Tumgik
#non c’è tempo non c’è spazio non c’è età in cui ciò non sia vero e attuale
deathshallbenomore · 9 months
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è una verità universalmente riconosciuta che una madre in cerca dell’oggetto più inutile della casa entrerà senza indugio e preavviso in qualsiasi stanza e ne uscirà lasciando la porta spalancata
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ininazseniram · 4 years
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Viva la scienza, ma occhi aperti: il problema non è il vaccino, è il sistema che li produce
di LUIGI MEZZACAPPA
Se mi avventuro su questa scivolosa questione in merito all’obbligatorietà del vaccino contro il covid è perché mi piacerebbe valutarla da un’angolazione diversa rispetto agli aspetti strettamente sanitari. Non sono no-vax: le vaccinazioni le ho sempre fatte tutte e le ho fatte fare ai miei figli. Da dieci anni faccio anche il vaccino anti-influenzale, sollecitato da nessuno. Ho fiducia nella scienza. Non riesco però ad avere altrettanta fiducia nell’informazione, specialmente quando tutte le grancasse battono in perfetta, assoluta sincronia.
Non mi aggiungerò quindi al coro dei laureati su Facebook che non capiscono ma pontificano. A differenza di molti so distinguere i terrapiattisti da chi vuole semplicemente capire. E ciò che io vorrei capire, oltre alla questione scientifica in sé, è la credibilità di questo sistema, di questa informazione e di queste multinazionali del farmaco. Lasciamo perdere i “si dice” e i “sembra”, le controverse questioni sull’uso che in passato si è fatto dei vaccini; lasciamo perdere anche le notizie in bilico tra verità accertate e ipotesi da verificare in merito ad alcune campagne di vaccinazione degli anni ‘90 usate come pretesto per altri fini più o meno palesi; lasciamo stare anche il fatto che nessun paese – primi fra tutti quelli che oggi si autocelebrano come civili – è completamente esente da brutte storie dal sapore di eugenetica, alcune nemmeno troppo lontane nel tempo, come quelle praticate sulla popolazione carceraria.
Non credo si possa, invece, lasciar perdere altre questioni, più recenti, che riguardano proprio la casa farmaceutica che in questo momento sta salvando l’umanità e che in passato salì agli onori delle cronache per le denunce e le migliaia di cause a cui ha dovuto rispondere nei tribunali per pratiche di vendita illegali o per lesioni, fino all’omicidio causato da sperimentazione umana. Non si possono, non si dovrebbero dimenticare i 55 milioni di dollari patteggiati nel 2013 per risarcire le pratiche irregolari di marketing di un medicinale gastrointestinale per il quale sono ancora pendenti cause per lesioni renali. Non si dovrebbero dimenticare le ben 10mila donne scese in causa contro un medicinale che curava i sintomi della menopausa e l’osteoporosi prescritto impropriamente per curare il cancro al seno, alle quali è stato riconosciuto un risarcimento per circa 1 miliardo di dollari fino al 2012. Non si dovrebbe dimenticare quell’altro medicinale per il trattamento della dipendenza da nicotina che rese circa tremila persone vittime di depressione e disturbi psichiatrici. Né l’inefficacia di quello contro l’ipogonadismo, l’oligozoospermia e l’impotenza, e neanche la maxi-multa di 2,3 miliardi di dollari per il più grande patteggiamento per frode sanitaria nella storia del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, un’ammenda pagata per le responsabilità civili e penali derivanti dalla promozione illegale di tre medicinali. L’azienda incaricava i suoi rappresentanti di trasferirli ai medici per patologie diverse da quelle indicate e in dosi superiori a quelle approvate nonostante i rischi per i pazienti. L’indagine fu condotta da un giudice che fece emergere pratiche molto diffuse come quella di invitare i medici a riunioni e conferenze in paradisi turistici, spese e compensi naturalmente a carico dell’azienda.
La casa farmaceutica che dovrà darci il vaccino è stata messa più volte sotto accusa per reati gravissimi e condannata per subdole sperimentazioni. E ora dobbiamo fidarci?
Sempre la stessa casa farmaceutica si macchiò, verso la metà degli anni ‘90, di un altro crimine agghiacciante, ovvero la sperimentazione occulta e quindi illegale di un antibiotico. La vicenda è nota come “Il Contenzioso di Kano”. La Casa sperimentò un nuovo antibiotico che aveva tutte le carte per diventare un farmaco da parecchi milioni di dollari. La sua efficacia era comprovata da 87 studi in 27 paesi diversi. Mancava “solo” un test pediatrico in caso di patologia infettiva acuta come la meningite, impossibile da condurre negli Stati Uniti. Nel 1996 a Kano, una cittadina nel nord della Nigeria, ci fu un’epidemia di meningite che uccise 12.000 persone. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) lanciò un programma di emergenza e la casa farmaceutica vide in quell’epidemia l’opportunità per effettuare finalmente i test pediatrici. Aderì al programma dell’Oms proponendo di curare 200 bambini con un medicinale che all’epoca era il miglior farmaco anti-meningite. In realtà, solo la metà dei bambini furono curati con quello, mentre agli altri fu somministrato il nuovo medicinale da sperimentare per valutare le differenze tra i due. Cinque dei 100 bambini curati con l’antibiotico sperimentale morirono, ma molti rimasero vittime di cecità, malformazioni e paralisi. Per i medici della Casa fu comunque un risultato utile e l’antibiotico venne commercializzato nel 1996 in Europa, anche se solo per gli adulti. Due anni dopo, però, fu ritirato dal mercato per l’alta tossicità. Il caso scosse l’opinione pubblica perché la sperimentazione fu condotta illegalmente nel modo più subdolo. Nonostante molteplici azioni legali intraprese negli Stati Uniti e in Nigeria, le vittime non sono ancora state risarcite e negli Stati Uniti il dibattimento processuale non ha ancora avuto inizio.
FARMACI E VACCINI
Sì dirà che tutto questo non ha senso, che i casi citati riguardano medicinali e non vaccini, che se la casa farmaceutica agisse con il coronavirus con quella stessa leggerezza rischierebbe troppo. Dunque non possiamo non fidarci. E’ vero ma, se ci liberassimo per un attimo dalla suggestione emotiva, forse riusciremmo ancora a leggere qualche ragionamento interessante. In piena pandemia, per esempio, su uno dei più famosi, autorevoli e diffusi rotocalchi che gode della stima del pubblico più sensibile e progressista, L’Espresso, ho letto una coraggiosa affermazione secondo cui “per le nuove emergenze occorre un’azienda pubblica finanziata da tutti i paesi dell’Unione Europea”. L’articolo spiega che a certe multinazionali del farmaco andrebbero posti dei limiti perché hanno completamente smarrito ogni senso etico, perché da tempo producono solo medicine che garantiscono il massimo profitto e hanno abbandonato la ricerca nei settori chiave della salute, un atteggiamento che sul lungo termine ha stravolto la missione originaria e le ha rese impreparate a cogliere la sfida del covid.
Questa è la mia prima domanda: perché mai, oggi e all’improvviso, queste multinazionali avrebbero ritrovato un’etica smarrita da almeno cinquant’anni? La seconda: quanto è cambiata, l’etica, da quando nella patria di quell’industria si offrivano ai nativi americani coperte “umanitarie” infettate col vaiolo? Se dovessi fare un parallelo con il fenomeno del razzismo non saprei davvero cosa rispondere. Ma ho anche altre domande, se interessano.
IL CASO RUSSO
Il 24 novembre la Russia ha annunciato il suo vaccino “Sputnik V”. La notizia è stata accolta dalla nostra informazione con un atteggiamento sospeso tra sconcerto e dileggio. Il quotidiano Il Sole 24 ore ha titolato: “Fuga in avanti di Mosca”, cioè in sostanza si è domandato: com’è possibile che la Russia sia arrivata per prima? Il pensiero sotteso più o meno è: sicuramente si tratta di una bufala, il vaccino non può essere sicuro, non è stato sufficientemente testato, non c’è stato il tempo materiale per certificarlo, sicuramente non ha sufficiente copertura. Tre giorni dopo – tre, non trentatré – è stato annunciato il “nostro” vaccino, il quale non ha problemi di certificazione né di test carenti. Ha solo un po’ meno copertura, ma in tre giorni l’ha recuperata e ha perfino superato la copertura del vaccino russo. Ha solo un piccolo inconveniente di logistica: deve essere conservato e trasportato a 90° sotto zero. Ma dopo dieci giorni i gradi sotto zero sono solo 70. Ho immediatamente pensato, da perfetto incompetente, a quanto potesse essere complicato il mantenimento della catena del freddo, ma nessuno ne ha parlato. Nei primi giorni di distribuzione del “nostro” vaccino, ho letto che in Germania ci sono stati problemi e un intero lotto di vaccini è andato perso.
Anche Israele ha scelto il vaccino russo, ma noi non lo consideriamo sicuro. E’ invece sicuro un vaccino che va conservato a -70 gradi
Ma il nostro vaccino è sicuro mentre quello russo no. Il fatto che il vaccino russo sia realizzato secondo principi consolidati e il “nostro” sia invece frutto di una nuova concezione e tecnologia pare non contare assolutamente nulla. Però Israele, Turchia ed Emirati Arabi hanno prenotato quello russo, e poi anche Argentina, Venezuela, Messico, Brasile, India e Bielorussia. E il vaccino cinese? Figuriamoci, come possiamo fidarci degli untori? Addirittura Cuba ha un suo vaccino? No, veramente ne ha due, e ha una lunga storia di ricerca scientifica e un’industria farmaceutica propria. Pubblica.
IL PIANO ITALIANO
Andrà tutto bene, dai. Via con il “V-day”. Il celebre giornalista Paolo Mieli annuncia che si vaccinerà, ma senza saltare la fila. E comunque, se fosse in età per avere dei figli, non lo farebbe. Un no vax o un pro vax? Boh. Il “nostro” vaccino non ha problemi di test né di certificazione, però non sappiamo quante dosi ricavare da un flacone. Quattro giorni dopo la prima vaccinazione scopriamo che possiamo farne sei invece delle cinque che pensavamo. Così risolviamo anche l’eventuale problema di approvvigionamento. Nel nostro mondo perfetto non c’è spazio per l’improvvisazione. E infatti il sito dell’EMA (European Medicine Agency) ne dà prova: chi ha già avuto il covid non ha bisogno della vaccinazione. O forse sì. Chi ha fatto la vaccinazione non è detto che non sia più contagioso. O forse no. Quanti richiami occorre fare? Al momento non si sa, però i vaccinati saranno monitorati due anni per fornire elementi sulla durata dell’effetto. Le persone immuno compromesse possono essere vaccinate? Per adesso non è chiaro, però gli immuno compromessi hanno già problemi con gli anticorpi, che male può fargli il vaccino? E le donne in gravidanza o che allattano? Beh, gli studi sugli animali non hanno evidenziato effetti collaterali, però non si sa ancora, sono ancora troppo pochi. Semmai, le donne in gravidanza ne parlino con il loro medico di fiducia e valutino benefici e rischi. Oltre a tutto questo, sul sito dell’EMA c’è scritto anche che quella che ha rilasciato è “una autorizzazione subordinata”. Vuol dire che per due anni esaminerà tutti i dati sul vaccino e i relativi effetti. Le cose stanno così.
Io voglio vaccinarmi, ma mi è concesso avere qualche dubbio? Sono pronto, voglio firmare il consenso informato. Ma informato di cosa? Dove sono le informazioni? Sul sito dell’EMA?  La questione non può essere ridotta a “vaccino sì-vaccino no”. Non si può dubitare del principio, sarebbe come dubitare che il vaccino abbia cambiato il corso dello sviluppo umano per tutte le malattie che in passato ha sconfitto, ma non riesco a fidarmi in un momento come questo in cui è facile speculare, in cui la straordinaria emergenza fa passare come logica e naturale l’impunità penale di chi fa di tutto pur di salvarci. Io voglio vaccinarmi e voglio firmare il consenso informato, ma se tu mi costringi, acconsentirò solo se la responsabilità te la prendi tu. Se devo concedere la mia fiducia, preferisco concederla a chi sa dimostrarmi il suo senso etico e mi informa in completa e totale trasparenza.
Io voglio vaccinarmi ma non riesco a fidarmi degli speculatori e della mancanza di informazioni. Tante contraddizioni su un tema in cui ci vorrebbe chiarezza
Purtroppo, quando finiscono le buone ragioni cominciano le “campagne emotive”: chi non si vaccina non merita di essere curato. Ho letto il post di un “guru” di etica applicata ai tempi del covid. Dice che se anzichè con il covid si stesse combattendo contro l’ebola o una malattia con letalità al 90% che colpisce vecchi e bambini, allora ci sarebbero meno scettici, rivoluzionari e ribelli alla dittatura sanitaria, e si vedrebbero file supplicanti battere i pugni sui vetri del primo ospedale di zona, con i figli per mano, implorando che qualcuno li vaccini col siringone per gli elefanti, e la questione costi/benefici non sarebbe in discussione; e allora sì che finalmente si scoprirebbe quanto è facile essere alternativi, antagonisti dei poteri forti col culo degli altri.
Beh, che discorsi! Al di là del fatto che chi parla così ha probabilmente il culo al caldo anche lui, il linguaggio utilizzato spesso è tutt’altro che ecumenico e pastorale, e produce proprio quei sentimenti che si vorrebbero stigmatizzare e che nulla hanno a che fare con la pace sociale così tanto invocata. Ma soprattutto, non si capisce quale sia il nesso tra tutto questo e il farsi domande sulla trasparenza di un sistema i cui limiti sono ampiamenti dimostrabili. Tutti abbiamo visto come hanno funzionato i modelli di sanità privati o para-privati. Può piacere oppure no, ma quando Gino Strada afferma che “se la sanità è un’azienda che gioca con rimborsi e pagamenti a prestazione, allora mette in atto un crimine sociale” fa una semplice constatazione.
La questione, purtroppo, è sempre la stessa: chi ha i soldi ha poco da temere. Per questi, sarà sempre disponibile la migliore soluzione. Tutti sanno che il problema è questo, ma si guarda altrove. Anche con il ponte Morandi si è capito che la sicurezza non può essere affidata ai privati. E allora perché lo si fa con una cosa così importante come un vaccino? In un sistema simile, chi dubita non è un attentatore della salute pubblica: è l’esatto contrario.
LA LEGGE DEL PROFITTO
Se dal sistema si togliesse il profitto, si eliminerebbe automaticamente qualsiasi dubbio, e non saremmo qui a parlare di “no vax”. Bisognerebbe avere tempo, voglia, coraggio, apertura mentale e autentica curiosità per guardare a sistemi diversi, senza cercare l’oro colato che non esiste, ma senza preconcetti. Basterebbe guardare alla povera Cuba, dove dall’inizio della pandemia è stato registrato a livello mondiale il più basso rapporto di mortalità per numero di cittadini, per forza di cose curati con medicine nazionali a causa di un embargo che dura da quasi 60 anni, mentre all’Italia spetta il primato opposto.
Chiedo scusa, ma questa feroce contrapposizione con i “no-vax” e l’idea della repressione o dell’obbligo di vaccinazione mi suonano pericolose. Nel bene o nel male, il mondo virtuale di Facebook rappresenta in qualche modo quello reale. E così, al fianco dei post che auspicano la pace ma fomentano le divisioni, ne ho trovato uno che prospetta invece una possibile via d’uscita, pacifica. Dice: “A Cuba c’è la fila di volontari per testare il vaccino prodotto direttamente dalle case farmaceutiche nazionali, e quindi nell’interesse collettivo. Trovatemi un “no vax” cubano. Il problema non è il vaccino, il problema è il sistema. Non è necessaria una rivoluzione, basta una banalissima sanità pubblica che si prenda carico anche della ricerca farmaceutica, perché non ci vuole un virologo per capire che ricerca e sanità sono strettamente legate. Alle case farmaceutiche private lasciamo gli integratori a base di aloe e spirulina, ma la sanità, i vaccini e i farmaci salva vita devono essere pubblici. Si può fare ora, e dovrebbe essere il vero lascito di questa pandemia, la giustizia che dobbiamo a chi in questa pandemia ci ha rimesso la vita”.
Perché no?
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vitaconsacrata · 4 years
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Riflessione sulla c.d. clausura: tra equivoci e realtà
In questa giornata di preghiera “pro orantibus” vorrei dedicare alcune riflessioni alla c.d. vita contemplativa e/o claustrale. Purtroppo qualificare la vita monastica femminile come claustrale e/o contemplativa ha generato molti equivoci e continua a generarli tutt’ora nella distinzione delle forme di vita consacrata. La vita monastica ed eremitica femminile non si contraddistingue per il carattere contemplativo rispetto alla vita battesimale di qualunque fedele laico, così come di qualsiasi altra persona consacrata erroneamente definita di vita “attiva” e/o apostolica. La contemplazione e l’azione sono componenti esistenziali di qualunque stato di vita cristiano (e non necessariamente solo quello cristiano). Pertanto, la vita quotidiana di una donna consacrata in monastero è definita contemplativa in quanto il segno specifico della sua consacrazione e della comunità in cui vive è incentrato sulla forma esteriore della preghiera, in particolare della Liturgia delle Ore e della lectio divina monastica, e non sull’alimentare l’immagine di una vita paradisiaca con tonache e veli svolazzanti sullo sfondo di tramonti e albe edeniche.
Altro equivoco nasce dal termine clausura, derivante da “claustrum” e non dal colloquiale “chiusura”, a cui viene assimilato non senza la stessa corresponsabilità di alcune claustrali. Per una “monaca di clausura pontificia o papale” essere segno tramite l’osservanza del confine della clausura e della grata potrebbe evocare tantissime dimensioni della sua persona e della comunità a cui appartiene, tenendo conto che ella è inserita nel contesto circoscritto e simbolico del chiostro con i limiti normativi liberamente scelti e professati. La clausura per il mondo monastico femminile è una dimensione fisica che può aiutare la vita interiore della donna se ella è chiamata ed è in grado di vivere il silenzio e la solitudine quale spazio abitato da Dio con la sua Parola e la sua Presenza, altrimenti potrebbe essere percepito come un carcere, una gabbia, un groviglio di catene normative. In quest’ultimo caso la clausura viene considerata e testimoniata come una mutilazione della persona, nonostante sia stata professata da donne nella maggiore età e liberamente scelta con libera coscienza e volontà. La rivendicazione successiva alla professione religiosa claustrale che la clausura sarebbe stata imposta alla persona non sembra corrispondere a verità, perchè ogni donna alla soglia della professione sa di poter liberamente optare per altri stati di vita e di vita consacrata, dunque l’obiezione appare molto debole e facilmente opinabile.
La problematica della clausura in realtà forse si potrebbe analizzare su un altro piano di riflessione, che richiama i cenni iniziali: “se e quanto la clausura sia oggetto di discernimento quale condizione di realizzazione della vita religiosa contemplativa fondata sui voti di povertà, castità e obbedienza e, dunque, quanto sia mezzo per la realizzazione della persona, della sua vocazione e consacrazione religiosa”. Infatti, la clausura è solo un mezzo, non il fine, e come ha già affermato Papa Francesco, “le mura del monastero non sono sufficienti per dare il segno” .
La clausura non è sufficiente perchè la monaca sia segno che indica Gesù e quando tale dimensione di volontaria limitazione relazionale e fisica dello spazio, in cui ella vive, è vissuta come fine della vita religiosa (osservanza della clausura come santità), inevitabilmente anche il segno testimoniale personale rischia di deformarsi e disorientare la monaca stessa e coloro che sono legati alla sua preghiera e testimonianza. Tanti sono stati i documenti del Magistero che hanno descritto e soprattutto regolamentato con norme la vita contemplativa femminile, ma ci si permette di obiettare che a tutt’oggi all’elaborazione dei contenuti magisteriali non hanno partecipato direttamente e attivamente coloro che la clausura la vivono, cioè le monache di clausura, salvo la compilazione di questionari di consultazione previamente alla stesura della Costituzione Apostolica Vultum Dei Quaerere e Cor Orans.
Solo chi vive la clausura femminile, può parlare di clausura femminile, perchè essa non è semplicemente un paragrafo del Codice di Diritto canonico o delle Costituzioni proprie, che limita uscite ed entrate delle monache nei monasteri, ma contraddistingue un mondo spirituale, emotivo, di pensiero, di comportamento, che non ha paralleli negli altri stati di vita, anche consacrata. La clausura è una condizione di vita che ha la potenzialità inversamente proporzionale di amplificare la dimensione di tutto ciò che al di fuori del monastero sarebbe insignificante, in quanto lo spazio fisico, la quantità limitata di relazioni interne ed esterne, l’assenza o la limitatezza delle attività apostoliche esterne, la ripetitività di gesti e reazioni, di servizi domestici e di preghiera genera dinamiche di vita personale e comunitaria, che assorbono la più parte delle energie quotidiane. La posizione di un tavolo in una stanza o di un vaso di fiori in chiesa, di una tenda in un ambiente comune o di un carrello per i pasti in refettorio non avrebbe rilevanza per più di qualche minuto in una persona calata nella vita laicale o consacrata apostolica; in clausura, invece, potrebbe segnare anche l’andamento di un’intera giornata di rapporti fraterni, perchè dietro la posizione di un oggetto o la modalità di esecuzione di un servizio domestico vi è una quantità notevole di significati e ruoli rivestiti da ciascuna monaca. L’emotività e la sensibilità in clausura è notevolmente più sollecitata e intensa, poiché nello spazio simbolico claustrale la monaca “si gioca”, volente o non volente, la sua realizzazione personale quotidiana. Pertanto, ogni gesto di attenzione o disattenzione, ogni linguaggio verbale o paraverbale, ogni atteggiamento e comportamento sono costantemente sotto lo sguardo proprio e delle sorelle con cui si vive e se la vita fraterna non è animata dalla gioia e dalla carità, questa condizione può divenire molto impegnativa. La qualità della relazione in clausura sarebbe bene si valutasse sull’amore, cioè sulla concreta donazione di sé, non tanto nell’esteriorità del servizio o delle opere, poichè la sofferenza, il sacrificio, il lavoro non misurano l’amore. Spesso sono forme di autogiustificazione. L’amore vero non ha forma e perciò può essere una “minaccia” ed al contempo una sfida alla fede, al sacrificio e alla mistica . La porta lasciata aperta ad una sorella anziana che fatica a camminare verso una stanza, una porzione di tempo libero dedicato alla sorella più malata, farsi carico dei lavori più pesanti, anche solo sollevare una cassetta di frutta più pesante per alleggerire la sorella oppure sostituire una sorella in difficoltà nel servizio per lei più faticoso, la pulizia di un bagno che sarà usato dopo da un’altra sorella, sono tutti gesti e parole che potrebbero apparire insignificante e quasi ovvii, ma in realtà misurano il “peso” dell’amore, cioè dell’attenzione di mente e cuore verso le sorelle con cui si vive e non hanno una “forma predefinita” che possa apprendersi da manuali o biografie di santi. Tali attenzioni sembrano indispensabili per poter crescere e preparare atti di donazione più grandi, soprattutto nelle responsabilità comunitarie, in quanto lo spirito di donazione è dono dello Spirito Santo e ciascuna monaca è chiamata a custodirlo e a farlo fruttificare in comunità mediante l’esercizio quotidiano di piccoli atti di donazione. Nella dimensione “microscopica” della carità nella quotidianità (c.d. mistica del quotidiano) sembrano nascondersi la carità o l’egoismo, la benevolenza o la malizia, la sincerità o la teatralità, tutto dipende dall’intenzione con cui la monaca li compie e su questo ella può interrogarsi sulla qualità della propria vocazione religiosa, anche e soprattutto quando può esservi stato un ripiegamento della religiosa su se stessa, cadendo nella tentazione tanto evidenziata da Papa Francesco in VTD n. 11 con queste parole: “Tra le tentazioni più insidiose per un contemplativo, ricordiamo quella chiamata dai padri del deserto “demonio meridiano”: è la tentazione che sfocia nell’apatia, nella routine, nella demotivazione, nell’accidia paralizzante. Come ho scritto nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, questo porta lentamente alla «psicologia della tomba, che poco a poco trasforma i cristiani in mummie da museo. Delusi dalla realtà, dalla Chiesa o da se stessi, vivono la costante tentazione di attaccarsi a una tristezza dolciastra, senza speranza, che si impadronisce del cuore come “il più prezioso degli elisir del demonio”». Le parole di J.H. Newman che mi permetto di riportare: “nulla c’è di più propenso a generare abitudini egoiste (che sono la più diretta negazione della carità) che l’essere indipendenti nel nostro modo di vita. Coloro che non hanno legami personali o stimoli ad esercitare quotidianamente la comprensione e la tenerezza, coloro che non devono consultare nessuno per fare il proprio comodo, e vanno e vengono come pare loro, coloro che possono permettersi di cambiare come vogliono e permettersi quei cambiamenti d’umore così tipici nella maggior parte delle persone, faticheranno molto per ottenere il dono celeste che viene descritto nella liturgia come ‘il vincolo della pace e di tutte le virtù” , descrivono quella che potrebbe definirsi la “periferia esistenziale claustrale”, cioè la condizione di monache che purtroppo – con parole di Papa Francesco – perdono “la memoria della vocazione, del primo incontro con Dio, del carisma che ha fondato il monastero” e quando perdono “questa memoria e l’anima comincia ad essere mondana, pensa cose mondane e si perde quello zelo della preghiera di intercessione per la gente ”. Pertanto, se la monaca di clausura si sente in difficoltà rispetto alla clausura che lei stessa ha scelto, sarebbe più prudente che si domandasse se le difficoltà sono realmente legate alle modalità della clausura (pur nelle diverse possibilità) oppure se vi siano difficoltà di vita religiosa più profonde, relative innanzitutto alla propria relazione personale con Gesù, alla fedeltà nella preghiera o al modo di vivere i voti di povertà, castità e obbedienza, celando le proprie sofferenze e frustrazioni in altrettanti ed invisibili atti di autodifesa che potrebbero apparire esternamente come aggressività, disimpegno, disinteresse e “fuga” virtuale o effettiva dalla comunità, ma che in realtà sono stati di dolore personale che sembra inutile qualificare e giudicare dal punto di vista morale, quanto piuttosto sarebbe utile trovare soluzioni ed offrire strumenti di guarigione e cura spirituale, psicologica e fisica.
