti sono cresciuti a dismisura, fino al dolore nella vita privata”, ha detto. Di lui Kenneth Buthlay ha scritto: “MacDiarmid è il flagello dei Filistei, lo spietato intellettuale che cerca la rissa… era il bardo e il nemico del compromesso”. Il suo comunismo, per intenderci, era il contrario di quello professato dagli educati, cinici, abbienti poeti d’Albione, W.H. Auden, Stephen Spender. MacDiarmid era figlio di un postino, veniva dal sottosuolo, riuscì a leggere perché viveva di fronte alla biblioteca civica; nato nel 1892, durò fino al 1978. “Disprezzava le caste e le categorie, le classi sociali, culturali, l’accademia che, diceva, non è fallimentare, è criminale” (Ian Hamilton).
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Mastico ancora quei versi, un’epica per petroglifi, dal vigore biologico.
Devo entrare in questo mondo di pietra adesso. Fragmenti, striature, relazioni di tessere, Ombre innumerevoli di grigio, Forme innumerevoli, E sotto tutte loro una stupenda unità, Movimento infinito che si difende visibilmente Contro ogni assalto del tempo e dell’acqua…
Penso che del libro mi dissero Andrea Ponso e Gian Ruggero Manzoni. Fu scoperta devastante. On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino. Era il 2001. Editore Supernova. Curatela, impeccabile, di Marco Fazzini. La domanda non sembri cretina: perché questo libro fondamentale di un poeta fondamentale non sta nella ‘bianca’ Einaudi o nello ‘Specchio’ Mondadori? Perché se raspo in Internet mi dicono che non è più disponibile (come se Ii libri fossero ben disposti)? A me pare, questa, seccamente, una idiozia.
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Nella raccolta di saggi oxfordiani La riparazione della poesia Seamus Heaney dedica un testo a Hugh MacDiarmid, La fiaccolata di un singolo. Questo è il dettaglio culturale: “La posizione di MacDiarmid nella letteratura e cultura scozzese è per molti aspetti analoga a quella di Yeats in Irlanda, e le ambizioni indipendentiste degli scrittori irlandesi furono sempre molto importanti per lui. Il suo ardimento linguistico fu ampiamente incoraggiato dall’esempio di Joyce, mentre Yeats e altri scrittori successivi alla rinascita irlandese continuarono a esercitare un ampio influsso sul suo programma di nazionalismo culturale”. Ritratto personale: “Fu comunista e nazionalista, propagandista e plagiatore, bevitore e confusionario, e recitò tutte queste parti con straordinario vigore. Si fece dei nemici con la stessa passione con cui si fece degli amici. Fu stalinista e sciovinista, anglofobo e arrogante, ma la stessa tendenza all’eccesso che manifestava sempre, la qualità esorbitante che segnava tutto ciò che faceva, dava anche forza ai suoi successi e li rendeva duraturi. In altre parole, MacDiarmid possedeva quella ‘forza’ che Sir Philip Sidney giudicava essenziale segno distintivo della poesia stessa”.
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Semus Heaney, al di là del detto accademico, dettò una meravigliosa poesia In Memoriam Hugh MacDiarmid. “Volgiti a me, MacDiarmid, dalle Shetland,/ occhio impietrito dal guardare pietra, sobrio,/ e ostinato”, comincia Heaney, esaltando il poeta “pazzo di scrittura”, con “quell’orgoglio di mettersi alla prova. Di solitudine”, che possiede “l’occhio ciclonico d’una poesia come le stagioni”. La terzina finale ricorda che il linguaggio è scelta di vita, estasi della prova, mai l’ornamento: “Nell’accento, nell’idioma,/ nell’idea come un cardo nel vento,/ un catechismo degno d’esser detto e ridetto in eterno”. Da nessun poeta ho percepito prossimità così chiara, ferina, all’elemento naturale. Questo è un poeta in cui rovinare. (d.b.)
