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#quaderni del verri
garadinervi · 1 year
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Lamberto Pignotti: 'Poesia visiva', (invitation card), Palazzo Te, Mantova, October 16 – November 14, 1976 [Fondazione Bonotto, Molvena (VI)]
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pangeanews · 4 years
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“Sono dominato da donne che non ho mai visto e che attendo – fantasmi”. Le lettere di Robert Musil ad Anna
Raccolte e pubblicate per la prima volta in edizione critica nel 1981 (R. Musil, Briefe, a cura di Adolf Frisé, Rowohlt Verlag Hamburg), gli abbozzi e le lettere dell’austriaco Robert Musil sono state a lungo ignorate dalla critica e dalla germanistica italiana, già severamente messe alla prova dalla scrittura narrativa e saggistica musiliane.
È vero che le lettere compiute ed effettivamente spedite, soprattutto quelle più tarde, legate così drammaticamente all’esperienza degli anni d’esilio, come pure le più datate ad amici, a familiari e a collaboratori di rivista, nell’insieme rivelano uno scarso valore letterario, evidenziando cosi come Musil preferisse affidare le proprie riflessioni e i propri esperimenti piuttosto ai plurimi quaderni dei diari (vedi R. Musil, Diari (1899-1941), traduzione di Enrico De Angelis, Einaudi 1997, pp. 1659). È altrettanto vero però che esiste un gruppo di lettere spedite e abbozzi la cui affinità con una certa sua scrittura diaristica le rende meritevoli di essere lette e godute come veri e propri esperimenti letterari. Sono quelle risalenti al cosiddetto Törless-Zeit, il periodo cioè che va dal 1900, quando il ventenne Robert si cimentava in particolare nelle prose liriche da lui chiamate Parafrasi, al 1905, anno in cui terminò la scrittura del primo romanzo, I turbamenti del giovane Törless (edito nel 1906), ed oltre, fino al 1907, quando morì Herma Dietz, l’ultima protagonista della vita sentimentale di Musil prima della sua unione definitiva con Martha Heimann. 
Notevoli per il carattere sperimentale ad esse attribuito dallo stesso autore, queste lettere e questi abbozzi sono gli unici a possedere una scrittura che è sì tentativo di descrizione della condizione e della sensibilità musilane, ma anche ricerca stilistica propriamente detta. Destinatari sono personaggi femminili i cui nomi in almeno tre casi (Anna, Liesl e Valerie) non sono determinabili nella loro identità.
A fronte di segreti cosi gelosamente preservati da Musil anche nei Diari, dove pure i tre nomi compaiono, è lecito pensare che quelle donne non siano mai esistite e che i loro nomi, le loro figure siano piuttosto riconducibili a quella dimensione d’«irrealtà al femminile» che cosi marcatamente ha caratterizzato la vita e l’opera dell’austriaco in gioventù: “Sono dominato da donne che non ho mai visto e che attendo – prese realmente, forse fantasmi e ridicolaggini.  Ma forse profondamente legate alla mia migliore essenza (artistica)”. Così nella Lettera (2) ad Anna. 
La scelta di presentare gli otto abbozzi di lettera indirizzati ad Anna, tutti risalenti al 1907 e inseriti in R. Musil Saggi e lettere (a cura di Bianca Cetti Marinoni, Einaudi 1995; ora non più disponibile), è dettata dalla presenza in essi di un’omogeneità tale da renderli un’unità determinata dall’evolversi a spirale della scrittura, in un percorso che va da una struttura frammentaria scarsamente elaborata, ad una più complessa, stilisticamente caratterizzata da ripetizioni e ritorni sintattici. 
Allora ancora inediti in italiano, questi abbozzi li ho tradotti e pubblicati una prima volta, per gentile concessione dell’editore Rowohlt, sulla rivista diretta da Luciano Anceschi “Il Verri”, n. 3-4 nuova serie, settembre-ottobre 1987, Mucchi Editore, pp. 5-16.
Vito Punzi
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Lettere a Anna
Ad Anna (1)
9 aprile 1907, Berlino
Cara Anna
Brünn: vivo ora qui così pigramente, così pigramente… Passeggiate su terreni incolti che si alzano e si abbassano con linee tranquille, e più lontano il cielo – questo è tutto. Leggo. Ma non troppo. E vivo propriamente come un uomo che si è già ritirato a vita privata. 