NOTE:
[1]Papa Francesco, Incontro con religiose e religiosi della Diocesi di Roma, 16 maggio 2015, https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/may/documents/papa-francesco_20150516_religiosi-roma.html
[2]Larranaga X., L’esistenza consacrata nella Chiesa, cap. 4, punto 4.2.
[3]Larranaga X., L’esistenza consacrata nella Chiesa, cap. 3, punto 3.1, nota 86.
[4]Papa Francesco, Incontro con religiose e religiosi della Diocesi di Roma, 16 maggio 2015, cit.
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love-nessuno · 5 years
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LA MALINCONIA DEL NATALE
“Le coincidenze nel calendario non sono mai casuali, come non lo sono i simboli di cui è tessuta la trama dei giorni” [Alfredo Cattabiani, Calendario, p.66]
Pensare il Natale equivale pensare giorni di letizia e frenesia.
I supermercati sono gremiti, la convulsione consumistica ci consuma, i preparativi sono appassionati, e finalmente si festeggia tutti insieme, immersi tra luci, doni e giochi.
Ma sicuro che il Natale sia solo questo?
Guardo fuori di me e vedo tutta l’esteriorità. Guardo dentro di me e vedo il buio, l’angoscia, la depressione, il freddo, una sottile malinconia saturnina che mi accompagna per tutto il periodo natalizio.
Il Natale è un rovesciamento saturnino. Il buio diventa luce, il povero diventa ricco di doni, la morte diventa nascita, il freddo diventa il caldo della famiglia.
Il Natale porta con sé una malinconia Saturnina che non posso ignorare.
Questo articolo vuole scoprire la motivazione di questo sentire, di questa sorta di schizofrenia natalizia. Per fare ciò ho analizzato la figura iconica del Natale, ovvero Babbo Natale.
[Per gli junghiani più appassionati preciso che non parlerò di opposti ma di rovescaimenti. Il rovescio di una medaglia non è un opposto. L’opposto si oppone e guarda in faccia l’altro. Il rovescio si gira e subentra all’altro. Sono due dinamiche totalmente differenti]
NASCE BABBO NATALE
È il 1863 e nasce il moderno Babbo Natale. Thomas Nast, disegnatore tedesco, per la rivista Harper’s Weekly rappresenta, per la prima volta, la moderna icona del vecchio rubicondo che consegna i doni.
La nuova figura di Babbo Natale è una commistione di culture e archetipi: gli elfi della cultura celtica, la cultura greco-romana e la religione cristiana.
Ma la consacrazione definitiva dell’immagine di Babbo Natale lo dobbiamo alla CocaCola [1930] e ai suoi disegnatori Fred Mizen e Michigan Haddon Sundblom.
Il modello per Babbo Natale era un amico di Michigan, un certo Lou Prentiss, un venditore in pensione.
Già dalla rappresentazione dell’immagine di Babbo Natale vediamo la commistione di due aspetti: l’aspetto religioso, fantastico, spirituale e profondo e l’aspetto della superficie, della speculazione e del commercio.
Babbo Natale è una figura che porta con sé una profonda ricchezza archetipica.
SATURNALIA
Ho imparato da Henry Corbin che quando voglio capire un’immagine devo andarne all’origine, ovvero compiere un’azione di Ta’will.
Il Natale nell’antica Roma era rappresentato dai Saturnalia, ovvero un periodo di festa in onore al dio Saturno/Cronos.
Durante i Saturnalia i ruoli si invertivano, i poveri diventavano ricchi e i cattivi diventavano buoni.
Il primo giorno veniva nominato in ogni comunità un Rex Saturnaliorum che regnava per una settimana fra banchetti, giochi d’azzardo (proibiti nel resto dell’anno) e danze che spesso sconfinavano in orge, mentre i ruoli sociali s’invertivano: gli schiavi potevano burlarsi del padrone e farsi servire a tavola. [A.Cattabiani, Calendario, p.60]
L’origine dei Saturnali è avvolta nel mistero e non può essere esplicitata attraverso le parole, bensì risiede nell’oscurità dell’inconscio e del mondo infero, lì dove lo sguardo non può arrivare.
Macrobio ci ricorda che grazie a quel principe (Saturno) ci elevammo da una vita informe e oscura alla luce e alla conoscenza delle arti liberali. [Macrobio Teodosio, I Saturnali, I, 7, 32]
Il Natale/Saturnalia è il momento in cui si incontrano e si mescolano i due lati della medaglia. Infatti così come in Saturno sono presenti depressione ed età dell’oro, anche nel Natale sono presenti contemporaneamente la luce e il buio.
Sembra quindi che il Natale sia un’esigenza Psichica, un rovesciamento che proviene dall’interiorità.
Il Natale è il ritorno di Saturno, e quando regnava Saturno nel mondo era presente l’aurea aetas, ovvero la mitica età dell’oro.
Nel periodo più buio dell’anno si sente l’esigenza di accendere quante più luci possibili. Nel periodo più freddo ci si vuole riscaldare.
Sono abruzzese e non posso dimenticarmi il film famoso in tutto il mondo girato proprio nelle nostre montagne presso Roccacalascio: Ladyhawke. In questo film i due amanti falco e lupo sono “sempre insieme ma eternamente separati”. C’è solo un piccolo momento della giornata in cui possono incontrarsi solo per pochi attimi.
Il Natale è archetipicamente proprio questo: il luogo d’incontro delle parti di un archetipo che sono sempre insieme ma eternamente separate: il buio della notte e la la luce della coscienza.
In Saturno abbiamo la presenza contemporanea della depressione plumbea e dell’età dell’oro. La stessa cosa vale per il Natale.
BABBO NATALE È SATURNO
“La funzione di Saturno si ritrova, secondo Margarete Riemscheider, in San Nicola o nei personaggi omologhi che distribuiscono doni in dicembre. Che per distribuire i doni ai nostri bambini scomodiamo un incolore Babbo Natale o invece un burbero Knecht Ruprecht o san Nicola o il Pelzickel, dietro tutte queste figure sta sempre l’invernale Saturno.” [Alfredo Cattabiani, Calendario, p.65]
Babbo Natale è quindi Saturno, con i suoi doni, la sua età dell’oro e anche con i giochi d’azzardo. Infatti Saturno era legato anche a questi. Non a caso durante il Natale facciamo festa con i vari giochi della tradizione.
Babbo Natale ha in sé questo aspetto malinconico saturnino e aureo.
La Malinconia del Natale è la malinconia di Babbo Natale/Saturno. Saturno porta con sé l’età dell’oro e il Natale, ma al tempo stesso ci fa soffrire di una plumbea pesantezza.
Sia Ficino che Hillman individuano in Saturno la depressione e la ricchezza:
Un giorno Hillman, durante una conferenza in un’università. Fu interrogato sulla depressione. Com’è – si chiedevano gli studenti – che la sua psicologia si riferisce così spesso alla depressione come sostenendola? Tanto che alcuni critici pensano che lui e i suoi seguaci debbano essere dei tipi depressi. La replica di Hillman fu che la depressione è una risposta al diffuso attivismo maniacale, e che è un morire al mondo selvaggio del letteralismo. Sentendoci abbattuti e pesanti, siamo costretti a spostarci verso il dentro, a rivolgerci alla fantasia invece che all’azione letterale dell’Io. E questo spostamento verso l’interno è necessario per l’anima perché crea uno spazio psichico, un contenitore per una riflessione più profonda, dove l’anima cresce e la superficie degli eventi diventa meno importante. [… ] Saturno ci sospinge ai margini, dove le nostre immagini diventano primordiali, affinate e lontane dai nostri consueti schemi di riflessione, dalle nostre immagini abituali e dai riferimenti personali. [T.Moore, Pianeti Interiori, p.199]
Cristo, Erode e Babbo Natale
Il Natale, il 25 Dicembre, è il vero inizio che porta con sé la nascita. Esistono vari tipi di calendari con i loro inizi, ma ciò che li accomuna tutti è il Natale.
È appena finito l’autunno ed è cominciato l’inverno, la stagione più buia, il momento più oscuro dell’anno. Ed è proprio in questo momento che “avviene” il Natale.
In questo giorno Cristo si incarna.
Il Natale è la festa Cristiana che più di tutte ha radici profonde nell’antica Roma.
Natus est Christus in Betlem Judae 354 d.C.
In precedenza l’imperatore Aureliano aveva fissato per il 25 Dicembre il Natale del Sole Invitto, il Sol Invictus.
Molti cristiani erano attirati da quelle feste spettacolari; e la Chiesa romana, preoccupata dalla straordinaria diffusione dei culti solari e soprattutto del mitraismo che, con la sua morale e spiritualità non dissimili al cristianesimo, poteva frenare se non arrestare la diffusione del Vangelo, pensò di celebrare nello stesso giorno il Natale del Cristo come vero Sole. [Alfredo Cattabiani, Calendario p.70]
Il Natale quindi, in questo intreccio di religioni, porta sempre con sé una nascita.
La nascita della cultura che mi è più vicina è quella di Gesù Cristo. Il Figlio di Dio è simbolo dell’archetipo del fanciullo, ovvero del puer.
Spesso crediamo nell’innocenza e nella purezza del bambino e in particolare del Fanciullo divino. Questo è una scotomizzazione dell’archetipo. Il bambino è un archetipo, ed innocente significa che non arreca danno, da nocere, nocens, far danno, nuocere. Innocente è parola negativa, significa qualcosa che non è, in questo caso che non arreca danno. È molto strano che a fronte di un simbolo archetipico sia stata posta una parola che significa che esso “non può arrecare danno”. Se non è una difesa questa, non so proprio cosa lo sia. Ciò che io non voglio che sia, non può essere. Con il simbolo del bambino innocente si afferma immediatamente che questo archetipo non può apportare alcun danno, non può nuocere. La mitologia cristiana ci presenta le cose in modo diverso. Erode fu indotto ad essere assassino di bambini in conseguenza della nascita del Bambin Gesù. Come può un fanciullo essere innocente, non nuocere, quando induce in un re uno sconvoglente panico omicida? Erode appartiene tanto al simbolo dell’archetipo del fanciullo quanto al Bambin Gesù, l’ombra appartiene sempre alla luce. Non è cosa psicologica scindere i simboli. [A.Guggenbühl–Craig, La parte nascosta, p.136/137]
Guardando il Natale quindi non possiamo solo apprezzarne la nascita, ma dobbiamo costatarne anche la morte.
Babbo Natale è spesso accostato all’immagine dei tre Re Magi: Caspar, Baltasar e Melchior, i portatori di doni. Ma questa è un’analisi superficiale e riduzionistica. Infatti Babbo Natale porta con sé un altro tipo di archetipo.
Ogni figura archetipica ha diverse sfaccettature. La stessa cosa vale per il vecchio rubicondo Babbo Natale.
Babbo Natale è una figura spietata. Riesce a dividere il mondo in bene e male; divide i bambini in bambini buoni e bambini cattivi.
Non dona regali a qualsiasi bambino, bensì solo a quelli buoni.
Questo tipo di comportamento ricalca proprio Erode. Erode come Babbo Natale, di fronte ad una nascita, va alla ricerca dei bambini.
Entrambi iniziano un percorso che li conduce a suddividere i bambini in buoni e cattivi, andando casa per casa. In particolare Erode fa un censimento per suddividere i bambini in “buoni e cattivi”, secondo il suo punto di vista.
Chi informa Erode della nascita di Cristo? I Re Magi. Vediamo come il lato che divide (Erode) e il lato che dona (I Re Magi) sono fusi tra di loro.
Inoltre il lato che divide il modo in bene e male è anch’esso un aspetto saturnino; infatti Cronos con la sua falce ha la capacità di tagliare e dividere.
Babbo Natale accade da un lato attraverso la figura dei tre Re Magi che consegnano doni ai bambini, dall’altro attraverso Erode che suddivide il mondo in buono e cattivo.
BABBO NATALE / S.NICOLA
Un altra figura legata a Babbo Natale che non possiamo ignorare è S.Nicola.
San Nicola è una figura universale. Visitando le chiese d’Europa si può facilmente cogliere quanto questo santo sia amato, e quanto sia diffuso il culto di questo grande taumaturgo, vero ponte tra Oriente e Occidente, che nell’appellativo “taumaturgo”, “che compie meraviglie”, vede riconosciuta la potenza della sua intercessione. [F e G.Lanzi, Come riconoscere i Santi e i Patroni, p.111]
Nel medioevo S.Nicola era Sanctus Nicolàus, dal greco nikolaos, nikan [vincere] e laos [popolo] ovvero vincitore fra il popolo.
Gli olandesi in seguito lo chiamarono Santa Claus.
La notte di Natale, oltre la nascita, porta con sé sempre buio e violenza. Saturno che divora i figli che nascono o Erode che commette la “strage degli innocenti”. Ogni nascita è portatrice di innocenza e violenza. Nella cultura Germanica, dalla canna fumaria poteva scendere Babbo Natale con i doni, ma anche un demone selvaggio che smembrava i bambini.
Anche la mitologia si S.Nicola porta con sé questo lato oscuro dell’archetipo natalizio. In particolare si ricorda che fece liberare tre ufficiali bizantini accusati ingiustamente di tradimento e condannati a morte: le storie li chiamano “innocentes”, innocenti, e poiché gli innocenti per eccellenza sono i bambini, nei racconti e nelle iconografie divennero i tre bambini. Si diffuse così la leggenda dei tre bambini fatti a pezzi e messi in salamoia da un oste malvagio: ciò che sarebbe accaduto proprio la notte di Natale. Nicola se ne accorse e li resuscitò. [F e G.Lanzi, Come riconoscere i Santi e i Patroni, p.112]
CONCLUSIONI
Babbo Natale è una figura completa, porta con sé demoni e doni. In molte culture infatti è seguito da una sorta di corteo dionisiaco fatto di creature demoniache. Babbo Natale è Saturno in tutta la sua ricchezza, ma anche Erode, i Re Magi e San Nicola.
Il Natale stesso è morte e nascita, povertà e ricchezza, freddo e calore. In particolare è il luogo nel quale si incontrano le immagini sempre insieme ma eternamente separate. Il Natale è il tempo di questa unione.
La superficie e il mondo infero si guardano negli occhi e si amano. Nel film LadyHawke, che ho precedentemente citato, il Falco e il Lupo sono condannati a stare insieme solo in un preciso momento, ovvero in una notte senza il gorno e un giorno senza la notte, quando luna e sole si sovrappongono incontrandosi.
Il falco è il messaggero del dio Apollo, diventato in seguito il Sol Invictus e il Dio/Cristo. Simbolo quindi del giorno e della coscienza, di tutti gli aspetti superficiali ed aurei del Natale.
Il lupo invece, in tutti i miti antichi, è simbolo delle potenze oscure, degli istinti e dell’inconscio, quindi dell’aspetto plumbeo e malinconico del Natale.
I due amanti, la coscienza e l’incoscienza, si amano ma non possono incontrarsi se non in pochi attimi fuggenti. Durante l’anno questo momento è rappresentato dal Natale.
Il Natale è una notte senza il giorno e un giorno senza la notte. Babbo Natale è l’immagine che incarna questo tempo e questo luogo dell’incontro impossibile dei due amanti divisi dal destino.
Nella nostra psiche questo momento Natalizio è importante perché è il momento in cui è possibile l’incontro di parti di noi inaccessibili e di conseguenza del cambiamento.
Accogliere la parte solare e la parte notturna e demoniaca del Natale, significa accogliere in sé un cambiamento.
Tanti Auguri di buon natale!
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paoloxl · 6 years
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Viviamo nell’era della città. Essa è da sempre il luogo in cui si incontrano le differenze, le diversità,  di età, provenienze, occupazione; città di incroci, migrazioni, interne, esterne e oltre oceano, che trasformano le strutture urbane, ridefinendone, contestualmente, le possibilità. E’ qui, nella città, che il diritto alla differenza è sia il più prezioso sia il più violento, da cui nasce divisione, marginalizzazione, esclusione.
Dal nord al sud dell’Italia, i sindaci "disobbedienti" al decreto Salvini paiono suggerire che, in fin dei conti, l’ineguaglianza è sì, qualcosa che la città crea ma è anche qualcosa che la città può risolvere [1], rifiutando la giustizia come formula privata, i diritti come privilegi, le leggi discriminanti; in breve, rifiutando il paradigma definibile come ’complesso commercial-carcerario- assistenziale’ in cui una minoranza sorveglia, punisce e, all’occasione, neutralizza la popolazione urbana povera.
Già le chiusure, i controlli spaziali, la sorveglianza, la militarizzazione della polizia, hanno modificato le dinamiche urbane, scansionando lo spazio virtuale o lo ’scanorama’, uno ’spazio di visibilità protettiva che definisce ulteriormente i luoghi dove gli impiegati e i turisti borghesi si possano sentire sicuri [2]’.
La città ha provveduto alla sicurezza, ai bisogni, agli affari, ai piaceri, alle eredità ed ai capitali di alcune famiglie soltanto, non promuovendo programmi di uguaglianza sociale ma anzi diminuendo gli accessi ai servizi di supporto per uomini e donne posizionati malamente, marcando la marginalizzazione spaziale dei suoi abitanti.
(Nelle credenze di Bersabea c’è una parte di vero e una d’errore. Vero è che due proiezioni di se stessa accompagnino la città, una celeste e una infernale; ma sulla loro consistenza ci si sbaglia, l’inferno che cova nel più profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegnata dai più autorevoli architetti, costruita coi materiali più cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno e orologeria e ingranaggio - Calvino, Bersabea, Le città e il cielo.)
Nelle nostre città, alcune scuole pubbliche sono state riservate ad una maggioranza autoctona ed i suoi fondi, insieme a quelli per imprese e cultura, sono stati utilizzati per pagare sussidi, pensioni ed interessi.
La casa è stata pensata come bene economico su cui speculare attraverso abusivismi e corruzioni, speculazioni e privilegi, degrado ed insicurezze e non è stata mai interpretata in termini di servizi sociali per sfollati, disoccupati, lavoratori precari, giovani o anziani. Le garanzie politiche che tutelano l’accesso al mondo del lavoro e alla sicurezza nel suo adempimento sono state dimenticate [3].
L’inefficienza della burocrazia, le disfunzionalità, la frammentazioni regionali e periferiche, i deficit democratici, questo vasto insieme di variabili multiple [4], restituiscono ai nostri occhi una città incerta per i cittadini che vivono in situazioni di mobilità, di uscita o stabilizzazione nella povertà o di percorso migratorio.
La guerra alla democrazia è stata accompagnata dalla diminuzione delle politiche di intervento sociale, dalla polarizzazione dei tessuti urbani e  dall’emergenza della città dualista.
(Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive d’un lago […] così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta […] le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso e gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l’un per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano - Calvino, Valdrara, Le città e gli occhi.)
La città ha aumentato le espressioni asimmetriche, sempre più distante da quei processi di pacificazione che soli rendono inclusiva la popolazione interna e che in assenza, ne prolungano le gravità [5].
Questa città - duale - ha rifiutato i senza casa, i senza reddito, i senza residenza, i richiedenti diritti e ha fato irruzione nelle loro vite, indecorosamente, producendo nuovi poveri ed ulteriori sfollati, gettandoli in strada, senza la famiglia, il lavoro, gli amici, i punti di riferimento, senza  identità. La città duale ha insistito sulla persecuzione interna degli stranieri, aumentandone le complessità in un modo precedentemente sconosciuto.
In nome della sicurezza e dell’insicurezza, sono state fondate nuove categorie di ineguaglianza e pregiudizi (new patterns of inequality and prejudice), nuove categorie di alterità e nuove categorie di segregazione (new patterns of segregation) rilegando gli ’invisibili’ in aree specifiche per segregazione, esperienze abitative e opportunità residenziali [6].
Photo credit: Vanna D’Ambrosio, Macerata - 10 febbraio 2018
Si è autorizzato, così, il passaggio dallo stato sociale allo stato penale [7], per mezzo di una città non inclusiva, non condivisa, non sostenibile, non resiliente, non innovativa e democraticamente non giusta alle necessità dei suoi abitanti ma proiettata alla criminalizzazione delle marginalità e delle fragilità sociali, dallo Stato abbandonate (rifugiati [8], cassaintegrati, disoccupati).
Pestaggi a sangue, massacri di botte, fermi ingiustificati, scritte fasciste e svastiche sui muri, atti violenti, insulti verbali, si sono consumati nelle nostre città moltiplicando i pericoli ed i rischi della vita quotidiana. Nei centri cittadini di Macerata, Firenze si sono consumati barbari assalti e omicidi a sfondo razzista.
Secondo Davis e de Duren’s, i conflitti emergono in città dove ’a popolazioni diverse sono negati gli accessi a istituzioni formali o informali per la presentazione di reclami, per influenzare la politica urbana o per difendere i diritti di cittadinanza o gli obiettivi di identità [9]’.
Roma. Anno 2018
E’ facile arrivare alla conclusione che esiste una città divisa [10] e una segregazione spaziale e sociale.
A Roma, quello passato, è stato un anno all’insegna della sicurezza: la città ha seguito i conflitti sociali che lo Stato ha costruito secondo i principi della sicurezza; per Stephen Graham, il solo criterio della legittimazione politica. In un’ottica complessiva, lo Stato si è trasformato dall’essere una magnifica macchina da guerra in una molteplicità di organizzazioni interne che perseguono lo stesso fine [11]: la manipolazione sociale e le politiche urbane, per prime, ne chiariscono gli antagonismi, le tensioni e i conflitti interni.
Sul versante opposto, invece, c’è chi ritiene che la città dovrebbe essere sviluppata ’per garantire la sostenibilità umana, soprattutto quando le nazioni falliscono nel farlo [12]’.
Gli studi condotti sul sentimento di insicurezza dimostrano che esso è strutturalmente connesso al governo dei nuovi processi di esclusione sociale, il modo più appropriato per naturalizzare il porsi di nuovi modelli sociali di esclusione.
Non occorre, dunque, un’esperienza diretta con la violenza per aumentare l’insicurezza : difatti, mentre i crimini diminuiscono, la paura aumenta. ’Il panico sociale per la criminalità è un concetto pigliatutto che omologa insicurezze soggettive e collettive diverse ed eziologicamente anche disomogenee [13]’.
Lo Stato si assume a garante del sentimento di sicurezza/insicurezza ed, attraverso ciò ha avviato una produzione giuridica e culturale intrecciata di potenze, leggi, laboriosità e negazione dei diritti; una tecnologia governamentale, che costruisce normativamente l’irregolarità al fine di alimentare insicurezze e legittimare la politica del controllo.
In contesti multietnici e di forte diversità sociale il sentimento di insicurezza tende ad accentuare una visione socialmente differenziatrice e classificatoria delle società, contribuendo all’espansione di ideologie segregazioniste. In un crescente clima di autoritarismo, nella città di Roma, sgomberi ed evacuazioni si sono susseguite spettacolarmente moltiplicando la schiera degli invisibili.
(La città di Sofronia si compone di due mezze città. […] una mezza città è fissa, l’altra è provvisoria e quando il tempo della sua sosta è finito la schiodano, la smontano e la portano via, per trapiantarla nei terreni vaghi d’un’altra mezza città - Calvino, Sofronia, Le città sottili.)
