Tumgik
unastanza · 2 years
Text
L'Isola delle Vestali
È il momento.
Tra poco, assisteranno al grande spettacolo.
Il nostro grande spettacolo: il Sacrificio del Fuoco.
In quest’isola florida abitata da sole donne, sul monte consacrato alla Dea Cerere, il nostro raccolto verrà mietuto, le mie carni saranno dilaniate, il mio sangue versato, benedetto dall’Ordine delle Grandi Madri, il mio corpo bruciato sulla pira.
Sono stata concepita su una terra lontana, frutto velenoso e dono indesiderato di una notte sbagliata, violenta, che non doveva esistere; portata qui sull'Isola dalla madre di mia madre; allevata dall’Ordine delle Grandi Madri con un unico scopo.
Sono una Vergine Vestale, il mio nome è Flaminia, e sacrificherò la mia vita, nel fiore dei miei sedici anni, le vene scalpitanti di giovinezza, per un bene superiore.
Per le mie Sorelle, per le mie Madri, per la Sacra Triade: Vesta, Cerere e Giunone.
La cerimonia di preparazione è iniziata ieri mattina. Ci hanno concesso un intero giorno di riposo, di ozio e di vizi di gola, come offerta, un compenso per la nostra devozione e il nostro coraggio.
Le Ancelle – serve di alto lignaggio, nobili discendenti dal puro icore divino, per questo non sacrificabili, le uniche, trascinate qui sull’Isola per un periodo limitato da padri disonorati, per espiare peccati carnali o gravi disobbedienze – hanno preparato torte e tartine fragranti al miele per me e le mie Sorelle; me ne sono ingozzata, ho mangiato fino a non poterne più, fino al disgusto; mi hanno lavata, mi hanno cosparsa di oli profumati, vestita di bianco, oro e gemme tra i capelli scuri e sui lobi delle orecchie.
Ho dormito per tutta la notte sul ventre morbido e caldo della mia capretta, bestiolina cresciuta da me, a cui ho dato da mangiare, da bere, coccolata e protetta come frutto deforme e sgraziato del mio stesso grembo condannato.
Con lei ho iniziato il mio percorso da Vergine Vestale, e con lei lo finirò. Salirà con me sul patibolo, accanto a me troverà la vita eterna.
Nel fuoco, nelle ceneri, nel tributo finale.
Hanno cucito per me una veste di seta bianca, la stessa che adesso indosso con orgoglio; come di seta è la benda per gli occhi della mia capretta, perché non possa vedere, perché non si spaventi, perché si faccia guidare, condurre sul patibolo.
Hanno raccolto erbe, fiori e frutti, fasce di grano e fieno, da mettere ai piedi del palco sacrale, sotto di noi, cosicché gli schizzi del nostro sangue possa benedirlo, che il nostro sacrificio possa arrivare dritto alle orecchie delle Dee, meraviglioso ai loro occhi; sarà cibo benedetto per le Madri e simbolo di eterna devozione e gratitudine per Vesta, Cerere e Giunone.
Stamattina mi hanno svegliata con carezze e candidi baci su guance, bocca, occhi. La colazione si è protratta fino a mezzogiorno, fichi e uva abbondavano sulla nostra tavola.
Hanno predisposto sul palco sei scranni d’oro, uno per ogni Vergine Vestale.
Sento i tamburi rullare oltre il sipario, i loro colpi secchi e vibranti riempiono l’aria, la caricano, macigni caduti dal cielo.
Afferro e stringo la mano di una delle mie sorelle, siede accanto a me, sul panchetto di legno levigato e tirato a lucido con la cera liquida.
La guardo in volto. «Non sei estremamente eccitata?»
Terentia scuote la testa, un movimento sottile, appena percettibile. China lo sguardo, la voce le esce dal corpo in uno sputo gutturale e melanconico, suona tetra alle mie orecchie, flebile, oscura: «No. E neanche tu dovresti esserlo. Siamo solo bestie.»
La fisso come per chiederle spiegazioni, non ho idea di cosa intenda.
Non capisco.
Per noi reiette, sbagliate e corrotte dal peccato, sacrificarsi alle Dee è il nostro più grande onore, il senso della nostra vita.
Osservo anche le mie altre compagne e sorelle di fato: c’è chi ha lo sguardo basso, pentito, amareggiato; alcune fanno saettare gli occhi sulle pareti, sul soffitto, sul pavimento di pietra lavica tutta scura e a bozzi, macchiata da secoli e secoli di sacrifici e sangue.
Forse in un’ultima preghiera, un’invocazione, o forse in cerca di una via di fuga.
Solo una di loro mostra un contenimento regale, che attira la mia attenzione, suscita ammirazione. Amatia punta lo sguardo fisso davanti a sé, è decisa, quasi imperitura, fredda, impietosa, risoluta nell’immolazione.
Lunghi riccioli d’oro sciolti sulle spalle, una cascata aurea degna degli occhi di Apollo.
Le vado vicino, il metallo dorato delle catene che mi tengono legati i polsi e le caviglie tintinna, mi annuncia.
«Non siamo come loro» dico, gettando uno sguardo oltre la mia spalla.
Non risponde. Sembra non mi senta neppure.
Probabilmente è così.
La sua indifferenza, l’ostentata noncuranza, non mi scalfiscono. «Hanno paura di morire» continuo, in tono di scherno.
Una di loro mi sente, si alza di scatto, seguita dal clangore delle restrizioni ad ogni passo che fa verso di me. Ira sul volto, nella voce, nelle vene che le affiorano gonfie sulla tempie e sul collo. «Sei tu la stolta a non averne», urla. «Non hai mai capito. Non capisci mai. Gli Dei non esistono!»
In un rapido scatto la spintono, vorrei poterla schiaffeggiare fino a provare dolore io stessa, ma le catene me lo impediscono.
«Non sei che uno scarto» è tutto ciò che riesco a dire. Me ne vergogno. La mia voce non suona abbastanza convincente, non è potente come vorrei. È incrinata. Come se Calida rinnegando il nome degli Dei, rifiutando la loro esistenza, avesse reso di conseguenza la mia vita – e la mia morte – vana ed inutile.
Fra tutte noi, è sempre stata quella più sfrontata.
Avrebbe dovuto incontrare il patibolo molto prima.
«Siete noiose e ridicole.»
Una pausa.
«Tanto moriremo comunque tutte oggi, no?»
Il cinismo di Amatia è in netto contrasto con il suono della sua voce, argentino e vivo, sembra di udire le acque delle lymphae riversarsi nella stanza.
Guardandomi attorno mi chiedo quante tra loro la pensano come Amatia, come Calida.
E quante come me.
Osservando i loro volti, la risposta è deludente.
Vorrei poter fare qualcosa per loro, portarle sulla via della rettitudine, l’unica via percorribile, accanto agli dei, fra di loro, per loro tutto, tutto quanto siamo in potere di offrire.
Virtù, volontà, sangue, muscoli scattanti, ossa, carne che brucia.
Tutto.
Sento già le parole affiorarmi in bocca, pronte ad uscire, quasi fossero sempre state lì, ad aspettare, per tutta una vita.
Ma all’improvviso, mi accorgo che i tamburi hanno smesso di rullare.
L’aria è più pesante, più calda, odora di fieno, di sudore acre e umido. Vuota, senza il suono sordo della pelle d’asina tirata e battuta dei tamburi.
Il silenzio mi distrae. Grava su di noi, tiranno esiliato da Giove, violento e crudele nell’abbattere la sua frustrazione e la sua minaccia su quest’isola.
La voce della Grande Madre Superiore squarcia l’immobilità grave, oltre il sipario, sul patibolo. Parla alle altre Madri, alle Ancelle, alle Vestali Novizie. Una voce potente, cavernosa, un rombo di tuono e di onde impetuose che si riversa implacabile, come destino, ineluttabilità caotica.
Vedo Calida ritrarsi e stringersi nelle spalle, farsi sempre più piccola, minuta, scossa da singhiozzi, il volto rigato di lacrime.
Amatia si alza, alta, la veste le ricade troppo corta sulle ginocchia nodose, le gambe sottili, i talloni ossuti che scattano in avanti.
Piena di vita.
«Stanno vendendo a prenderci» dice, risoluta. Infuocata, calda, senza tremare, senza esitare, butta fuori le parole, vocali e consonanti, sillabe che hanno il potere di scuotere le pietre e il legno, di spostare l’aria, di renderla rovente.
Il livello di perfezione a cui aspiro, io che mi sento infinitamente più impacciata, più goffa, inadatta perfino al sacrificio.
Lei splenderà, sul patibolo, come sul rogo, tra Orcus – l’Orco della Morte – e la pira, i capelli biondi al sole, con forza e vigore spazzerà via l’inadeguatezza che mi inonda; il suo sangue circonderà le mie caviglie e mi renderà perfetta agli occhi delle Dee e delle Madri.
Spero che la lama della Grande Madre Superiore incontrerà la sua gola per prima, spero che sarà la prima, che il freddo metallo intriso del suo sangue possa scendere su di me, mischiarsi con me, a me, e rendermi giusta.
Un rumore di passi fa vibrare lo spazio che mi divide dalla morte.
Sono i passi delle Ancelle, sei Ancelle per sei Vestali.
Appaiono da dietro il sipario rosso cremisi, vesti e veli color avorio sui loro volti; si inginocchiano ai nostri piedi, con umiltà e reverenza.
Una preghiera. Un coro.
Oh, Vergini Vestali, non siamo degne, noi vi imploriamo: donate il vostro sangue, affinché le nostre anime possano purificarsi.
Riconosco l’Ancella che la scorsa notte mi ha nutrita e lavata, coccolata – una mano su di me, una mano sul suo grembo morbido e pieno, un grembo che continuerà a crescere fino a generare un figlio – e raccontato storie sui suoi antenati. Il suo nome è Velia, lo ricordo, ma le storie dei suoi antenati si sono già perse nell’oblio del mio sonno.
Si assicurano che i nostri polsi e le nostre caviglie incatenati siano privi di abrasioni e segni: è auspicabile per la riuscita del sacrificio, giungere sul palco sacrale in piena salute e perfette, senza neanche un graffio.
Intatte, incorrotte.
Ci offrono del vino e della mola salsa, che bevo e mangio con bramosia adorante.
L’ultimo pasto.
Una di loro – l’Ancella di Terentia, bassa e smilza, gli occhi infossati e cerchiati di nero – raggiunge il sipario.
Un corno che suona annuncia il nostro arrivo.
È la Grande Madre Superiore.
Che le Dee possano guidarci e salvarci.
