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countrysidekid · 1 year
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Ciao Bruna <3
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La vita è fatta - anche, e spesso - di situazioni contingenti. Incastri che dipendono solo in parte dalle nostre scelte, e che sono il risultato mutante di quell’entropia che dovremmo sempre accettare come un dato di fatto, piuttosto contemplandola come meraviglia e mistero dell’esistenza.
Di questo, ci penso spesso, è fatto l’incontro con certi professori a scuola. Porte scorrevoli che possono davvero incidere sui destini. Pur scegliendo la scuola (per chi vuole e può), nessuno sa veramente a cosa vada incontro. Chi saranno i propri nemici o i propri alleati, di quale pietre sarà selciata la strada. E chi saprà tenderti una mano quando sarai in difficoltà.
Per me in quegli anni tumultuosi e parecchio conflittuali, la prof. Bruna Vero fu lo sguardo comprensivo di cui spesso avevo bisogno. Aiutata dal suo ruolo in educazione fisica (sicuramente meno esposta su certi giudizi) e dalla sua enorme passione per la recitazione- scriveva, recitava, esplodeva di teatro - seppe esserci quando tutto sembrava pronto a crollare. Con una parola, con una assunzione di responsabilità di fronte al resto del consiglio. E io di questo le sarò per sempre grato.
La vidi l’ultima volta ormai qualche anno fa, quando mi invitò a scuola da ex studente per un laboratorio sulla radio. Era forse il 2015. La abbracciai forte e le dissi che ero stato fortunato, di quelle fortune che non ti scegli. Oggi vengo a conoscere la triste notizia che Bruna è mancata, lasciando il marito Marcello e le tre figlie a cui mando le mie condoglianze. Sono sicuro che avrà dato loro l’amore che sapeva mettere in circolo ovunque fosse.
È uno strano periodo questo, pieno di notizie difficili che riguardano persone che conosco. Forse stiamo facendo un po’ i conti con il delirio di questi tempi malati, forse son solo gli anni che passano. Forse… niente. Tocca accettarlo. A chi ha subito un lutto, a chi sta soffrendo, a chi ha sbatti, a chi non ce la fa, a chi è incastrato nel dolore mando un po’ di amore. E pure un po’ di entropia, mistero e meraviglia.
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countrysidekid · 4 years
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Sto ascoltando musica in terrazzo. È Milano, ma potrebbe essere il campo sportivo di Veruno venti anni fa. Il COVID ha ricreato in me la stessa sensazione di vuoto attorno che provavo quando abitavo in provincia. Certi suoni triggerano le immagini e riportano a galla ciò che eri, e in qualche maniera sempre sarai. Guardavo il video del nuovo pezzo di Dola girato a Brebbia, con Massimo Pericolo himself. La prima parte, quella di Tutu, è pazzesca: i fari dei capannoni che tagliano la nebbiolina della notte, e tu su un panettone con la macchina davanti e il niente attorno. Mi sto ascoltando un po' di roba italiana nuova. E' uscito il nuovo disco degli Zen Circus, si chiama "L'ultima casa accogliente". Era la roba che ascoltavo allora, dei miei quindici. Profumava del futuro che mi sarei andato a prendere. Gli Zen erano quella band che girava indefessa l’Italia, un Paese che mi sembrava enorme. L’America da prendere era Milano, la inseguivo con gli occhi voraci. Eccomi qui. Milano sedata, ferita, pur sempre una bestia indomita che merita rispetto. “Tutto a un tratto mi son ritrovato questo cielo di tempo dentro la memoria”, canta Appino. “. Il rock italiano è provinciale, sbagliato, ma in fondo poetico se vuole. Parla a chi l’America se la deve andare a prendere perché è nato in un Dakota qualunque. Parla a chi si sente un po’ d’essere un errore. “Una ferita che non fa male, una storia che vivi e poi racconti, ma non puoi cambiare, interpretare, solo accettare”.