’Capisci, erano tredici anni che stavo qua. Tutte le mie cose sono dentro, la stampante che avevo appena comprato. Credimi, avevo tantissimo con me, molte cose di valore che appartengono al mio lavoro. Adesso non ho niente [14]’. Quello che succedeva, ad ogni sgombero, era già scritto nella ridondanza della democrazia istituzionale che, in un baratro di assenze, ’il chiaroscuro dove si generano mostri’, assume i conflitti come propri, controllandoli mediante l’intervento repressivo ed esercitando una sovranità buona soltanto a garantire il mantenimento delle condizioni di ’legge ed ordine’,  funzionali alla riproduzione dei capitali.
’La mia progettazione della struttura urbana […] conserva i determinanti ecologici come il reddito, il valore fondiario, la classe e la razza, ma aggiunge un nuovo fattore decisivo: la paura [15]’.
A Roma, sono state impiegate tutte le forze dell’ordine e le ruspe, dalle più piccole alle più grandi.
A  via Scorticabove, Roma Capitolina ha impiegato oltre 100 unità, tra donne ed uomini, vigili urbani, polizia e servizi sociali, quasi uno ad uno, per provvedere al ripristino della sicurezza pubblica e delegittimare l’intera comunità sudanese di rifugiati politici in tutta la sua presenza, mostrando che gli edifici a tempo rimangono l’unico interesse dell’amministrazione, per un’accoglienza che mira allo sfruttamento ed “all’impoverimento graduale.
Ai plurisgomberati del campo informale del Baobab Experience, invece, le forze dell’ordine hanno impedito che gli attivisti distribuissero la colazione, mentre in una giornata di forte pioggia, cercavano riparo a Piazzale Spadolini.
Alla ex-Penicillina, gli abitanti chiedevano "occorreva tutta sta gente per portarli via? Siete venuti solo con due autobus, vuol dire che lo sapevate quanti erano!”. É stato uno sgombero costato ai contribuenti romani 277 mila euro e l’amianto per cui si richiedeva un’adeguata bonifica rimane sulla Tiburtina.
Discriminatorio, allora, non diventa una negazione diretta o un muro ma le procedure varate per rendere accesso a procedure politiche apposite per un range urbano escludendone un altro [16]”.
Uomini e superdiversi
Amin ha parlato di una società di stranieri e Vertovec l’ha definita ’superdiversità’ di fronte a politiche che non hanno come effetto quello di eliminare gli immigrati ma di renderli più vulnerabili e ricattabili, aumentando la concorrenzialità al ribasso ed incrementando anche le reali possibilità di un loro ingresso nell’economia illegale, in una profezia che si auto-avvera [17]. Per Vertovec, una ’diversificazione della diversità che si distingue per una dinamica interazione di variabili tra un numero crescente di immigrati nuovi, piccoli e dispersi, con più origini, transnazionalmente connessi, socio-economicamente differenziati e legalmente stratificati, arrivati nell’ultimo decennio [18]’.
Li hanno condannati alla dispersione, all’estesa criminalizzazione della miseria [19], creando, insieme, ’ossessioni dei contagi, della peste, delle rivolte, dei crimini, del vagabondaggio’ e sofferenza sociale, ’persone che appaiono e scompaiono, vivono e muoiono nel disordine’.
Una moltitudine di persone, (ed ancora di più) sono già rimaste in strada.  Uomini donne e bambini, non tutelati da alcun diritto, per un ’massacro vitale’, che seleziona arbitrariamente chi ha il permesso di condurre una vita che deve essere protetta e chi non lo ha perché inferiore pro specie, vita che può essere negata e/o uccisa.
Li hanno gettati sulla strada, tra le automobili, stanchi e pieni di polvere insieme alle poche cose che hanno potuto salvare e null’altro, richiedenti ed ancora bisognosi d’aiuto.
Li hanno violati nell’intimità, aprendo i loro armadi, entrando nelle loro case, sgomberando tutto ciò che per certi "uomini" non aveva alcun valore.
(Le proprietà della città doppia sono note. Più la Laudomia dei vivi s’affolla e si dilata, più cresce la distesa delle tombe fuori le mura […] e per sentirsi sicura la Laudomia viva ha bisogno di cercare nella Laudomia dei morti la spiegazione di se stessa, anche a rischio di trovarvi o di più o di meno - Calvino, Laudomia, La città e i morti.)
Roma ha prodotto bambini stanchi abbracciati alle mamme tristi, uomini in strada che sul corpo portano la memoria di idranti, cariche e ruspe, un disastro umano che ha riversato sul tessuto urbano tutta la fragilità e la violenza di leggi parziali e di un diritto minore.
Una città ridisegnata ad anelli di potere che forma e legittima una superdiversità, aliena dalla pratiche cittadine, e per questo ciclicamente minacciata dalla privazione dei diritti e perseguibile per un autoritarismo sovrano che ha generato, in tutta Europa, nuove ineguaglianze e conflitti politici. Internamente, le politiche locali sono state utilizzate per migliorare l’ineguaglianza: ’qualunque città, sebbene piccola è, in realtà, divisa in due, una città del povero, l’altra del ricco. Queste due città sono in guerra l’una con l’altra [20]’.
(Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo - Calvino, Fedora, Le città e il desiderio.)
Note
[1] R. Schragger, City power: Urban Governance in a Global Age. “Inequality is said to be something that the city creates and somehing that a city can solve”
[2] M. Davis, L’ecologia della paura. “Quando tutto il resto fallisce, la casa intelligente diventa una combinazione di un bunker e di un deposito di armi […] Continuiamo a permettere che i centri delle nostre città degenerino in terzi mondi criminalizzati, tutta l’ingegnosa tecnologia di sicurezza, presente e futura, non salverà l’ansiosa borghesia”
[3] Nel 2018 sono stati 702 i morti sui luoghi di lavoro e oltre 1.450 i morti sulle strade e in itinere.
[4] Vedi l’antropologia ’of  local micropolitics of everyday interaction’ di Amin
[5] Tilly, The Politics of Collective Violence, p. 10  ’Systematic discrimination and neglect embodied in state institutions at the city and supra- urban levels are central to almost all civic conflicts’
[6] Cfr, Robinson e Reeve 2005, Zetter 2005,  Rudiger 2006
[7] L. Wacquant, Dallo stato sociale allo stato carcerario, 1998
[8] Per Hannah Arendt, essere rifugiati era un modo per perdere i propri diritti, soprattutto in riferimento alla cittadinanza, il diritto che rende tutti esseri umani
[9] Cit. in Cordes, City Soverignty. Urban Resistance and Rebel Cities Reconsidered, 2017. “divergent populations are denied acces to formal or informal insitutions for claim-making, for influencing urban policym or for advocating for citizenship rights or identity aims”
[10] Cfr. Borja e Castells 2002 (Città duale); Paone 2008 (città in frantumi); Fainstein (Divided Cities); Burgess (Fragmentated Cities); Mollenkopf (Dual Cities); Marcuse (Partitioned Cities)
[11] Tilly, 1994. "States changed from magnified war machine into multipurpose organizations"
[12] Barber in V.F.Cordes, City Soverignty: Urban Resistance and Rebel Cities Reconsidered, 2017. "To secure human sustainability, especially when nations fail to do so’’.
[13] Lagrange,  1992
[14] Testimonianza di un rifugiato sudanese dopo lo sgombero in Via Scorticabove
[15] Davis, 1994a, p.46
[16] Cfr. Hardt, Negri, 2017. “This common is not only the earth that we share but also the languages we create, the social practices we estabilish, the modes of sociability that define our relationship, and so forth
[17] Mosconi, 2010
[18] Vertovec, ’Opinion: Superdiversity revealed”, 2015
[19] Wacquant, 2006
[20] Platone: "Any city, however small, is in fact dividev into two, one the city of the poor, the other of the rich; these are at war with one another"
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wdonnait · 3 years
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Giuseppe Russo, biografia dell'ideatore de "Il mio viaggio a Napoli"
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Giuseppe Russo, biografia dell'ideatore de "Il mio viaggio a Napoli"
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Giuseppe Russo è l’ideatore de “Il mio viaggio a Napoli”.
Si tratta di un blog ispirato al progetto di Piero Armenti “Il mio viaggio a New York”, con l’obiettivo di promuovere le bellezze di Napoli. Questo spazio virtuale nasce proprio durante il periodo del lockdown, che ha costretto milioni di persone a restare chiusi in casa.
Così, Giuseppe ha pensato ad un modo per far viaggiare (almeno con la mente) la gente, portandola nel cuore di Napoli, una città spesso soggetta a pregiudizi. Ma prima di capire cos’è Il mio viaggio a Napoli, scopriamo qualche informazione in più su di lui!
Giuseppe Russo biografia
Giuseppe Russo ha 26 anni ed è nato e cresciuto a Napoli.
Quando ha raggiunto la maggiore età, ha scelto di arruolarsi nel corpo dell’Esercito Italiano.
Egli è sempre stato un grande amante dei viaggi ma soprattutto della sua città, dove vive tuttora. Sin da piccolo (afferma nella presentazione del suo blog) ha ascoltato una serie di pregiudizi sul capoluogo campano, che andavano a distorcere la realtà dei fatti.
Sicuramente, Napoli ha dei difetti (come quasi ogni città) ma altrettanti pregi che restano ignoti. Ed è proprio per tale motivo, che Giuseppe ha deciso di avviare un progetto social, durante il periodo di lockdown. Così, mentre era a casa, ha pensato ad un modo per valorizzare la sua terra, così come tutta la regione Campania.
Nasce così “Il mio viaggio a Napoli”, di cui il nome trae appunto ispirazione dalla pagina di Piero Armenti, in riferimento alla Grande Mela.
Giuseppe Russo napoli
Il suo progetto nasce con l’intento di promuovere Napoli dal punto di vista economico ma soprattutto turistico.
Sebbene ogni anno la città risulti visitata da milioni di turisti provenienti da ogni parte del mondo, è anche vero che se ne sentono di tutti i colori. Infatti Russo, spiega che il capoluogo campano non è soltanto la terra di Gomorra ma molto di più.
Lo mostra attraverso una serie di scatti e video, che è possibile scovare sul suo blog Il mio viaggio a Napoli, che sulle pagine Facebook e Instagram.
A prescindere dalle bellezze naturali, storiche e monumentali, Giuseppe mostra l’anima della città. Di conseguenza, ne sottolinea il folklore, la vivacità, i colori, le tradizioni ed ovviamente il buon cibo.
Nonostante sia nato da poco tempo, il blog di Giuseppe Russo vede già migliaia di visualizzazioni al mese. E non mancano di certo le numerose condivisioni dei contenuti multimediali da parte dei followers e di chi si imbatte per la prima volta in questo progetto made in Italy.
Giuseppe Russo il mio viaggio a Napoli
Cosa si può trovare esattamente su sito Il mio viaggio a Napoli?
Visitando il blog, troverete diverse sezioni. In quella intitolata “chi sono”, c’è la biografia di Giuseppe Russo e la sua idea di voler creare questo progetto.
Ma non mancano di certo i tour, in cui avrete la possibilità di consultare dei pacchetti turistici, utili per visitare Napoli senza dover spendere un occhio della testa. Tra i più gettonati, troviamo: Centro Storico, Pompei, Rione Sanità Cuore di Napoli, Napoli di giorno e Maradona.
Ovviamente, potrete scegliere se girare la a piedi, con l’autobus o altri mezzi. Insomma, questo blog è un concentrato di attività, esperienze e tour che consentono al visitatore di conoscere la vera anima della città.
Il mio viaggio a Napoli Facebook
La pagina facebook Il mio viaggio a Napoli conta attualmente più di 700 mila seguaci.
Qui, Russo condivide quotidianamente ciò che accade tra le strade della città e documenta nel dettaglio alcuni luoghi famosi. Il suo è proprio uno spirito di rivalsa, verso una Napoli disprezzata e soggetta a discriminazioni.
In un’intervista per il Golfo Quotidiano, afferma: “Quando si parla di Napoli, sono sempre i pregiudizi ad iniziare. E il risultato è il quadro di una Napoli sporca e malfamata. Si, tutto questo deve finire, dov’è la Napoli dai mille colori di Pino Daniele, la Napoli del teatro, della canzone e delle tradizioni culinarie riconosciute in tutto il mondo?”.
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mezzopieno-news · 3 years
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COMBATTERE O ADATTARSI: IL DONO RECIPROCO DEL COMPROMESSO
Editoriale
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Un grande sistema interconnesso di persone che pensano, vivono e agiscono in modo differente. La meraviglia della moltitudine e della diversità, ma anche la grande Torre di Babele. Il mondo si sviluppa in tante direzioni, si espande e cammina seguendo molti flussi, talvolta convergenti, a volte opposti. Ogni gesto che compiamo segue la linea delle nostre ambizioni e contribuisce a realizzare una parte del nostro cammino nella ricerca di dare senso all’esistenza. Questa è la spinta inesauribile a cui tutti rispondiamo ma è anche ciò che ci distingue, ci differenzia e ci mette in confronto con gli altri.
Punti di vista diversi, opinioni, modi di vivere e obiettivi differenti sono il risultato di personalità, culture ed esperienze eterogenee e della enorme e straordinaria varietà del pensiero. Il confronto è la modalità con cui ci poniamo davanti ad una idea “altra”; trasformarlo in dialogo è il modo vivificante per elevarlo a un vero incontro. La forza che poi rende fecondante ogni incontro è quella che riesce ad andare oltre il mutuo rispetto per diventare un mutuo arricchimento. Accostarsi all’altro andando oltre la tentazione di prevalergli, cercando di aprirsi senza timore, disposti anche a perdere le proprie posizioni è il modo più fertile di vivere gli incontri e quello che si riveste del più ampio significato di un gesto di amore. Un confronto che può trovare il suo compimento armonioso attraverso il delicato dono del compromesso.
A volte ci chiediamo se sia più giusto combattere per proteggere le nostre convinzioni o essere tolleranti nei confronti di quelle degli altri, aprirsi o difendersi. Condurre o lasciar andare. Il compromesso è quello che ci permette di equilibrare questi diversi approcci e quando riesce a proteggere l’obiettivo più elevato, al di sopra di ogni altra cosa, lo può innalzare ad un vero e proprio gesto di pace. Il compromesso è il sacrificio di una cosa buona o giusta concesso per conservarne un'altra di valore superiore. Già 2000 anni fa Cicerone pensava che “Quasi in tutto, la via di mezzo è la migliore” e il Buddha insegnava che “La strada dell’Illuminazione sta nella via di mezzo. La linea che sta tra tutti gli opposti estremi”.
I grandi cambiamenti sono frutto di tanti piccoli compromessi. Una buona conversazione è già di per sé un compromesso tra parlare e ascoltare. Il compromesso è ciò che permette la convivenza tra i popoli e i matrimoni felici, una scelta prolifica tra etica e opportunità.
In età giovanile si tende ad affrontare il mondo senza rinunciare alle proprie idee, a volte escludendo l’ipotesi che queste possano essere giuste solo per noi. Il concetto di giustizia modifica il suo significato nel corso della vita, si evolve e si arricchisce dell’esperienza umana. Chi ha un po’ più di anni alle spalle sa che la vita è un continuo compromesso e che il concetto di giusto e di sbagliato ha diverse forme e si modifica nello spazio e nel tempo seguendo principi e valori. Vivere con giustizia significa avere ben chiari i propri principi senza soffocarli con i valori.
Un principio è qualcosa che viene prima di qualcos’altro, il quale non esisterebbe senza il principio. C’era da prima di noi, non dipende da una nostra opinione, può solo essere riconosciuto, non può essere scelto. Valore è invece ciò che vale, un concetto che rientra nel complesso delle virtù, delle qualità morali e intellettuali di una persona. Diversamente dal principio, che ha caratteristiche oggettive di spazio e tempo, il valore è legato alla posizione o all’atteggiamento di una persona e dunque dipende sempre da un sistema di riferimento. I valori possono essere negoziabili, i principi no perché sono alla base di noi stessi. I valori possono cambiare nella vita, i principi invece sono sempre gli stessi e ci costituiscono, non dipendono da noi, dai nostri gusti o da situazioni contingenti, fanno parte della nostra identità. Il compromesso è il modo generativo di conciliare valori divergenti, attraverso reciproche concessioni. Per questo in ogni confronto si devono possedere dei valori da offrirsi vicendevolmente. Il dono reciproco del compromesso si realizza attorno ad un principio fondamentale attorno al quale riconoscersi e diventa la base per superare i diversi valori. I principi vanno protetti, i valori vanno vissuti e condivisi. Confrontare e conciliare tra loro i valori è un arricchimento inesauribile che bilancia e permette una sintesi armoniosa tra culture, punti di vista e percorsi di vita. Così è nata la democrazia, il più grande compromesso collettivo raggiunto dall’umanità nel suo cammino.
Dove non c’è compromesso si lascia spazio al pregiudizio, al conflitto e al fanatismo. Il compromesso è un vero e proprio dono che offre la consapevolezza di non possedere la ragione ma di operare per qualcosa più grande di noi: scegliere di non fare la rivoluzione, ma offrire la pazienza e l’adattamento come doni di comunione. I compromessi sono il dono della ricerca di equità all’interno del pluralismo.
Rimanere integri nei propri principi non significa non scendere mai a compromessi ma decidere quando vale la pena lasciare andare le proprie convinzioni per ottenere un bene maggiore. Non si tratta di essere più forti o più deboli ma di volare più in alto e saper scegliere i principi più allargati e vivificanti. I valori sono come dei meravigliosi vasi di cristallo che custodiscono i nostri principi: a volte per svelare il loro contenuto dobbiamo essere disposti ad andare oltre l’involucro per poter donare la loro preziosa bellezza al mondo. Rendere tutta la nostra vita un dono.
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Luca Streri
Fondatore del movimento Mezzopieno
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senzasterischi · 6 years
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Un testamento anacronistico
Qualcuno potrebbe forse credere che io scriva perché qualcuno, fra i posteri, creda alla mia innocenza, quando in realtà io dispero che ciò possa accadere.  Mi accingo a scrivere queste poche pagine, piuttosto, a beneficio di mio figlio Lucio: voglio infatti che egli faccia tesoro di quanto ho scoperto nei miei ultimi giorni di vita. Da essi, spero, ripartirà per una ricerca più saggia e più vera, senza essere irretito dalle frottole da chi dice di conoscere l’animo umano.
Io, Quinto Porcio Licino, non nego infatti che nulla nella mia vita sia stato più istruttivo del suo ultimo mese, che niente mi abbia mai portato più vicino alla verità. Si obbietterà che io muoio in età non avanzata; e questo è certo vero, da giovane esalo l’anima, ma non la esalo da inesperto. Ho combattuto al seguito di Germanico,  sono stato allievo alla scuola di Pseudopanto; provinciale di Hispalis che ero, ho vissuto fra Roma e la Grecia. Nessuno forse crederà a quanto ho scoperto, ma spero che almeno mio figlio abbia orecchio per i miei ultimi moniti, anche se forse lo sorprenderanno.
Sin dalla giovinezza mi sono esercitato nel controllo delle passioni e, essendo la mia prima età trascorsa senza troppe gozzoviglie, col passare del tempo sempre più divenni austero e controllato, e ottima opinione aveva di me chiunque frequentasse la mia casa.
Molti riportavano l’impressione che nella mia virtù io fossi pienamente felice; ora, guardando me stesso con occhi meno innocenti, vedo che ero lieto perché non avevo gravi motivi per non esserlo. In ogni caso, io della mia virtù mi compiacevo, e non era difficile, anche per me, confondere l’orgoglio con la felicità. Fu in quel periodo che presi moglie e che cominciarono a venire alla luce i miei figli, della cui nascita io mi rallegravo senza concedermi una vera esaltazione.  Leggevo i poeti, e in qualche modo sembrava che i poeti leggessero me. Ricordo un sogno che feci qualche notte dopo la nascita di Porcia, nitido come se fosse appena successo: mi pareva che le Muse mi venissero incontro nel Foro, alle prime luci dell’alba. Calliope si rivolgeva a me: «O Licino, tu ci rifiuti. Cercavamo un uomo degno della nuova età, e sembra che tu non sia costui». Sacrificai come dovuto, ma non riuscii davvero a spiegarmi cosa gli dei avessero voluto dirmi.
Persuaso della necessità che mi impegnassi per lo stato, cominciai ad aver cura degli affari pubblici. Sarebbe stato chiaro a chiunque che non ero l’uomo adatto a simili faccende: potevo essere un gradito conversatore, un discreto uomo d’armi, un amministratore oculato, ma tanto più cercavo di cogliere le trame del potere, gli intrecci che si legavano sotto i miei occhi, quanto meno comprendevo, e quanto più capivo tutto il contrario di quel che dovevo capire.
Fui superbo, fui insipiente; sarebbe stato saggio non fare nulla, o cercare qualcuno di onesto e acuto che mi chiarisse la situazione. Invece feci le mie scelte seguendo la mia sola opinione, e fu il mio errore. Per questo è stato necessario che io fuggissi, braccato, verso Logopoietea, nella speranza di ritrovare gli amici di un tempo; se non il mio antico maestro, almeno i suoi altri discepoli.  Per questo sono fuggito fin oggi, e qui, nei sobborghi di Atene, attendo che la morte si presenti nelle sembianze dei sicari di Seiano.
Qualcuno potrebbe chiedersi, in futuro, se io abbia temuto la morte. La temo moltissimo, e non me ne vergogno; ma questo altro non è che il frutto delle mie recenti scoperte, che esporrò in breve.
Durante la fuga precipitosa da Roma a Logopoietea, più  volte mi colse il pensiero che sarebbe stato più dignitoso restare e morire; ma non volevo abbandonare la vita, così dicevo a me stesso, per potermi dedicare alla composizione di un certo trattato che avevo in animo di scrivere.
In Sicilia fui quasi raggiunto; dovetti travestirmi da artigiano del luogo; talvolta la mia salvezza fu affidata semplicemente alla velocità. Quando posai i piedi stanchi sul suolo greco e seppi perdute le mie tracce una gioia furibonda invase il mio cuore, e il desiderio di gridare e di comportarmi come un Coribante. Amavo essere vivo, e soprattutto amavo essere ancora vivo. L’aver sfiorato una morte atroce dava a ogni respiro un senso più intenso, e la paura che avevo provato mi sembrava la cosa migliore che mi fosse mai accaduta.
Avevo qualche soldo nella saccoccia e amici pronti ad aiutarmi finché la crisi non fosse passata; sapendomi al sicuro, diffidando di ogni valore, feci quello che fa una bestia: mi detti alla crapula. Vorrei poter dire di essermi dato agli amori, ma non sarebbe del tutto vero, mentre più giusto sarebbe dire che mi detti alle necessità del corpo. Amare nel senso più puro del termine, questo non mi è mai accaduto; è questo, forse, il mio più triste rimpianto.
Non vado fiero delle mie baldorie e le sconsiglio a chiunque si reputi un uomo onesto; riconosco, però, che furono illuminanti. Trascorso il periodo, mi imposi un freno, ricominciai con le astinenze, ripresi a frequentare i filosofi, ma qualcosa sembrava irrimediabilmente mutato. Per belli che mi sembrassero i loro insegnamenti, spesso mi trovavo in disaccordo. Avevo ritrovato il mio Pseudopanto che, vecchio e canuto com’era, predicava il disprezzo della morte, ma io, ricordando la mia gioia furiosa sul litorale greco, non riuscivo più a comprendere come si potesse disprezzare la morte senza disprezzare la vita.
I miei dilemmi comunque non ebbero modo di indugiare poi molto. Non c’è nulla di più importante, per un uomo, che avere amici fidati; grazie a loro mi salvai ancora, partendo in tempo alla volta di Atene. Alla fine del mio soggiorno giovanile a Logopoietea, avevo portato con me equilibro e saggezza; quell’estrema volta, invece, andavo via con la mente piena d’impressioni di ogni genere: il profumo di una salsa speziata, la barba del mio maestro, la nostalgia bruciante di Roma e dei miei cari, i raggi del sole sulle colonne di un tempio, la consapevolezza di non poter tornare a casa, un sorriso malizioso durante un banchetto. La fretta era troppa per lasciare spazio a perplessità; pensavo che, se fossi riuscito a nascondermi nella nuova città, avrei potuto ritrovare il mio perduto equilibrio, e nel frattempo nella mia incostanza indugiavo piacevolmente.