L’aria rimbomba, un’ovazione esplode tra le altre Madri, tra le Ancelle ferme sotto al patibolo, tra le Novizie.
Ci acclamano, siamo le preferite.
Che le Dee possano guidarci e salvarci.
Lo ripetono anche le nostre Ancelle, il capo chino.
Avanziamo di uno, due, venti passi, non li conto più. I miei occhi sono fissi sul sole splendente fuori dalle tende, oltre il sipario. I piedi scalzi e sofferenti, a contatto con il legno cocente del palco sacrale, vorrebbero fuggire, correre, scappare.
Salvarsi.
Ma io rimango ferma, la mia volontà è salda, il mio volto ora spazia, si meraviglia, come se vedessi tutto per la prima volta, l’arena di pietra che ci circonda, le panchine e le facce beate, estasiate, inebriate dalla nostra presenza.
Sono familiari, conosco ogni dettaglio dell’Isola e delle loro abitanti a memoria, saprei distinguere qualsiasi Vestale, Ancella o Madre da un neo sulla spalla, dalla voce, dal modo in cui cammina.
Eppure adesso mi sembrano nuovi posti, nuove persone, le incontro per la prima volta, e le incontro da consacrata.
La Grande Madre Superiore ci tocca la fronte, l’accarezza, la benedice, la sua lunga veste color cremisi a frusciare nell’aria immobile ad ogni gesto, ad ogni passo.
Porta sul capo una corona di alloro; le dita sono tinte di hennè fino alle nocche, nere come la pece; gli occhi cerulei resi catramosi, pesti e carichi dal trucco scuro color carbone.
Anche le labbra sono nere, e si posano adesso sulle nostre bocche.
Un bacio. Un marchio.
Avverto un pizzicore sui capezzoli e tra le gambe, un piacere intenso che si propaga.
Attendo la sublimazione dei miei desideri, la glorificazione della mia anima.
Prendiamo posto sui nostri scranni, la pelle ribolle a contatto con il metallo.
Le Ancelle spariscono per un attimo, oltre il sipario, veloci e silenziose, per poi ritornare accompagnate dai sei animali sacrificali che noi stesse abbiamo allevato, fino al sacrificio.
Fino a qui.
Tre agnelli, due caprette e un maiale.
Portano fiocchetti color dell’oro e del bronzo intorno al collo e sulle zampe, una lunga fascia cremisi attorno ai ventri gonfi, la fascia di seta grezza sugli occhi.
Sono riluttanti a camminare. La mia capretta – quella con le macchie nere e marroni sul dorso – è l’unica a muoversi spigliata, decisa, verso di me pur non vedendomi, forse percependo la mia presenza, il mio odore nell’aria.
Sono orgogliosa di lei. In un gesto affettuoso, le accarezzo dolcemente le orecchie e il mento barbuto.
Un boato ruggente esplode sotto di noi, un tumultuoso canto, una nenia.
Oh, Vergini Vestali, non siamo degne, noi vi imploriamo: donate il vostro sangue, affinché le nostre anime possano purificarsi.
Sorrido. Lacrime scorrono sul viso arrossato e accaldato dal sole alto nel cielo.
È in questo esatto momento di pura estasi, che fisso i miei occhi negli occhi di una bambina di fronte a me, proprio sotto al palco. È piena di aspettative, speranzosa. Ha sei anni, l’età in cui si assiste al primo sacrificio. Alla sua età, assistendo al mio primo sacrificio, provai un forte sentimento di potenza, di gioia, di speranza: credevo che le Dee si sarebbero manifestate ai nostri occhi in una forma palese, tangibile, inviolabili e inconfutabili.
Allora, rimasi delusa.
Sei anni e dissi a me stessa, sarà per la prossima volta.
E così a sette, a otto, a quindici.
Sarà per la prossima volta. Le vedrai. Quando sarà il tuo momento, il tuo turno di splendere, le vedrai. Sul palco sacrale, istantaneo fulgore.
Non persi mai la fede.
Il canto si interrompe di colpo. La Grande Madre ricompare nel mio campo visivo, come una visione, leggera, incorporea.
L’odore che porta con sé è agrodolce, olio di rosa misto all’afrore secco del suo sudore.
Pronuncia il consueto discorso d'iniziazione, ammaliante.
«Grandi Madri, Novizie, Ancelle e Vestali», si gira verso di noi, un rapido sguardo di approvazione, una tenera occhiata di compiacimento, prima di rivolgersi nuovamente alla folla. «Oggi è un gran giorno per tutte noi. Abbiamo aspettato un anno, per rinnovare la nostra offerta alla Sacra Triade, abbiamo accolto queste ragazze quando erano in fasce, acerbe ed empie, intrise di peccato. Ma oggi troveranno finalmente la via per la redenzione.»
Un tuono di voci, l’ovazione che ritorna, sempre più carica, vicina al parossismo, sempre di più.
Oh, Vergini Vestali, non siamo degne, noi vi imploriamo: donate il vostro sangue, affinché le nostre anime possano purificarsi.
La bimba con gli occhi grandi e scuri passa in rassegna me e le mie sorelle. Non conosce ancora bene le parole, mima con la boccuccia rossa e tumida il canto sconosciuto.
Ci prova.
Vedo le piccole dita spiccare, alzarsi uno dietro l’altro, per fare la conta.
Una ragazza. Due ragazze, tre, quattro, cinque, sei ragazze.
Sono l’ultima, sono la sesta, il suo dito mignolo piccolo e rosa si abbassa per ultimo.
Fissa i suoi grandi occhi dentro i miei.
Le sorrido ma non ricambia. L’espressione si fa distratta, svuotata; passa dall’eccitazione allo sgomento più puro, tutta la felicità viene risucchiata dal suo animo, un orrendo strappo che mi pare quasi di sentire, quando scorge la lama tra le mani di Terentia, che lenta, inesorabile, passa sulla gola del suo agnello.
L’animale si dimena, bela stremato, disperato; scalcia, i muscoli sconvolti e convulsi, prima di accasciarsi sul palco, senza vita.
Subito dopo, la Grande Madre Superiore fa lo stesso con Terentia.
È così che funziona.
Di madre in madre.
Fiotti di sangue denso schizzano violenti sulla sua veste, la imbratta, sangue sulle fasce di grano e sul fieno per le fiere, sulla frutta, sulle verdure del nostro orto, sulle spettatrici che chiudono gli occhi, puro godimento estatico.
Non c’è niente di cui aver paura, sussurro, spero che la bambina lo possa udire, ma forse non mi sta neppure guardando.
Mi guarda ma non mi vede. Mi trapassa, mi trafigge.
Mi esamina, vedo le pupille saettare lungo il mio corpo, l’iride farsi ancora più scuro, ancora più intenso, un abisso che assomiglia all’immensità mortale che sto per raggiungere.
Specchio della morte stessa. Specchio dell’innocenza perduta.
Forse si chiede che effetto farà, quando la lama sarà sulla mia gola, quando sarò io a morire; se il sangue sarà copioso, se macchierà anche lei.
Il corpo di Terentia si scompone, il mento le ricade sul petto, le dita dei piedi sono contratte, oro e porpora alle caviglie, sui polsi, le mani serrate in pugni esangui. La pozza si allarga ai suoi piedi sempre di più.
Il tanfo metallico è nauseabondo.
Oh, Vergini Vestali, non siamo degne, noi vi imploriamo: donate il vostro sangue, affinché le nostre anime possano purificarsi.
La preghiera si innalza sempre più potente, mentre al centro della piazza vengono trasportate da quattro abili, grosse e muscolose Ancelle due pire funerarie. Una più piccole per le nostre bestioline; l’altra per noi, su cui i nostri corpi esanimi verranno adagiati e bruciati, tutti insieme.
Due Ancelle trasportano il corpo di Terentia dietro il sipario. È lì che verrà ripulito, la ferita ricucita, la pelle massaggiata con olio di arancia e sul capo, manifesto funebre, una corona di piccole foglie di alloro e acanto tinte d’oro e di bronzo.
È la sorte che toccherà a tutte.
Calida, che accanto a Terentia giace adesso svenuta, non vede la lama arrivare alla base dell’orecchio sinistro, squarciare ed aprire uno strambo, largo, disordinato doppio sorriso da parte a parte, il collo bianco e lungo esposto.
La sua capretta la raggiunge poco dopo.
Amatia sembra rilassata, osserva la scena con stoico distacco, gli occhi puntano altrove, oltre i monti, oltre il cielo, forse anche oltre le Dee stesse, fuori da tutto.
Uccide il suo maiale con insolita forza, una mano a sgozzarlo, l’altra a tenerlo fermo ma con delicatezza, tenere carezze lente sulle piccole orecchie e sul grugno umido; parole appena pronunciate, leggere come un soffio, perse tra gli abominevoli grugniti, bestiali, assordanti urla di dolore.
Solo un piccolo, leggero squittio accompagna la sua morte. Emette un grazioso gemito prima di accasciarsi sullo scranno, esausta, i ricci biondi si imbrattano del suo stesso sangue.
La lama della Grande Madre Superiore uccide anche lei.
I corpi di Vergini Vestali ed animali vengono trasportati via uno dietro l’altro, il canto non si interrompe, l’isteria più profonda ed acuta strappa le loro ugole, le voci sono incrinate, stridule, ma non smettono.
Non smettono.
Oh, Vergini Vestali, non siamo degne, noi vi imploriamo: donate il vostro sangue, affinché le nostre anime possano purificarsi.
Vorrei tanto sapere il suo nome.
Vorrei rassicurarla, dirle che è tutto ok, che è la cosa giusta da fare.
Un’Isola così prospera e ricca come questa, richiede grossi sacrifici.
Della bambina ne è rimasto solo il guscio. Un bozzolo vuoto che presto verrà riempito da disprezzo e blasfemia, come è successo con Calida.
Tre piccole macchie rosso cremisi si stanno allargando sul lato sinistro del suo viso, percorrono la lunghezza della guancia paffuta.
Cerca di ignorarle, così come ignora il massacro delle carne, il versamento fluido e denso del sangue, che adesso bagna anche i miei piedi, l’orlo della mia veste. Gocce di sangue sul braccio destro, tra i capelli, sulle mie labbra.
Sono l’ultima.
Sono rimasta soltanto io.
Il dito mignolo.
Sta accadendo tutto così in fretta. Orcus reclama la morte, le Dee se ne compiacciono, assistono soddisfatte.
Spero in una visione, l’ultima, la definitiva, spero nella loro chiara manifestazione, mentre le mie mani, di colpo così leggere, impugnano il coltello, intriso di sangue umano ed animale.
Le mani della Grande Madre Superiore sono posate salde sulle mie spalle.