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countrysidekid · 4 years
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Skyscraping (presso California) https://www.instagram.com/p/CAaDjb6DHIv/?igshid=1vc5s3kw1bl57
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countrysidekid · 4 years
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Ridatemi la fase 1 che c’aveva fatto credere d’essere migliori
Questo pomeriggio sono uscito a *godermi* la fase 3 (o fase 2, boh, mica capito) (dovevo portare delle cose in tintoria e comprare l'acqua). Ho trovato una città pressoché identica a prima che tutto questo succedesse: movimento, lavoro, gente che smadonna al semaforo. Con la differenza delle mascherine indosso, certo, e di qualche attività ancora chiusa o a mezzo servizio. Non differenze di poco conto, direte voi; nemmeno differenze da "niente sarà più come prima" però, come invece in molti si sono affannati a ripetere nelle settimane di lockdown.
Intanto è arrivato è il caldo, il "solito" caldo "anomalo": 30 gradi centigradi e l'asfalto che ribolliva, oltre alla (mia) faccia madida di sudore causa mascherina, appunto. Un classico sempre più torrido: l'estate in città, una favola raccontata a pezze. Mentre ero in fila per entrare al market, ho scrollato Instagram e notato che il Comune di Milano ha accompagnato questo giorno di ripartenza con l'ennesimo video spot, questa volta dedicato alle attività sportive (il copy è "MI rimetto in gioco"). Che i runner possano tornare a correre in pace lo sapevamo (hanno ampiamente iniziato). Non si capisce che ne sarà di squadre (allenamenti ancora inibiti) e palestre (ancora chiuse), ma va bene, si riparte.
Ora, magari voi ne sapete più di me, ma qualcosa non torna. L'impressione è che abbiamo riavvolto il nastro e cambiato alcuni dettagli in Photoshop. Di differenze, nel concreto, ne vedo poche.
A livello tecnico la situazione intorno a noi è pressoché identica a un mese fa. Tamponi non se ne fanno, test pochi (perlopiù privati a proprie spese), tracciamento e app sono due parole che scatenano ironia e dubbi. I casi di contagio sono più o meno al livello di inizio marzo, ma in fase discendente (è una bella notizia). E' successo che sono morte 32000 persone (una bruttissima notizia), ma che nel frattempo abbiamo imparato a gestire l'epidemia. Il principio di precauzione ha prevalso. Quel che non capisco è perché ora non debba più valere, così, ad un certo punto. Vien da pensare, stando così le cose, che avremmo potuto riaprire prima ed evitare di bruciare altri miliardi.
Certo, non sono scemo e comprendo la difficile contingenza. C'è stato buon senso. Abbiamo svuotato le terapie intensive e aggiunto posti letto, ma per il resto? E' chiaro che si riapre perché altrimenti economicamente non avremmo retto, ma non c'è uno straccio di passo avanti nel capire *come* fare. Nessuno lo sa, mi direte. La scienza non rivela verità. Ok. Sono uno fra quelli che non colpevolizza il legislatore per sfogare la rabbia. Contemplare l'incertezza è sintomo di saggezza. Però a questo punto mi chiedo per cosa abbiamo aspettato, e soprattutto con quale credibilità nel caso saremo eventualmente costretti a richiudere. Semplicemente speriamo che non succeda. Che sia vera quella profezia che dice che il virus scomparirà così come è arrivato.
Ciò che è certo è che siamo tornati ad una qualche forma di "normalità". Quella normalità che tanto abbiamo desiderato nei giorni di quarantena (non io nello specifico, ma la "gente", certa opinione pubblica, loro, voi, noi, boh). Io ecco personalemente sono di nuovo in crisi. Mi manca la fase 1. Ilaria Capua sogno erotico. Conte che parla alle 2.23 di notte e consiglia di lavarsi le mani. Walter Ricciardi faro nella notte decantato per la sua posa istituzionale. La Gismondi che accende i cuori revanscisti. Galli che oscilla la testa come un picchio mentre parla. Burioni unico virologo senza mascherina. Salvini che non sa più cosa inventarsi e fa dirette a notte fonda in cui beve il mirto. Bobo Vieri su IGTV. I nostri litigi sotto le copertine del divano. I balconi cantanti. La prima zoomata. A me questa fase 2 o 3 mi sa di brodaglia. Ridatemi l'emergenza che c'aveva fatto credere d'essere migliori.