Avevo un unico amico ad Atene, che non è riuscito a salvarmi. So di essere scoperto e non c’è più luogo ove io possa andare; attendo la morte con agitazione e terrore, e non credo di essere schiavo del mio terrore e della mia agitazione più di quanto creda di essere schiavo delle mie spalle o del mio piede. L’unico vero modo per non chiedersi più come sconfiggere la paura è avere serenamente paura; se si ha paura volentieri, di solito se ne ha meno.
Così rispondo agli stoici; e così risponderei anche a Epicuro e i suoi, e al nostro Lucrezio. Anch’io ho un quadrifarmaco, gli direi, ed è infallibile: se si ha paura della morte, che si abbia paura della morte; se si temono gli dei, li si tema; se si paventano il dolore o la mancanza del piacere, li si paventino pure. Questa è la più serena delle vite: quella vissuta in pace sia con la propria paura, sia con la propria tristezza, sia con la propria gioia, sia con la propria rabbia.
Tu non sarai capito, o Lucio, se seguirai la mia via, e non mi attendo che si comprenda me. Ma io so perché sognai le Muse in quel giorno lontano: non perché le Muse avessero qualcosa da chiedermi, ma perché io avevo bisogno di chiedere qualcosa a qualcuno.
Non bisogna giudicare le passioni, figlio mio, bisogna viverle.
Io mi appresto alla morte; non ho più una filosofia, non ho saputo ben vivere, non saprò bene morire. Importa poco: ma morire è atroce, perché una volta morti non si vive più, ed è atroce morire per una causa che si è scelta senza conoscere del tutto se stessi, e principalmente per un errore. Essere virtuoso non mi ha reso felice, e neanche non esserlo, a essere sincero.
Neppure nello scrivere ho più alcun controllo, non riesco a fermarmi, ma è ora di apprestarsi a scendere nell’Ade quale io sono: né vecchio, né saggio, né contento.
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nerogetto · 4 years
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Il rock è morto?
Nel cassetto del comodino Davide riscopre una copia di una rivista musicale datata ottobre 2005, nascosta fra album fotografici, cartellette e quaderni di appunti. La sua band di allora, i Greyhound, campeggia nel paginone centrale. Nella foto, lui è seduto sullo sfondo con una gamba raccolta e l’altra distesa, maglione grigio a strisce nere, boccoli castani fino al collo e sguardo sofferente da bambino alle prese con l’età adulta. Poi c’è il cantante in primo piano, rasato, con maglia girocollo e sguardo magnetico. Il batterista, anch’egli sullo sfondo, ha la cuffia, il giubbino di pelle, le mani in tasca e gli occhi al cielo come se ci fosse un canale privilegiato tra lui e Dio. E infine c’è il bassista, sul lato destro, a media distanza, con una giacca di velluto viola e capello vaporoso nonostante l’attaccatura alta.
Quella rivista risveglia in lui sentimenti confusi, un misto di sofferenza ed ebrezza.
Un altro gruppo rock italiano, che sarebbe diventato famoso tempo dopo, ha soltanto un trafiletto nello spazio dedicato alle recensioni, mentre loro, i Greyhound, addirittura due pagine con intervista.
A Davide ancora non va giù che sia finita.
Ma che fine avranno fatto gli altri?
Gabry, il cantante, all’epoca voleva trovare un’alternativa al lavoro e ora sembra sia finito paradossalmente a fare carriera in azienda. Morris, al basso, era quello più restio alla carriera musicale, studiava per diventare fisioterapista e ora pare faccia quello. Nicola, il batterista, è l’unico rimasto nel settore: lottava con un padre che lo voleva al lavoro nei campi e ora fa il maestro di percussioni (così dice Facebook).
Davide invece si è perso, ma questa è una storia lunga.
È domenica pomeriggio, nella sua stanza, e fluttuano i ricordi.
Tutto è nato intorno ai primi anni ‘2000 da quegli strani mischiamenti che avvengono fra musicisti. Nicola, il “poeta della batteria”, come amava definirsi per il suo tocco delicato e emozionale, aveva già suonato con Davide in alcuni progetti precedenti. I due erano legati da una forte amicizia, cementata da un'attitudine comune: quella di sentirsi rockstar anche senza esserlo. Nel gruppo nascente c’era anche il bassista Morris, anche lui compagno musicale di Davide di lungo corso. Fu proprio Morris a presentare a Davide il cantante, Gabriele, il quale era abbastanza quotato nella scena indie rock per via di un’altra band, con cui faceva anche date estere.
I primi incontri avvennero a casa del cantante, in una villetta nella periferia di Mantova dove lui viveva coi suoi genitori. Si creò da subito una strana alchimia fra voce e chitarra. Davide imbastiva il giro armonico, con accordi spesso particolari, progressioni intriganti e timbriche scure, mentre Gabry ci metteva un’efficace linea melodica della voce e a volte aggiungeva la propria chitarra acustica.
Poi in sala prove, una barchessa diroccata a Ponteterra (che distava quasi 30 km da Mantova) basso e batteria facevano il resto. E spesso rendevano magnifiche quelle idee.
La sala prove di Ponteterra sarebbe diventata il loro luogo di culto: aveva l’aspetto di una stalla, che Nicola aveva provveduto a insonorizzare con scatole di uova di gallina, abbellire con poster di band e profumare con bastoncini di incenso. Era direttamente confinante con la casa dei suoi genitori, dove viveva una nonna adorabile, che aveva l’abitudine di rispondere al telefono senza parlare e per questo era diventata un mito agli occhi dei ragazzi. La sala prove era un luogo accogliente che chiamava a sé la gente del paese, gli amici di Nicola: ragazzi di vita che facevano gli operai in fabbriche della zona, che alzavano il gomito spesso e volentieri, e si facevano più canne al giorno.
Il paese era un tipico paese di campagna con una grande piazza, su cui si affacciavano bar e ristoranti, affollata da un via vai di biciclette e famiglie a piedi. In particolare un bar, da Boogie, sarebbe stato il loro punto di ritrovo, dove fermarsi dopo le prove per mangiare un panino o bere una birra. Il bar era il luogo dove ragazzi e ragazze si “annusavano” e i Greyhound suscitavano la curiosità delle giovani del posto. Le ragazze carine non erano molte e ronzavano quasi tutte intorno al cantante o al batterista, che restavano quelli con maggiore ascendente sulle donne, mentre Davide e Morris raccoglievano ben poco.
Altro tratto tipico del paese erano gli anziani, che popolavano i bar, sedendo all’aperto nelle serate calde e afose. Li vedevi giocare a carte e discorrere in dialetto. Altri giravano sulla loro bicicletta sgangherata e salutavano i passanti o si intrattenevano a scambiare battute con i giovani. C’era un senso di comunità sconosciuto a chi proviene dai capoluoghi e per i Greyhound (tranne Nicola, che lì viveva) quel paese era una parentesi festosa a cui era difficile rinunciare.
Le prove avvenivano quindi nel contesto domestico della “stalla”, popolata da vari personaggi locali, in un alone di misticismo come se si stesse consumando un rito magico. Di solito iniziavano con l'accordatura della chitarra da parte del cantante, che poteva durare anche quindici minuti. Poi prendeva vita il processo compositivo vero e proprio, ovvero la traduzione in un linguaggio di gruppo delle idee che scaturivano a casa di Gabry. Nicola, ad occhi chiusi, si lasciava trascinare dagli accordi di chitarra e dalle evoluzioni della voce e inventava una ritmica, seguita dal basso cadenzato, con il quale si coordinava a colpi di cassa. L’impianto sonoro globale, quando tutti e quattro i ragazzi erano “dentro” il pezzo e si perdevano, era qualcosa di trascendentale. Si trattava di un rituale, di una catarsi che li liberava dalle ansie quotidiane, dai malumori tipici della giovane età.
Alcune canzoni nascevano sul posto, e si può dire fossero le migliori, con un’idea ritmica o melodica o armonica che veniva arrangiata dal gruppo in diretta, prendendo vie e pieghe imprevedibili, e svolte improvvise verso territori sconosciuti. Erano le canzoni più pulsanti, più vive, e a Davide poco importava che si allontanassero dalla sua idea di musica, perché amava farsi sorprendere dal risultato. Il mix che ne derivava era una fusione di stili, con la voce incline al falsetto isterico di Jeff Buckley; la chitarra che era un’intrigante commistione di hard rock, blues, psichedelia e noise; la batteria che veleggiava sul virtuosismo “poetico” e jazzistico della Dave Mattews Band e il basso felpato che aveva un’impronta atipica sia rock che fusion.
Davide ricorda ancora i tratti peculiari di ognuno dei membri del gruppo. Il motore “sognante” era lui con Nicola. Ragionavano come se fossero delle grandi rockstar, ma ciò che li attraeva era mantenere la propria arte pura e farla conoscere a un pubblico vasto. Si potevano definire dei romantici, degli idealisti, degli utopisti. Avevano un’urgenza comunicativa: quella di esprimere la propria creatività, le proprie sofferenze ed entrare in simbiosi con il pubblico. Il cantante Gabry era un talento e concepiva la band soprattutto come un mezzo per sperimentare sensazioni positive, avvolgenti, come una specie di liquido amniotico in cui cullarsi. Il bassista Morris invece era più interessato al lato tecnico, al gesto, alla musica concepita come “pratica”.
I Greyhound ben presto vollero aprirsi all’esterno. Nicola, da bravo batterista, era attratto dalla dimensione “animale” della musica e si impegnò a procurare le prime date live. Le esibizioni avevano un repertorio misto di cover e pezzi inediti ed ebbero luogo in pub o festival dedicati. La scaletta veniva provata più volte i giorni precedenti l’esibizione, ma dal vivo c’era spazio per l’improvvisazione (Davide non ha mai studiato un assolo: si faceva prendere dall’impeto e dall’emotività del momento). Durante i concerti i gesti d’intesa fra il chitarrista e il batterista non si contavano: potevano tradursi in uno sguardo o un avvicinamento fisico e i battiti acceleravano, diventavano più forti, si creava più atmosfera. I live avevano un seguito di affezionati, il codazzo di amici di paese che seguivano il gruppo ad ogni data, ma il raggio d’azione era comunque limitato alla provincia di Mantova.
Piano piano si fece strada il desiderio di farsi conoscere al di fuori della dimensione locale. Il gruppo decise quindi di registrare un demo per inviarlo alle riviste specializzate. Le prove venivano già registrate utilizzando un banale mangianastri, ma ci voleva qualcosa di più professionale. Gabry propose di rivolgersi a un amico fonico, tale Rick, che era tastierista di lungo corso (in possesso di sintetizzatori, moog, fender rhodes) e aveva creato uno studio casalingo. Il gruppo era pieno di sensazioni positive per questa registrazione, che venne vissuta come un momento di svago, eccitante, per l’aspettativa di avere finalmente una resa sonora di alta qualità dei propri pezzi e farli finalmente conoscere. Per prima cosa vennero registrate le chitarre a metronomo. Bisognava fare presto perché il fonico lavorava dietro basso compenso e si doveva stare nell’arco di due giornate. Alla chitarra seguì il basso, poi la batteria e infine le parti vocali, compresi i cori. Pochi erano gli effetti utilizzati i e si cercò di mantenere il suono degli strumenti il più naturale possibile. Il tutto venne registrato in un clima molto informale, scherzoso. I ragazzi si ritennero soddisfatti del risultato anche se, come sempre accade, ciascuno pensava che avrebbe potuto suonare meglio la sua parte.
Davide si occupò in prima persona dell’invio del demo alle riviste e presto arrivò un riscontro inaspettato. Una rivista online nominò demo del mese il dischetto dei Greyhound, premiandolo per le sonorità psichedeliche, la qualità strumentale e il cantato. Si scomodarono paragoni illustri per definire il sound, come i Radiohead per la neo-psichedelia, Jeff Buckley per le evoluzioni vocali e i Soundgarden per le chitarre nervose, ancora influenzate dal grunge.
I Greyhound accolsero la notizia del riconoscimento in modo “elettrico”, ma da Nicola arrivò stranamente la reazione più scettica. Questa intromissione dell’”esterno” nella vita del gruppo andava a rompere quello strato che proteggeva la loro purezza, il contesto bucolico delle loro prove, il pubblico di affezionati. Ma fu una reazione istintiva: col tempo anche lui avrebbe accolto positivamente la maggiore notorietà.
Il primo risultato di questa recensione fu sulle prove in saletta: nel complesso la band si sentì stimolato a ritrovarsi con maggiore frequenza e a imbastire pezzi nuovi, in modo da produrre un secondo demo...o ad avere una scaletta più nutrita per le esibizioni dal vivo.
Il secondo effetto, totalmente inaspettato, fu che Davide venne contattato da una casa discografica. Si trattava di una piccola etichetta indipendente emiliana, con un catalogo limitato di artisti di buona qualità. Il discografico sembrò subito molto ben disposto riguardo alla band, complimentandosi ripetutamente per la qualità del demo e prospettando un grande futuro: la registrazione di un album, l’esibizione in locali selezionati, la copertura sulla stampa e su Internet.
Volle che ci fosse subito un incontro e invitò i quattro ragazzi a Bologna, sua città di residenza. I Greyhound arrivarono al pomeriggio ed ebbero tempo di andare in centro, in Piazza Maggiore, dove non persero occasione di fare un bagno di folla e prendere un aperitivo in uno dei tanti locali vicino alla piazza. La band venne al gran completo, incluso il fonico e due-tre amici che erano molto vicini al gruppo: chi per la parte grafica, chi per il merchandising, chi semplicemente per esserne il fan numero uno. Il discografico arrivò invece con la sua compagna: una che sembrava una tossica, scarmigliata e sfumacchiante, però simpatica. E con loro c’era quello che sarebbe diventato il futuro produttore artistico dei Greyhound: un cantante rock che aveva avuto una fiammata di notorietà verso la fine degli anni ‘90 per avere eseguito una cover in italiano di “Walk on the Wild Side” di Lou Reed.
Il discografico Vincenzo era persona che solleticava l’anelito sognatore di Davide e Nicola, mostrava entusiasmo sconfinato e dipingeva prospettive mirabolanti sul futuro. Visto a posteriori non era immune da ombre, ma per dei ragazzi non ancora venticinquenni e cresciuti in provincia c'era solo il lato positivo della faccenda. All’aperitivo seguì la cena in un’osteria tipica e poi il fine serata con una festa a casa della compagna del discografico stesso, con altri musicisti e persone che bazzicavano l’underground locale. A giorni sarebbe seguita la stipula del contratto, che era tutto sommato accettabile per dei musicisti che si affacciavano sul mercato come novizi.
Il rocker che accompagnava Vincenzo, di nome Dario, era persona dotata di una sensibilità sopra la media ed era soprattutto molto erudito dal punto di vista musicale, con gusti che percorrevano l’intera storia del rock. Era forse un poco vanesio, un poco costruito ma, tutto sommato, la sua direzione artistica sarebbe stata rispettosa della libertà compositiva del gruppo. Inoltre, dal punto di vista contrattuale, non avrebbe voluto un fisso bensì una percentuale sui diritti d’autore per mostrare una vera compartecipazione alle sorti della band.
Subito dopo l’incontro e la firma del contratto, i Greyhound si dedicarono alla preparazione delle tracce per il primo disco, idealmente dieci pezzi come un album d’esordio che si rispetti. Iniziò un periodo compositivo intenso, fatto di incontri fra Gabry e Davide a casa del primo, dove nascevano idee per pezzi nuovi, che venivano poi provate a Ponteterra, con arrangiamenti che trasudavano smania per il futuro. I ragazzi erano frementi di poter incidere quelle canzoni e eseguirle dal vivo. Tuttavia tendevano ad essere molto meticolosi, a volte maniacali nella composizione, così i tempi si allungavano. Vennero quindi sollecitati dalla casa discografica ad accelerare. Ne derivarono tempi di gestazione per un album d’esordio più lunghi della media.
Il periodo compositivo fu caratterizzato da un certo nervosismo per l’emergere di alcune dinamiche interpersonali ma le canzoni si facevano sempre più intriganti.
Arrivò il giorno della registrazione il 26 maggio 2004. Davide vi giunse in pessime condizioni perché pochi giorni prima era morta la sua amata nonna. La sofferenza sarebbe stata ben palpabile nelle tracce del disco, con le chitarre che rivelavano uno stato emotivo alterato e un dolore lancinante. Davide inoltre non era in possesso della sua chitarra, che aveva lasciato in negozio per fare un set-up completo e che non venne preparata in tempo. Dovette quindi farsi prestare una Fender Stratocaster da un amico...ma suonare una chitarra non sua fu un’impresa.
Anche il viaggio verso lo studio di registrazione di Casalecchio di Reno (BO) fu problematico. Alla partenza ci fu una lite furibonda fra Davide e Morris, il bassista. Davide, una volta che Morris era arrivato sotto casa sua col furgone per caricare, lo rimproverò di essere arrivato tardi. Il bassista reagì male, rinfacciando a Davide di essersi fatto scarrozzare per anni da Mantova a Ponteterra senza pagare la benzina. La lite degenerò quasi in scontro fisico. Gli altri membri della band intervennero per separarli ma l’atmosfera era ormai guastata: si respirò aria pesante per tutto il periodo di registrazione.
Lo studio era di proprietà di un tale Beppe, che in passato aveva fatto l’operaio e che poi aveva deciso di cambiare vita per passione e perché stanco del lavoro in fabbrica. Era un uomo alto e magro, pieno di storie da raccontare, come quella volta in cui un fischio con le casse a volume massimo lo fece caracollare per terra. Lo studio era ciò che i Greyhound avevano sempre sognato. C’erano zone separate e insonorizzate dedicate alla registrazione dei singoli strumenti, con microfoni speciali per la presa diretta. In particolare l’area dedicata alle chitarre aveva un amplificatore valvolare d’annata procurato da Dario il produttore e vari effetti che Davide aveva portato per rendere il suono speciale. C’era poi una sala dedicata al mixaggio e alla masterizzazione, presieduta da Beppe, che sarebbe diventata luogo di raccoglimento per la band, dove riascoltare le proprie esecuzioni e avere voce in capitolo sugli effetti da aggiungere.
Il risultato fu un album profondamente diverso dalla demo registrata in precedenza, con sonorità più hi-fi, volumi più elevati...maggiore impatto. Di notevole resa era il trittico iniziale (le canzoni migliori vanno sempre in testa). Nel complesso i pezzi spaziavano dalla psichedelia primi Pink Floyd, al grunge con un pezzo in stile Nirvana, al noise delle parti soliste di chitarra (spesso ridotta a puro suono), a ballate a volte maestose a volte oniriche, all’hard rock abrasivo. Non tutta la critica, che aveva accolto bene il demo, premiò il passaggio da sonorità lo-fi a sonorità a più alta definizione: un cambio per alcuni ritenuto troppo commerciale. Però nel complesso si trattò di un lavoro notevole per un gruppo emergente italiano e rappresentò un viatico per un’ulteriore notorietà della band.
Dall’album venne estratto un singolo, una canzone che si distingueva dalle altre perché maggiormente melodica, ma che conteneva in sé tutti gli elementi distintivi del gruppo (armonia intrigante, falsetto, distorsioni crunch, basso cadenzato). Fu anche l’unica canzone dell’album in cui fu inserito un piano, in stile Coldplay. Dal singolo venne prodotto un video, che venne realizzato con un’animazione con bozzetti interamente disegnati a mano, un lavoro di alta qualità. Il video venne programmato per un certo periodo anche su MTV brand new. Il singolo iniziò ad uscire anche in radio, sia emittenti locali, che major. Ci furono interviste radiofoniche, in cui spesso veniva chiamato il cantante a rappresentare tutto il gruppo, o parlava il produttore artistico. E poi ci fu la copertura sulla stampa. Settimanalmente usciva un articolo su riviste di settore, quotidiani locali o siti web specializzati. Davide ricorda ancora il brivido che gli dava una recensione positiva o un commento ammirato al suo stile di chitarra. Un articolo nella sezione cultura e spettacoli della Gazzetta di Mantova rimane tuttora appeso vicino al frigorifero in cucina, a casa dei suoi.
La prima cosa a cambiare radicalmente fu l’attività live, che divenne più frequente e si focalizzò su locali più importanti e situati al di fuori dei confini mantovani. Memorabile fu il concerto all’Estragon di Bologna, quando ancora era dislocato nella sede di Via Calzoni. Il gruppo fece da spalla a una band nota del circuito bolognese e si trovò per la prima volta di fronte un’audience variegato, composto da intenditori, e non dai soliti avventori della bassa padana. Durante il concerto uno spettatore si protese sul palco per offrire a Davide una canna, che la rifiutò suscitandone l’ira. Altro concerto epico fu quello al centro sociale Rivolta di Marghera, luogo simbolo dell’antagonismo veneto. Davide ricorda ancora la condizione dei bagni e la gente che bivaccava stordita dalle droghe all’interno del locale. Durante l’esibizione il gruppo fu interrotto da uno spettatore che salì sul palco con un megafono per fare un proclama. Davide ricorda bene anche il concerto alla Fnac di Milano dopo il quale, in fase di caricamento del furgone, si dimenticò la chitarra, che gli venne rubata. Questo episodio causò in lui una crisi senza precedenti e fu anche uno dei motivi che fece sciogliere il gruppo, in prospettiva. Poiché chi stava caricando il furgone era il bassista Morris, Davide gli attribuì la colpa della dimenticanza, ma era chiaro che il chitarrista non aveva sorvegliato adeguatamente. Si aspettava, forse sbagliando, che il gruppo potesse aiutarlo attingendo ai fondi della cassa comune, ma questo non avvenne. La chitarra venne quindi ricomprata dal padre di Davide, che aveva capito che nel figlio si stava facendo strada un impulso distruttivo e vendicativo nei confronti del gruppo, ma questo non salvò la situazione: il furto della chitarra di Davide fu uno dei motivi della fine.
Nonostante tutte le iniziative prese per far decollare il disco, le vendite non furono quelle attese. Seppure si vendettero alcune migliaia di copie, queste non furono sufficienti a giustificare un ulteriore investimento sulla band da parte della casa discografica. In particolare il gruppo non sfondò all’estero, dove si pensava avrebbe venduto per l’utilizzo della lingua inglese e per le sonorità decisamente anglosassoni, ma così non fu. Curiosamente il CD ebbe buoni riscontri nei paesi dell’Est Europa.
Per questo nonostante venisse data per scontata la registrazione di un secondo disco, la casa discografica cominciò a imporre dei paletti come il cantato in italiano. E qui si aprì un dibattito piuttosto acceso fra chi voleva mantenere l’inglese (il cantante) e tutti gli altri. L'inflessibilità della posizione del cantante, comprensibile se si pensa che la voce debba comunque sentirsi a proprio agio con la lingua, fece tramontare ogni speranza di registrare un seguito a Oxygen (il primo disco). Peccato perché il gruppo durante le prove andava maturando un nuovo sound, un ibrido fra il genere psichedelico-grunge e il revival del dark sound in voga nei primi anni ‘2000. Le sonorità erano più quadrate, geometriche e angolari alla Interpol. Tuttavia si notava che Davide cercava di prendere (ancora) più piede nel complesso, soprattutto in fase compositiva, e questo suscitava le perplessità del resto del gruppo. Morris fu il primo ad andarsene: oltre ad un’aperta antipatia nei confronti del chitarrista, aveva fatto i conti della serva della sua esperienza musicale, traendone un bilancio negativo. Davide stesso si defilava: doveva affrontare ciò che lo aspettava dopo lo studio, ovvero le forche caudine del mondo “normale”, quello che aveva il terrore di dover approcciare. Pure la presenza di Gabry alle prove si fece più rarefatta e così intorno al 2005 tutto finì, sicuramente troppo velocemente. Nicola non perdonò gli altri per il modo in cui avevano fatto naufragare il suo sogno e chiuse la porta in faccia a tutti. Semplicemente sparì.
Si è detto di Davide. Era un periodo molto delicato della sua vita. Si laureava in Economia, una materia che non gli piaceva, anche se aveva provato a salvarsi specializzandosi in Marketing. Lui sarebbe stato portato per la letteratura. Già alle scuole medie trasparivano buone capacità di scrittura. A quel tempo aveva fatto due temi degni di nota: uno sugli ombrelloni e uno su un salumiere, suo vicino di casa. Però le scelte lo mandavano in crisi. Quando si trattò di decidere la scuola superiore, scelse lo Scientifico rispetto al Liceo Classico, nonostante avesse seri problemi in matematica. Nell’errore, tuttavia fu fortunato perché gli capitò un insegnante di italiano molto bravo, a cui sarebbe rimasto molto legato e che l’avrebbe spronato a iscriversi alla Facoltà di lettere. Nonostante questo però non si convinse a fare questo passo. Davide faceva implicitamente quello che si aspettava la sua famiglia. Così si iscrisse ad Economia. Le materie di studio gli risultarono così ostiche (Ragioneria in primis) che tentò anche di cambiare Facoltà, salvo redimersi sempre all’ultimo minuto. Alla fine si adattò a frequentare Economia con un peso sul cuore.