Colui che non vuole rinunciare interamente al nuovo che accade all’esterno e che però da questo non si lascia assediare. 
Come se qui non esistesse la ferrovia, ma solo la posta… Poiché i libri che leggo per la maggior parte hanno mosso già da tempo gli animi e non sono in genere nella condizione di muovere violentemente il mio… (Sabato Santo) 
Brünn: sono triste, Anna. Il mio amico venne a farmi visita da Vienna, il mio amico innamorato e promesso. Ed anche la tua lettera arrivò. 
Percorremmo sentieri lontani nel boscoso paesaggio collinare e sostammo al pallido sole di marzo, là dove lo sguardo si getta lontano sulla pianura. 
Fui liberato per giorni dalle preoccupazioni del lavoro, che altrimenti esigono la mia riflessione, e potei raccogliermi in me stesso. 
Ti sono di peso; la tua ultima lettera me lo lascia leggere tra le righe. Ti sottraggo la gioia e so facendo questo stupendo equilibrio armonico e questa sicurezza che tanto amo in te. Non ho alcun dubbio che te la sottraggo. 
Sento precisamente ciò che vuoi da me e ciò che in me eviti. Hai bisogno di un animo che ti avvolga interamente in forti e teneri sentimenti. Se tu sapessi quanto questo alle volte sia vivo in me; così, come se io fossi te. E invece ti appaio pedante come un saccente…
Berlino: questo accadde una settimana fa. Entrambe le volte vedevo troppo poco chiaro per continuare queste lettere e nel frattempo arrivò la tua cara. Ma le compongo ora perché tu veda che a te pensai, sebbene non scrissi e poiché sento che questi pensieri devono pur essere portati a compimento tra di noi. 
Mi ritrovai, come sai, con il mio amico, quell’amico di gioventù del quale ti raccontai, e lui ed io eravamo un tempo fratelli gemelli spirituali. Oggi questo è qualcosa di diverso. 
Ad Anna (2)
Mentre lui ti ispira scrupoli intorno a ciò che tu sino ad oggi hai fatto senza esitazione e a tuo profitto?  Vorrei vederti più che mai in un castello, circondata da una servitù nata serva della gleba. 
Che razza di idee… 
Sono triste, Anna. Il mio amico venne a farmi visita a Vienna, il mio amico innamorato e promesso. Ed anche la tua lettera arrivò. 
Percorremmo sentieri lontani nel boscoso paesaggio collinare, e sostammo al pallido sole di marzo, lì dove lo sguardo si getta lontano sulla pianura. Sono stato liberato per giorni dal peso del lavoro, che pretende la mia testa, e potei raccogliermi in me stesso. 
Non mi ritengo un uomo da compatire, ma neppure un uomo felice. Non desidero barattare con alcuno, ma non sono felice. Non possiedo alcun talento per essere felice, come si dice…
E ti sono di peso. La tua lettera me lo dice tra le righe. Ti sottraggo la gioia e la tranquillità, e questo stupendo equilibrio armonico che tanto amo in te. Non ho alcun dubbio che te le sottraggo. 
Sento precisamente ciò che vuoi da me e ciò che in me eviti. Ci sono momenti nei quali non posso fare a meno di te. – Quando ti vedo di fronte a me – in abito bianco con i tuoi capelli neri, quando ti aspettavo, oppure quando ti trovi chissà dove, ora, nell’abitazione dei miei genitori. È sera quando sono solo – noi due sempre come coloro che rimangono insieme quando gli altri se ne sono andati. –
Vedo le tue gambe in un abito tirato – quanto le amo, quelle gambe che non ho mai visto – tu puoi appena crederlo. Capitano di questi momenti, e vorrei sposarti, con intenzione chiara, e vorrei esserti fedele, fin dove mi conosco nonostante tutto – e darei tutto ciò di cui tu ed io ora siamo privi – arrivano però momenti in cui tu retrocedi – tu come sei – di fronte a sogni ed immagini che forse non si realizzeranno mai. Sono dominato da donne che non ho mai visto e che attendo – prese realmente, forse fantasmi e ridicolaggini. Ma forse profondamente legate alla mia migliore essenza (artistica). Sono questi poi i momenti nei quali vorrei fare di te tutto.