Non esitare, sembra che dica, non esitare, forza colpisci, uccidi. Presto sarai redenta.
Così faccio. Obbedisco. La mia docile capretta si accascia sui miei piedi, gli ultimi spasmi di vita e poi, mansueta, spira.
Sono gli istanti finali della mia vita. Mi vortica tutto attorno, una spirale di confusione, desiderio, estasi ed oblio.
L’ultima cosa che vedo è il viso imbrattato della bambina.
Ingenuamente, o forse no, credeva che la mia sorte sarebbe stata diversa, che la capretta che mi sedeva vicino, mansueta e paziente, potesse vivere ancora, per sempre sull’Isola, fino al grigiore finale dei suoi giorni.
La delusione, il disgusto e l’orrore più puro, più acuto, le affiora in viso. Le deturpa le fattezza, la cambia, la rende brutta, priva di grazia, rovinata.
Non sarà mai più felice, non qui.
Sento la vita scivolare via. Non oppongo resistenza.
Anelito di una vita che era, osservo adesso il mio corpo svuotarsi, sangue che zampilla ad ogni battito.
La lama mi attraversa ed io mi prostro in un’unica preghiera.
Che possa toccarmi il divino. E che nel divino, io possa esistere di nuovo.
Non sento più niente. Non il canto, non le grida, non il respiro estatico, affannato, eccitato della Grande Madre Superiore.
La voce di Velia e il suo grembo pieno stanno sfumando già nel più lontano dei ricordi.
Non avverto alcun dolore, mentre brucio nel lenzuolo funerario insieme alle mie Sorelle, vegliata dalle Ancelle fino a quando le mie ceneri non si confonderanno con le braci, il legno, con le pietre e con le foglie di alloro e acanto.
Sono un respiro, appena percettibile.
Dovrei sentire le fiamme avvolgermi, il mio corpo, le mie ossa perdersi tra i miasmi della morte.
Ma non sento più niente.
È tutto distante, la realtà che adesso mi avvolge è pura vacuità.
Il ricordo degli occhi della bambina è l’ultima cosa a svanire.
Vorrei tanto sapere il suo nome.
Spero, spero invano.
Non c’è nessun Dio.
Vorrei tanto sapere il suo nome.
1 note · View note
unastanza · 2 years
Text
La ragazza con un solo occhio
Non mi piace quando lo fa.
Lo detesto. Detesto la sua barba, le sue mani tozze, volgari.
Mi guardo intorno e detesto tutto di questo posto: le luci soffuse, gli eleganti centrotavola floreali, l’orchestra che suona dal vivo un brano di Glenn Miller, le coppie attorno a noi, così perse in passioni e desideri, così lontane, in un mondo a parte e distaccato da quello su cui io ora poggio i piedi.
Ma più di ogni altra cosa, detesto me stessa.
Non so neanche perché mi trovo qui, con lui. Qual è la ragione che mi ha spinta ad accettare? Non lo so.
Ero stanca della sua insistenza, forse. Ero stanca del suo fiato caldo come quello di una bestia famelica, che puzza sempre di bourbon scadente e sigari, dritto sulla mia faccia.
Così ho detto sì.
Ed implicitamente, ho detto sì alle sue mani, al suo fiato putrido, al suo viso già rubizzo per i fumi dell’alcool, ai suoi capelli laccati di gel, che a me paiono così unti, schifosamente sporchi, ai suoi occhi acquosi, storditi, annebbiati da un’unica voglia malata, che di ora in ora si manifesta sempre più palese.
È un uomo schifoso, lo sanno tutti. Ma nessuno fa niente.
Ricordo le occhiatacce di disprezzo e di disgusto delle mie colleghe dattilografe, alla notizia che avevo accettato l’invito, i discorsetti alle mie spalle, come se io non potessi sentire, come se il mio handicap peggiore fosse l’udito.
E non la vista.
Non le biasimo.
Le parole cattive uscite in miasmi di risentimento dalle loro gole, gli sguardi carichi di incredulità mista ad avversione, sono gli stessi che ho riservato a me stessa, una volta tornata a casa.
Eppure, nonostante questo, ho spazzolato i capelli, truccato il viso, acceso guance e labbra di rosso, indossato il mio miglior vestito – con il mio stipendio, è difficile spendere in lussi da ragazzetta vanitosa – e preso il taxi che mi ha condotta qui stasera.
Lui era alla porta ad aspettarmi, nel freddo sferzante di Gennaio.
Un vero galantuomo, ho pensato. Ironica.
Il suo braccio teso verso di me, una richiesta avanzata con arroganza.
L’ho ignorato, con un sorriso gentile.
Non azzardarti a toccarmi.
Lo ripetevo come un mantra, come una maledizione che speravo lo colpisse, che le sue braccia e le sue gambe e il resto del suo corpo disgustoso potessero per sempre smettere di funzionare, cedere e liquefarsi se solo avesse provato a toccarmi.
Non sta funzionando: continua a spostarmi i capelli dal viso.
Non mi piace quando lo fa.
Espone la mia parte vulnerabile, la deride, si prende gioco di me.
La mia ragazza con un solo occhio, è così che mi chiama, sorride con la speranza di trasmettere simpatia e non schifo.
Schifo, schifo, schifo.
Mostra a tutta la sala il mio difetto genetico, il peggiore che la natura avrebbe mai potuto imputarmi.
Quasi li vedo smettere di mangiare, alzarsi dai tavoli, venirmi incontro per deridermi con i loro visi perfetti, con una bocca normale, con un naso normale, e cosa più importante, con due occhi.
Io ne ho solo uno, il destro. Lì dove dovrebbe esserci il sinistro, una membrana tesa e screpolata, tirata come la pelle di un vecchio, circonda e protegge un buco scuro, vuoto, dove oltre non si riesce a vedere.
Ossa, cervello, cranio, muscoli.
Ci sono, sono lì, si sviluppano e pulsano e si contraggono, ma non si vedono.
La ragazza con un solo occhio.
Per colpa di questa deformità – o forse dovrei dire per totale assenza di forma – il lato sinistro del viso si sviluppa in modo irregolare, sgraziato.
Un’incrinatura ambulante, con le grosse labbra che lasciano intravedere le gengive e parte dell’incisivo e il canino sinistro; sbeccatura e caricatura di me stessa, con la narice che asseconda la piega distorta della mia bocca, puntando verso l’alto.
Un viso che si sviluppa all’insù, sollevato, evasivo; la mia stessa carne ribelle che vorrebbe scappare, che non accetta l’irregolarità.
Uso sempre i capelli per coprirmi il volto, rossi e lucenti, sono la mia massima soddisfazione.
Ma lui non vuole lasciare le cose così come sono adesso. Sposta e scopre ed evidenzia, mi espone come un fenomeno da baraccone.
Non mi piace quando lo fa.
Si avvicina, annaspa, goffo ed ingombrante, mi mette una mano sulla coscia, l’altra in vita, spaventosamente vicino al seno.
Stringe e cinge, la sua pelle di maschio puzza già di sudore, emana l’olezzo della carne euforica, pregusta quello che sta per avvenire, quello che vorrebbe che accadesse, proprio qui, in questa sala, su questo tavolo, sul pavimento, spinta contro una finestra, contro il mio stesso volere.
Perché è così che lui fa, è così che agisce.
Non chiede, esige.
Sfonda e si appropria di tutto ciò che vede, che tocca, che bacia, lecca.
È la caccia, ad eccitarlo, più di ogni altra cosa. Gioca con me, mi saltella intorno, mi prende di mira. È il vedermi sua preda, schiacciata sotto la forma possente e grossa del suo corpo, a piacergli. Non io.
«Spero che la serata sia di suo gradimento, signorina Welch.»
Ridacchia. Pronuncia il mio nome con beffarda ironia.
Mentre penso alla risposta da dare, il mio sguardo indugia sul coltello alla mia sinistra.
È fermo in bilico sul piatto, la lama lucente, intinta dei succhi di un anatra all’aceto balsamico che a stento ho avuto il coraggio di sbocconcellare.
Mi rendo conto solo adesso di aver maltrattato la carne, così sottile, così tenera; l’ho sfilacciata, ridotta in pezzettini piccoli, adatti alla boccuccia di un uccellino.
Quei pochi bocconi che ho ingerito, l’ho fatto masticando e frantumando sotto i denti, deglutendo a fatica.
Realizzo in questo istante di aver fatto al mio pasto ciò che avrei voluto fare a lui.
Il coltello, di nuovo, lo fisso, intenso e brillante. Divento la sua allodola. È ipnotizzante.
Mi scopro a pensare, per niente terrorizzata, se solo potessi ficcarglielo in gola, aprirlo da parte a parte, sgozzarlo come un maiale, far scendere la lama lungo il suo petto ed eviscerarlo, sventrarlo, svuotarlo sempre di più, sempre più giù, fino a raggiungere i suoi genitali!
Sarebbe una liberazione, penso. Enorme sollievo.
«Molto, signor Thorne» rispondo, muto la mia forma, divento malleabile ed accomodante, modifico il tono di voce, degradandolo a sfumatura civettuola.
Mimo un flirt che non intendo veramente, mi lascio andare.
Sto per sgozzarlo.
«La ringrazio molto per questo invito, sono così lusingata. Una ragazza come me...»
«Sprovveduta» aggiunge, mi blocca, completa erroneamente la mia frase. «Sprovveduta» ripete, «Rammento ancora il suo primo colloquio nella mia azienda, era così persa. Sprovveduta.»
Lo rammento anche io.
Mani, bocche, saliva, fiato che puzza.
Stringe la presa sulla mia coscia. «E guarda invece adesso dove sei arrivata! Immagino, signorina Welch, quanto fortunata lei possa sentirsi in questo momento.»
Termina con una risata gutturale, interrotta da un colpetto di tosse.
Lo guardo sorpresa, gelido senso di sopraffazione mi corre lungo la spina dorsale. «Già, sono molto fortunata.»
È compiaciuto adesso, me ne accorgo dal modo in cui si lecca le labbra e le fa schioccare. Una goccia di saliva mi arriva sul mento.
Per un breve attimo, sussulto.
Non se ne accorge; sono anzi sicura e certa, che abbia scambiato il mio ribrezzo per brivido di eccitazione.
«Le piace l’orchestra?»
Annuisco.
«Anche me, è deliziosa. E Glenn Miller?»
«Sì.»
«Nel tempo ho collezionato i suoi vinili più famosi.»
Ammicca, saliva bianca si accumula e si incrosta ai lati della sua bocca larga e secca.
Capisco immediatamente dove vuole andare a parare, e mi sta quasi bene.