Davide vedeva come un incubo l’ingresso nel mondo del lavoro: si trattava di scegliere fra l’essere artista (quando ormai tutto era finito) oppure lavoratore, un impiegato nella migliore delle ipotesi. Lui, come prevedibile, scelse la strada “borghese”, quella che prevede l’impiego in azienda. Lo fece anche con una discreta “ferocia”, con ostentato disprezzo nei confronti della via artistica.
Dopo la laurea, venne inaspettatamente preso come tirocinante in una multinazionale americana ma si ritrovò completamente incapace di integrarsi. Anche solo trovare casa a Milano fu drammatico. Era talmente intimorito di vivere da solo che si defilava e non firmava nessun contratto d’affitto. Dovette intervenire la responsabile risorse umane dell’azienda, che gli diede in affitto un appartamento di sua proprietà in centro a Milano. Davide accettò ma fu sommerso dalle problematiche: farsi da mangiare, lavarsi (la doccia era malfunzionante), dormire (gli stridori del vicinato lo svegliavano all’alba). A ciò si aggiunse il lavoro, il cui inizio fu traumatico. In ufficio non comprendeva le mansioni che gli venivano assegnate e fu soggetto alle sfuriate della sua responsabile diretta. In più era turbato dalle urla dei colleghi, dai continui litigi, che guastavano l’ambiente di lavoro. La sua esperienza durò appena due settimane. Davide se ne andò improvvisamente, lasciando tutti di sasso, e ritornò a Mantova dai suoi genitori con la coda fra le gambe.
Questo dietro-front fu foriero di conseguenze psicologiche gravi. Egli si trovò ad aver fallito nella scelta di “normalizzazione” (laurea, lavoro, appartamento) quando ormai l’alternativa musicale era completamente prosciugata. Fu costretto ad andare in terapia perché si trovava in uno stato di prostrazione tale da non poter più andare avanti. Lo psichiatra ne constatò le serie condizioni ma non gli prescrisse farmaci. Gli disse semplicemente di cercarsi un altro lavoro, qualsiasi cosa purché fosse remunerata, e di ritornare da lui una volta occupato.
Davide lo prese in parola, si riattivò per la ricerca del lavoro ma al lavoro successivo non arrivò comunque con le sue forze. Fu la famiglia a trovargli un posto in un ufficio, un lavoro stabile (almeno sulla carta) in una società pubblico-privata. Inserirsi non fu facile, ma Davide, complice il menefreghismo dei colleghi, imparò ad essere indipendente e a lavorare in completa autonomia. Riuscì inaspettatamente a reggere in un clima lavorativo ostico, dove la responsabile dell’ufficio faceva il bello e cattivo tempo, tormentando gli altri dipendenti. Sopravvisse in un ambiente di pettegolezzi, cattiverie, pugnalate alle spalle. Il mobbing era all’ordine del giorno. L’esperienza durò cinque anni, cioè fino a quando la società, al primo rosso in bilancio, smise di essere finanziata e Davide si ritrovò a rischio di perdere il posto di lavoro.
Ebbe però uno scatto di reni e fu assunto all’ultimo minuto in un’azienda informatica, dove una sua cara amica conosceva il boss. Costui, persona giovane, simpatica lo assunse principalmente perché amico di questa ragazza. L’ambiente di lavoro era completamente diverso dal precedente, molto più informale, più “maschile”, regnava la battuta pesante, lo scherzo. Col tempo degenerò però in un ambiente aggressivo, umiliante e iniquo. Davide ricevette alcune sfuriate per i suoi ritardi, molto violente, cariche di parolacce...ne rimase sconvolto esattamente come quando da piccolo i suoi litigavano. Resse per 5 (cinque) anni fino a quando il ritardo costante nel pagamento degli stipendi lo costrinse ad andarsene.
Anche stavolta la fortuna lo assistette e venne assunto in extremis in un’altra azienda informatica più grande, internazionale, che gli offrì un contratto stabile e meglio remunerato. Era ciò che aveva sempre desiderato. La nuova città, Ferrara, sembrò a Davide un luogo migliore di Mantova, con ritmi più lenti, gente più easy e la maestosa bellezza architettonica. Nel nuovo lavoro incontrò un ambiente di ragazzi giovani ed estremamente simpatici, che gli rendevano fantastica la routine quotidiana. Quest’ambiente positivo era una novità assoluta per lui, abituato a colleghi poco affabili. Il settore inoltre era molto interessante: si trattava di nuove tecnologie, innovazione in campo digitale, un ambito a lui molto affine. L’unica pecca era il ruolo, molto orientato alla vendita, ma tutto quello che ci stava intorno era talmente incredibile che Davide contava di far passare questo aspetto in secondo piano.
Non gli riuscì però di costruirsi una vita al di fuori del lavoro: non aveva amici a Ferrara che non fossero i suoi colleghi, non coltivò nessun hobby, mantenne in vita soltanto la musica suonando settimanalmente con un collega, ma per il resto visse isolato. Questo isolamento lo portò in uno stato di paranoia, che ebbe ripercussioni anche sul luogo di lavoro. Davide finì con l’andare più volte in escandescenza, alienandosi le simpatie dei suoi stessi colleghi. I risultati nelle vendite crollarono. Bastarono un paio di mesi a vendite zero per metterlo sotto accusa. Fu redarguito pesantemente dai capi, ma lui continuava a non vendere e, anzi, nella sua sindrome persecutoria, si rifiutava di parlare con i clienti. Alla fine fu spedito a lavorare a casa, ma non era in grado di fare nulla, sragionava, non produceva alcun risultato e venne licenziato in tronco. Precipitò quindi in una crisi depressiva senza via d’uscita, che lo portò a più di 6 mesi di confino casalingo, e al suo deperimento fisico e psichico. Per uscire dalla malattia si rivolse di nuovo a uno psichiatra, che venne trovato grazie all’aiuto della famiglia, e che ne constatò il grave stato di prostrazione, al limite del ricovero in un centro di salute mentale. Il medico fortunatamente indovinò i farmaci giusti e gli diede supporto psicoterapeutico, indagando anche nei rapporti famigliari, cosicché Davide riuscì coi mesi a ritornare alla vita.
Oggi, quindici anni dopo, in questa domenica pomeriggio, per Davide è tempo di bilanci.
Non che avesse abbandonato la musica per tutto questo tempo. A partire dalla fine dell’esperienza coi Greyhound, aveva fatto alcuni tentativi di riprendersi una personalità musicale.
Innanzitutto aveva suonato in un progetto demenziale (anzi sarebbe meglio dire “demente”) chiamato Phreaky, in cui i testi erano declamati da Ale (praticante avvocato), mixati in maniera schizoide da Giovanni (grafico pubblicitario) e la musica era uno strano ibrido fra heavy metal, hip hop, elettronica a innesti di avanguardia. Il ritrovo era il casolare di campagna di Giovanni, che aveva uno spazio verde ideale per grigliate ed era dimora di simpatici mici che facevano compagnia ai “musicisti” durante le session di registrazione. Le canzoni traevano spunto da argomenti poveri, di poco conto: una grigliata (appunto), un fosso, un chiosco di bevande etc. La musica nasceva da cose trovate, come il campionamento della voce del padre di Giovanni, oppure da una stratificazione di chitarre (distorte e manipolate con ogni sorta di effetto), oppure da suoni computerizzati (una tastiera digitale inclusa nel software di registrazione, ad esempio). Il “marchio di fabbrica” con cui i Phreaky contrassegnavano le loro canzoni consisteva in un coro tri-timbrico (alto, basso e urlato) che era in realtà una parodia dei Limp Bizkit. Nonostante i ritrovi saltuari, il trio riuscì a registrare due album e una manciata di pezzi e ottenne anche delle buone recensioni online, anche se ne venivano contestati alcuni eccessi “giovanilistici” per via dei testi che sfottevano tutto e tutti. Fu un’esperienza relativamente lunga e molto sentita da Davide ma il gruppo col passare degli anni si sciolse principalmente a causa degli impegni lavorativi dell’avvocato, che mal conciliava la serietà richiesta dalla sua professione con la satira spinta della band.
Successivamente Davide instaurò un progetto musicale con Rick, il fonico storico dei Greyhound, colui che aveva prodotto il loro primo demo. Il progetto, chiamato Stanza 91, era interamente cantato in italiano (cosa che i Greyhound non erano mai riusciti a fare) e non si avvaleva di una voce fissa, piuttosto di alcuni cantanti del sottobosco emiliano. Il duo era costituito da Davide alle chitarre e da Rick alle tastiere, mixaggio e masterizzazione. Il ritrovo era una sala di incisione a Reggio Emilia, dove Rick lavorava saltuariamente come fonico. Il sound del gruppo aveva reminiscenze dei CSI, per via dell’utilizzo del parlato, e prendeva a piene mani dal rock alternativo e industriale (alla Ministry). Le tastiere, i sintetizzatori e i moog davano un connotato acido e spaziale alle canzoni mentre le chitarre di Davide sfogavano tutta la loro isteria in sferzate noise, clangori industriali e feedback. Il gruppo produsse un demo che però non ottenne riscontro semplicemente perché il duo non si occupò di diffonderlo, forse anche snobisticamente. In ogni caso la collaborazione fra Davide e Rick fu molto fruttuosa e diede vita anche ad altri progetti paralleli, ad esempio per il teatro. Davide sentiva che con Rick i suoi gusti musicali erano maggiormente soddisfatti rispetto ai Greyhound. Tuttavia il vivere in due città diverse e gli impegni personali di ciascuno facevano sì che il tempo a disposizione fosse poco. Così la loro attività pian piano andò scemando.
Alcuni anni dopo Davide imbastì un duo elettro-acustico con un chitarrista e cantante di Sheffield, ma di stanza a Mantova, di nome Paul. I due avevano in comune un background Brit Pop anni ‘90, ma le composizioni si avventuravano in territori devianti, psichedelici e indie. Il gruppo iniziò quasi subito a spron battuto con pezzi propri, che Davide giudicò molto affini al suo gusto e si sentiva, come spesso gli capita nei suoi progetti paralleli, veramente coinvolto. I due si accordarono persino di acquistare la strumentazione in comune (mixer, microfoni per la presa diretta, leggio, aste) e fecero un piccolo investimento, scommettendo sul futuro del duo. Trovarono subito anche una data presso un circolo musicale locale, quando i pezzi a disposizione erano una manciata, tutti cantati in inglese con Paul voce solista e Davide backing vocals. Paul suonava la sua inseparabile chitarra acustica mentre Davide accentuava l’atmosfera psichedelica con riff, fraseggi e licks. Tuttavia arrivò ben presto un motivo di scontro fra i due, che risiedeva nelle ambizioni personali: Paul da bravo rocker inglese sognava di esibirsi in contesti grandi (palazzetti dello sport, stadi) mentre Davide si accontentava anche di piccoli spazi, dando priorità al suo lavoro “borghese”. La differenza di aspirazioni era insanabile e non ci fu modo di appianare le tensioni, che esplosero subito dopo il primo concerto. Ci fu un litigio piuttosto pesante e si decise di mettere una pietra tombale sulla band. Davide si accollò spontaneamente la strumentazione pagandone le spese, anche se poi l’avrebbe rivenduta perché inutilizzata nei mesi successivi.
Dovettero passare ancora alcuni anni perché Davide, una volta trasferitosi a Ferrara, riprendesse a suonare con qualcuno. L’occasione ci fu con un collega della grande azienda informatica in cui lavorava, che faceva il sistemista, tale Simone (Frank), persona straordinariamente erudita dal punto di vista musicale e con esperienza pregressa in gruppi hardcore e post-rock. Frank era giudicato da molti in azienda un tipo particolare. I suoi pensieri viaggiavano senza sosta nei territori della politica, della cultura, della musica ed esprimevano punti di vista originali. Davide legò quasi subito con lui, che vedeva come persona affine. Facevano lunghe chiacchierate alla macchina del caffè o in sala mensa, dove si rammaricavano di non poter suonare con qualcuno, finché non venne spontaneo accordarsi per provare insieme. I primi incontri avvennero in una sala prove attrezzata, ma anche sorprendentemente economica. Venivano fatte delle jam in assoluta libertà: un magma ribollente di idee creative, riff, progressioni, armonizzazioni di chitarra e parti vocali abbozzate nel clima propizio della saletta. In quel luogo si consumavano serate memorabili, in cui le performance dei due venivano registrate e, una volta riascoltate, destavano stupore per l’amalgama che si creava e gli intrecci sonori. Questi incontri durarono un paio d’anni, ovvero il tempo di permanenza di Davide nell’azienda, e subirono uno stop doloroso quando egli cominciò a stare male. Nella sua logica paranoica, anche Frank venne erroneamente considerato come ostile. Poi Davide, come già detto, perse il lavoro e si allontanò dall'amico per quasi un anno, salvo poi recuperare un minimo di rapporto, quando ormai non era più a Ferrara, con un incontro riparatore e poi con un “carteggio” online fatto di scambi di foto, news e canzoni. Frank si offrirà di lavorare sui suoni di una canzone di Davide, lasciando intravedere possibili spazi di collaborazione a distanza.
Dopo la fine dell’esperienza ferrarese era seguita una lunga convalescenza e poi l’inizio del nuovo lavoro con contestuale trasferimento a Brescia. Tirava aria di novità e Davide colse la palla al balzo per riprendere l’attività musicale. Mise un annuncio su un sito di matching musicale per cercare un gruppo. Rispose la cantante di una band che lo invitò a fare prove con un bassista e un altro cantante (mentre il batterista doveva ancora essere trovato) su cover di rock italiano e estero. Le prove funzionarono abbastanza e si creò una buona alchimia fra i componenti del gruppo. Non solo si intrattennero rapporti musicali ma si crearono anche legami di amicizia. In particolare fra la cantante e Davide si creò un rapporto speciale, un misto di amicizia e attrazione fisica, che conteneva però in nuce i semi della discordia. I membri del gruppo presero a uscire la sera e non era raro che si trovassero anche nei weekend. L’esperienza musicale si alternava fra la sala prove, dove si suonavano le cover al gran completo con tutta la band (pur con l’assenza del batterista) e il set acustico a casa della cantante. Tuttavia le due voci del gruppo (maschile e femminile) ambivano entrambe ad avere il ruolo di protagonista e nessuno si rassegnava a fare da spalla all’altro. Ne nacquero discussioni, screzi, scontri fino a quando il cantante (maschio) non decise di abbandonare. Ben presto si scoprì che era lui a reggere la baracca, con la sua instancabile attività di relazione con gli altri componenti e il desiderio di trovarsi a provare tutte le volte che era possibile. I superstiti si trovarono incapaci di prendere qualsiasi iniziativa per mantenere in vita il gruppo e i Senovedi (così il nome della band) chiusero battenti. Davide e Elena (la cantante) cercarono quindi la strada del duo acustico, ma litigarono pesantemente sulla scaletta da fare e si separarono quasi subito. Egli vide così naufragare anche questa esperienza musicale e l’amicizia con Elena, mentre fortunatamente riuscì a mantenere un rapporto con gli altri componenti del gruppo.
Davide non si diede però per vinto. Già nel periodo dei Senovedi, aveva rivalutato i canali social per farsi conoscere musicalmente. In particolare Youtube gli appariva come un posto interessante per eseguire cover dei suoi prezzi preferiti. Nel suo appartamento condiviso di Brescia Davide aveva allestito un piccolo armamentario per registrare i video da caricare poi su YouTube. Utilizzava un piccolo amplificatore valvolare posto sulla scrivania e per registrare i video usava la videocamera dell'IPad, che veniva anche utilizzato come microfono per la presa diretta della chitarra e della voce. La registrazione dei video su Youtube solleticava sia la sua parte artistica (che risultava appagata dalla preparazione e esecuzione live del pezzo) che quella più narcisistica, perché alla registrazione seguivano i like (pochi, a dire il vero). Ma il vero punto di svolta fu la registrazione di pezzi propri, non di cover quindi. Davide scrisse canzoni rock che erano un po’ la summa delle sue ispirazioni artistiche: avevano infatti echi dark e grunge, che ben si abbinavano al cantato in italiano. Spesso registrava il pezzo in presa diretta: voce e chitarra. A volte inviava i prezzi a Frank per una rielaborazione sonora. Si può dire che, dopo il fallimento delle esperienze di gruppo, la strada tracciata fosse quella in solitaria con l’aiuto delle nuove tecnologie.
Oggi il contesto musicale è molto diverso da quello dei primi anni ‘2000, ovvero l’apice del “successo” dei Greyhound. Una ventina di anni fa il rock incarnava ancora l’alternativa, la ribellione.  Già allora l’era delle grandi rock band era in declino ed erano pochi i gruppi che riuscivano a catalizzare fenomeni di massa. Però il rock non era ancora surclassato da altri generi musicali (pop, hip hop, trap) come accade oggi. Ora i giovani suonano sempre meno e la grande industria di strumenti musicali è in crisi. Ad una chitarra o un basso o una batteria si preferisce la console di un dj. L’introduzione di internet ha polverizzato tantissimo l’offerta musicale per cui nascono molte piccole band che riescono ad ottenere un’attività live grazie al tam tam su Internet, ma non creano indotto: servono semplicemente a mantenere chi vi suona. Ci sono quindi tante piccole nicchie di cultori della musica rock ma il giro d’affari si è ridotto notevolmente. E poi anche la figura del rocker è passata di moda. I millennials sono curati nel fisico e nel look. Ogni forma di vestiario trasandata o non associata a grandi marchi o firme è squalificante. Un fisico non allenato è privo di qualsiasi attrattiva. E anche dal punto di vista caratteriale qualsiasi forma di inadeguatezza è vista semplicemente come un fattore di esclusione: non nasconde un risvolto di fascino o di interesse. Semplicemente esiste un unico modello di uomo, un uomo a una sola dimensione e non è dato sottrarsi a questo potere implicito.
Di fronte a questo tentativo di Davide di riagganciarsi al suo sogno musicale, è lecito chiedersi se non sia tutto inutile: il rock è morto?
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[INTERVISTA] Intervista esclusiva con i BTS i quali hanno ufficialmente debuttato nella scena musicale statunitense
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“Incontrarsi con celebrità di successo è quasi impossibile, specialmente quando si tratta di farlo con un gruppo idol coreano così sotto i riflettori come i BTS. I BTS hanno completato con successo la loro esibizione di debutto agli American Music Awards il 19 Novembre a Los Angeles. il gruppo aveva una lista di impegni davvero piena a Las Vegas. Per nominarne alcuni: un’intervista con un’emittente televisiva giapponese insieme ad un servizio fotografico con la rivista di moda americana “Vogue”. Nonostante i loro numerosi impegni i BTS sono riusciti ad incontrarsi per un’intervista esclusiva con il giornale coreano “The Chosun Ilbo” a Los Angeles appena dopo la loro performance di debutto. Visto che l’intervista con il Chosun Ilbo era un’esclusiva i BTS sono stati molto attenti nel rispondere alle domande.
Qui di seguito trovate alcune delle domande e delle risposte date dai BTS:
-DOMANDA- Come vi sentite adesso che vi siete appena esibiti sul palco degli AMAs? RM: Non riesco ancora a crederci (*ride).
-DOMANDA- La risposta sembra molto standard (*ride). Gli AMAs sono ben conosciuti come una delle cerimonia di premiazione americane (insieme ai Billboard e ai Grammys) più importanti. Per un cantante ricevere un invito ed esibirsi agli AMAs deve essere molto significativo. Sono sicuro che ci sia molto di più oltre al “non riuscire ancora a crederci”. Che cos’altro potete aggiungere?
JH: Gli AMAs sono una cerimonia di premiazione che ho sempre e solo guardato attraverso i video. Venire qui, avere la possibilità di esibirci, con così tanti nostri fan ad incoraggiarci, è davvero un’esperienza completamente nuova. È stato un onore e se ci sarà la possibilità sarebbe davvero fantastico poterci esibire qui un’altra volta l’anno prossimo. Provo davvero una sincera gratitudine verso i nostri fan. RM: Come ha detto lei, gli AMAs non sono una delle cerimonie americane più importanti? Sono prestigiose tanto quanto i Grammys e i Billboard. Abbiamo sentito come se ci avessero davvero considerato come parte integrante dello spettacolo. Ci hanno rispettato e ci hanno trattato bene invece di presentarci semplicemente come un nuovo sorprendente fenomeno asiatico. Ci siamo esibiti per sedicesimi su 17 artisti lì presenti. Il fatto che ci abbiano messo appena prima di Diana Ross e avendo i Chainsmoker, alcuni degli artisti più amati negli Stati Uniti, a presentarci al pubblico ci ha fatto sentire rispettati. Molti dettagli che sono stati preparati dagli AMAs ci hanno fatto sentire i benvenuti e abbiamo sentito come se l’intera organizzazione si fosse presa molto tempo per conoscerci e per rispettarci come veri artisti.
(Ciò che ci ha impressionati durante l’intervista è che i BTS si sono sempre riferiti ai loro fan con il titolo onorifico di “i nostri più cari fan”. Essere un gruppo idol è difficile se non si hanno dei fan. Per questo forse l’espressione “i nostri più cari fan” è l’atteggiamento grazie al quale i BTS continuano a ricevere affetto dai loro fan.)
-DOMANDA- Da quando avete ricevuto un premio ai BBMAs e adesso che vi siete esibiti agli AMAs sembra che la vostra popolarità sia salita alle stelle. A livello personale come la avvertite? J: Abbiamo ricevuto il premio “Artista dell’Anno” ai MAMA per la prima volta. È passato meno di un anno da quando abbiamo pianto tutti insieme e ci siamo abbracciati festeggiando questo avvenimento ma poi abbiamo ricevuto anche un premio ai BBMAs ed ora ci siamo esibiti agli AMAs. Siamo impressionati dalla velocità con cui le cose sono cambiate per noi. Sono passati quattro anni da quando abbiamo debuttato e sono successe così tante cose… È passato tutto così velocemente in questo ultimo anno. RM: Tra tutti i social, Twitter è la piattaforma su cui ci concentriamo di più e di cui siamo più orgogliosi. È davvero la più facile da usare. Avevamo 5 milioni di follower sei mesi fa e adesso abbiamo sorpassato i 10 milioni. In data 21 Novembre abbiamo raggiunto 10.3 milioni diventando l’account twitter coreano con il numero più alto di follower in Corea. Ci siamo occupati dei social per circa 5 anni e tutto il nostro seguito è duplicato in un battito di ciglia in soli sei mesi. La nostra canzone DNA è entrata nella Billboard Hot 100 e si è piazzata alla posizione n.85. In quanto canzone coreana è la seconda a stabilire questo record dopo “Gangnam style” di Psy. Questa è una classifica in cui sognano di entrare tutti gli artisti del mondo. Fare il nostro debutto statunitense attraverso gli AMAs è un onore così grande e speciale che non ce ne rendiamo nemmeno conto. Penso che sia tutto merito dei nostri fan, al 100%. Nemmeno noi abbiamo mai visto un fandom del genere (*ride).
-DOMANDA- La crescita dei BTS e di ognuno dei membri si riflette in tutti i contenuti che rilasciate. In altre parole, la storia di voi che maturate è il contenuto stesso che i BTS offrono. In che modo pensate che questo percorso di crescita rifletta la vostra vita di adesso? SU: Non posso dire che i nostri testi rappresentino il 100% delle nostre esperienze. Tuttavia è vero che molti di essi includono le nostre esperienze personali. Abbiamo rilasciato così tante canzoni… (*ride) Canzoni come Jump, in cui abbiamo cercato di parlare della nostra generazione e dell’era corrente in cui viviamo. RM: Il titolo della nostra canzone di debutto è “No More Dream”. Quando la si ascolta, c’è una frase che continuiamo a ripetere che dice “Hey, qual è il tuo sogno?”. In quel periodo tutti i miei amici avevano circa 20 anni e alcuni andavano ancora alle superiori mentre altri erano già all’università. Non riuscivo a comprendere coloro che non avevano nessun sogno. Ero arrabbiato con coloro che non prendevano in mano la loro vita e che sprecavano tempo così ho cercato di racchiudere tutto questo nei miei versi. Proprio come in quel caso, i nostri testi creano un collegamento con gli adolescenti o con le persone che hanno più o meno la nostra età e sento che questi possano ricondurre anche a noi. Quando abbiamo rilasciato la canzone “Danger” è stato un periodo difficile in cui non potevamo sbagliare: sarebbe stato troppo pericoloso subire un ulteriore fallimento. Quando invece abbiamo rilasciato “I Need U” abbiamo acquisito nuovi fan. C’è un modo di dire che recita: “i cantanti rispecchiano i titoli delle loro title” quindi… (*ride).