E poi hai di nuovo ragione con il tuo prendermi come sono. Potessi dunque ora sposarti, sarebbe bene – in questo momento però i due stati si sostituiranno sempre l’un l’altro con imprevedibilità. 
Ho trovato infine l’energia per fare in me chiarezza in proposito. E non sopporto di tacertelo. Devi sapere come essere in questo. 
Mi conosci ora così bene che non hai bisogno di dubitare del mio amore. Io ti sarò sempre fedele.
Ad Anna (3)
Cara Anna. Ti ringrazio per la tua lettera. Non perché mi vuoi sapere libero, non ho atteso che questo da te, ti ringrazio per la tua posizione – essa è sincera
Possiederai già la mia seconda lettera, giudicherai già molto diversamente – lascia però che dica ancora qualche parola, e spero non siano le ultime che mi permetti. 
Tu stessa dici che lo scrivere, l’arte è la mia vita. Hai ragione; è – non voglio dire la mia vita vera e propria – certo ciò che si nutre di altro e prende forma attraverso le sue richieste. Poi però le azioni reali – che si compiono veramente o si omettono – non vanno giudicate come fanno gli altri uomini, i quali sono realmente tanto buoni o cattivi, tanto ricchi o poveri come si mostrano nella vita. E se un sentimento fiorisce esitante e pallido invece che ardente, non si può dire che il fusto che lo regge sia povero e debole. È altro Anna, solo altro. E le leggi con cui si giudica secondo forza e debolezza in questo caso non valgono. Ma proprio per questo, e perché si sta di fronte a un nuovo sentimento come fosse un miracolo di cui non si conosce via d’uscita, si deve essere sinceri e dire: è così, ti fidi? Devi ritirare ogni tua promessa e ad ogni momento lasciare solo la dolcezza che ha in sé, come se la catena alla quale è legato, ad ogni istante che segue potesse spezzarsi –
Dico questo perché parleresti di indifference e certo, come tu affermi, l’indifference è la cosa più miserabile. Amicizia non è certo il nome per indifference; è il nome per una nuova via (e nuova non solo per noi). Si potrebbe dire ugualmente bene: amore libero, poiché investe il senso più significativo di quella parola.
È la differenza che c’è tra due uomini che vivono insieme e due altri ognuno possessore di una propria casa e reciproci frequentatori. Certo vi saranno uomini per i quali la seconda soluzione significa la fine, altri per i quali questa rappresenta l’unica forma possibile – l’una è bella l’altra diversa. Ma osserva attentamente che anche l’altra è bella e che essa possiede libertà insostituibili. Non si può dire che questi uomini non si amino. Essi si amano, sono ospiti l’uno dell’altro e si donano le ricchezze della propria casa, e tutto ciò è possibile solo perché essi non posseggono semplicemente un’abitazione. Certo lo si chiamerà per una volta amore, poiché con questa parola si pensa ancora oggi quasi esclusivamente qualcosa che comprende l’intera vita come una comune camera da letto, allora preferisco dire amicizia.  (Perché ci sono uomini che portano ovunque con sé la propria camera da letto, come fosse un guscio di chiocciola)
Ad Anna (4)
Da una lettera
Ci sono uomini che non hanno mai giocato diversamente con le donne. Ma non si può pensare a limitati uomini d’affari o ad assessori prussiani. Ci sono uomini di valore, giocosi, eternamente fanciulli – agitati come prati al vento – troppo agitati e teneri, cara A, per essere il robusto fusto al quale si possa avviticchiare – nella provata immagine dell’organetto – l’edera della dolce femminilità.  Citeresti anche gli animali? 
Perché no? Pavoni e nobili fagiani, animali che nella propria suntuosità non possono sentirsi a sufficienza? Sai, in fondo tali uomini amano forse solo se stessi. Chi è povero può praticare facilmente l’ascesi, ma chi sa che ogni volta può risplendere in nuovi colori…? E colui che così ama se stesso, ama in fondo Dio, il mondo, il paesaggio, il sole, l’aria primaverile – tutto l’incomparabilmente splendido e l’infondatamente grande. 