***
Mi sono innamorato alfine del deserto, La dimora della serenità suprema è inevitabilmente un deserto. La mia disposizione è per le questioni spirituali, Rese inumanamente chiare; non permetterò che nulla sia interposto Tra la mia sensibilità e la sterile eppur bella realtà; La chiarezza mortale di questo “vedere da affamato” Solo le tracce d’una febbre di passaggio sulla mia visione Varieranno, turbandola davvero, ma turbandola solo In modo che acquisterà per un momento Una chiarezza sovrumana, minacciosa: il riflesso D’una brillantezza attraverso un cristallo bruciante. Una cultura richiede agio e l’agio presuppone Un ritmo di vita auto-determinato; l’abilità di star solo È la sua prova; con ciò il deserto ci conosce. Non è questione di sfuggire alla vita Ma il contrario: questione d’acquisire il potere D’esercitare la solitudine, l’indipendenza, delle pietre, E quello viene solo dal sapere che la nostra funzione permane, Per quanto sembriamo isolati, essenziale alla vita come la loro. Abbiamo perso le fondamenta del nostro essere, Non abbiamo edificato sulla roccia.
Hugh MacDiarmid
*Il brano di Hugh MacDiarmid è tratto dal poema “On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino”, Supernova, 2001, cura e traduzione di Marco Fazzini
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jamariyanews · 6 years
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Se non capiamo la lotta di classe, non capiamo niente
di Ken Loach e Lorenzo Marsili – 21 agosto 2018 Il regista cinematografico britannico Ken Loach è una delle voci più celebrate del cinema del nostro tempo. Un artista profondamente impegnato e uno di un pugno di registi a essere insignito due volte della prestigiosa Palma d’Oro. Il lavoro di Loach affronta spesso temi sociali e politici. La sua opera ha attraversato la guerra civile spagnola (Terra e Libertà), lo sciopero degli addetti alle pulizie di Los Angeles (Pane e Rose), l’occupazione dell’Iraq (L’Altra Verità), la guerra d’indipendenza irlandese (Il vento che accarezza l’erba) e il lato coercitivo dello stato sociale (Io, Daniel Blake). Mentre la cosiddetta “rivolta populista” ha innescato un grande dibattito sul ruolo delle disuguaglianze economiche e dell’esclusione sociale, Ken Loach è stato uno dei più grandi narratori della coscienza della classe lavoratrice e delle sue trasformazioni sotto il neoliberismo. In questa conversazione con il giornalista e attivista politico italiano Lorenzo Marsili, Loach guarda al ruolo dell’arte in momenti di trasformazione politica, all’evoluzione della classe lavoratrice, al significato oggi della lotta di classe e al fallimento della sinistra nell’ispirare un cambiamento radicale. L’intervista è stata registrata durante le riprese di DEMOS, un documentario di prossima uscita nel quale Lorenzo Marsili percorre l’Europa indagando la solidarietà internazionale dieci anni dopo la crisi finanziaria. Lorenzo Marsili: Il dibattito sul ruolo dell’arte nel cambiamento politico ha una lunga storia. Oggi stiamo chiaramente attraversando un momento di grande trasformazione geopolitica e di disorientamento globale. Qual è la sua visione del ruolo che la creatività può avere in un momento simile? Ken Loach: In generale penso che nell’arte ci sia solo la responsabilità di dire la verità. Qualsiasi frase che cominci con “l’arte dovrebbe…” è sbagliata, perché si basa sull’immaginazione o la percezione di persone che scrivono o dipingono o descrivono o svolgono quelli che sono i diversi ruoli dell’arte. Dobbiamo affermare i principi fondamentali di modi attraverso i quali le persone possano vivere insieme. Il ruolo degli scrittori, degli intellettuali e degli artisti sta nel considerare questi come i principi chiave. Questa è la visione lunga della storia, della lotta, così anche se si deve fare una ritirata tattica è importante essere cosciente che resta una ritirata e i principi chiave