-DOMANDA- Avete così tanti fan in giro per il mondo. Oltre alla Corea quale paese ha i fan più sfegatati? SU: Il Brasile! Penso che il loro livello di energia fosse 10 volte più alto di quello del pubblico degli AMAs. Quando abbiamo tenuto il concerto in Brasile sembrava quasi come se l’intero terreno stesse tremando. Hanno cantato insieme a noi dall’inizio alla fine. La sorpresa che ho avuto guardando i fan brasiliani è stata semplicemente enorme. RM: La samba, le feste, il calore, la passione… penso che siano tutte cose che li rispecchiano davvero. Quando ci siamo esibiti hanno fatto un flash mob lì con circa 100 persone. Mi sono sentito quasi come se stessimo per venir risucchiati dall’energia del pubblico. V: I fan brasiliani hanno ballato quasi come se si stessero esibendo su un palco tutto loro. Guardandoli dal palco ne sono rimasto affascinato e questo mi ha lasciato soddisfatto e orgoglioso. J: È stato come se stessi partecipando ad un intero festival (*ride).
-DOMANDA- Voi ragazzi siete cantanti e cantautori. Su cosa vi concentrate maggiormente quando create la vostra musica? Le tendenze? Il suono? I testi?
SU: Non possiamo rinunciare a nessuno di questi fattori ma pensiamo a tutti gli elementi contemporaneamente. Le tendenze, il messaggio, il suono, tutti questi fattori sono molto importanti. Siamo costantemente con i produttori, lavoriamo (con loro) fianco a fianco quando creiamo le nostre canzoni. Lavoriamo molto con loro. Quando ci dedichiamo agli album non creiamo una tabella di marcia. Semplicemente lavoriamo alle tracce. La Big Hit ci lascia concentrare e lavorare alle canzoni con solo l’eccezione per gli impegni che non possono essere evitati. Questo ci permette di focalizzarci sulla creazione di musica ancora di più. (*ride) La Big Hit pensa all’importanza della creazione delle canzoni e dell’influenza che ha sul nostro team. RM: Ci sono circa dalle 20 alle 30 persone che lavorano insieme quando si tratta dei singoli. Dobbiamo pensare a come distribuire le parti, l’aspetto dell’esibizione, se è abbastanza di tendenza e se ci identifica. La Big Hit sa quanto è importante e ha creato (per noi) un ambiente in cui possiamo focalizzarci a creare le nostre canzoni.
-DOMANDA- Quale pensate sia la ragione del vostro successo?
JH: Penso ci siano degli elementi fondamentali. Potrebbe essere la nostra musica, le nostre esibizioni o anche l’energia passionale delle persone che ci ascoltano e ci guardano. Quello che però è più importante è (la presenza dei) nostri fan che si sono fidati e che senza alcun dubbio ci hanno seguiti fino ad ora. Grazie ai nostri fan abbiamo potuto partecipare anche agli AMAs. Ogni volta che li vediamo agli show, AMAs o ovunque, loro sono così appassionati. Io credo che l’influenza del nostro fandom abbia giocato un ruolo fondamentale per il nostro successo. RM: Molte persone sono curiose di come il nostro fandom abbia raggruppato così tante persone. I BTS sono un set regalo completo. Musica, esibizione, moda, video musicali, contenuti sui social… c’è tutto. Si è creata una fiducia attraverso la musica e ci sono diverse porte che permettono di entrare in quello spazio. Ci sono persone che sono entrate per la nostra musica o per le nostre esibizioni. Credo che abbiamo creato un contenuto completo. SU: Io credo che il nucleo di ogni gruppo idol è il lavoro di gruppo. Il team deve ottenere il successo per primo in modo da consentire ad ogni singolo membro di avere poi successo. È difficile mettere tutti e sette d’accordo ma noi lo facciamo e la pensiamo allo stesso modo. Penso sia questo il nostro potere. RM: A volte ho avuto il desiderio di avere un mio account personale sui social ma conoscendo la sinergia che si crea quando lo usiamo come team ho abbandonato quel pensiero. JH: Sì… e per questo ci siamo anche aggiudicati il premio ai Billboard… (*ride)
-DOMANDA- L’uso insistente delle piattaforme social è uno dei fattori del successo. Siamo curiosi di sapere quali fossero i vostri pensieri quando avete iniziato a fare le “Bangtan Bomb”.
J: Le “Bangtan Bomb” semplicemente mostrano la nostra quotidianità, come ci comportiamo tra di noi. Noi ci comportiamo come facciamo di solito, loro ci filmano e lo postano. È difficile fare video impegnati e caricarli ogni settimana, così carichiamo dei semplici video che ci mostrano mentre giochiamo nelle sale d’attesa, ecc. Penso che ai fan piaccia di più che mostriamo come siamo nella vita quotidiana. SU: Prima non mi piacevano molto i social. Prima di iniziare questa cosa dei social ero preoccupato (per il fatto) che non solo saremo cresciuti ma ci sarebbero stati anche molti aspetti rischiosi. Quello che abbiamo realizzato però è che è importante mostrare il nostro aspetto naturale. I nostri fan possono vedere i nostri lati più fighi o belli attraverso la TV o altro ma penso che siano più curiosi di vedere i veri noi stessi del dietro le quinte. Le “Bangtan Bomb” mostrano i veri noi dietro le quinte, dietro il palco. Anche i social sono nostri amici. Non pensiamo siano un lavoro ma con naturalezza carichiamo qualcosa. Lo facciamo spesso e forse è per questo che piace anche ai nostri fan. JM: Molte persone dicono che usiamo molto spesso i social ma potrebbe sembrare così perché usiamo un solo account in sette. (*ride) Direi che questo è il lato positivo di usarlo insieme. Tendiamo a farne uso molto spesso. SU: Sai… usare un solo account mostra che siamo un team. (*ride) RM: Molte persone usano i social ma noi non lo facciamo in modo formale. Lo facciamo perché vogliamo condividere foto, video, musica e lo facciamo in modo naturale. V: Ci è stato detto che i post sul nostro twitter dal debutto hanno sorpassato i 10,000. Anche le canzoni che abbiamo rilasciato sono più di 100. Ora che ci penso in alcune canzoni, in certe melodie, ci sono parti che rinnego. Ne sono anche imbarazzato. Al tempo le abbiamo fatte con sincerità e per questo mantengono il loro fascino.
-DOMANDA- Non vi pesa rivelare la vostra privacy sui social?
JK: Non ci ho mai pensato. SU: Se ci sono cose che desideriamo che gli altri non postino ne discutiamo e non le postiamo (*ride) RM: Personalmente mi sento un po’ oppresso (dalla paura) che possano essere postate cose quando siamo troppo indifesi. (*ride) SU: Ai fan piace anche questo nostro lato. (*ride)
-DOMANDA- Non avete alcun profilo personale?
SU: No, non ce l’abbiamo. Condividiamo tutti attraverso un solo account.
-DOMANDA- Il vostro gruppo è conosciuto per quegli incredibili balli sincronizzati. Qual è stata la coreografia più difficile per voi?
RM: Danger. Beh, non c'erano così tante parti da ballare per me in qualunque caso, quindi non saprei. (*ride) V: Qualsiasi coreografia era difficile. Ogni volta che ne esce una nuova diciamo che è leggendaria. (*ride) JH: Se ne dovessi scegliere solo una, direi “Blood, Sweat And Tears” … Ogni volta che ballo quella canzone sul palco, sembra prosciugare le mie energie più delle altre. Muoversi è veramente difficile in alcune parti. JM: Penso sia completamente diverso per ciascun membro. Per quanto riguarda me, direi MIC Drop. C'erano molte parti in cui dovevo cantare e ballare allo stesso tempo. V: Voglio aggiungere We Are Bulletproof Part2. (*ride) Ma dopotutto quale canzone non ha la coreografia complicata? (*ride)
-DOMANDA- Questa è una domanda scomoda. È stato fatto notare che i testi contenevano avversione nei confronti delle donne. Cosa ne avete pensato?
SU: Ho studiato molto. Credo vi sia una parte su cui dobbiamo pensare e che sicuramente dobbiamo cambiare riguardo al pregiudizio e al problema che indubbiamente si trova nella società. Penso di essere in grado di giudicare ciò che è giusto e sbagliato studiando più del necessario. Qualsiasi essi siano, se ci sono discriminazione e pregiudizio nelle nostre canzoni, è sbagliato. Sono d'accordo sul sistemarli e cambiarli. Noi studiamo anche molto, parliamo e parliamo molto. Penso che possiamo sistemare quel punto e migliorarlo. RM: Le cose più controverse arrivano da ciò che scrissi. Ho pensato 'ero così ignorante'. Volevo studiare molto. Da allora, dopo aver scritto i testi chiedo esaminazioni da professori e studenti di università e college. Dopo questo, ho imparato che quando si parla di un sesso specifico, non si dovrebbe mettere tutto insieme e dirgli di essere questo.
-DOMANDA- Avete cominciato la campagna UNICEF #Endviolence in quel senso?
RM: Abbiamo determinate intenzioni con la nostra musica. La violenza è un argomento che molti giovani affrontano e possono comprendere. Il nome della nostra campagna è “Love Myself”. Personalmente, è importante anche diffondere questa parola nella società. Se si comincia con l'amare se stessi, ci sembra di star facendo un passo in avanti verso terminare la violenza. SU: Ciò di cui abbiamo parlato mentre cominciavamo questa campagna è che vogliamo utilizzarla dove è necessario, mentre la nostra influenza nella società cresce. Credo questa sia una campagna significativa e che ci stiamo orientando nella direzione giusta. Tutti noi abbiamo concordato insieme di unirci a questa campagna.
-DOMANDA- Tutti voi avete uno certo interesse per i problemi sociali come gruppo idol. Ho sentito che leggete molti giornali. Anche quello vi aiuta con la vostra carriera musicale?
SU: Anche i nostri fan parlano di molti problemi sociali che avvengono nella nostra quotidianità e non penso sia giusto da parte nostra non saperlo. RM: La nostra identità dal debutto è quella di parlare della nostra storia. Parlare di noi e parlare di quelli della nostra generazione … Ovviamente dobbiamo sapere di tutti i problemi sociali per poterne parlare. Non possiamo scrivere i nostri testi senza conoscerli.
-DOMANDA- Cosa avete guadagnato e perso vivendo da idol?
SU: Ciò che ho guadagnato è un'esperienza diversa che molti della mia età non possono vivere. Ciò che ho perso è solo essere una persona comune. Quelle che sembrano cose ordinarie agli altri talvolta sono nuove e speciali per noi. Abbiamo anche faticato e ci siamo preoccupati molto, ma non penso sia una questione di buono o brutto. J: Abbiamo guadagnato amore da così tanti fan e perso molti dei nostri amici, visto che siamo sempre impegnati.
-DOMANDA- Cosa distingue voi ragazzi dagli altri gruppi idol in Corea?
SU: Siamo orgogliosi delle nostre esibizioni. Amiamo le nostre performance e vi riponiamo fiducia al punto da pensare che moltissime persone dovrebbero davvero vederci esibire. Sono la nostra stessa storia e onestà che stiamo costruendo da molti anni. Non penso ci sia un gruppo che sia arrivato qui come noi, dalla posizione da cui siamo partiti. RM: E' coesistente con la narrativa. È sciolta nella nostra musica e nella nostra visione del mondo. È la storia della scuola e della nostra giovinezza che è stata raccontata dalla nostra stessa voce. La nostra stessa gioventù, i nostri momenti più belli nella vita, parliamo della nostra storia attraverso la musica. Questa narrativa coesiste nella nostra musica. E cantiamo il messaggio “Abbiamo cominciato dal fondo e siamo arrivati qui”. I nostri fan sono orgogliosi anche di quello e così anche noi. Questo è il contesto che ci ha portati a questa narrativa. Comincia con noi, che non abbiamo neanche creato account personali su alcun social media. Un membro potrebbe andarsene, volendo diventare solista, perché ciascuno di noi è così diverso ed è bravo in qualcosa di diverso. Eppure, sappiamo precisamente in quale direzione vogliamo andare. Non cancelliamo mai programmi o prove. Ci siamo uniti solamente per formare il marchio dei “BTS” come una sola persona e questo è ciò che ci ha portati qui. SU: Noi andiamo avanti tutti insieme. Non c'è neanche un membro che pensa “Oh, sono l'unico che sta facendo tutto il duro lavoro in questo gruppo”. Per noi, i BTS come unica entità sono importanti e ci concentriamo solo su quello. RM: Ho una mancanza nel ballo rispetto agli altri, ma la ragione per cui mi impegno così tanto nella coreografia non è perché voglio sembrare bello, ma perché siamo un gruppo sento il bisogno di aiutare e voglio contribuire. Voglio creare quell'immagine impeccabile, penso solo a quello.
-DOMANDA- Ultima domanda, quali sono gli obbiettivi di ciascun membro?
J: Voglio essere felice. Non ho un grande obbiettivo, vorrei poter ridere ed avere una vita felice, come ora. JM: Voglio essere bravo in ciò che sto facendo ora. Voglio sentire quel 'stai andando bene' dai fan. Desidero crescere per poter dire 'sei davvero figo oggi' quando vedo me stesso. JH: Voglio rilasciare il mio mixtape. Sono pronto ora, voglio rilasciarlo il prima possibile. Non è solo un mixtape, ma è al livello di un album. Penso 'anche RM e Suga hanno rilasciato un mixtape, voglio fare musica con i miei colori'. Devo comunicare con fan americani e di altri paesi, perciò voglio studiare duramente le lingue straniere. JK: Voglio fare molte cose quest'anno e il prossimo. Voglio scrivere canzoni e ballare bene e parlare bene le lingue straniere. L'obbiettivo finale è di non essere pigro nel fare ciò che voglio, ma diventare uno che si dà da fare. V: Voglio aggiungere fascino e fare nuove esperienze da attore. Voglio studiare fotografia e scattare buone foto. Da cantante e membro dei BTS, voglio diventare una persona sempre più eccezionale. Voglio essere una persona molto attiva in diversi campi. SU: L'obbiettivo finale, quando abbandonerò la musica, penso sia di voler lasciare quando le persone applaudono, ma spero che questa uscita di scena arrivi lentamente. Suono da abbastanza tempo, ma spero che continui per molto di più. Non so se sarà possibile nella realtà, ma penso di voler uscire mentre le persone applaudono. RM: Amare me stesso è il mio sogno. Non so se riuscirò a farcela prima di morire. (*ride)”
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©CiHope, ©Clara, ©lynch ) | Trans ©glitter_jk ©chosun
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Quando Brindisi salutò il nuovo Cesare (parte prima)
di Nazareno Valente
  Se è scontato che tutte le strade portano a Roma, è anche vero che in antichità quelle che andavano, o venivano, dall’Oriente passavano immancabilmente per Brindisi.
A quei tempi la nostra città aveva poche uguali ed era celebrata da letterati, poeti e storici tanto è vero che, se a qualcuno venisse la briga di censire i testi antichi, scoprirebbe che, a parte Roma, nessuna metropoli dell’Occidente romano vanta un così consistente numero di citazioni. Sono infatti rari gli avvenimenti d’un certo significato storico, in particolare se accaduti sul Mediterraneo, da cui Brindisi fu esclusa, non solo per la sua importanza strategica, ma anche in virtù del suo peso economico. E questo si verificava in maniera puntuale nei momenti di evidente tensione sociale, come accaduto nel I secolo a.C. quando l’Urbe attraversò un periodo assai agitato, lacerata com’era da violenti dispute interne.
Abbiamo già visto come la nostra città abbia fatto da scenario al primo significativo scontro della guerra civile, che permise poi a Cesare di avere il sopravvento su Pompeo (11 e 12 ottobre 2017). Al termine della contesa, il vincitore debellò l’avversario dando al contempo pure la spallata conclusiva alle istituzioni repubblicane, che avevano già mostrato palesi crepe nelle lotte cittadine precedenti. Sebbene Cesare non fosse divenuto formalmente un re, lo era nondimeno nella sostanza, essendosi sostituito al Senato ed al popolo nell’esercizio dei principali poteri statali. Era di fatto lui che decideva sulla pace e sulla guerra; aveva facoltà di servirsi degli eserciti; disponeva delle finanze; proponeva gran parte dei magistrati; stabiliva i governatori provinciali ed aveva finanche il potere di creare nuovi patrizi. E tutto ciò lo faceva in forza di quelli che lo storico Svetonio chiamava gli «onori eccessivi» («nimios honores») che gli erano stati di volta in volta conferiti. Vale a dire, il consolato a vita, la dittatura perpetua, il soprannome di “padre della Patria” e la «sacrosanctitas», che lo rendeva inviolabile prevedendo addirittura la pena capitale per chi gli avesse arrecato danno.
Per andare dietro a tutto, il dittatore s’era creato un gruppo composto da persone di sua fiducia, scelti dalla nobiltà provinciale ma pure da suoi liberti e servi personali. A sentire Svetonio, Cesare aveva affidato il Tesoro statale e la cura della finanza pubblica a suoi schiavi; il comando delle tre legioni di stanza ad Alessandria al figlio d’un suo liberto e la gestione amministrativa delle province a magistrati di sua esclusiva nomina. E, pure quand’era assente, non mancava di gestire il governo dell’Urbe tramite suoi uomini di fiducia che firmavano i decreti a suo nome, dopo aver ricevuto istruzioni con lettere che facevano uso di un codice segreto basato su errori grammaticali inseriti di proposito nello scritto.
Non c’è quindi da sorprendersi se c’erano velati mugugni dovuti anche al fatto che, da un punto di vista formale, le istituzioni repubblicane sussistevano ancora, per quanto del tutto svuotate delle loro peculiari caratteristiche. Sebbene lo spirito repubblicano s’andava spegnendo sempre più, c’era comunque chi rimaneva ancorato agli ideali passati e viveva con sofferenza l’affermarsi d’un potere personale eccessivamente opprimente. Ed è su questi idealisti che l’oligarchia senatoria fece leva per modificare la situazione politica, non tanto perché desiderosa di tornare alle antiche virtù repubblicane, quanto piuttosto per riappropriarsi del potere perduto.
La congiura unì nemici a persone che avevano ottenuto da Cesare onori e cariche e si compì alle idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C. all’apertura della riunione del Senato. Mentre Antonio, ritenuto il braccio destro del dittatore, veniva tenuto lontano dalla scena da Trebonio, un altro cospiratore, Servilio Casca, sferrava la prima delle ventitré pugnalate che uccisero Cesare. Ironia della sorte, sia Trebonio, sia Casca avevano beneficiato dei favori e della clemenza di chi stavano pugnalando. Ma non erano gli unici che avevano un debito di riconoscenza con lui, sicché non destò meraviglia che, nel corso del funerale del dittatore, un cantore, impersonando il morto, gridasse agli astanti: li ho quindi salvati perché divenissero i miei carnefici? («men servasse, ut essent qui me perderent?»).
Era questo un verso d’una famosa tragedia (“Il giudizio delle armi”) composta da un nostro illustre concittadino, Marco Pacuvio, che concorse ad alimentare lo sdegno dei presenti.
Il 18 marzo, due giorni prima del funerale, il Senato aveva aderito alla richiesta di Pisone Cesonino di dare esecuzione al testamento che Cesare aveva consegnato in custodia alle Vestali. L’apertura del documento riservò più d’una sorpresa: i nove dodicesimi dell’asse ereditario andavano al pronipote Gaio Ottavio, il futuro Augusto, che in aggiunta veniva adottato dal dittatore. L’erede, poco più che diciottenne, si trovava in quel momento ad Apollonia (una città a sud di Durazzo) mandatovi proprio da Cesare per fargli fare esperienza di vita militare al suo seguito nella programmata spedizione contro i Parti. Ed è qui che Ottavio riceve il messaggio, mandatogli in tutta fretta dalla madre Azia, che gli annuncia unicamente l’uccisione di Cesare.
Dopo essersi consultato con Vipsanio Agrippa e Salvidieno Rufo, i suoi amici più fidati, il giovane decide di rientrare in Italia: ignora cos’era avvenuto dopo il cesaricidio e, soprattutto d’essere stato adottato dal dittatore, nonostante ciò preferisce attraversare lo Ionio evitando di fare rotta per Brindisi, nel timore che i congiurati abbiano preso il sopravvento e che possano aver predisposto qualche trappola a suo danno. Approda così, per prudenza, in una località a sud della nostra città per poi dirigersi “fuori della via battuta” verso “Lupie” (Lecce). Qui fa base, sino a quando non gli arrivano informazioni più precise sugli avvenimenti e non riceve copia del testamento. Solo allora, dopo aver per altro appurato che i cesaricidi non stanno tramando nulla contro di lui, si convince infine di avviarsi verso Brindisi.
Questa la narrazione di Nicolao di Damasco e di Appiano che, però, lascia spazio ad una banale domanda: se non sapeva d’essere stato adottato da Cesare, che motivo aveva Ottavio per temere che i congiurati potessero avercela con lui? Di conseguenza appare del tutto ingiustificata la circospezione che l’aveva indotto a preferire un tragitto più tortuoso e lungo rispetto a quello che l’avrebbe condotto a Brindisi. S’aggiunga inoltre che i mezzi di locomozione d’allora non consentivano di spostarsi in tempi neppure lontanamente comparabili con quelli attuali: un tratto — ad esempio, da Roma a Brindisi — per il quale noi sprechiamo poche ore, veniva comunemente fatto in un paio di settimane, per cui anche la minima deviazione comportava un aggravio ed una grossa perdita di tempo. Quel tempo che in effetti il futuro Augusto non sembra d’aver perso in inutili esitazioni nel suo viaggio di avvicinamento a Roma, se Cicerone, in una lettera ad Attico, lo dà per arrivato in Campania già alla metà di aprile. Il che rende improbabile, pure in base ai tempi di percorrenza, il tortuoso cammino prospettato dai due storici. Quella di Nicolao e di Appiano sembra pertanto la classica ricostruzione compiuta con il senno del poi, magari condizionata dalla propaganda augustea intesa ovviamente a valorizzare le doti strategiche possedute già in età giovanile da Ottavio ed a far credere che, sin dal suo esordio politico, incuteva rispetto e timore nei suoi avversari.
Per questo, appare di gran lunga più attendibile la versione di Cassio Dione che, proprio basandosi sul fatto che i contenuti del testamento di Cesare erano ancora ignoti, dava per scontato che Ottavio si fosse diretto subito verso Brindisi, senza quindi ritenere necessaria la prudenziale tappa intermedia di Lecce. In tale ipotesi, è quindi nella nostra città che Ottavio riceve copia del testamento, venendo così a conoscenza d’essere stato adottato dal dittatore.
Comunque sia andata, su un punto, invece, i tre storici antichi si trovano d’accordo: fu a Brindisi che Ottavio abbandonò il suo nome e assunse quello del padre adottivo, facendosi chiamare da allora in poi Cesare. I suoi avversari politici, ma anche ad esempio Cicerone, continuarono almeno per il momento a chiamarlo Ottavio, e non solo per un aspetto formale: la procedura per l’adozione, che prevedeva l’accettazione dinanzi al pretore urbano e l’approvazione dei comizi tributi, non era stata neppure avviata. Per i patrizi romani era un modo spocchioso per distinguersi dai parvenu, in genere incuranti delle antiche tradizioni repubblicane.
E, nella prossima puntata, vedremo meglio perché.
(1 – continua)
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Tommy Luciani: la musica, il kung fu, i sacrifici... di uno dei dj di Vida Loca
Prima di leggere questa intervista, sappiate che Tommy Luciani, uno dei dj dell’ormai celeberrimo party Vida Loca, ha risposto in poche ore, forse pochi minuti dall’invio delle domande. La cosa ha dell’incredibile. I dj tra una serata e l’altra solitamente dormono e si fanno pregare. Tommy invece ha risposto in italiano corretto, anzi perfetto. Prima o dopo l’ennesima serata. Non credo di aver cambiato una sola parola né trovato il benché minimo errore, neppure di battitura. Se avete partecipato ad un party Vida Loca con lui in console capite perché pure lì una sua sbavatura è un evento epocale. Non sbaglia praticamente mai perché è un maniaco. Fa quasi paura, un po’ come tutte le frasi motivazionali di cui riempie la sua pagina Instagram. Perché si, anche far divertire può essere un mestiere serio (Lorenzo Tiezzi) 
Ci fai un tuo breve identikit? Tipo: età, dove sei nato, dove vivi, che tipo di dj sei, passioni al di là della musica, vita personale (…)? Ho 37 anni , e sono nato e cresciuto a Carrara, dove tutt’ora vivo. Sono un dj di vecchio stampo, uno di quelli che si concentra sull’aspetto emotivo della selezione, che mette al primo posto la musica lasciandole lo spazio che merita, rendendola sempre l’unica protagonista. Sono un appassionato di surf da onda, e mi dedico allo studio del wing chun kung fu AWTKA.   Raccontaci cosa stai facendo in studio? E le tue serate? Insomma, il tuo mondo musicale oggi com’è? Mi dedico per lo più all’editing, a riprogrammare le linee di drums di alcuni pezzi per renderli più carichi ed a remixare ciò che difficilmente potrei inserire nei mie set. La maggior parte del lavoro quindi è dedicato a rendere i miei set personali e con la dinamica che mi serve. Ho anche un progetto in cantiere, ma la mole di serate che ho mi tiene impegnato sulle selezioni. Quale sarà il sound del 2018? 