Ma dimmi, non desideri amare anche questo? Essere un uccello del paradiso? Oppure un soffice prato che ognuno vuole per sé e che poi però solitario appare nel suo maggior splendore? 
Metafore, solo metafore Anna. Ma le metafore sono come musica nella sera proveniente da chissà dove, da una qualsiasi casa solitaria nascosta dietro i cespugli e come da sogno al suo interno. Non si sa dove sia e quali sogni nasconda. E non lo si saprà, perché con la sera la musica subito si dissolve. 
Così devi accettare anche questo. Si ascolta in noi qualcosa di estraneo e di invitante.  Si fa un paio di passi, ci si ferma perché non è possibile raggiungerlo, si dice all’altro: ascolta, un suono. Come può essere, cosa lo produce?… e si pensa quanto sia solitario ed estraneo il mondo, quando improvvisamente un suono si perde, un suono amato per alcuni istanti con tutta l’anima e certo impossibile da comprendere. Ci si prende per mano per riflettere in due. Si parla di ombre. Perché è bello parlare quando ci si tiene per mano. 
Non capisci che questo amore, timoroso e per entrambi incalzante, è qualcosa di profondo?…
L’uomo che in fondo ama solo le metafore e per il quale anche l’incesto è una metafora. La donna per la quale ciò deve essere una realtà, un compimento. 
*
Ad Anna (5)
Mi scusi cara, se le scrivo simili parole. È forse un abuso della sua fiducia. Ma le parole sono veramente brutte e fuori luogo. Almeno per ciò che in queste notti mi attraversa in forma di pensieri. 
Mi lasci dunque ragionare ancora un poco. 
Di fronte a una sua parola ho una paura terribile: mi rende orgogliosa il significare qualcosa per un uomo del suo genere – così mi disse all’incirca. Un simile orgoglio ed il rammarico di non poter più dare rende tenero e dolce l’aspetto di una donna. Ciò potrebbe ingannare lei e me. Per questo volevo mostrarle il rischio. È troppo grande per essere preso a cuor leggero. La passione è qualcosa di assolutamente unico nella vita di un uomo. Come lo sono una sventura spietata e la morte di cose uniche. Essa però distorce tutto. È estasiata, estranea, fuori di sé come l’essere posseduti da un Dio.  Era per me come le doglie del parto del divino. Essa si cela dietro il discreto sipario di un tempio. Sferza tanto l’uomo che un grido lacera il suo viso e incide sul suo volto linee strane e incomprensibili come il morire e il partorire. Dall’esterno non la si può vedere. Poiché ci si spaventa anche dell’uomo che non si riconosce, si prova forse disgusto perfino di fronte alla sua estasi.
Se lei mi vede dall’esterno come una cosa cara e preziosa cui non si rinuncia volentieri, allora metta da parte questa lettera e mi scriva in poche righe che lei ama la giornata chiara e la freschezza di un’anima serena. Mi vergognerò così d’averle presentato un simile aspetto e proverò con l’amicizia di renderlo buono. 
…poiché ci si deve trovare nella stessa camera buia e sentire la stessa oscurità formarsi nella sua anima, e dell’altro non provare che la calda ombra e un bagliore nei suoi occhi. E questo pensiero va compreso per intero, veramente per intero: un uomo è un animale che talvolta può sognare un’anima…
Pensi alla vita quotidiana. Quanto sono stupide le cose con cui ci battiamo e quanto orribili spesso i nostri gesti e le faccende che la vita ci impone. Trascorra così una giornata qualunque. Dalla mattina alla sera. Quanti giorni consistono di null’altro che di questa mostruosità; e poi la chiamiamo indifferente, necessaria e così via. Solo alcuni momenti – lei li conosce attraverso l’arte – sono diversi. Ma me? È bello abbandonarsi ad un suono con la bocca spalancata?  Oppure era bello il tremore delle mie labbra quando le declamai Rilke? Certo no. Ma qualcosa scaturì dall’interno e ci toccò. Qualcosa? No, nulla. Non deve essere scoperto. È… nulla… una luce che improvvisamente tutto trasforma e da nessun luogo giunge un sogno… un sogno di un’anima. 