sono quelli che dobbiamo tenere in mente. Questo è qualcosa che possono fare le persone che non sono coinvolte nelle tattiche giorno per giorno. LM: Nel suo lavoro l’elemento umano non è meramente un’illustrazione della teoria, ma incarna realmente e diviene l’elemento politico. Sarebbe d’accordo che l’arte ha il potere di mostrare che, alla fin fine, ci sono esseri umani dietro i grandi processi economici e politici? KL: Assolutamente. La politica vive nelle persone, le idee vivono nelle persone, vivono nelle lotte concrete che le persone conducono. Determina anche le scelte che abbiamo e le scelte che abbiamo, a loro volta, determinano il genere di persone che diventiamo. Il modo in cui le famiglie interagiscono non è un qualche concetto astratto di madre, figlio, padre, figlia: ha a che fare con le circostanze economiche, il lavoro che fanno, il tempo che possono passare insieme. L’economia e la politica sono collegate al contesto in cui le persone vivono le loro vite, ma i dettagli di quelli vite sono molto umani, spesso molto divertenti o molti tristi e in generale pieni di contraddizioni e complessità. Per gli scrittori con i quali ho collaborato e per me, il rapporto tra la commedia della vita quotidiana e il contesto economico in cui quella vita ha luogo è sempre stato molto significativo. LM: Dunque c’è un rapporto dialettico tra il modo in cui l’economia trasforma il comportamento umano e il modo in cui il comportamento umano, specialmente attraverso l’azione collettiva, trasforma le relazioni economiche. KL: Prenda una persona che lavora. La famiglia di lui o di lei funziona o cerca di funzionare, ma individualmente non hanno forza perché non hanno potere. Sono semplicemente una creatura di quella situazione. Ma io penso davvero che il senso di forza collettiva sia qualcosa di molto importante. E’ qui che cominciano le difficoltà. Non è facile raccontare una storia in cui la forza collettiva sia immediatamente evidente. D’altro canto è spesso rozzo e sciocco terminare ogni film con un pugno chiuso in aria e un appello militante all’azione. Questo è un dilemma costante: come si fa a raccontare la storia di una famiglia della classe lavoratrice, tragicamente distrutta dalle circostanze economiche e politiche, e non lasciare la gente nella disperazione? LM: Una cosa che io trovo dare speranza persino in un film tetro come Io, Daniel Blake è che vediamo l’apparato coercitivo dello stato, ma vediamo anche la resilienza di una certa solidarietà umana: i poveri si aiutano tra loro e la gente si ferma ad applaudire quando Daniel Blake scrive un graffito feroce fuori dal centro per l’impiego. Suggerisce che non siamo stati interamente trasformati in homo economicus: che c’è ancora resistenza contro la mercificazione della vita. KL: Sì, questo è qualcosa che i commentatori della classe media non colgono: i lavoratori … sono presi in giro anche se ridono. Nelle trincee la storia è più amara ed è lì che vediamo la resistenza, anche nei luoghi più bui. Ma in particolare abbiamo avuto questa crescita dei banchi alimentari dove è offerto cibo per beneficienza e si vedono i due volti pubblici della nostra società. In Io, Daniel Blake quando la donna consegna il pacchetto di cibo a una donna che non ha nulla, non dice “Ecco il tuo cibo caritatevole”, ma dice invece “Posso aiutarti con la spesa?” Da un lato c’è quella generosità e dall’altra c’è lo stato che si comporta nel modo più consapevolmente crudele, sapendo che sta spingendo la gente alla fame. La società capitalista è colta in questa situazione schizofrenica e sta a noi organizzare la solidarietà. LM: Spesso sembra che quella tradizionale alienazione economica si sia trasformata in un’alienazione nei confronti dello stato. Pensa che questo sia al centro di fenomeni come l’ascesa del nazionalismo, della xenofobia, persino della Brexit? Oltre a rendere capri espiatori i migranti c’è forte