Credo ci sia stata negli ultimi tempi un ritorno al divertimento semplice. Il pubblico è sempre meno attirato dal fenomeno tecnico, e sempre più dalla leggerezza. Per il 2018 dei fashion club quindi vedo una situazione chiara: l’ondata latina salirà sempre più, come l’ingresso nei club di sonorità sempre più pop, melodiche e cantante. A che punti ti senti della tua carriera? Ogni giorno per me è il punto di partenza! Ho un piano di studio e di lavoro quotidiano, ho degli obbiettivi precisi, che ritocco e riprogrammo dopo ogni miglioramento. Ovviamente sono molto felice dei risultati che sto ottenendo, ma parlerò di carriera solo quando avrò realizzato il mio sogno. Cosa fai per addormentarti dopo una serata? Quando arrivo in hotel, mi prendo un momento per rivivere la serata e mi faccio 3 domande : cosa ha funzionato? Cosa non ha funzionato? Cosa potevo fare meglio? Dopodiché mi addormento pensando ai momenti magici che ho vissuto, ed alle situazioni che vorrei vivere in futuro. Fare il dj oggi è più facile o più difficile rispetto a vent’anni fa? Potrei fare millei paragoni, tra tecnologie e tecniche, o farmi prendere dalla nostalgia (ho fatto la mia prima serata nel 1999), ma non risponderei alla domanda. La verità per me è che sono tempi e mondi diversi, con logiche diverse. Ogni età nasconde la parte facile e la parte difficile che la caratterizza. Io credo che oggi come ieri la differenza la faccia la determinazione, perseveranza, e l’amore. Tanto amore. Indipendentemente dal momento storico. Come vedi i ragazzi in discoteca? Si divertono bene o male? La musica li coinvolge nel modo giusto? Quando la festa è organizzata a dovere, quando c’è l’attenzione verso il pubblico, e ci si dedica a creare la giusta atmosfera non c’è modo di diversi male. Incontro migliaia di ragazzi ogni week end e alla base vedo solo una cosa: voglia di stare bene. Basta dargli i giusti input ! L’energia positiva quando parte non la fermi e contagia anche i balordi. 
Come passi il tempo nei viaggi che fai per passare da una serata all’altra? Mi sveglio sempre presto anche dopo una serata e ed inizio con degli esercizi di kung fu. Mi sposto spesso in macchina, quindi ho la radio sempre accesa. A volte riascolto la serata del giorno prima (mi registro sempre), o faccio zapping fino a quando non trovo  una canzone che mi faccia cantare. In treno leggo, e ovviamente quando posso mi riposo. Oggi il dj, in ogni genere musicale, deve anche anche una “star”… oppure no? La parte mediatica e l’immagine oggi è importantissima, ed ognuno di noi ha un ego da nutrire. Ma credo che “il personaggio” sia inutile se non c’è sostanza. Credo quindi che sia importante stabilire il giusto ruolo tra il chi vuoi vendere ed il cosa sai fare. E’ vero che la musica oggi conta meno della promozione, della comunicazione, del marketing? E’  la scusa che usa chi si arrende o chi non ha le capacità per fare. E’ ovvio che un budget illimitato ti rende la vita più facile e che una comunicazione giusta sia necessaria per arrivare a certi livelli. Il mondo gira veloce, il marketing è alla base delle nostre scelte, e sarebbe stupido negarlo. Ma non possiamo dargli tutte le colpe. La musica buona c’è, e prima o poi arriva. Riesci a conciliare la vita spericolata da dj e la tua famiglia, le tue amicizie, la ‘normalità’? Sto sacrificando molto per questo sogno. Ho un fratello di 9 anni che vedo pochissimo, e non ho una relazione stabile da tempo.   La vita spericolata la regolo con la pratica dell’arte marziale, che da un equilibrio unico ed un alimentazione sana. Ci consigli per favore un dj talentuoso non ancora conosciuto ed un top dj di cui si parla troppo poco?   Ivo del Prado è un ragazzo della mia città con un background importante e una tecnica mostruosa specializzato nell’house music e sulla musica di tendenza. Per il top dj, voto sicuramente per Dj Skizo, pioniere dello scratch italiano.   Quanto conta la tecnologia in console? Cinque! Se hai le abilità, e ti alleni, butti giù tutto anche usando un mangianastri. Che consigli daresti a un ragazzo di 12 anni che vorrebbe diventare dj? Parti dalla musica. Amala, ricercala , studiala. Costruisci delle basi solide studiando la storia e le tecniche basilari del djing. Fissa degli obbiettivi e stabilisci un percorso quotidiano che ti ci porti. Abbi fede nel tuo sogno ed in te stesso e ovviamente allenarti come una bestia. Ogni giorno, 365 giorni l’anno.
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Connessione Stabilità
Una scritta nera in contrasto con lo sfondo bianco della pagina separato dai lati dello schermo da due sbarre grigie come una prospettiva ravvicinata di ciò che vedono due occhi incastrati fra le sbarre di una prigione cita “connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto”:
“Ciao”
“M tu?”
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat, premi start per ricominciare.
Connessione stabilita puoi parlare con lo sconosciuto.
“M”
“M”
La buona educazione delle chatroom prevede che nel momento in cui è il secondo a dichiarare il proprio sesso ed è corrispondente a quello per primo dichiarato, il secondo dovrà abbandonare la chat perché premere la sequenza di tasti slash-sinistro-end per terminare la sessione è una vera rottura di coglioni.
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto.
“ciao”
“Hey”
“Piacere Antonio, 19 anni tu?”
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Capita che tra una conversazione ed un'altra passino delle ore, delle serate intere di occhi gonfi e rossi che fissano un display luminoso di un computer inombrato nell’angolo della stanza, posto sopra una scrivania in legno scuro di fianco a pacchi di fazzoletti usati e da usare sempre a portata di mano per qualsiasi evenienza, che sia un raffreddore o una F disinibita, libri scolastici e compiti ancora da fare, penne biro sparse che nel buio della notte assumono tutte la medesima colorazione. Sono nottate in cui non si dovrebbero prendere decisioni, di notte non dovrebbero esistere le scelte se non la sicurezza di quello che si fa, altrimenti la notte non è altro che quel buco nero che sta fra un giorno e un altro in cui niente e tutto esiste, tempo e spazio sono irrilevanti, c’è solo la ricerca infinita, non esistono corpi. Sono notti in cui siamo tutti uguali qui dentro, che si va a letto sporchi di qualcosa che nemmeno il sonno potrà lavare via, sono notti in cui l’unica cosa che esiste è l’ossessiva ricerca di una conversazione.
Connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto.
“Ciao piacere Stefano, 21 anni. Tu?”
“Ciao, F Lesbo, hai foto di tua madre o tua sorella? Te le esco”
Connessione scaduta, hai abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Altra regola di sopravvivenza è che se uno sconosciuto dichiara di essere una F Lesbo è al 100% un M con la voglia di segarsi ma pensa di essere il più furbo della lobby e usa la strategia che andava di moda nei flashgames di incontri in cui ci si fingeva ragazze così da mettere a proprio agio le altre ragazze-anche-loro-maschi-finti-ragazze così da poter avere una vera e propria sexchat in cui i due ragazzi-che-si-fingono-femmine in questione immaginano la scena di sesso fra due poligoni in pixel colorati di uno schermo catodico segandosi ognuno nella rispettiva stanza buia e sporca e piena di fazzoletti usati e da usare. Questa è solo la versione avanzata in cui non sono più necessari alter-ego digitali figurati.
“ciao”
“ciao, piacere gianluca, 17, tu?”
“ciao, anna 16”
“ciao anna, come va? Che combini qui sopra a quest’ora”
“niente, mi annoio e volevo compagnia tu”
“stessa cosa, non riesco a dormire e volevo chiacchierare con qualcuno”
“ok”
“…”
“di dove sei?”
“firenze, tu?”
“Milano, ci sei mai stata”
“no”
“ok”
“…”
“…”
“vuoi fare qualcosa?”
“di che tipo?”
“non so, hai voglia di fare qualcosa insieme per passare il tempo?”
“ok che proponi”
“come sei fisicamente?”
“tu?”
“io sono alto 1,70 e sono abbastanza magro ma ben messo, faccio palestra, moro con gli occhi verdi, e capelli lunghi fino alle spalle tu?”
“io bionda, magra, bel culo e una quarta, quanto ce l’hai lungo”
“21 cm”
“apperò”
“sei fidanzata?”
“no ma mi sono appena scopata uno che è andato via e sono ancora eccitata”
“ti va di fare una chat porca?”
“si, cosa mi faresti se fossi qui”
“ti prendere di forza e ti girerei, mi metterei sopra di te per spingerti da dietro, ti toccherei fra le chiappe dopo averti fatta sputare sulla mia mano per bagnarti bene, poi te lo infilerei piano, solo la punta e poi tutto insieme e ti scoperei da dietro così”
“mmmmh”
“poi te lo metterei in bocca e ti scoperei la bocca e ti verrei in bocca e sulla faccia e sulle tettone”
“mmmm”
“tu che faresti con me”
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Altra regola per partecipare è di non rivelare il proprio nome, la propria età, il proprio membro o la propria città di residenza e non perché si può essere rintracciati, che diciamocelo è una stronzata nel senso che non siamo nessuno, se volessero davvero rintracciarci veramente pensate che la localizzazione del telefono con google o facebook potrebbe impedirlo che se disattivate e aumentate al massimo la privacy ci vuole credete che si faccia un vero problema a rintracciarvi che ci sono macchie di noi su internet che nemmeno non sappiamo di aver lasciato, siano digitali o sperma, in internet siamo tutti uguali, nelle chatroom siamo solo numero, nei social network siamo solo quantità, le persone che stanno dietro ai profili social e ai contatti per le videochiamate sono ovunque ottenibili da chiunque con un minimo di sforzo e quindi non è per questo che non si dovrebbe mai far trapelare la propria identità per questo ma semplicemente perché si rischia di avere meno chance di trovare compagnia. Personalità multiple, bipolarsimo e disturbo ossessivo compulsivo e scelte sbagliate sono accomuna tutti indifferentemente, oltre alle scelte sbagliate e alla sporcizia addosso.
La notte fuori procede senza segni e senza suoni, va avanti isolando la stanza da letto di Antonio, Stefano, Gianluca e di tutte le persone che condividono la stessa pelle, ossa, organi, membro, mutande, mani, scrivania, computer e fazzoletti che rimangono immobili, fermi alla stessa ora, sempre che possa essere misurata in ore, minuti e secondi il tempo passato alla ricerca della Conversazione, un moderno Godot dell’era di internet e della solitudine telematica in cui ci sentiamo tutti isolati, alla ricerca di conversazioni e compagnia, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere se sia un maschio o una femmina, da dove venga e se sia disposta o disposto a scambiare un minuto di intimità sessuale e personale con la gratitudine di aver alleviato questo profondo senso di solitudine e alienazione che lo schermo bianco sbarrato ai lati con scritte nere su bianche impongono a tutti quelli che si addentrano nella ricerca disperata di qualcuno che li faccia, che ci faccia sentire meno il nostro corpo come un corpo solo e soltanto e separato. Per quell’unico momento di scelta sbagliata cerchiamo di essere tutt’uno con lo schermo, smettiamo di essere noi, siamo internet, siamo una conversazione a sfondo sessuale, siamo altro, siamo l’altro partner sconosciuto, senza volto e senza identità ma siamo lui o lei, e in quel solo istante siamo in pace, non è più solitudine, abbiamo qualcuno, qualcosa. Poi nuovamente il nostro corpo, e di conseguenza il disgusto e la sporcizia.
Connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto.
“F”
“M”
“Ciao, lucia, 22”
“ciao, edoardo, 23. Come va?”
“Bene, noia e caldo e insonnia a parte, a te?”
“Direi che sono sulla tua stessa barca, però ora sto bene”
“che fai? Come mai sveglio a quest’ora?
“mah, niente. Solitudine, noia, voglia di conoscere qualcuno di piacevole alla quale almeno per ora sembro aver trovato una soluzione”
“oh che carino, però ancora non abbiamo detto nulla”
“lo so, io parlo molto di pancia, e tu mi piaci, o almeno piaci alla mia pancia. Non so se è un complimento”
“si dai, grazie. Sei carino. Di dove sei?”
“Milano, tu?”
“Genova”
“Capisco”
“…”
Lo stallo nelle Conversazioni non è quasi mai un problema. Non lo è quando sai dove vuoi andare a parare, perché tanto chi se ne frega di uno sconosciuto o di cosa può pensare di te, e se la vuoi risolvere subito esci allo scoperto chiedendo di scopare o una cosa inspiegabilmente spaventosa come una foto di piedi e stai tranquillo che le fai scappare tutte. Lo stallo nelle Conversazioni diventa un problema quando la Conversazione non ha come interlocutore un semplice testo ma ti rendi conto che dietro c’è una persona che potrebbe avere sentimenti, una faccia, un colore di pelle e di capelli e di occhi, dei denti e possibilmente in ordine, dei capelli e chissà di quale forma o colore naturale, dei vestiti o meno, e quindi diventa rischioso lasciare la conversazione ad un semplice scambio di formalità e informazioni fittizie. Una delle regole quando lo stallo è rilevante, e quindi quando lo sconosciuto che ci si trova davanti sotto forma di parole e lettere digitalizzate dal computer o dal telefono è che uscire allo scoperto non è mai la giusta mossa. A meno che l’intenzione non sia uccidere la Conversazione, ma dopo ore di ricerca non è quello l’intento. La Conversazione deve assumere toni più rilassati, meno da colloquio di lavoro, deve essere una vera Conversazione, tra due testi digitali che si riconoscono appartenere a due individui differenti che interagiscono fra di loro separati da un muro luminoso.
“comunque direi che il colloquio può finire qui, ti va di chiacchierare senza troppe pretese? Due amici al bar”
“ahah simpatico, credo tu abbia ragione. Sono stata assunta?”
“decisamente si, assunta. Inizi sta sera”
“Cosa fai nella vita?”
“studio per diventare qualcosa che possa permettermi di vivere”
“ah, siamo sulla stessa barca nuovamente, come è piccolo il mondo”
“neanche tu idee chiare?”
“Direi di no, studio lingue ma non ho idea cosa fare nel mio futuro prossimo”
“Io studio ingegneria informatica, quindi attenta a cosa fai che posso entrarti nel computer. No, scherzo, credo di aver sbagliato facoltà perché è tanto se so accendere il pc.”
“ahaha ma va, esageri”
“no dai, me la cavo abbastanza. Il mio sogno è essere programmatore di videogiochi, nella realtà programmerò la mia pausa pranzo per un bel po’ di pause pranzo”
“be, almeno se te le programmi da solo le fai come vuoi tu, vedi il lato positivo”
“hai ragione. Hai ragione!”
“dovevo fare l’università della vita e diventare consulente sconosciuta nelle chat anonime”
“prova a mandare CV che magari esiste questo lavoro e verresti pagata bene”
“o finirei per rispondere al telefono delle hotline o delle linee suicide”
“che bella prospettiva!”
“Oltre a studiare per poter sopravvivere che fai altro nella vita?”
“leggo, adoro i libri, adoro i film ed i videogiochi. Adoro un po’ meno le persone e uscire di casa”
“sapevo che eri un vero nerd, per fortuna che esistono anche quelli veri e non solo quelli che lo fanno per noi povere sfigate a cui piace esattamente quello stile di vita e ci ingannano facendoci uscire di casa nel mondo esterno, puah!”
“anche tu una nerd? Ma va, non ci credo nemmeno se mi fai vedere la tua collezione di giochi per la playstation”
Ci sono alcuni modi per entrare in contatto intimo con le persone su queste chatroom, il primo dei quali è stabilire una connessione, un legame, una Conversazione a proposito di qualcosa che piace realmente ad entrambi. Deve essere reale, non funzionano le passioni fittizie, che portano soltanto allo stallo, al silenzio e alla connessione che scade e al premere start per essere connessi con un nuovo partner. Una volta stabilito però questo legame si passa alla fase del voglio-di-più, apri una finestra visivo-comunicativa con questa persona, una foto sul momento, una vecchia foto ricordo, qualunque cosa. Non deve dare un’identità somatica alla persona, ma deve essere il suo mondo, e soltanto con questo piccolo oblò si può provare ad uscire allo scoperto piano piano. Ma spesso le vere Conversazioni tra due persone Vere smettono di essere una strategia per un fine, ma assumono quello che sono le Vere Conversazioni.
“Oddio ma quanti bei giochi! Hai sia ps4 che xbox one! Fortunata”
“tu dove giochi? Scommetto che sei un pc gamer. Pc master race una sega”
“la nostra amicizia sta nascendo ma sappi che potrebbe incontrare un vero ostacolo. Strike 1”
“ahaha no scherzo ovviamente, so bene della faccenda del framerate, delle mod, della libertà, del risparmio, bla bla bla per favore non cominciare a bla bla bla su questa cosa che ne ho piene le scatole, te ne prego! Si gioco su console perché è facile ed immediato, dammi della casualona”
“casualona. Però vedo tanti bei giochi che fanno di te la meno casualona delle casualone”
“Ti ringrazio, ci tengo molto alla mia collezione. Ti chiederei una foto della tua ma immagino sia difficile riunire in una foto sola una intera libreria Steam di un vero pc gamer”
“ahah già, posso dirti che ho circa 400 giochi, però posso farti vedere quelli che ho attualmente installati”
La seconda finestra viene aperta. Ora esiste La Conversazione, quella che le forze misteriose delle chatroom anonime talvolta sono in grado di generare. Quelle che vanno oltre le sbarre grigie che isolano il foglio bianco della Conversazione, che vanno oltre il muro luminoso, una finestra sul muro dove entrambi si possono sporgere e sbirciare, il canale comunicativo per eccellenza, il sacro Graal delle chatroom: lo scambio di foto.
“comunque ti vorrei rendere partecipe del fatto che ci stiamo scambiando foto di giochi e cose, io ti avviso che il prossimo passo sono le tette, vi conosco voi maschietti arrapati”
“guarda, tranquilla che ho tanti frame di tette di personaggi che mi bastano per tutte le sere solitarie ed arrapate”
“Se se, le mie credimi sono meglio, sono vere”
“su questo non posso darti torto. Immagino siano pure belle”
“Una terza modesta”
“appunto, beati i nerd che possono giocarci!”
“ahah in realtà non ce ne sono stati molti, giusto un paio. Ma non sono mai arrivati al livello finale”
“la difficoltà era troppo alta evidentemente, ma io sono un hardcore gamer, con ammiccate piccanti su hardcore”
“che scemo ahah no dai, non sono così difficile, ma se cerchi di barare coi trucchi me ne accorgo. Sono a prova di Cheat”
“in ogni caso beati loro davvero. Però visto che siamo arrivati a parlare delle tue tette ti rendo io partecipe del fatto che, un’idea non diventata fatto però, che sono qui perché erano ben altri i miei intenti. Ma mi hai fatto cambiare idea, ho pensato che sei super simpatica e che non volevo rovinare la nostra futura conversazione, amicizia, amore, relazione, matrimonio e vita coniugale e infine morte insieme arrivando all’ultimo momento saltando tutte le fasi prima dicendoti subito quali fossero le mie intenzioni o provandoci con te. Spero ora di non aver ottenuto comunque quel risultato”
La mossa rischiosa del fare il sincero in tutta quella farsa che è la Conversazione per quanto vera cercando di ottenere consensi e approvazione e complimenti per l’onestà è rischiosa. A volte funziona e continua e magari ottieni oltre alla sincera Conversazione anche un onesto orgasmo condiviso, a volte la conversazione va di punto in bianco in stallo. Altre volte invece è come uno schiaffo in pieno viso per entrambi, che fa scadere la connessione e premere star per parlare con un nuovo sconosciuto. E arriva lo schifo addosso. Sono le 3 e mezzo di notte nel mondo vero, il tempo torna ad ingoiare la stanza e i fazzoletti inutilizzati e lo schifo che rimane sulla pelle, e ci si addormenta con il peso sul petto di chi sa di aver fatto scelte sbagliate e che la notte non può ricominciare.
Solo dopo arrivano i sensi di colpa.
Nessuna scritta nera in contrasto col bianco dello schermo, nessuna compagnia, nessuna Conversazione. Solo il corpo, il respiro, il buio e lo sporco sulla pelle.