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countrysidekid · 4 years
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Il bilancio della fase 1 della mia quarantena
Domani inizia la “fase due”, come mestamente viene chiamata, così oggi traccio un bilancio di questi primi cinquanta e passa giorni di quarantena. Posso dirlo con la sicurezza della lunga distanza: il mio lockdown è stato estremamente simile ai miei anni d’adolescenza vissuti in provincia.
Lunghe e intense giornate al computer, avviluppato ai testi, ad ascoltare musica, a produrre contenuti, a leggere studiare fare disfare perdersi via, a ragionare sul futuro, laddove però il futuro è nel frattempo divenuto ciò che sono. Ecco, la grande differenza fra la mia vita da adolescente provinciale e quella di giovane adulto in lockdown è l’assenza di quel futuro.
Non c’è una tensione ideale che mi spinga a esaltarmi in un sogno individuale o collettivo. Non c’è un mondo nuovo da andarci a prendere. Non c’è campo aperto dove correre a pieni polmoni. L’infinito è finito stretto nella morsa del virus. Tutto si esaurisce a blocchi di settimane, allo scoccare del nuovo dpcm, e l’orizzonte del cielo è fosco in attesa che sorga il sole del vaccino.
È un attimo ritrovarsi come novelli Drogo nel Deserto dei Tartari, affezionarsi alla fortezza e farsi bastare il metadone digitale. Ma è organico il ribollire del sangue di fronte a questo “silenzio da assenza umana che non scorre ma si accumula”. Non lo puoi zittire.
Datemi la luce, datemi l’aria; anche i pollini sono più simpatici di un tempo e uno starnuto allergico è più confortante di un colpo di tosse. Sono rivendicazioni amare, mutilate, perché là fuori c’è sempre questa cosa - che non vediamo mentre lei vede noi - a minacciarci: occhio non vede eppure il cuore duole.
La nuova normalità ha la testa china perché la nostra pienezza di essere individui all’interno di una società si scontra contro lo sgretolamento di una fiducia più profonda.
Al netto della cornice di sforzo per l’emergenza sanitaria e del nobile fine di salvare vite, il mio più grande bagaglio è oggi la riconoscenza in quei valori della società in cui sono cresciuto; valori che il Covid sta mettendo a dura prova, e che noi stessi abbiamo spesso dileggiato.
La libertà che non può esistere senza la giustizia sociale, la salute, l’istruzione, la cultura, il lavoro (oh quanto mi piace il lavoro se è forma di espressione, quanto stimo chi riesce a crearlo, quanto rispetto chi lo tutela). La libertà di potersi mantenere senza le paghette delle oligarchie politiche o tecnologiche, in equilibrio fra locale e globale.
La libertà inserita all’interno di una democrazia, imperfetta e fallace ma pur sempre meglio delle fascinazioni autoritarie che sono ricette facili per tempi difficili che assicurano solo prospettive tremende a lungo termine. Sirene da fase due (e tre e quattro e cinque) che vanno rispedite al mittente, tipo pacchi di Amazon già usati o difettosi.
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countrysidekid · 4 years
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Ho sentito spesso in giro, in questo ultimo mese, la teoria secondo cui il virus ce lo siamo in fondo meritato. I nostri comportamenti aggressivi e poco rispettosi nei confronti del pianeta (natura, ambiente, clima) sarebbero elementi che giocano a nostro sfavore nel processo Covid-19. In molti - soprattutto nella prima fase dell'epidemia - hanno cercato di trovare una spiegazione più ampia, morale etica filosofica: siamo stati cattivi e ora siamo stati puniti. Fermo restando che andranno appurate le cause scientifiche dello scoppio e della diffusione del virus (soprattutto in certe zone), trovo barbara questa tesi punitiva.