anche questa sensazione che “non c’è nessuno che mi difenda”. KL: Sì, penso in effetti che il clima che il populismo di destra indica è un fallimento della sinistra… in modo simile agli anni ’20 e ’30. I partiti di destra si presentano con una risposta semplicissima: il problema è il tuo vicino, il tuo vicino è di colore diverso, il tuo vicino cucina cibo che ha un odore diverso, il tuo vicino ti sta rubando il lavoro, il tuo vicino è dentro casa tua. Il pericolo è che questo è appoggiato dalla stampa di massa, tollerato e promosso da emittenti come la BBC che, ad esempio, ha dato a Nigel Farage e ai suoi compagni tutto il tempo in onda che volevano. LM: Il centro del suo lavoro è sempre stato la solidarietà della classe lavoratrice. Lei ha vissuto la transizione dal capitalismo sociale postbellico all’arrivo del neoliberismo. Come ha visto trasformarsi la solidarietà di classe in questo periodo? KL: La cosa maggiore è stata la riduzione del potere dei sindacati. Negli anni ’50 e ’60 erano divenuti forti perché le persone lavoravano in organizzazioni sociali come fabbriche, miniere o moli e a quel punto era più facile organizzare sindacati. Ma quelle vecchie industrie sono morte. Oggi la gente lavora in un modo molto più frammentato. Siamo più forti quando possiamo fermare la produzione, ma se non siamo organizzati sul punto di produzione, siamo decisamente più deboli. Il problema è che oggi la produzione è così frammentata e che con la globalizzazione la nostra classe lavoratrice oggi e nell’Estremo Oriente o in America Latina. LM: I lavoratori in bicicletta a chiamata di Deliveroo o Foodora potrebbero neppur considerarsi dei lavoratori. KL: Sì, o lavorano in franchising o sono cosiddetti “lavoratori autonomi”. E’ un grosso problema. E’ un problema di organizzazione per la classe lavoratrice. LM: Pensa che il concetto di classe abbia ancora senso? Molti non si considererebbero della classe lavoratrice anche se sono poveri e a volte si sentono decisamente miserabili. KL: Credo che la classe sia fondamentale. Cambia semplicemente forma col cambiare delle richieste di una manodopera diversa da parte del capitale. Ma si tratta ancora di forza lavoro. Ed è tuttora sfruttata e continua a fornire surplus di valore ancor più intensamente che in passato. Cosa più importante, se con capiamo la lotta di classe, non capiamo nulla. LM: E’ una delle grandi sfide di oggi: riavviare la lotta in mezzo a una popolazione frammentata che non si concepisce come parte di un gruppo. KL: E’ una sfida alla nostra comprensione. E’ stato molto buffo: recentemente parlavo con alcune persone molto carine in Giappone che stavano scrivendo un articolo e io insistevo sulla necessità di capire la classe e il conflitto. Una donna molto carina mi ha detto: “Mostreremo il suo film ai funzionari del governo giapponese” e io ho detto “Beh, perché?” e lei ha detto “Beh, per far loro cambiare idea” e io ho replicato “Ma questo è il punto che ho appena sostenuto! Non cambieranno idea, sono impegnati a difendere gli interessi della classe dominante e non vanno persuasi, vanno cacciati!” E’ un punto molto difficile da superare quando l’idea di far funzionare il sistema è così profondamente radicata. Questa è una delle terribili eredità della socialdemocrazia che dobbiamo combattere. LM: E’ una forma efficace di controllo sociale, quando i tuoi sottoposti ritengono di poter parlare con te e che tu terrai conto delle loro preoccupazioni. KL: E’ per questo che dobbiamo resuscitare l’intera idea di rivendicazioni di transizione. Dobbiamo avanzare richieste che siano assolutamente ragionevoli sulla base degli interessi della classe lavoratrice. LM: Vorrei arrivare alla conclusione, ma noto che lei una volta ha condotto una campagna a favore del Parlamento Europeo. KL: Me l’ero dimenticato. LM: E’ interessante per me come l’Europa non sia mai stata realmente oggetto di dibattito qui in