Ho bisogno di privacy assoluta ed intimità, se voglio mettere in pratica il mio piano.
Navigo nell’indefinita, vaga eppure persistente voglia di toglierlo di mezzo, di farlo collassare, di svuotare le sue carni.
Così la smetterà di toccarmi. Così la smette.
La smette di essere così sporco e schifoso, la smette di spostarmi i capelli da davanti il viso.
Un gesto che ripete senza considerazione, io nata per compiacerlo e nella mia anormalità mostruosa divertirlo ed affascinarlo.
Non so ancora come ma avverrà.
Lo farò.
Stanotte.
È questo esacerbato istinto di sopravvivenza, questo desiderio di vendetta, che mi porta a sorridere. Gli angoli della bocca si incurvano verso l’alto, la mia eccezione sfuggente diventa più evidente, virgolette di alterazione che lo fanno infiammare.
«Le andrebbe di proseguire la serata in un luogo più...»
Esita, ma è una mossa studiata. Si aspetta che lo guardi con trepidazione.
Lo esaudisco, lo soddisfo.
Il mio atto finale più atteso sta per andare in scena.
«Appartato?» lo sorprendo.
Alza un braccio e con un cenno rapido dell’indice richiama a sé un cameriere annoiato e ondeggiante a ritmo di musica.
Paga il conto e lo vedo alzarsi, pingue e goffo, il forte e pesante graffiare della sedia mi fa quasi ridere.
Lui è così fuori contesto, così anacronistico, costretto nel suo doppiopetto blu.
Per una frazione di secondo, sbircio sulla stoffa tirata e sugli affaticati bottoni e cuciture che la tengono insieme.
Sta per esplodere, penso.
E la risatina che ne consegue arriva proprio nel momento in cui con disarmonica, inutile, deludente eleganza sposta la mia sedia in un gesto che vorrebbe essere di cortese galanteria, ma che in realtà, a momenti, mi fa quasi cadere in avanti.
Non devo neanche sforzarmi di soffocare la mia ilarità, il suo ego è preponderante, così proporzionato e contemporaneamente adatto alle dimensioni del suo girovita, che pensa io sia sorridendo con lui, non di lui.
Stupido nei suoi disgustevoli errori.
Con la stessa maldestra premura, apre la portiera della sua auto dal lato del passeggero. La carrozzeria è ben lucidata e nera, come il cuoio delle sue scarpe da signore raffinato, poco adatte ai suoi piedi da porco.
Il tempo in macchina, l’anello di congiunzione tra una cena sazia di tensione e la fine della sua stupida esistenza, trascorre in maniera sorprendentemente anonima.
Nessun batticuore, nessuna ansia, sono stata concepita dai miei genitori, in tutta la mia menomazione fisica, proprio per essere qui, per portarlo al limite e poi annientarlo, fino al parossismo acuto, fino alla sua estinzione.
Una supernova che brillerà e in poco tempo collasserà, si spegnerà, per sempre.
Non allunga le mani, non accenna a nessuna porcheria lasciva, non sfiamma prepotente in elogi carnali.
Quasi mi dispiace.
Sì, un po’ mi dispiace.
Provo pena per l’essere molliccio e sfibrato, scomposto ed obeso, che sfreccia nel silenzio di una città già addormentata, che non sa, che ignora, una città bambina ignara e che serena non si aspetta di incontrare la Dea Morte per mano mia.
Per mano di una menomata, abituata all’oscurità e agli angoli più polverosi e angusti dell’esistenza.
Uno in meno, illustre cittadino con la maschera della rettitudine incollata di forza sul viso.
Uno in meno.
Penso anche che forse, dopotutto, non è colpa sua.
Se agisce da stupratore e maniaco, da molestatore indefesso e concentrato nella sua macabra missione.
Magari è stato abituato fin da piccolo a cacciare, a dimostrare la propria condizione di maschio.
Lo vedo traslato in una realtà passata, bambino, già grassoccio e impacciato, nei boschi, intento a far del male a cervi, cinghiali, creature selvatiche che richiedono libertà per poter sopravvivere, condizione, questa, per cui l’uomo è letale, impietoso.
Lo osservo bene, adesso, nel presente, è sudato e con gli occhi appannati.
Non sa cosa farsene di una donna consenziente, penso con orrore.
Non è abituato all’accettazione, non deve sgomitare per imporre la propria presenza.
Non con me.
Non sa cosa farsene di me, adesso che ho detto sì.
Non posso smettere di pensare alle sue mani lascive sulla mia coscia, sui miei fianchi, vicino al seno.
Sul mio viso.
All’esasperazione di affermare la mia dignità, attraverso il rifiuto di mostrare il mio volto per intero.
Me lo ha negato.
E mi ha offesa.
Immorale, vizioso, un’onta che non accenna a placarsi.
Il mio odio per lui.
Il vialetto che conduce al suo appartamento è immacolato, non una singola foglia fuori posto; e anche l’interno della casa mostra una faccia candida, sterile.
È fredda, come se le mura e i pavimenti stessi si preparassero ad accogliere il fiato gelido della morte.
Ho fretta di concludere, l’anticipazione, il pregustare, sono cose che mi innervosiscono e mi danno modo di riflettere.
E non posso permettermelo, è un lusso che mi è stato precluso.
Devo concludere.
Non posso avere ripensamenti.
Mi guardo attorno. «Saltiamo i convenevoli?» dico, ammiccando in direzione del divano. Studio la stanza, subito adocchio la statuetta spigolosa di una venere, languida e placida sul tavolino basso.
Un sorriso affiora sulle mie labbra.
Lui è fermo davanti a me. «Non vuoi bere qualcosa, prima?»
«Abbiamo bevuto abbastanza.»
Il tuo copione con me non funziona, ti sto cambiando le battute, sono io la direttrice di questa commedia, il teatro, il palcoscenico, la platea non ti appartengono più.
Si passa una mano tra i capelli, è insicuro, è incerto.
L'altra mano la porta all’inguine, vedo l’abbozzatura grossa del suo membro eretto.
Se ne accorge e mi fissa come un ragazzino alle prime armi, impacciato. Non sa come proseguire; lo disorienta, procedere in questa certa direzione senza sfogare la forza bruta che adesso non trovo sbocco, che evanescente si è ritirata, sembra quasi sparita.
«Ti piacerebbe un po' di musica, Mary?»
«No.»
Lo prendo per mano, sfioro il suo rigonfiamento, lo strizzo. Emette un gemito, un rantolo cavernoso che mi fa accapponare la pelle.
«Piano», mi intima.
Il disgusto che provo per me stessa, adesso è nulla in confronto alla ferocia del mio odio.
Ci ritroviamo avvinghiati sul divano, il suo peso mi schiaccia, faccio quasi fatica a respirare.
È violento anche nel suo roco ansimare.
«La mia ragazza con un solo occhio», geme, mentre muove i lardosi fianchi su di me, su e giù, destra e sinistra.
Ondeggia e dà solidi, duri colpi di reni, una sorprendente scioltezza di movimenti, in netto contrasto con la sua mole da toro, che mi verrebbe da definire armoniosa, se solo la circostanza fosse diversa.
Se io fossi diversa.
Se lui fosse più umano.
Mi tocca il viso, fa scorrere le dita lungo il profilo irregolare della mia deformità.
Sento il rumore della zip che si abbassa, il suo arrochito boccheggiare diventa ora più intenso.
Avverto la violenza montarmi in corpo, assecondo il suo funereo, straziante galoppare. Mi invade e mi scuote, fa vibrare i miei muscoli, i miei arti elettrici, pronti a scattare.
Lo voglio uccidere, proprio qui, proprio ora, essere misero, eretto, insignificante come un verme.
Lo voglio schiacciare.
È dentro di me, si fa spazio, mi invade con arroganza.
Sospiro, fa male, voglio che la smetta.
«Chiudi gli occhi», gli ordino.
Mi obbedisce, non si chiede perché.
Lo fa e basta.
Questo mi soddisfa, il piacere che ne deriva mi sfrigola in pancia.
Lo incito, «mi piaci con gli occhi chiusi», lo prendo in giro. Non se ne accorge, è perso. Aumenta la velocità, assesta colpi con smanioso desiderio di concludere.
I suoi baci umidi puzzano e lasciano una patina bavosa, appiccicosa, sul mio collo.
Allungo la mano verso la statuetta, la impugno saldamente.
Oscilla, sferza l’aria, la squarcia.
Lo colpisco sul cranio, sulle tempie.
Sussulta.
Non mi fermo.
Una, due, tre volte.
Smetto di contare, è un istinto irrefrenabile. La violenza ha trovato la sua valvola di sfogo e adesso è impossibile arrestare il flusso di determinata, lucida spietatezza.
Materia cerebrale schizza sul soffitto; è sui miei vestiti, sul mio viso, sulla pelle nera del divano, sulla statuetta della Venere, mia Venere di salvezza.
Il sangue, denso e caldo, e il suo odore metallico sono richiami ferali.
Mi libero del suo peso, scalcio via da me la creatura morta ed estinta; lo osservo adesso, supino, il cranio fracassato.
Il mio ragazzo con un occhio solo.
Il suo volto trasformato e simile al mio, sono la sua Madre Natura.
L’ho modellato, l’ho riformato, convertito nella mia replica, con il suo occhio sinistro mancate, maciullato.
Mi lascio andare ad una risata folle, isterica.
Sono ricoperta di sangue e cervello e rido.
Anche la sua bocca ora muta, spalancata e storta, sembra che stia ridendo con me.
Non riesco a frenare questo eccesso, me lo porto dietro anche mentre penso a cosa fare.
Potrei costituirmi alla polizia, con gli storpi è difficile fare i cattivi, i mal pensanti, penseranno sia stato un atto di legittima difesa.
Sono pronta per le conseguenze?
Potrei lasciare l’appartamento e andarmene come se niente fosse mai successo, come se non fossi mai stata qui, ma le mie impronte mi tradirebbero, sono ovunque, ed in quel caso neanche il mio occhio mancante e il mio viso sfuggente potrebbero fare da attenuante.
Non saprei neanche come disfarmi della Venere, incrostata di sangue, pelle e capelli.
Rido, rido fino a farmi scoppiare i polmoni, il mio stomaco implora pietà, i nervi e i muscoli sono tesissimi.
Mi sento come un elastico lasciato in pericolosa trazione, le fragili mani che mi tengono sospesa potrebbero stancarsi e allora cadrei, precipiterei.
Lo guardo ancora una volta, la sua forma sgraziata, nudo, sconcio e ricoperto di sangue come il giorno in cui è venuto al mondo, in modo da poter elaborare un piano.