Questo si deve sapere. Poi ci si piega alla mostruosità del turbine, perché si sa, l’animale sogna, il misero animale sogna mirabilmente, in lui sogna il Dio, l’uomo, e divenne orribile, perché l’amore è molto più profondo quando si erge sull’abisso. Ma certo bisogna averlo sperimentato.  Oppure si può pensare che l’animale per un attimo generi un’anima. 
Si interroghi. Non sull’amore – su di un nome, piuttosto si chieda se può tollerarlo. Si interroghi se è in grado di sopportare in una simile solitudine la mia compagnia. I nostri giorni sono contati, come le giornate autunnali. Ciò che è tra di noi non ha nome, ma non è il problema di che cosa sia, piuttosto di che cosa ne facciamo. Chi vive la primavera e ha di fronte l’estate può affrontare la sfida. Noi dobbiamo portare a fioritura un tardo, tenero fiore ancor prima dell’inverno. Per quest’unica volta, in questioni morali sia ragionevole. 
*
Ad Anna (6)
Mi è intollerabile a letto
Oggi ho trascorso la notte insonne, steso sul sofà, col fumare di sigarette, di fronte alla porta aperta del balcone, d’un giallo color vino l’intermediario sentimentale: la luna. Non ho acceso lume per tutta la notte. Ho gustato un sentimento lontano, lontano distante quasi quanto gli anni dell’infanzia. Lo conosce? In una notte siffatta tutti i fili che ci legano agli uomini della vita giornaliera sono Spezzati. In una notte siffatta i mobili si spostano per la stanza e qua e là spunta la loro ombra da ogni angolo e da ogni dove ci chiamano con suono leggero. In una notte siffatta l’immagine non resiste allo specchio. Come un’ombra grigia si muove sul vetro nero velluto, cresce, di nuovo si ritira, sembra essere la nostra immagine e poi ancora solo una nebbia inquietante nello spazio sinistro. 
… sogno, avvenuto in noi un tempo. 
In una simile notte siamo diversi. E tuttavia noi stessi… Come un sogno più volte avuto…
Non posso volere. Non posso dire: vieni, vogliamo imboccare una strada insieme e sempre. La volontà possiede un futuro, un fermo sì e no tra gli uomini. Io non posso. Possiedo solo l’istante. Vivo solo nella notte. Nelle ombre delicate che ora sembrano essere la nostra immagine, ora qualcosa di completamente diverso, e certo noi stessi siamo troppo profondi… Così non comprendo l’istante. 
Mi si definisce uno psicologo. Non lo sono. Vengo attratto solo da cose certe e rare.  Indovino in altri e in me processi che sfuggono agli uomini, ma non so come io and lei nell’insieme, umanamente, di giorno… appariamo. Conosco quasi esclusivamente le immagini sul vetro nero, che si rimirano ora simili ora così estranee, nuove, diverse, che ci stupiamo di essere così.
Mi capisca bene: non parlo di me come di colui che lei incontrò qua e là, piuttosto di me come sono negli istanti più rari e veri, tra i quali spesso corrono anni, e so come voglio essere per lei. 
Di più posso appena dirle che non trovo sonno ed amo ciò, passando la notte con ombre e pensieri, scosso come acqua percorsa dal turbine…E sono felice. Certo appassionatamente felice. 
Non vogliamo dare alcun nome a questa passione; lei non lo desidera. Essa non ne ha bisogno. Ogni nome inoltre risulta precario ed inopportuno. E quando una tempesta è tanto violenta non si domanda se essa viene da nord o da est. Essa giunge urtando. E sferza i pensieri innanzi a sé, così tanto, così violenta, così estranea, che quelli non si lasciano afferrare. E lacera divise nell’anima, cosa che si osserva quando non si è ancora mai raggiunto il fondo di se stessi…Ed è di nuovo silenzio. (Forse dormo alcuni minuti) Mi stanco. Non ricordo più nulla. Ed è come se tenessi la sua mano e la potessi accarezzare ed intorpidire. Ed è come se potessi posare i suoi capelli sul mio viso…
Robert Musil
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lucianopagano · 2 years
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[6.II.2022] Alcuni appunti sparsi delle cose dette ieri sera, per la prima presentazione della nuova edizione de «Il pane sotto la neve », di Antonio L. Verri, che ho curato per Kurumuny nella collana Declaro, diretta da Simone Giorgino.