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abatelunare · 7 years
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Supereroi con gli occhi a mandorla II
Kyashan il ragazzo androide
Se Tekkaman, il Cavaliere dello spazio era drammatico, Kyashan, il ragazzo androide (o meglio, Shinzo ningen Cashern) è quanto meno tragico. Nei suoi 35 episodi cambia radicalmente l’impostazione. Il Dottor Azuma è il più grande scienziato del mondo per quanto riguarda la costruzione di robot. Nel castello in cui abita, ne sta realizzando quattro da utilizzare per scopi benefici. La Terra, infatti, non è più il verde pianeta di un tempo: bisogna decontaminarla. Come nel romanzo Frankenstein di Mary Shelley, di cui la serie condivide le atmosfere, parte tutto da un fulmine. Il cervello dell’androide più potente, BK-1, va in tilt. Le motivazioni che lo spingono ad agire sono insolite. Avete costruito gli androidi per servirvene come schiavi, sostiene, ma noi ci siamo liberati e ora l’uomo è il nostro nemico. Dopo che Azuma e la sua famiglia sono scappati dal castello, BK-1 si ribattezza Briking e attiva gli altri tre: il massiccio Barashin, capo dell’esercito; l’allampanato Akubon, responsabile della costruzione di nuovi androidi; il piccolo Sagure, coordinatore dei servizi d’informazione. Nell’organizzazione, nei metodi e nella simbologia, si richiamano al Nazismo. L’emblema adottato è una specie di svastica modificata. Lucky, l’adorato cane di Tetusya, figlio dello scienziato, viene ucciso da un robot. Azuma trasferisce lo spirito dell’animale nel corpo di Flender, cane-robot capace di trasformarsi in quattro diversi veicoli: Jet, moto, aliscafo e carro armato. Il procedimento dà un’idea al ragazzo. Chiede al genitore di “trasformarlo” nel cyborg Kyashan. Non è un sacrificio da poco, perché, così facendo, rinuncia alla sua umanità e a tutto ciò che essa comporta: tatto, olfatto, gusto. Del resto, è l’unica maniera per contrastare gli androidi impazziti. Il nuovo corpo è alimentato dall’energia solare. La visiera di cui dispone costituisce al tempo stesso la sua arma segreta e il suo limite: grazie ad essa, infatti, può lanciare un micidiale raggio luminoso, che lo lascia, però, del tutto privo di energia. Terminata la trasformazione, i quattro robot catturano Azuma e la moglie Midori, portandoli nella loro ex dimora. Lo scienziato ha tempo per un’ultima mossa. “Rinchiude” la consorte nel cigno meccanico Swanee. Madre e figlio possono comunicare soltanto di notte, quando l’immagine della donna viene proiettata dagli occhi dell’animale. Ma non è facile: il volatile, infatti, viene adottato da Briking quale animale da compagnia. Eludere la sorveglianza e lasciare il castello diventa ogni volta più complicato. Nel terzo episodio conosciamo Luna, l’amica del cuore di Tetsuya. Il rapporto fra i due non è chiarissimo, ma si capisce che un po’ di tenero c’è. Lei non sa cosa sia successo al ragazzo, ma quando lo scopre decide di seguirlo e diventare la sua compagna di battaglie. Con sé porta la pistola MC a campo magnetico, inventata dal padre, Dottor Nezuki, grande amico di Azuma. Gliela affida poco prima di morire, ucciso da un robot. È un’arma formidabile: distrugge gli androidi, ma è innocua per gli esseri umani. Possiamo dirlo: Luna è una delle innumerevoli ragazzine che amano l’eroe senza alcuna speranza di veder coronato il proprio sogno. Altro che Romeo e Giulietta. Qui si tratta davvero di un amore impossibile. A Tetsuya, infatti, non è più permesso amare, nemmeno nel senso fisico della parola. Niente figli, e quindi nessuna famiglia. Nessun futuro da costruire insieme. I due ragazzi e Flender iniziano la loro lotta contro le armate di Briking. Viaggiano di città in città, affrontando ogni sorta di pericoli, incontrando sempre nuove persone con un passato per lo più difficile alle spalle. Il finale è ricco di colpi di scena. Briking scopre due cose interessanti. La prima è che Kyashan è un androide pure lui. La seconda è che Swanee è una spia e racchiude in sé Midori. Succede tutto negli ultimi due episodi. Tetsuya libera il padre, consapevole che da solo non può vincere la guerra. Azuma, infatti, ha avuto un’idea per salvare il genere umano: un’arma potentissima, da distribuire in tutto il mondo, capace di distruggere ogni automa. Compreso Kyashan, però. Una volta messa in funzione, sopravvivono solo cinque robot: Kyashan, Briking, Warugadar (una pantera che il capo degli androidi impazziti si era fatto costruire nell’ottavo episodio), Swanee e Flender. È il momento dello scontro finale. Flender fa a pezzi Warugadar. Ma Tetsuya è in gravi difficoltà. Gli resta un’ultima, disperata mossa: colpire l’avversario con il suo raggio distruttore. L’azzardo funziona: Briking è soltanto uno sgradevole ricordo. La guerra è finita. Azuma riporta la moglie Midori alla sua forma umana e converte Briking in un robot servizievole che sovrintende alla ricostruzione del nostro pianeta. Solo per Tetsuya la situazione non cambia. Ma lo scienziato continuerà a studiare per scoprire il modo di far tornare umano il pargolo. Sacrificare il proprio futuro per il bene degli altri è il duro destino di ogni Eroe. La regola (non scritta) vuole che la Via del Guerriero sia solitaria e irta di ostacoli. Gli ingredienti qui ci sono tutti. Luna e Flender a parte, Kyashan è solo. Anche se è uno dei rarissimi personaggi nipponici che può contare sulla presenza di entrambi i genitori, la sua famiglia è dispersa: il padre è prigioniero del nemico, mentre la madre si ritrova rinchiusa in un cigno meccanico. Non ha una base d’appoggio, e non c’è nessuno che possa “riparare” lui o Flender in caso di danni gravi. Come se non bastasse, il ragazzo ha due nemici: Briking e l’umanità stessa che ha giurato di proteggere e per la quale ha scelto di non essere più umano, consapevole di imboccare una strada a senso unico. Quando la gente scopre che è un androide (la notizia si sparge nell’episodio 26), mostra diffidenza e paura: lo temono perché è diverso. Gli sono grati, certo, ma non muovono un dito per aiutarlo. Potremmo dire che questo è un anime fondato sulla diversità e sui drammi che essa comporta. Non c’è posto per la spensieratezza. Tetsuya stesso ci ha rinunciato. Tanto è vero che mancano completamente gli intermezzi umoristici. Non c’è nessuna delle creature buffe o delle macchiette cui si solito si affida il compito di alleggerire la tensione. L’atmosfera è cupa e pesante, come in poche altre serie. Le truppe di Briking uccidono senza fare distinzioni di razza, sesso, età. La guerra è una condizione permanente. Non c’è un momento di tregua. Ovunque vadano, Luna e Kyashan si trovano davanti morte e distruzione. Le devastazioni provocate dalle armate meccaniche sono rese con inaspettato realismo. Le città, ridotte a cumuli di macerie, non hanno un aspetto nipponico. Non sembra, cioè, di essere in Giappone. Se non lo sapessimo, diremmo che i due protagonisti si muovono tra le capitali europee durante la Seconda Guerra Mondiale. A dispetto del cambiamento cui ha volontariamente deciso di sottoporsi, Tetsuya è molto più “umano” di quanto non possa sembrare. È senza dubbio molto più forte di qualunque altra persona, ma non è invincibile. La sua energia non è illimitata. Quando la esaurisce diventa cieco, e deve aspettare la luce solare per ricaricarsi. Se poi piove, sono guai. Sconfigge Briking, ma per un pelo, e grazie all’aiuto determinante di suo padre. La battaglia che intraprende è superiore alle sue forze, anche se può contare sul suo fedele cane-robot Flender, su Luna e sulla madre, che vivendo a stretto contatto con i robot può fornirgli preziose indicazioni. La fanciulla dimostra una inaspettata forza d’animo. È tutto, tranne che una bimbetta fragile e tremebonda. Sceglie di rimanere al fianco del ragazzo che ama. Proprio per amore suo accetta una vita da nomade, satura di pericoli. Quanto ai nemici, tra loro spicca Briking. Il boss è lui. È il primo a “svegliarsi”. Idee chiare e mancanza di scrupoli. Vuole conquistare il mondo e non lascia nulla d’intentato per raggiungere il proprio scopo. Impone ai sottoposti e alle truppe un look simil-nazista (che ritroviamo in parecchie serie fantascientifiche e robotiche). Anche lui possiede un’arma finale: è un potentissimo raggio bianco che emette dalla bocca. Con un vantaggio, rispetto a Kyashan: una volta utilizzato, non subisce alcuna diminuzione di energia. Nonostante la sua crudeltà, mostra un sincero – e inaspettato – affetto nei confronti di Swanee, il cigno nel quale Azuma ha momentaneamente parcheggiato la moglie. Kyashan il ragazzo androide non è composto di episodi autoconclusivi o, comunque, slegati tra loro. Qui si racconta una vicenda vera e propria. Senza l’impiego, oltretutto, dei soliti elementi seriali, come ad esempio la trasformazione dell’eroe, mosse di combattimento, frasi rituali di presentazione, e via dicendo. L’unica sequenza ripetitiva è la conversione in veicolo di Flender. Il filo narrativo che lega tutta la serie è il viaggio di due persone, legate da un affetto fortissimo, che lottano contro un manipolo di automi impazziti. Ogni episodio costituisce una tappa, durante la quale Luna e Tetsuya conoscono nuove persone e cercano di aiutarle per quanto possibile. E, come in Tekkaman, alla fine la voce del narratore tira le somme, ne ricava l’eventuale lezione, e formula l’ineluttabile domanda retorica: chi altri potrà salvare l’umanità, se non lui? L’accento è posto sul dramma personale di un ragazzo che rinuncia a tutto per il bene di una umanità la quale non gli è affatto riconoscente per il suo sacrificio. Per quanto riguarda il protagonista, non credo sia lecito parlare di maturazione o di crescita. In fondo, Tetsuya non è un guerriero “professionista”: la sua è una decisione indotta dalla mancanza di scelta. Il cambiamento c’è, ma è irreversibile, dato che potrà mai più tornare umano. Quella di Tetsuya è una condizione statica: non cambia, non evolve, non migliora. Forse è il Dottor Azuma che impara qualcosa da tutta questa vicenda. Come scienziato non può fare a meno di riflettere sui rischi derivanti dalla tecnologia, buona o cattiva secondo l’uso che se ne fa. Nel 2004 viene realizzata una versione cinematografica live action dell’anime, intitolata Kyashan – la rinascita. La vicenda non è proprio uguale a quella della serie animata. Anzi, ne diverge in molti punti. Però la coreografia è spettacolare, e ne è stato mantenuto intatto lo spirito, con un Kyashan ancora meno imbattibile rispetto alla serie e un Briking di cui si approfondiscono le motivazioni. Segnalo anche il lungometraggio animato Kyashan – Il mito, una sorta di remake che riprende la storia da zero, modificandola.
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Cominciamo con una premessa cui tutt* coloro che si dedicano a questo sottogenere della fantascienza tengono particolarmente: il Solarpunk non è affatto “solare”. Non si tratta, cioè, di un approccio alla scrittura del testo fantascientifico che immagina (necessariamente) uno scenario futuro a tinte rosa, dove i danni della gerarchia sociale siano stati superati in un mondo liberato e gioioso.
Di che si tratta allora? Come sempre accade, la fantascienza affronta le inquietudini del mondo industrializzato, un mondo dove la vita materiale degli individui muta di continuo ed il futuro è dietro l’angolo – un futuro non sempre vissuto come positivo, anzi. Appena l’altro ieri teneva banco nella comunicazione sociale e mediatica il disastro ecologico provocato dal capitalismo, uno scenario che si è materializzato quasi da subito in uno dei suoi aspetti paventati, almeno dai più accorti che avevano presente la questione in tutta la sua complessità: una grave pandemia che ha rivoluzionato in maniera radicale le esistenze di tutti gli homo sapiens sapiens.
Certo, non è per nulla la prima volta che il genere fantascientifico affronta la questione, anzi: ci sono innumerevoli romanzi, racconti, film e fumetti quantomeno ambientati in uno scenario apocalittico, dove gli homo sapiens sapiens – almeno i pochi sopravvissuti – fanno i conti col disastro ecologico avvenuto, Il Solarpunk, però, affronta la questione da un altro punto di vista: gli sforzi che l’umanità, o almeno una parte di essa, potrebbe mettere in atto per evitare di giungere a quest’esito tragico. Sforzi non necessariamente destinati al successo o, comunque, per niente facili.
È così nato da qualche anno il Solar Punk: opere di vario genere che esplorano possibili “vie d’uscita, pratiche e percorribili, sia dall’antropocene, intesa come era geologica indotta dal comportamento umano, che dal capitalocene, sua deriva economica.”[1] “Pratiche e percorribili”, appunto: il Solarpunk non ipotizza tecnologie future oggi del tutto inesistenti ma utilizza, di preferenza, quelle che già oggi, magari migliorate, potrebbero essere utilizzate – ad esempio l’energia solare, che domina – di qui il nome – tanti scenari del Solarpunk.
Non solo però energia solare, energie rinnovabili in genere e tecnologie: a dominare questi scenari troviamo anche e soprattutto processi di mutuo soccorso in economie circolari attente alla sostenibilità ambientale, l’imitazione dei processi naturali in una sorta di biomimetismo sociale, ecc., dove il vero protagonista è l’azione diretta nella propria vita quotidiana. Elliot Alderson – l’anarchico protagonista della serie Mr Robot[2] – dichiara con assoluta serietà che il suo scopo nella vita è “salvare il mondo”: ebbene, gli uomini e le donne protagoniste del Solarpunk sono, in un modo o nell’altro, con maggiore o minore coscienza della cosa, impegnate nello stesso obiettivo. Mentre però Elliot Alderson ed il suo gruppo sono impegnati un’azione straordinaria – distruggere ogni forma di indebitamento nei confronti di chicchessia per permettere all’umanità un nuovo inizio – protagoniste e protagonisti del Solarpunk operano nella quotidianità della loro vita materiale.
Si tratta di persone che, con maggiore o minore coscienza, non si sono arrese di fronte ad una pretesa fine della storia ma costruiscono comunità resistenti e resilienti allo stesso tempo che si oppongono al capitalocene e, in generale, ai disastri insiti nella gerarchia sociale, cercando di costruire un futuro diverso da quello tragico che il potere intende regalare all’umanità. Come dicevamo, questo futuro di azioni resistenti e resilienti non viene disegnato in modo roseo ma si esplorano di esso tutte le difficoltà.
Una particolarità del Solarpunk è che esso stesso si vede come un elemento all’interno di questo scenario di lotta per una società liberata, che sopravviva ai disastri annunciati del capitalocene: “Il solarpunk è un genere letterario ed è un’estetica. È anche un movimento: immagina un futuro migliore e costruisce strategie operative per renderlo possibile. Nato negli anni ’10 di questo secolo, il solarpunk si fa interprete di sentimenti e istanze che chiedono un progresso collettivo, organico, equo, ecologico, inclusivo. Fin dai suoi inizi esprime una visione politica complessa e aperta ma chiara: inclusiva, femminista, ecologista, utopista, anarchica, organicista. Anticapitalista, antirazzista, antipatriarcale, antispecista.”[3]
Ecco poi come il movimento spiega il suo nome: “Solar. Solare è la fonte primaria e simbolo di vita, è l’energia alternativa ai combustibili fossili, è ciò che già c’è, e che dobbiamo impiegare in modo sostenibile e condiviso per sopravvivere. Solare è la volontà utopica che coltiva (letteralmente) la speranza. Solare è la luce del giorno, che si contrappone agli scenari piovosi, chiusi e posturbani della distopia. Punk. I germi e la pratica della rivolta. Il rigetto verso il modello di sviluppo capitalista insostenibile, predatorio, assassino, in palese contrasto alla vita e vitalità non solo umana. La reazione contraria alla narrazione distopica, che non ci dà più strumenti utili per reagire e scivola nel conservatorismo o nell’estinzionismo di tendenza. (…) L’estetica solarpunk dimostra una sensibilità non nuova, ma rinnovata: ecologismo e anarchismo si uniscono nella ricerca di un futuro non più nero, ma verde. (…) si ricomincia insieme, tuttə: persone di qualsiasi colore, provenienza, condizioni fisiche, età, genere e identità sessuale, riunite in comunità paritarie. Animali umanə e non umanə. Creature: fauna, flora, terra.”[3]
Alcune delle persone che operano nel campo del Solarpunk rifiutano l’idea di essere un sottogenere del genere fantascientifico, riallacciandosi piuttosto all’Utopia come genere narrativo della Filosofia: qui credo si sbaglino per due ragioni. La prima è che la Fantascienza, di fatto e soprattutto nelle sue espressioni migliori, è, a mio avviso, di fatto la letteratura filosofica per eccellenza della società industriale. Non ho qui lo spazio per argomentare adeguatamente questa affermazione ma, in ogni caso, la seconda obiezione mi pare decisiva ed oggettiva: l’Utopia come la Distopia ragionano a cose fatte, non sul processo in corso – questa, invece, è una specificità del Solarpunk.
Il Solarpunk, infatti, si muove su quel terreno di mezzo che potrebbe svilupparsi in direzione dell’una o dell’altra cosa, verso la Distopia o verso l’Utopia, analizzando i processi con i quali potremmo indirizzarci verso quest’ultima, senza nasconderne le difficoltà ed i possibili errori. Oltre al “progettare narrando” il cammino verso l’Utopia, altra specificità del Solarpunk è quella di pensarsi, come abbiamo già detto, come parte di questo processo narrato: infatti il Solarpunk, oltre che nelle opere artistiche, si esprime tramite una comunità di persone che – soprattutto tramite la rete – discute e progetta un futuro sostenibile.
“I manifesti solarpunk sono documenti programmatici nei quali l’ambientalismo viene accostato all’anarchismo comunitario, al socialismo, alla ribellione e alla guerriglia artistica. Esprimono la volontà di un ripensamento radicale del rapporto tra essere umano e natura (…) Incompatibile con una economia basata sul consumo e sulla predazione, il solarpunk non predica un ‘ritorno alla natura’ ma persegue un progresso consapevole nel quale la scienza e la tecnologia, usate in maniera trasparente e democratica, ci consentano di raggiungere finalmente l’equilibrio con la nostra biologia e il nostro pianeta. A ciò si aggiunge un’inclusività altrettanto radicale, figlia stavolta dei nostri tempi e degli importanti movimenti di rivolta degli ultimi anni: antirazzismo e rifiuto del patriarcato sono la base per un’inclusività a tutto tondo. Verso le persone (grazie a istanze femministe, LGBTQIA*, antiabiliste), verso le creature tutte, verso il mondo, con il rifiuto di separare ontologicamente l’essere umano dal suo ecosistema.”
Credo che la stragrande maggioranza dei lettori di queste pagine si riconosca ampiamente nei contenuti delle citazioni che abbiamo fatto finora, nella loro carica utopica, militante ed intersezionalista. In effetti, oggi il nostro desiderio di una società di persone libere ed uguali è divenuto, allo stesso tempo, una necessità per chiunque, come Elliot Alderson, voglia “salvare il mondo”. Paradossalmente, anche gli uomini del potere da se stessi.
Enrico Voccia
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italianaradio · 5 years
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Olivier Assayas alla Festa di Roma: critica, serialità e Nouvelle Vague #RomaFF14
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Olivier Assayas alla Festa di Roma: critica, serialità e Nouvelle Vague #RomaFF14
Olivier Assayas alla Festa di Roma: critica, serialità e Nouvelle Vague #RomaFF14
Olivier Assayas alla Festa di Roma: critica, serialità e Nouvelle Vague #RomaFF14
“La storia del cinema francese definita da scrittori che sono poi diventati registi mi ha sicuramente influenzato, ma penso che l’esempio della Nouvelle Vague si stia perdendo: non c’è più voglia di scrivere, né di fare film“. Sarà questo il tema dell’incontro di oggi pomeriggio tra il pubblico e Olivier Assayas, arrivato nella capitale per la quattordicesima edizione della Festa di Roma; critico per i Cahiers du cinéma dal 1980 al 1985, poi autore di pellicole acclamate come Qualcosa nell’aria (Après Mai), Sils Maria e Personal Shopper (in entrambi ha diretto Kristen Stewart), Assayas parte dall’esperienza di scrittore analizzando la sua crescita personale:
“Scrivevo perché volevo avvicinarmi al mezzo cinema, e per me la scrittura è stato un modo di apprendere nella miglior scuola possibile insieme alle penne meravigliose dei Cahiers. Tra loro ero il più giovane, ascoltavo e volevo capire come si faceva il cinema. Fino ad allora avevo una conoscenza molto più tecnica e pratica e poco teorica…se inizio a guardare un film in veste di regista, è un fallimento completo [ride], quando invece lo guardo con gli occhi del critico è ancora peggio. Vorrei poter essere semplicemente uno spettatore che ha il piacere di capire di cosa si sta parlando.“
Ma che rapporto ha adesso con la critica? “Purtroppo la leggo raramente, perché so che influenzerebbe il mio lavoro, Credo che il cinema si debba imparare grazie alla critica e alla teoria, ma che poi bisogna liberarsene. Se realizzi un film pensando a cosa scriverà la critica sei perso… Devi sempre seguire il tuo intuito di regista, perché è ciò che ti farà andare avanti. Anche prendendo una decisione opposta a quella che i critici di aspettano da te.”
Olivier Assayas ospite della Festa del Cinema di Roma
Obbligatoria la domanda sull’eredità della Nouvelle Vague e su cosa sia rimasto del movimento. La risposta del regista è esaustiva e appassionata: “La Nouvelle Vague non ha inventato ma teorizzato la questione della libertà, definendo il fatto che un regista poteva avere la stessa libertà di uno scrittore che non bada alle regole dell’industria. Nel cinema questo concetto corrisponde alla possibilità di produrre film con meno soldi e più libertà, inventando l’arte cinematografica. E quando si parla dell’eredità del movimento, penso che abbia investito non soltanto il panorama francese, ma anche quello internazionale, nel modo in cui generazioni di registi di tutto il mondo hanno abbracciato questa idea di cinema diverso. Cosa rimane? Tutto, perché oggi io non farei film, o forse li farei in modo diverso se non ci fosse stata la Nouvelle Vague, quel sogno di cinema artistico e non industriale, e quella protezione del cinema libero.“
E a chi gli chiede se abbia la critica abbia ancora un’importanza sociale e culturale per il grande pubblico, Assayas commenta che ci sono tanti modi per riflettere sull’argomento: “Il primo parte dalla definizione stessa di critico, che per me differisce molto dall’opinione che ha il grande pubblico, ovvero quella figura che mette stelline e punteggi al film. La scrittura sul cinema è una cosa diversa, e in questo senso penso di essere stato maggiormente influenzato da quella tipologia di testo, cioè i saggi sul cinema, che definisco come il mezzo perfetto per far dialogare persone e arte. Oggi più che mai c’è bisogno di quel dialogo con il proprio tempo, quindi le riflessioni dei critici potrebbero aiutare i registi, perché sono letture utili e importanti.”
Assayas e il ruolo della critica ai tempi del web
“Faccio una divisione netta tra la critica delle stelle alla trip advisor e quella forma di scrittura che riflette sul senso del fare cinema oggi. L’altro modo è pensare alla dimensione dell’internet, perché rispetto al passato la riflessione è migrata dalla stampa al virtuale. Si scrive molto più di cinema oggi di quanto se ne scriveva anni fa. Quando ero giovane c’era la stampa cinefila francese e la critica influente dei quotidiani come Le Monde, tutte testate culturali che dedicavano uno spazio al cinema. L’opinione generale veniva definita da riviste cinefile dove scrivevano decine di redattori, e oggi purtroppo hanno perso la loro importanza perché la scrittura è diventata accessibile, oltre che gratuita, grazie a internet, e la cultura cinematografica non è più unificata ma sempre più ampliata […]
[…] Adesso ogni individuo può costruire un rapporto specifico con il cinema ed esprimere il suo giudizio cercando sul web ciò che gli piace, i ragazzi inventano il loro rapporto con l’arte e non sono d’accordo con chi sostiene che stiamo vivendo un disastro perché gli studenti non hanno visto i film di Murnau. Sicuramente però hanno visto tante altre cose, molte di più di quante ne vedevo io alla loro età.“
Non manca nemmeno l’opinione su uno dei dibattiti più accesi degli ultimi anni: è vero che la sala sta morendo e che la serialità è la forma migliore di narrazione? “Per me il concetto di sala si collega a qualcosa di primordiale, nel senso che si è sempre detto che il cinema è in crisi per colpa della televisione, mentre è evidente che non è stato così. Oggi, almeno in Francia, stanno costruendo tanti multiplex per una ragione semplice: gli spettatori sono giovani e i giovani amano l’esperienza collettiva del cinema, uscire di casa con gli amici e la forma di divertimento più accessibile e meno costosa è il cinema. Sfortunatamente questi spettatori si stanno interessando ad una forma limitata del cinema, ovvero i blockbuster e i film Marvel, le commedie o i film d’animazione, definiti come un cinema meno ambizioso artisticamente e intellettualmente.“
“Per quanto riguarda la serialità, la questione è più complessa. Non sono un fanatico delle serie, anzi non le guardo affatto, dunque tutto quello che dirò è limitato dalla mia ignoranza. Penso che offra la possibilità di lavorare su un formato più lungo, e la tv mi ha dato la libertà di realizzare Carlos che era un film di cinque ore e mezzo, sebbene non l’abbia mai considerato come una serie. Nello stesso modello credo rientri Fanny e Alexander di Ingmar Bergman…Però un’altra riflessione che bisogna fare è sulla dipendenza che la serialità crea negli spettatori. La ragione per cui non mi interessa e per cui non guardo molta tv. E non capisco gli amici che ne guardano tante…quando trovi il tempo per dormire, per vivere, per leggere un libro o andare ad un museo“.
Assayas sui film Marvel: “Hanno smarrito tutto quello che mi piaceva dei fumetti”
Assayas conclude esprimendo il suo personale parere sulla polemica degli esponenti della New Hollywood (Scorse e Coppola) contro i cinecomic: “Per me non è tanto una questione ideologica quanto invece artistica e di gusto. Ho sempre amato il cinema popolare americano e, per semplificare il mio discorso, direi che quel cinema non è mai stato così stupido come è diventato oggi” spiega il regista francese. Penso che i film Marvel, e lo dico da lettore e appassionato di fumetti, abbiano smarrito tutto quello che mi piaceva di quelle storie, dalla violenza al sesso, dalla vita all’originalità, che non vedo mai in queste produzioni. Non mi piacciono perché artisticamente e visivamente mi sembrano molto poveri, si assomigliano tutti e ho difficoltà a identificarmi con personaggi come Captain America o Thor.
“Non riesco davvero a prenderli sul serio o a interessarmi, cosa che non succedeva quando andavo a vedere film di fantascienza da ragazzo. All’epoca mi sembravano molto più originali e complessi“, conclude Assayas. “Oggi non trovo un singolo regista che riesca a far emergere la sua voce attraverso queste pellicole. In questo senso, l’invasione nei cinema di prodotti sostenuti da una potenza economica incredibile e questo rapporto industriale di marketing sta promuovendo l’idea di un cinema che è solo prequel, sequel, spin off e universi indipendenti…Qualcosa insomma di industriale che ha anche a che vedere con la manipolazione di massa. E a parlare è un amante dei fumetti cresciuto con queste storie e appassionato del cinema popolare americano. Credo che qualcosa si sia perso lungo la strada.“
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Olivier Assayas alla Festa di Roma: critica, serialità e Nouvelle Vague #RomaFF14
“La storia del cinema francese definita da scrittori che sono poi diventati registi mi ha sicuramente influenzato, ma penso che l’esempio della Nouvelle Vague si stia perdendo: non c’è più voglia di scrivere, né di fare film“. Sarà questo il tema dell’incontro di oggi pomeriggio tra il pubblico e Olivier Assayas, arrivato nella capitale per […]
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Cecilia Strazza
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