Prendo atto della crudezza del momento, faccio permanere questo senso di disagio ed inevitabile rovina, sarà questo a spingermi ad agire, lo so, lo sento, ma non riesco a smettere di ridere.
Lacrime affiorano sulla mia pelle, sono copiose, sono acide, salate, bruciano, si mischiano al sudore che imperla mento e collo.
Incerta, zoppa, claudicante mi avvicino al carrellino dei liquori, poco distante.
È uno sforzo enorme.
Vado alla ricerca di qualcosa con cui stemperare l'isterismo. Anche le mani tremano, mentre afferrano la bottiglia che contiene liquido ambrato, riesco ad avvertire il suo calore anche prima di stapparla e bere grandi sorsi.
Grazie tante.
L'effetto calmante e soporifero dura per poco, l’adrenalina continua a farmi ridere.
E ridere.
E ridere.
Cado sulle ginocchia, la vista appannata dall'alcol e da qualcosa di più sinistro che preme contro la gabbia toracica, un presagio, un avvertimento che non riesco a decifrare.
Mi trascino fin tra le gambe dell'uomo che ho ucciso.
Potrei chiamare un’ambulanza, simulare un atto di aggressione, ladri che sono entrati in un particolare momento della nostra intimità di coppia nascente.
Ma non c’è nessun segno di effrazione, realizzo subito dopo, nessun segno di intrusione, l’appartamento è perfettamente, dannatamente in ordine, come se io, l’uomo che morto continua ad accogliermi tra le sue cosce grosse, il liquore che sbatte e ribatte nel mio stomaco, la statua della Venere, fossimo solo dei fantasmi.
Sto impazzendo.
E forse me lo auguro.
Sto impazzendo perché mi sembra di scorgere un rapido movimento alla mia destra.
Lo ignoro, do la colpa alla perenne risata, all’alcool forte.
Perché non può essere vero.
Perché adesso vedo le dita dei suoi piedi muoversi, si arricciano, piccolo accenno e prosecuzione del mancato orgasmo.
Si ritrae da me, si alza, lo vedo brandire la statuetta, lo vedo colpirmi in viso, nello stomaco, sulla schiena, sul collo.
Eppure io sto ferma.
Eppure lui è ancora fermo.
Siamo due e siamo uno. Siamo divisi. Brandelli di spazio e di tempo sconnessi, che scorrono alla rinfusa, disordinati, che cercano un appiglio, un piccolo angolo in cui disporsi in ordine.
Scampoli di anime condannate.
È il terrore, è l'orrore di ciò che ho fatto.
Mi colpisce e mi penetra, in un confuso marasma che mi sfugge, che non vuole farsi comprendere.
Ogni atomo è in fibrillazione, tremo e sussulto, vomito.
Lo sforzo mi è fatale.
Mi irrigidisco, l’ombra di un sorriso bruscamente smorzato mi aleggia sul viso.
Lui davanti a me, l’ultima cosa che vedo.
Senza un occhio, rotto, fracassato, spezzato.
Ed io qui, interrotta. A metà.
Sorpresa nella morte, dalla morte.
La sua ragazza con un solo occhio.
2 notes · View notes
unastanza · 2 years
Text
Il ticchettio
Il ticchettio proveniente dall’altra parte era incessante.
Persistente, tenace, segnava il tempo con cadenza ritmica, ricadendo sul suolo e vibrando attraverso le pareti.
Dall’altro lato di una porta chiusa.
L’uomo che ascoltava il ticchettio, avviluppato in tutta la sua forma tronfia e larga in vesti rosse e dorate, prestava attenzione, curioso.
L’orecchio morbidamente accostato alla superficie in legno gonfia e porosa della porta.
Avvertiva quel pungolare di secondi, di minuti, strabordare e rimbombare dentro di sé.
Un conto alla rovescia infinito.
«Voglio aprire questa porta», si disse. Deciso, si guardò attorno. Solo allora si accorse di non sapere dove fosse.
Le pareti erano in pietra, e l’umidità trasudava attraverso le tossiche fessure annerite. In basso, nell’angolo a destra, scorse la sagoma rigida di una brandina.
«Dove mi trovo?», si chiese, con circospezione e vago terrore. L’unica fonte di luce, fioca e per questo irreale, era un lucernario dalla ristretta forma quadrata di una scatola per scarpe, attraversato in lunghezza e larghezza da perni di ferro, ben saldati gli uni agli altri.
«Sono in una prigione!» attonito, constatò.
Una meraviglia macabra lo percosse. Una meraviglia pesante, che gravava ora su tutta la stanza. Scendeva, bassa, come nebbia ne risucchiava l’aria, e la risputava – masticata e maciullata – pregna di veleno, irrespirabile.
«Eppure...»
Eppure, se solo fosse riuscito a combattere il terrore incalzante, avrebbe notato che lo scenario alla sua destra mostrava una versione diversa, di stanza traslata, trasformata.
Non osava distogliere lo sguardo dalla brandina, l’uomo, e non poteva perdonarsi, poiché la coda dell’occhio, quel minuscolo dettaglio di guizzo impercettibile, continuava a sfuggirgli.
Lasciami guardare più in là, sembrava parlasse, odiosa.
Lasciami guardare. Guarda anche tu, non è forse familiare? Non sono forse familiari, i muri freddi rivestiti da parati blu e oro? Non è forse estremamente familiare il disegno di uccelli in volo e viti che si intrecciano sul soffitto a volta?
E quelle candele consumate, ridotte fino alla base dello stoppino, ai lati del letto a baldacchino gonfiato da fodere e coperte rosso cremisi.
Il camino dalla bocca ingorda, fagocitante e spenta.
Non sono forse cose familiari?
Ed è familiare, riconosci il riflesso del tuo volto floscio sullo specchio, le sue mostruosità, le folte sopracciglia unite al centro; gli occhi piccoli e ravvicinati, due buchi neri al centro di una maschera esangue; il naso importante; e le labbra grosse, che si sporgono in avanti come la caricatura di una scimmia, così grosse da risultare sgradevoli; la dentatura giallastra ed enorme.
È il tuo riflesso, diceva ora beffarda, infida, ammira, accetta l’orrore implicito della tua cagionevole fisicità.
Non osava voltarsi, lui. Non osava osservare e riconoscere le deformità della vita che, atroci e insensibili, si curvavano sul suo volto, che copiose si riversavano sul viso stanco, macchiato dai nei della vecchiaia.
Passato, miserabile.
Non guardava. Isolato, contratto, concentrato sul ticchettio.
«Devo aprire questa porta», ripeté tra sé, più duro.
«Devo capire, voglio vedere il ticchettio!»
Udì uno sferragliare di carrozze e ruote provenire da sopra la testa raggrinzita e calva; ne susseguì uno scalpiccio convulso, frenetico, di tacchi che battevano contro l’asfalto primordiale e grezzo; di ampie gonne e sottovesti fruscianti che sbatacchiavano; di risolini acuti.
«Sono in una prigione», affermò, legando le parole le une alle altre, le usò come zavorra, come appiglio alla realtà. «Sono in prigione, mi trovo al di sotto della città, nelle sue viscere, mi contorco nelle budella malfamate e putrescenti, sono sotto e cado. Mi è già successo. Sguazzo nella feccia, la disturbo con colpi secchi, la insulto e lei insulta me. Mi sbeffeggia, mi deride e mi percuote. Mi sporca, volgare e fetida. E non posso, non voglio guardare alla mia sinistra.»
Di nuovo fu il guizzo. Ancora, si maledì.
No, non guarderò.
Puntò lo sguardo su… oh! Ecco, lì comparso dal nulla, proprio sulla porta – parto evanescente e nascita della stanza stessa – un piccolo batacchio di ottone, tenuto stretto, stritolato tra le fauci di una bocca leonina, di ottone anch’essa, e lucida.
Prima non c’era!
L’omino che lo fissava da dentro quel bottoncino lustrato, possedeva la sua stessa espressione, i lineamenti erano i suoi, ripugnanti e cadenti.
«Sono un orrore», disse, «pura vacuità. Non voglio guardarmi, non voglio guardare.»
Afferrò il batacchio con forza bruta, lo strattonò, strappò via l’immagine riflessa di se stesso, incartapecorito e malconcio.
Poi, rifletté: «Potrei utilizzare il batacchio per aprire la porta!»
Allungò le vesti sui fianchi, vanesio. Sorrise di un sorriso storto, quasi trionfante.
Agguantò l’anello luccicante, lo carezzò lungo tutto l’ondulata simmetria, fredda al tatto. Sfidò il leone dorato, sondando con i polpastrelli l’apertura delle fauci, gli occhi, la criniera.
Tirò prima verso se stesso, e poi, con uno strattone, spinse in avanti.
La porta non si aprì.
Riprovò una seconda volta. E una terza. E una quarta.
Fallì miseramente; e miseramente, si arrese.
«Mi serve una chiave!»
Potresti cercare la chiave lì, nel posto in cui non vuoi guardare! Sotto il materasso, tra le assi di legno del pavimento, nel camino!
Squarcia la carta da parati, e addentrati!
Cerca la chiave!
Entra, cerca, guarda.
Guardami.
Fu il guizzo disonesto, il sinistro movimento della coda dell’occhio, quello scattare di nervi e vene e capillari, a dirlo.
L’uomo si aggrappò alla ragione, tenne a bada il guizzo, e ancora una volta sorpreso dal vociare sopra la sua testa - “quelle donne non fanno altro che ridacchiare e bisbigliare, che oche!” - tastò ed osservò ogni centimetro della stanza di destra.
Perchè quella di sinistra era proibita.
Alla ricerca della chiave, alzò quindi la brandina, con le dita rovistò tra le sue doghe arrugginite, sotto il materasso - che squarciò con la sola forza delle mani; con le unghie scavò dentro le fessure dei muri, soffocando colpi di tosse ad ogni pezzo di muffa nera che scrostava via.
Non vi era nulla.
Si spogliò allora delle sue vesti, il corpo cadente e nudo cercava la chiave tra le pieghe della stoffa, nelle tasche interne.
Non vi era nulla.
Il ticchettio si accaniva, non si arrendeva, più intenso scuoteva le pareti con forza titanica. Ad ogni rintocco, i nervi dell’uomo compievano un balzo, il tempo diventava tiranno e dittatore, acuminava e affilava la punta di quel guizzo disonesto.
Rivestiti, urlò il guizzo, sei uno scempio! La chiave si trova nel punto proibito, dove non osi guardare! Scempio!
«Il ticchettio. Il ticchettio. Il ticchettio. Voglio vedere, voglio sentire. Voglio aprire questa porta! »
Il martellare ritmico divenne pugno solido contro la porta.