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«La storia è il nostro referente perduto, vale a dire il nostro mito» Jean Baudrillard, Simulacri e impostura
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Nel 1983, per i Quaderni del «Pensionante», uscirono «Forse ci siamo» di Salvatore Toma e «Il pane sotto la neve», di Antonio L. Verri. Il mio “dialogo” personale a distanza, con Verri, è iniziato una ventina di anni fa, grazie all’amicizia e alla condivisione degli amici che gli furono sodali; era un andar per tracce, come in cerca di un assassino, giunti dove è stato commesso il fatto con un attimo di ritardo, confrontando le differenti versioni dei fatti. Porre in equilibrio l’autobiografia, il fatto storico, la tradizione, la letteratura, è un’arte complessa. «Il pane sotto la neve» di Verri rappresenta questo equilibrio.
Ciò che spesso accade, nella scrittura, è che l’eccesso di un elemento vada a scapito di tutti gli altri. Troppo autobiografismo, senza cura per l’esistenza dell’altro fuori della propria sfera; troppa fedeltà ai fatti, priva di mistero, pedante; troppo ossequio nei confronti di una lingua e di una cultura cristallizzata, unita all’incapacità di volerne trasmettere l’amore che nasce dal comprendere quanto la lingua sia radicale perché capace di mutare, troppa attenzione a ciò che si vorrebbe scrivere e al pubblico, prima ancora della cura per l’oggetto del racconto, il sogno del reale. La premessa non deve ingannare.
Questo pane è uno dei testimoni residui, da intendersi come il testimone ultimo della staffetta, di un tempo letterario che era capace di essere disturbante e perturbante, in una maniera che oggi si rifugge, tanto siamo presi dalla medietà di un‘espressione quotidiana, nella quale la pervasività e onnipresenza della scrittura, per porsi, deve scacciar via il conflitto. «Il pane sotto la neve» ci dice che nel momento in cui tutto diviene scrittura nulla è più letteratura. È la letteratura che si nutre di mito, storia, lingua, radici.
C'è una sorta di compressione sintattica, come se l’esperienza si dovesse tradurre in immagini rapide, come se in un libro dovessero entrarcene tanti, come se il racconto del sacco di Otranto e della vicenda dei Martiri dovesse essere presentato con linguaggi differenti, a partire dalla poesia, passando per il pastiche narrativo grand-guignolesco, con passaggi nella lirica dell’Io e visioni di vera e propria poesia on the road.
Questo pane è duro, con momenti che pure se ostici ripagano l’udito e i sensi.
Noi facciamo parte della generazione che è venuta dopo, la generazione che ha conosciuto Antonio Verri tramite i racconti delle persone che lo hanno conosciuto e che qui stasera sono in tante. Apparteniamo alla generazione che ha conosciuto Antonio Verri tramite la lettura delle sue opere.
Essere editori, essere scrittori, essere operatori culturali, essere artisti, nel Salento di oggi significa esserlo anche grazie al buon lavoro che è stato fatto da coloro i quali ci hanno preceduti ma soprattutto accompagnati.
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redazionecultura · 7 years
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sede: Satura Art Gallery (Genova); a cura di: Adriano Accattino.