Gran Bretagna. Improvvisamente, dopo la Brexit, tutti parlano dell’Unione Europea ed è diventato l’argomento più dibattuto dopo il calcio. Sente che ci sia ancora speranza di costruire una democrazia transnazionale o è semplicemente troppo tardi? KL: Davvero non conosco la risposta. Ma penso realmente che la solidarietà internazionale sia chiaramente importante. Può essere organizzata all’interno dell’Europa? Non lo so. La struttura dell’Unione Europea è veramente molto complicata; è difficile vedere come introdurre il cambiamento senza ripartire da zero. Ovviamente ogni cambiamento deve essere avallato da ogni governo e sappiamo tutti quanto difficile sia la pratica di tale processo. Chiaramente abbiamo bisogno di un’Europa diversa, basata su principi diversi: sulla proprietà comune, la pianificazione, l’allineamento delle economie, la sostenibilità e in generale lavorando per l’uguaglianza. Ma semplicemente non possiamo farlo mentre è data priorità alle grandi imprese, è data priorità al profitto e mentre il sistema legale dà priorità al profitto. Effettuare tale cambiamento va al di là della mia competenza. Yanis Varoufakis mi assicura che si può fare. Sono certo che ha ragione. Ho fiducia in lui, ma non so come. Lorenzo Marsili è cofondatore di European Alternatives e uno degli iniziatori del movimento paneuropeo DiEM25. Il suo libro più recente è ‘Citizens of Nowhere’ (University of Chicago Press, 2018).                   Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/if-we-dont-understand-class-struggle-we-dont-understand-anything/ Originale: The Nation traduzione di Giuseppe Volpe Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3. Preso da: http://znetitaly.altervista.org/art/25656 https://ift.tt/2NFFd2f
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pangeanews · 5 years
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“Penso che tutto sia sotto controllo”: John le Carré, lo scrittore & agente segreto, ha scritto il romanzo su Brexit, Trump, il “razzismo istituzionale”
“Lo scenario del mio ultimo libro è la dipendenza squalificante del Regno Unito dagli Stati Uniti in un’era in cui questi stanno imboccando a velocità sparata la strada del razzismo istituzionale e del neofascismo. Per andare a sbattere su una sbarra lasciata lì da qualche mentecatto”. Così John le Carré, ora che ha deciso di fare politica a gamba tesa. Fino ai primi del Duemila, era il sobrio scrittore di guerre fredde, l’amicone di Kubrick. Ora non ha più voglia di fare il bonzo silenzioso.
Vi avevamo raccontato un annetto fa che le Carré stava covando un altro romanzo ambientato a Londra durante il cataclisma post Unione Europea. Ora andiamo avanti perché finalmente il libro è uscito e Guardian ha mandato lo scrittore irlandese (in tempi di Brexit nulla va avanti per caso) John Banville a scambiare due parole con il vecchio spione. Il pezzo originale lo leggete qui.
Il nuovo lavoro è Agent running on field e l’azione parte da questo motore: i finanziamenti di Trump a favore di Brexit per dissolvere, su lungo periodo, l’Unione Europea. È una verità romanzesca, chiaramente inferiore alla verità effettuale, ma resta a merito di le Carré che come autore si prende le responsabilità di ogni singolo personaggio. Soprattutto di quelli del Servizio: tanto più che lui ha servito solo per un quinquennio.
Con le sue parole dell’intervista: “Ricordare, prego, che fui una figura molto junior sia in MI5 che in MI6. Quindi quel che nei miei romanzi passa per conoscenza dall’interno è storia puramente inventata. Però quando avevo il permesso di assistere alle riunioni operative sentivo gli animali grandi del branco e quindi, una volta fuori da quel mondo – con grande sollievo – avevo un grande tesoro a disposizione, un forziere di operazioni immaginate, le quali erano basate su lampi fugaci intravisti. Ma in quel mondo non ho mai fatto nulla di qualche valore”.