Era ora dappertutto, e colava sui muri, attraverso le fessure.
Trasformato in deforme ossessione.
L’uomo percepiva il pulsare di quell’ossessione, e il battito della foga, dentro il proprio corpo. Partiva dai piedi, lungo tutto la spina dorsale, si curvava in brividi di eccitazione sulla parte posteriore del collo, saliva su per la nuca, con giri veloci e concentrici rivestiva l’uomo di morbosa curiosità.
Scorreva nelle vene, ed esplodeva prorompente sui tessuti tesi dei muscoli, fin dentro la gola, passando per la lingua secca, giù dritta fino allo stomaco, pungolando il ventre ed il sesso e da lì scendeva fremente, tra le cosce e sui polpacci.
L’uomo guardò in alto, già non più scorgendo la grata, dimenticando il guizzo, la cella, la brandina, la stanza proibita che – si percepiva distintamente – dilatava i propri confini, luminosa, si gonfiava e respirava vogliosa e languida di richiami, di suppliche.
L’unica verità, la realtà assoluta era il ticchettio.
Il capo dell’uomo vorticò, preda di spasmi e capogiri violenti, le labbra si ritrassero, spaccate agli angoli, e si distesero senza forma in un sorriso animalesco.
Ancora una volta, fu la soddisfazione.
Più veloce, sempre più veloce girava la testa, caricando una molla invisibile, che scattò non appena l’uomo scagliò tutta quell’ostinata forza contro la porta.
La colpì con la fronte, pazzo e felice.
«SONO IO LA CHIAVE!» gridò, folle.
Ricaricò la molla ancora e ancora, e si fece forza. Un altro colpo vibrato, a fendere l’aria.
«SONO IO LA CHIAVE! POSSO VEDERE! E SENTIRE!»
Ad ogni colpo secco, - e in assenza di un ragionevole dolore, nonostante la fronte macchiata di sangue e liquido marrone imputridito, secreto dalla porta stessa – la serratura scattava, i cardini cedevano di qualche millimetro, sempre di più.
«Il ticchettio. Il ticchettio. Il ticchettio.»
Nudo e insanguinato, folle e trionfante, continuò. Il desiderio di vedere da dove provenisse quel suono, di evadere da una cella che non raccontava la storia della sua condanna, né mostrava i segni della colpa, ma che – con il batacchio – aveva rivelato la crudezza della sua vecchiaia – una prigione muta e sorda, quella – si mischiavano in un grumo di fissazione nociva, nel quale il guizzo riusciva ancora a rimestare l’ostica rabbia.
Sei un folle, apri gli occhi! Aprili! Guarda alla tua sinistra! Svegliati!
«Non ti ascolterò: guarda il cardine!»
Ancora un colpo.
Il cardine della porta, la serratura vuota accanto al batacchio, accanto al leone, stavano cedendo.
L’uomo arretrò di qualche passo, senza smettere di sorridere, pulì dal viso tracce di sangue e sporcizia.
Scalciò con movimenti da toro imbizzarrito, le spalle a toccare il muro dietro di sé.
Che fai? urlò il guizzo.
«Guardami» rispose l’uomo.
Corse, a fronte protesa, gettandosi contro il batacchio, contro il leone e la sua criniera, contro la porta.
Atterrò dall’altra parte, la testa leonina lo fissava statica dalle gambe, poggiata sul sesso nudo.
Rise a gran voce, l’uomo, felice e dimentico dell’orrore della fronte ferita, aperta, lacerata, del sangue che scorreva lungo la linea del naso, che aveva imbrattato le sue guance, le sopracciglia, il collo.
Lo stesso sangue ora visibile, alla luce di un corridoio stretto – il corridoio dell’altra parte – anche sulla porta, sul batacchio, sul leone e la sua criniera.
Rise a gran voce, l’uomo.
Il ticchettio rise di lui.
In fondo al corridoio, l’uomo scorse il biancore di una sagoma.
L’ondata di follia, e l’adrenalina che gli aveva impedito di avvertire il dolore, adesso erano svaniti.
Il guizzo era svanito.
L’avevano lasciato svuotato ed eviscerato, con una vaga sensazione di smarrimento.
La realizzazione finale degli atti isterici che aveva compiuto, collassava ed esausta, esaurita, si posava sulla sua coscienza.
Con movimento incerto costatogli una forza immane, l’uomo si rimise in piedi.
Barcollò, si tenne la fronte e cadde in ginocchio due volte, prima di raggiungere la coppetta argentata di un portacandele affisso al muro.
L’afferrò, con mani tremanti, e alla luce del candeliere, si inoltrò.
Il corridoio era stretto e spoglio, e si allungava infinitamente davanti ai suoi occhi increduli.
Il ticchettio continuava, le onde sonore viaggiavano con velocità eccessiva, lo raggiungevano alte e distorte, senza la violenza che fino a quel momento l’aveva reso schiavo e succube.
Gli sembrò di camminare per un tempo infinito, la sagoma che fissava e che intendeva raggiungere, ora appariva e spariva, miraggio di mera esistenza.
Da lì, proveniva il ticchettio. Passo dopo passo, si amplificava di volume e intensità.
Quando finalmente raggiunse la sagoma, stremato, e con il sangue rappreso in grumi cicatrizzanti, fissò il portacandele al muro.
Si inginocchiò, ed inorridì di puro terrore quando si accorse che…
«No, non è possibile!»
Il corpo glabro e gonfio ai suoi piedi – livido, putrescente, chiazzato da nei caratteristici dell’età avanzata, con un ghigno folle dipinto sul viso – gli apparteneva.
Era suo, ed era sua la follia dipinta sul volto, contratto in una maschera di dolore e macabro stupore; erano suoi gli occhi piccoli e ravvicinati, le sopracciglia unite.
Era lui.
Ed era morto.
Il dettaglio più doloroso, però, quello che maggiormente lo terrificava – ancora e ancora, imperterrito e duro – era il ticchettio.
Proveniva da quella bocca orridamente spalancata, da dentro la gola e sbucava, sbuffava in fiotti di vapori di morte attraverso i denti storti e marciti. Originato da viscere putride, frutto del tempo andato e perduto, cadente, proprio come lui.
Urlò, l’uomo, la voce strozzata – grido da rapace – le mani strette attorno alla gola, a bloccare un conato che violento risaliva.
Barcollò di nuovo e corse via, i passi frenetici, stimolati e resi goffi
dalla paura.
Corse via, senza mai voltarsi, verso l’origine della sua pazzia. Non più assecondando il ticchettio – adesso che ne aveva scoperto l’alcova, il nido macabro in cui ristagnava, il ticchettio stesso sembrò cessare di colpo – aveva virato le sue attenzioni e le sue fissazioni sulla cella e sulla stanza proibita.
Superò e scavalcò la porta scardinata, il suo batacchio, la testa di leone e la sua criniera; a grandi balzi raggiunse la brandina, dove si accovacciò, tremò, sudò.
Le mani artigliate, i palmi e le nocche bianche per la presa salda che esercitavano sul resto del corpo.
Su ogni altra parte del corpo.
Giorno e notte si rincorrevano senza sosta e senza nesso logico, da sopra i perni metallici, da sopra la gratella.
Ancora una volta, e per l’ultima volta, parlò il guizzo.
Adesso puoi guardare. Non temere più il terrore: quello che c’è dall’altro lato, da questo lato, è infinitamente più dolce.
Guarda.
Guardami.
L’uomo guardò. Si voltò, piano, quasi a temere un distaccamento della testa e del collo dal resto del corpo, in direzione della stanza proibita.
Il letto a baldacchino con le federe rosse; la carta da parati blu e oro; le viti e gli uccellini.
Era tutto lì, nella sua camera da letto.
Lì ritornò, seguendo le tracce fantasma della propria abitudine, del conforto e della familiarità.
Di colpo, si risvegliò.
Il giorno seguì la notte, con ordine preciso e razionale.
Molti, molti anni più tardi, qualcuno avrebbe definito e descritto quello strano fenomeno di chiarezza durante il sonno, di vivida consapevolezza, dandogli il nome di sogno lucido.
Diramazione distorta della realtà, nel quale è possibile controllare la propria volontà; sovrapposizioni di immagini e suoni innaturali; rivelazioni di paure illogiche, narrate dallo spettro di una coscienza latente, che si allontana.
Il guizzo.
2 notes · View notes
unastanza · 2 years
Text
Il profumo degli ulivi a mezzanotte
Se solo avessi qualcosa con cui colpirla.
Forse dovrei allungarmi oltre il bordo del letto, a tastoni cercare la mia ciabatta, afferrarla e poi colpire duro, scagliarla, veloce come un dardo.
Ma rischierei di fare troppo rumore.
Vorrei davvero ridurla in brandelli, in pezzetti miseri, sparsi in giro per la camera da letto.
Rido di me stesso, di questa mia piccola, temporanea pazzia.
Opto per la decisione più equilibrata da vari punti di vista: mi alzo, a piedi scalzi mi avvicino a lei, la afferro e con mani capaci, abili, dalle lunga dita scure, la scuoto - odiosa. La giro, le tolgo le pile.
Ha smesso. Finalmente.
Tiro un sospiro di sollievo.
Le lancette della sveglia sono ferme a mezzanotte in punto; lo saranno per un bel po’, almeno fino a domani mattina.
Il suo preciso ticchettare mi dava ai nervi. Non aiuta la mia insonnia, anzi, ne aumenta il passo, ne scandisce la portata, l’aggrava e la dilata. La sforma, la scassa. Non è altro che lo scorrere incontrovertibile dei minuti e delle ore che non sto sfruttando, che mi tengono immobile, incapace, impotente.
A 34 anni, certe cose le senti di più. Non sei un vecchio, non sei un ragazzo, sei semplicemente più annoiato e più percettivo del solito.
Ho una teoria secondo la quale più si invecchia, più percepiamo gli stimoli esterni. La nostra corazza giovanile, che ci rende spietati e senza remore, si ammorbidisce; da acqua che penetra diventiamo spugna che assorbe. Lanterne per falene, elettricità pura nella gabbia di Tesla.
Me ne torno a letto. Un sospiro alla mia destra. Si è svegliato.
«Di nuovo la sveglia?» dice, la voce impastata dal sonno.
«Cos’altro, se no?»
«Marco» mi rimprovera.
«Lo so, lo so, Luigi.»
«Vai a fare due passi, fammi dormire.»
Si volta dall’altra parte, disteso su un fianco alza il ginocchio, quello sinistro, e nella sua posizione preferita per sonnecchiare, mi ignora e si addormenta. È incredibilmente svelto ad addormentarsi, quasi lo invidio e lo detesto.