“La scrittura costituisce il ‘luogo della convergenza’ dei diversi tipi di espressione e comunicazione estetica. E aggiungiamo che la scrittura ci sembra anche in grado di mediare la necessaria interazione tra i vari segni che intervengono nella creazione dell’opera”. Così Vincenzo Accame chiarisce le ragioni del suo impegno nell’ambito della poesia visuale e del gruppo della “Nuova scrittura”, di cui nel 1975 firma il manifesto con Carrega, D’Ottavi, Vincenzo Ferrari, Liliana Landi, Mignani, Anna e Martino Oberto. Dopo aver esordito nel 1961 sulle pagine del Verri, la rivista principe di quella che diverrà la neoavanguardia italiana, diretta da Luciano Anceschi, con pagine in cui, sulla scia della lezione di Mallarmé si sforzava di “rompere la linearità della poesia verbale, agendo soprattutto sugli spazi”, entra in relazione con gli Oberto, fondatori della rivista Ana eccetera e con Ugo Carrega che con Tool, quaderni di scrittura simbiotica attorno alla metà degli anni ’60, proponeva una visione estesa della poesia, capace di integrare oltre agli aspetti verbali (fonetico e proposizionale), l’elemento grafico (lettering, segni e forme). Il suo lavoro – condotto in parallelo con l’attività di studioso e traduttore delle avanguardie storiche e recenti, dal Surrealismo al Lettrismo – costituisce una sintesi originale e inesauribilmente inventiva di questa poesia totale. “Ho sempre molto ammirato l’opera di Vincenzo Accame” – ha osservato Enrico Baj, compagno di scorribande nei territori patafisici di Alfred Jarry –”In quel suo scrivere, quasi per blocchi o campiture distinte, compatte o poi esplose e sparpagliate, complicate, arzigogolate e mantrugiate, in un fluire fittissimo e rapido, oppure al contrario statico, di stimoli grafici, il significante linguistico si maschera di un senso di misura e di leggiadria, le quali traggono in inganno lo spettatore”. La mostra allestita negli spazi di Satura, con opere provenienti dalla collezione del Museo della Carale Accattino di Ivrea, offre un significativo panorama del lavoro realizzato da Accame fra gli anni ’70 e ’90. Vi si incontrano scritture illeggibili, sottolineature, esplosioni grafiche, “sgeometrie” dove le parole, trascritte in caratteri minuti, si convertono in tracce lineari, in mormorii prossimi al silenzio, ma nutriti di una singolare forza vettoriale. Una scrittura poetica sommessa ma resistente, al cui riguardo l’Autore può concedersi il lapidario commento, che riporta nel titolo di una delle opere in rassegna, del verso conclusivo dell’Ars poetica di Verlaine: “E tutto il resto è letteratura”. (Testo critico a cura di Sandro Ricaldone)
Vincenzo Accame (Loano 1932 – Milano 1999) si è occupato di ricerche poetico-visuali, sia come operatore sia come cronistaHa pubblicato pagine di poesia e testi critici su numerose riviste (Il Verri, Malebolge, Marcatrè, Tre rosso, Uomini e idee, Tool, Le Arti, Approches, Phantomas, Tam tam ecc.) ed è stato presente a tutte le più importanti rassegne di poesie visuali; numerose le mostre personali e di gruppo (Gruppo Tool, Nuova Scrittura). Si è dedicato assiduamente anche alla poesia francese, curando edizioni di Eluard (Ultime poesie d’amore, Lerici, Milano 1965e Accademia Sansoni, Milano 1970), Jarry (Poesie, Guanda, Parma 1968; I minuti di sabbia memoriale, Munt Press, Milano 1975; Visite d’amore, Guanda, Milano 1977) e Arp (Poesie, Guanda, Milano 1976). Ad Alfred Jarry ha pure dedicato una monografia (Jarry, La Nuova Italia, Firenze 1974). Tra i volumetti di ricerca poetica citiamo: Ricercari (Tool, Milano 1972) Prove di linearità (EA, Milano 1970), Differenze (Tool, Milano 1972), La pratica del segno (Visual Art Center, Napoli 1975) e Récit (La Nuovo Foglio, Pollenza 1976). (dal risvolto di copertina del fondamentale volume Il segno poetico. Riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Munt Press, Samedan – Milano, 1977). Vincenzo Accame ha raccolto una sorta di “summa” del suo pensiero in un volume dal titolo Anestetica (Spirali, Milano 1998) che ne evidenzia soprattutto la componente anarchica.
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Vincenzo Accame. La pratica del segno sede: Satura Art Gallery (Genova); a cura di: Adriano Accattino. "La scrittura costituisce il ‘luogo della convergenza' dei diversi tipi di espressione e comunicazione estetica.
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garadinervi · 1 year
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Quaderni del Verri n. 1: Lamberto Pignotti, Edizioni del Verri, Mantova, 1976 [Fondazione Bonotto, Molvena (VI)]
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