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È calata la maschera, signori! Si accendano le luci, sccc! sccc! il regista esce sul palco dopo venticinque romanzi e ci incalza: non gli piace il Servizio (lo si capiva), non gli piace la Nuova Inghilterra a trazione nazionalista (lo si intuiva) e in definitiva… “se facessi l’impertinente e proponessi un messaggio, allora direi che il messaggio del nuovo libro è che il concetto di patriottismo e nazionalismo – dove riporre le lealtà sul piano collettivo e su quello privato – è adesso piuttosto misterioso. Penso che Brexit sia del tutto irrazionale, vi è evidente e autoindotta depressione di statisti, unita a lamentevoli performance diplomatiche. Quel che non andava bene in Europa poteva esser cambiato dall’interno. Da parte mia, sento del tutto allentati i legami con l’Inghilterra in questi ultimi anni. È come una liberazione, ma una triste liberazione. Il punto è che negli anni sono spariti gli inglesi che avevano esperienza diretta dell’ultima guerra, e in campo politico ora prevale l’idea che il conflitto umano non esiste. E invece no: il conflitto umano ha un buon effetto, ci rende più sobri”.
*
Eccovi altri punti salienti dell’intervista, presi per argomento:
Il nonno commosso. “I miei nipoti sono orripilati da Brexit e dal concetto di libertà che è stato tolto loro. Quindi gli dico guardate, avete vissuto per molti anni in città straniere e sapete che non troverete mai una conversazione migliore, o più sofisticata, più connessa socialmente, di quella londinese o britannica”.
L’oratore affianco al caminetto. “Non dimenticate che la ragione non ha una sua voce per così dire ‘naturale’. Oratori per le masse del genere di Boris Johnson non parlano il linguaggio della ragione.  Lui invece è del tipo che soffia sul fuoco della nostalgia e della rabbia. È sorprendente come queste persone dell’establishment, tipo Farage, parlino ancora di tradimento: tradimento del parlamento, del governo, tutto per cercare un collegamento con l’uomo qualunque”.
Il nobile opinionista. “La cosa più spaventosa che possa succedere è che l’Unione Europea si nasconda nella tana del coniglio, così che Johnson riprenda da capo l’accordo che già la May aveva trovato e lo faccia passare per suo con un tocco alla trottola e poi si vanti della grande vittoria di fronte a un parlamento spaventato. E che governi per otto anni”.
L’aspro censore. “Penso che tutto sia sotto controllo, posto che venga rimesso in auge il contratto sociale. Non possiamo predicare di avere un cosiddetto campo da gioco uguale per tutti finché ci sono istituzioni così esclusive come le scuole private, la medicina privata, tutto privato. E poi i social media dove si espone tutta una gamma di dolcetti alla gente che così è prona a comprare questo, vestire questo, viaggiare laggiù, e tutto ammonta a una nozione spuria di cosiddetta vita perfetta”.
Il fanatico di Piketty. “Credo che dobbiamo fare quelle cose che altri stati fanno senza starci a pensar su troppo. Serve una tassazione sulle rendite e bisogna creare una soglia sulle ricchezze che si possono avere in eredità. Continuo a credere che sarà il conservatorismo compassionevole, alla fine, a integrare il sistema di istruzione privata. Comunque, io non li ho votati. Ma il fatto è che se la sinistra si mette a livellare sembra che lo faccia per risentimento, mentre se lo fa la destra allora sembra buona organizzazione sociale”.