Rimango di nuovo da solo.
Decido che andare a fare due passi non è poi il male peggiore, tanto più che ormai la camera da letto mi sembra solo una gabbia, si riduce e si stringe, collassa su se stessa, inglobandomi.
Il russare di Luigi che si beffa della mia insonnia.
Decisamente meglio fuori.
Così vado in bagno, rinfresco il viso. Per un attimo, mi guardo allo specchio. Le occhiaie, la barba incolta, qualche filo bianco tra i capelli che negli uomini della mia età è già diventato calvizie.
Tutto sommato, non mi è andata male.
Indosso il cappotto sopra il pigiama, le scarpe da ginnastica; una volta fuori, l’odore e la freschezza pungente della campagna pugliese mi investe il viso, mi rinvigorisce.
Un pipistrello vola in picchiata, sfreccia nella sua minuscola figura spettrale, un’ombra nera che si dilata nel raggio della torcia dello smartphone. Una fugace visione, sparisce poi tra gli alberi.
Ho percorso il vialetto che dal casolare porta al paesino centinaia di volte. Da quando ci siamo trasferiti qui, per gestire l’azienda di famiglia di Luigi – un oleificio abbastanza redditizio che conta oltre ottanta dipendenti – ho percorso questa stradina sterrata alla continua ricerca di ispirazione per la mia carriera, ormai morente.
Mi sono trascinato fin qui la carcassa già parzialmente sventrata del mio fallito destino da scrittore, alla ricerca di un posto dove seppellirla.
Avanzo tra gli ulivi, assopiti nel gelo invernale, le piccole foglie pallide, cullate dalla calma notturna.
Questi ritagli solitari mi piacciono, piccoli scampoli di tempo sbiadito che strappo alla solita routine.
Dover gestire l’azienda di famiglia dopo la scomparsa del padre di Luigi, mi porta via energie che non credevo neanche di possedere.
Sempre assorto tra conti, persone, scadenze, fornitori, spremiture biennali da programmare, raccolta di olive.
Mentre qui, tra gli alberi, sono senza preoccupazioni. Senza numeri in testa, piacevolmente svuotato, privo di caos.
Le scarpe scricchiolano sull’acciottolato, cammino tenendomi a lato strada, il fascio di luce proiettato davanti a me. Raggiungo il bivio che a destra porta in paese, e a sinistra conduce verso altri, immensi campi, arati, destinati all'agricoltura.
Proseguo verso destra. Le prime villette isolate spuntano dal terreno come funghi di cemento e sabbia un po’ troppo cresciuti; i muri a buccia d’arancia intonacati di bianco, sporco al livello delle grondaie e delle inferriate sulle porte e finestre chiuse. Buchi scuri nell’oscurità. Case tutte uguali, di grandezza uguale, a tre piani, giardino, cortile, garage. La copia di una copia, il destino di un paesino sperduto in una cava erbosa.
Qualche metro più avanti, i primi lampioni mi indicano la via, così spengo la torcia.
I miei passi non si arrestano, raggiungono la prima fermata del bus, proprio davanti il piccolo negozio di alimentari del paese, tra un ferramenta dall’insegna sbiadita – non è necessario cambiarla, qui tutti conoscono tutti – e la macelleria qualche metro più indietro.
Sotto, con il peso spostato sul piede sinistro, la sagoma di un uomo in trench grigio, alto e magro. L’ombra di quello che sembra uno sformato borsalino nero gli cela parte del viso.
Per un vizio tutto italiano, lo saluto con un piccolo cenno del capo pur senza conoscerlo. Ricambia, lo supero, continuo a camminare. Sento i suoi occhi sulla mia schiena, voglio voltarmi, ma è notte fonda, i pericoli loschi sono in agguato, pronti a balzare come le fiere delle savane africane. Meglio di no, meglio non giocare troppo con gli sguardi.
L’aria è silenziosa ed immobile, abbandonata a se stessa, arresa nel notturno grigiore dell’inverno.
Non un latrato di animali, non un fruscio di ali minuscole.
Tutto è immobile, tutto è statico, fermo, come bloccato.
Il forte profumo degli ulivi permea ogni cosa. Ulivi che, intorpiditi, istupiditi ma vivi, respirano. Ulivi sgualciti e striminziti dal gelido rigore, che resistono sulle colline che abbracciano il paesino, nelle vallate che lo sorreggono, nelle pianure, nei campi.
Profumo intenso, fresca spremitura.
Sono al centro del paese, nel suo punto più sviluppato, e l’odore degli ulivi non è mai stato così presente, così arrogante.
È un odore sbagliato, nel posto sbagliato.
Come sbagliata è la nebbiolina azzurra che mi avviluppa, che delicatamente mi avvolge.
Per un breve, intenso momento, penso di avere le traveggole; l’insonnia allucinatoria gioca con me.
Forse mi sono addormentato e sto sognando?
Mi do un pizzicotto sul fianco destro, mordo l’interno del mio braccio, sento dolore, sono sveglio e sono vigile e sono qui.
La nebbia mi intorpidisce gli arti. Sono leggero, sono forma, sono slegato dall’infernale materia di carne e muscoli che mi compone, che mi tiene legato alla terra, come un’appendice distorta e fragile.
Sarebbe così facile adesso spiccare il volo; con un balzo, con un salto, arrivare in alto.
La foschia azzurrognola e profumata si spande, liquida, veloce, come inchiostro su carta. Abbasso lo sguardo, quasi ne fossi io la fonte, parte dai miei piedi e si allarga sulle panchine della piazzetta, sulle aiuole secche e morte che la fiancheggiano; sull’insegna sbiadita, sulle case basse e – a differenza delle loro sorelle villette – tutte diverse, tutte colorate. Si alza verso l’alto, un muro lattiginoso e freddo, che penetro di passo in passo. Cammino lentamente, senza conoscere la mia destinazione, e l’azzurro si fa più intenso.
Mi accorgo del silenzio. È tutto troppo silenzioso. Le orecchie tappate, ovattate, di testa che galleggia sott’acqua.
Percepisco lo scorrere del sangue nelle mie stesse vene, il tumultuoso ruscello cremisi che mi tiene vivo dall’interno. Il cuore che pompa, una macchina perfetta, a ritmi regolari ma forti.
Solo questo, solo la consapevolezza del mio corpo, e nient’altro.
Poi, d’improvviso, una voce roca, baritona, si spinge fin dentro il mio bozzolo. Lo sbriciola. Mi scuote.
Anche questo è sbagliato.
«Ti stavo aspettando», dice.
Mi volto, è da lì che proviene la voce, dalle mie spalle. L’uomo in trench e borsalino sta di fronte a me, incredibilmente alto, gli arti superiori ed inferiori lunghi e sottili. Non mi ero accorto della sua figura slanciata da gigante, prima.
Devo alzare il viso per potergli parlare, per poterlo vedere.
Le domande inciampano sulla lingua, le cose che vorrei dirgli seguono un flusso per me impossibile da arginare e tenere a bada.
Sono intorpidito, raggelato, un corpo immobile.
«Lei stava aspettando me?» è l’unica frase di senso compiuto che riesco a pronunciare, a fatica, con il fiatone.
Annuisce e un sorriso storto, obliquo gli piega in due il viso. Sotto l’ombra del borsalino, il suo naso è stretto e lungo, quasi fosse un becco; mentre la bocca è sprovvista di labbra: al loro posto, due cicatrici giallastre, spesse e rugose, lasciano intravedere i denti regolari e bianchi.
«Devo mostrarti una cosa.»
Attraverso lo spesso strato di nebbia azzurra che vortica attorno, mi offre la sua mano: un invito a seguirlo, a fidarmi di lui.
L’istinto di sopravvivenza e la repulsione nei confronti del mio strambo interlocutore, rompono l’incantesimo in cui mi trovo.
Il torpore abbandona il mio corpo.
Voglio tornare a casa, sono pronto per tornare a casa.
Faccio per superarlo, mi muovo, vedo i piedi marciare… eppure resto fermo qui.
Davanti a lui.
«Che cosa mi sta facendo?» la mia voce tradisce un certo nervosismo isterico. «Mi lasci andare!»
«Non sto facendo niente.»
Gli rivolgo un’occhiata rabbiosa. Ma, mio malgrado, è vero ciò che dice. Le sue mani sono sospese a mezz’aria, ancora in attesa riempiono lo spazio che ci divide. Non mi toccano. Non mi sfiorano neppure.
«Cosa mi sta succedendo? Non riesco a muovermi!» ripeto, come se la ripetizione stessa potesse aggiustare la situazione.
«Devo mostrarti una cosa.»
«Ma non riesco a muovermi!»
«Devo mostrarti una cosa.»
E poi, capisco. Sono queste, quindi, le condizioni? Riuscirò a muovermi soltanto se pronto a seguire la sua volontà?
Chi è l’uomo alto e lungo che sta condizionando i miei movimenti senza neppure toccarmi?
Mi domando, ancora una volta, se questo non sia un sogno; se non sia un paesaggio onirico, questo: la nebbia azzurra, il paese, il profumo degli ulivi, il gigante, tutto.
Mentalmente, cerco di riafferrare i lembi di questa realtà sgualcita. Ero sveglio quando ho indossato il cappotto e sono uscito in strada, di questo sono sicuro. Ero sveglio quando ho scelto se svoltare a destra o verso sinistra. Ero sveglio quando l’ho incontrato la prima volta.
Ero sveglio, sono sveglio.
Lo so, lo sento.
Ma allora cosa mi succede?
Seguire l’uomo in trench e borsalino sarebbe da pazzi.
Rimanere qui – il tempo che scorre lento, ogni secondo prolungato – è impossibile.
Mi fanno male le gambe, le braccia, il mio intero corpo è tramortito.
«No» sussurro.
Faccio per muovere un piede, e quasi mi sembra di riuscirci.
Esulto troppo presto.
Con una sferzata di mano, facendo schioccare le dita mostrandomene il dorso, l’uomo mi blocca, ancora una volta.
«Non funziona così» ridacchia, una risata grottesca, di unghie che grattano sulla lavagna, sulla lavagna nera e rigata della mia scuola elementare.
Mi rivedo, piccolo, sfocato, le gambette arcuate al centro, i calzoni marroni macchiati, non ricordo di cosa.
Un’antica consapevolezza si sveglia dentro di me, un presentimento, un richiamo.
Sono nel cortile della scuola, nessuno vuole giocare con me, perché tutti preferiscono giocare col pallone, mentre io voglio disegnare. Disegno ogni cosa, alberi, cani, case, i miei compagni.
Sono linee sottili, rozze, volgari, di piccola mano inesperta; disarmonici bozzetti, sbuffi di matita, di colori, gomma che cancella male, che sporca, allunga i tratti della mia 2B.
Sfoglio le pagine, una dopo l’altra.
I disegni normali di un bambino normale.
E poi, all’ultima pagina, eccolo. Uno scarabocchio, un buco nero nella pagina bianca, i bordi frastagliati, irriconoscibile se non fosse per il piccolo dettaglio marrone. Un cappello, la bozza di un borsalino gonfio e sproporzionato.
È lui. Ci siamo già incontrati. Avrei dovuto ricordarmene, e invece mi ritrovo stupito e atterrito.
Come ho potuto dimenticarlo? Così alto, slanciato, nella scia dell’orribile inquietudine affannosa che lascia dietro di sé.
Avrei dovuto ricordarmi dell’orrore, implicito nella sua forma.
Lo sento di nuovo, l’odore forte dell’olio, degli ulivi. Strofino un ditino sulla pagina, lo porto al naso.
Niente.
È un odore fantasma; me lo immagino, o forse bisogna essere fortunati per coglierne l’improvvisa, passeggera, effimera presenza.
Sono fortunato, penso questo di me, mentre richiudo il mio blocco dei disegni sgualcito e puntellato di sbavature e di colori.
Sono fortunato: riesco a sentirlo, riesco a sentire l’odore.
Ritorno al presente, la pura nebulosa del passato si accartoccia su se stessa, svanisce in un rapido lampo di luce, e sono di nuovo nell’oscurità, nella foschia azzurra, contemporaneamente spettatore e protagonista.
«Ci siamo già visti?»
Alla mia domanda, l’uomo in trench grigio e borsalino marrone annuisce, soddisfatto; le cicatrici sul viso si allargano, la pelle bianca tesa, schiumosa.
«Non lo ricordavo.»
«Quasi nessuno lo ricorda» raschia la sua voce, roca; «coloro che ricordano, impazziscono. Li chiamate pazzi.»
Tento di fissare un punto nello spazio e nel tempo, per ricordare meglio. Dentro di me, sento riaffiorare un ricordo che credevo di aver sepolto, che il mio animo terrorizzato da bambino aveva seppellito in profondità, dentro il mio subconscio atterrito, avvilito.
Di nuovo, l’uomo schiocca le dita; di nuovo, il suo sorriso cicatrizzato e purulento.
Le mie gambette piccole, storte; il profilo di mio padre che si accascia in cucina, sulle costolette unte e grasse della cena; l’uomo dietro la finestra, stesso cappello, ancora più grande, altissimo; il messaggero della morte.
Un susseguirsi di schiocchi, scatti e visioni; la pellicola del mio film che si srotola, diapositiva dopo diapositiva.
Ogni dolore, ogni sofferenza, e lui come costante.
In bella vista, palese, eppure dimenticato, di volta in volta; un rituale morboso e macabro che si ripete.
Mio padre; mia madre e le sue malattie che l’hanno consumata e scarnificata, prosciugata dall’interno, secca, svuotata; il padre di Luigi, una mattina d’agosto, impensabile, le lamiere di un auto che lo attraversano da parte a parte, scomposto, disordinato ammasso di carne, ossa sull’asfalto.
Sempre lui, sempre dimenticato.
Lo dimenticherò anche questa volta?
La risposta è ovvia, com’è ovvio il motivo per cui è qui.
Eccola, la realizzazione. Mi sale addosso in spilli che mi pungono le gambe, le dita; un brulicare sotto pelle che mi atterrisce.
Tremo.
«Perchè sei qui?» chiedo. So già la risposta, ma voglio sentirla. Sperare che sia falsa, prepararmi al disastro qualora fosse il contrario.
«Sta succedendo di nuovo.»
«Chi?»
Due dita, uno schiocco, nebbia azzurra.
Una macchia indistinta nell’erba, rosso brillante nella grigiastra luce dell’inverno. Si raggruma, ancora calda, ribolle da sotto il panciuto gonfiore pallido di un ragazzo – no, un uomo! - dai capelli bruni e gli occhi cerulei, rimasti spalancati nell’immobilità della morte.
Lo riconosco, ma faccio fatica ad accettarlo. Voglio che finisca, voglio smettere di guardare, ma non importa quanto io distolga lo sguardo: non smette. È ovunque, sta succedendo ora, è attorno a me, dietro, davanti, da ogni lato mi perseguita. La morte e il suo sorriso sbilenco, cicatrizzato.
«Fallo smettere, ti prego», rantolo, appena un sussurro.
«È per questo che dimenticano. Non sopportano il peso.»
Uno schiocco. L’ultimo.
Oblio.
Sono in paese e non so perché. Torno a casa, svelto, a passo febbrile, spaventato, e non so perché.
Sono a casa, sono sempre stato qui, anche se una parte di me è convinta del contrario.
Sono davanti alla porta, e non so perché.
La notte sta svanendo fuori dalle finestre, l’arancione dell’alba fa capolino tra gli alberi.
Mi guardo attorno, spaesato, spodestato di una convinzione, dimentico di qualcosa di importante, ma non so cosa.
Sconfitto. Sopraffatto.
Sono stanco, veramente stanco, vorrei solo dormire.
«Che ci fai lì imbambolato?»
«Volevo uscire» mento, senza una ragione precisa. Sento di dover mentire, nascondere ciò che neppure rimembro.
«Ma sei stato fuori tutta la notte.»
Preoccupazione nella sua voce.
«Mi hai detto tu di fare due passi.»
Questo lo ricordo. Ma dopo? Cos’è successo dopo?
Mi guarda fisso, gli occhi cisposi, i capelli disordinati, il pigiama sghembo sul petto e sui polpacci ben definiti, muscolosi. «Devo preoccuparmi? Dovrei forse essere geloso?» ridacchia.
«Ho fatto solo due passi, ho perso la cognizione del tempo, tutto qui.»
Liquido la questione con un bacio sulla bocca, il sapore caldo e acre del primo mattino stampato sulle sue labbra.
«Cosa ti succede?» insiste, non desiste. «Sembri molto stanco.»
«Lo sono.»
«Vai a dormire.»
Sì. Penso che lo farò.
Una telefonata mi sveglia.
Sono le tre del pomeriggio, ed io rispondo con estremo disagio.
Poche parole, un’informazione lacerante che arriva alle mie orecchie, che percepisco con incredula rassegnazione.
Quasi come se una parte di me lo stesse aspettando.
La stesse aspettando.
Quando arrivo sul posto, faccio fatica a camminare. Le gambe sono immerse in un fango fantasma, la melma della paura che avviluppa le anche e le caviglie.
Una macchia indistinta nell’erba, brillante, rossa.
Capelli bruni, occhi cerulei.
Luigi.
Ferito a morte da un attrezzo agricolo, una grossa bestia di metallo che lo ha tranciato, diviso; gli ha maciullato il ventre, le interiora sparse sulla paglia secca ai piedi degli ulivi.
Vomito, cado a terra, mi odio: non mi piacciono queste scenate.
Al funerale partecipano in tanti: odio anche questo.
Voglio rimanere solo, voglio restare solo.
Il senso di colpa che mi assale è tremendo e forse anche stupido, ma non posso fare a meno di pensarci: se fossi andato io al suo posto? Se non avessi dormito tutto il giorno, se gli fossi rimasto accanto nel letto la notte precedente?
È colpa mia.
Sono molte le persone che mi salutano, solenni, che offrono rispetti e condoglianze alla madre di Luigi – da oggi in poi saremo solo io e lei. E lo vedo arrivare, uno sconosciuto, lontano eppure familiare, in qualche modo.
L’ho già incontrato, non ricordo dove, le circostanze, ma la certezza è vera, ed è confermata dal sorriso storto, cicatrizzato, secco. Trench e borsalino, altissimo, sovrasta tutti.
Contenuto nel cielo, più grande di esso.
Incombe, imperturbabile.
«È successo di nuovo» dice, un bisbiglio, blando, posso udirlo solo io.
Lo guardo spaventato, confuso, troppo stanco, troppo in pena, immerso nel dolore che è solo mio, il dolore di aver perso la mia parte preferita mentre io dormivo come un cazzone, per chiedergli spiegazioni, per interrogarlo sul senso delle sue parole sinistre, troppo spento per fregarmene poi effettivamente qualcosa.
Se ne va con passo zoppo, claudicante.
L’auto scura procede, con il feretro di Luigi dentro, chiuso. Lui sempre così claustrofobico, con l’amore e la necessità viscerale per gli spazi aperti, per i suoi ulivi, per sua madre, ora costretto, sigillato, tumulato dietro un lastrone di pietra fredda.
Un nome qualunque, due date qualunque, nascita e morte, una foto qualunque, che col tempo sbiadirà, darà al mio Luigi falsi connotati, ne sgranerà gli angoli, i suoi occhi cerulei saranno privi di colori, di profondità, due buchi inespressivi che non renderanno giustizia alla forte potenza del suo sguardo; mentre il suo corpo, da dentro, si svuoterà, si gonfierà, liquidi e miasmi coleranno attraverso il legno e nessuno lo noterà.
È tutta colpa mia. Non è delirio di onnipotenza, non è credermi migliore, non è credermi forte come la morte, come il fato: è semplice realizzazione.
È colpa mia, ne ho preso atto.
Dormivo, sognavo, ero stanco. Lui moriva.
Sarebbe successo comunque, mi dico. È poco conforto.
«Sarebbe successo comunque», mi dice.
È lui, l’uomo in trench e borsalino, dietro di me, non ho bisogno di voltarmi per capirlo.
Il profumo degli ulivi della valle lontana, casa ed essenza di Luigi, è forte, giunge fino a qui, nel cimitero. È fuori luogo, è strano, amaro.
L’ho già sentito, non ricordo dove. È come assaggiare qualcosa di nuovo per la prima volta, e riscoprire poi con il primo boccone un sapore familiare, qualcosa già mangiato, già sperimentato.
La memoria della bocca, delle papille gustative, la memoria dell’olfatto.
«Già. Sarebbe successo comunque. Ma forse sarebbe stato meglio se non fosse successo niente.»
Sorride, sguincio, sfuggente, un viso difficile da afferrare, da capire. Disarmonico e violento, rassicurante e raccapricciante.
Mi volto e non c’è più. L’odore è sparito, ogni cosa è al proprio posto.
Tranne me. Tranne Luigi.
Sono sicuro che lo rivedrò, in trench e borsalino.
Sorriso sghembo e cicatrici.
Lo rivedrò.
3 notes · View notes