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Ora sta benissimo che il venticinquesimo romanzo porti in gloria le Carré. Chi lo sa, però, se è ancora abile a ritrarre lo spionaggio e le sue creature. Qui avanziamo una modesta proposta. Se, invece di credere con le Carré che l’Occidente è sempre cinico, i musulmani sfruttati e gli asiatici… bè, anche gli asiatici sono sfruttati dall’Occidente brutto & cattivo – se, invece di sorbire il solito minestrone morale, introspettivo & lucido & freddo di le Carrè nel suo ultimo pistolotto, andassimo alla radice del genere spionistico e leggessimo L’agente segreto di Conrad? È un romanzo pubblicato nel 1907 che non ha mai perso lo smalto: ci mise le mani anche Gadda, traducendolo col suo bell’inglese da ingegnere.
Oppure, se volete ridurvi la fatica, leggete questa nota del diario di Somerset Maugham, alla data 1917. In fede, è un ritratto che non è invecchiato. Il libro di le Carrè sa già di rancido.
Andrea Bianchi
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Somerset Maugham, A writer’s notebook, 1949
1917
In quest’anno fui mandato in Russia in missione segreta. Ecco come sono arrivato a prendere le note che seguono.
Agente segreto. Era un uomo nemmeno di mezza statura, ma largo e robusto; camminava senza far rumore, a passi rapidi; aveva un’andatura bizzarra, qualcosa come da gorilla, e le braccia gli pendevano dai fianchi allontanandosi dal corpo; ti dava un’impressione quasi di creatura scimmiesca pronta a saltare in ogni momento; e la sensazione di enorme forza non ti faceva stare tranquillo. Aveva una testa squadrata e ampia su un collo corto e sottile. Era ben rasato, con occhi piccoli e attenti, e la sua faccia era stranamente appiattita come fosse stata colpita da un botto. Aveva un naso largo, carnoso, piatto e una bocca grande con piccoli denti che avevano perso il colore. I suoi capelli sottili e chiari erano tenuti ben lisciati sulla testa. Non rideva mai, ma il suo riso era soffocato e in quei momenti i suoi occhi si illuminavano di un umore feroce. Era ben vestito da capo a piedi in stile americano, e a prima vista l’avresti preso per un immigrato del ceto medio che si era stabilito per qualche piccolo commercio in una tale florida cittadina del Mid West. Parlava inglese fluentemente, ma senza correttezza. Era impossibile starvi insieme a lungo senza venire impressionati dalla sua determinazione. La sua forza fisica corrispondeva alla sua forza di carattere. Era spietato, saggio, prudente, e assolutamente indifferente ai mezzi che gli occorrevano per i suoi scopi. In definitiva, vi era qualcosa di terrificante nel suo carattere. Il suo cervello, fertile, ribolliva di idee sottili e ardite. Provava un piacere da artista davanti alle vie tortuose del suo servizio; quando ti diceva di uno schema che stava contemplando o di una schivata che gli era riuscita i suoi piccoli occhi azzurri si illuminavano, come anche la sua faccia, di un’allegria satanica. Aveva un disprezzo eroico per la vita umana, e avvertivi che per la causa non avrebbe esitato a sacrificare un suo amico o un figlio. Nessuno poteva dubitare del suo coraggio, e allo stesso modo era in grado di affrontare non solo il pericolo – cosa non difficile – ma i disagi e la noia. Era un uomo di abitudini frugali e poteva andare avanti per un periodo incredibile senza mangiare o dormire. Senza mai risparmiarsi, non pensava mai a risparmiare gli altri; la sua energia era straordinaria. Benché spietato, era uno di buon umore, in grado di uccidere un altro umano senza mostrare traccia di malessere. Sembrava non aver altro che una passione in vita sua, fatta eccezione per il suo strenuo desiderio di buoni sigari, ed era il patriottismo. Aveva un gran senso della disciplina e obbediva senza discutere al suo leader allo stesso modo con cui esigeva obbedienza dai suoi subordinati.
William Somerset Maugham
* traduzione di Andrea Bianchi
L'articolo “Penso che tutto sia sotto controllo”: John le Carré, lo scrittore & agente segreto, ha scritto il romanzo su Brexit, Trump, il “razzismo istituzionale” proviene da Pangea.
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