Prendiamo ad esempio queste parole: <<il coronavirus è un "dono sotto forma di avversità", è benefico perché dimostra l'inferiorità dell'Occidente, colpito nella sua arroganza>>. Sono frasi di al-Maqdisi, raccolte da Giuliano Battiston per l'Espresso. Tesi pregne di odio firmate, non a caso, da fondamentalisti islamici. Eppure di idee simili ne abbiamo sentite e lette anche qui da noi, senza scomodare Allah.
Se pensiamo che il coronavirus sia la punizione per la climate crisis ci sbagliamo di grosso. Il conto di quella storia arriverà, salatissimo, in altre forme (i 27 gradi di sabato non li commento nemmeno). O se invece ci piace pensare che il coronavirus ci renda migliori, e dunque meno iperliberisti, be' pecchiamo di ingenuità. Ad essere messa a dura prova, come peraltro in decine di altre occasioni nel corso della storia dell'uomo, è stata la nostra onnipotenza, specialmente quella lombarda. Appoggiarsi al virus sperando che questo risolva i macroproblemi economici e climatici (peraltro fra di loro connessi) come si fa nei confessionali cattolici con un giro di padrenostroetreavemaria è alquanto medievale. E soprattutto facile. Per quelle cose lì bisogna faticare, combattere, sporcarsi le mani. Peraltro con il rischio concreto di non vincere mai.
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countrysidekid · 4 years
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Quando il coronavirus incornò il toro
E' girato in questi giorni su internet il “Summary of Goldman Sachs Investor call”, una sorta di riepilogo di una giga riunione a cui hanno partecipato 1500 realtà legate a quella che è una delle più grandi banche d'affari al mondo. Lo ha postato sul suo Facebook Blair Westlake, ex corporate vice president of media and entertainment di Microsoft & ex Chairman di Universal Television e Networks Group. E' una lettura molto interessante che ratifica - lato business - alcune delle situazioni che riguardano l'evolversi del coronavirus, il suo impatto a livello sanitario ed economico. Vorrei focalizzarmi sulle ultime due conclusioni, che trovo decisive.
Prima: “Non c'è rischio sistemico. Nessuno ne sta nemmeno parlando. I governi stanno intervenendo sui mercati per stabilizzarli, il settore bancario privato è ben capitalizzato. Sembra più l'undici settembre (2001) che (la crisi del) 2008”. Il coronavirus ha colpito domande e offerta, modificato il nostro modo di vivere e concepire la società; non si tratta di un gioco esclusivo della finanza, ad essere messo in discussione è il nostro stile di vita, come accaduto dopo gli attentati alle torri gemelle (con la restrizione delle libertà individuali concessa per tutelare la sicurezza). Seconda: “tecnicamente il mercato ha cercato una ragione per fare reset dopo il più lungo periodo di 'bull market' della storia”.
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Non masticando economia quotidianamente, sono andato ad informarmi su cosa fosse il “mercato toro”. Ebbene, è quella situazione in cui il mercato cresce e le prospettive sono tutte al rialzo: ottimismo, sicurezza, aspettative alte. Incornare il futuro proprio come fa un toro con la preda: un'immagine maschia, sanguinolenta, aggressiva. E' la situazione economica vissuta dalla Cina (venticinque anni di crescita ininterrotta) e dagli States, che arrivano a questo momento dopo il più lungo periodo d'oro post-Grande Guerra (oltre dieci anni senza traccia di recessione). Insomma, il toro non può avere le palle fumanti per sempre. Ha bisogno di ricaricarsi.
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D'altro canto, c'è una poesia di Mariangela Gualtieri intitolata “Nove marzo duemilaeventi”, ed è diventata un piccolo culto sul web perché racconta il primo giorno di lockdown e le misure draconiane assunte dal Governo italiano per contrastare l’emergenza. Inizia così: “Questo ti voglio dire / ci dovevamo fermare”. Poi prosegue: “Lo sentivamo tutti / ch'era troppo furioso / il nostro fare”. Il riferimento di Gualtieri è evidentemente rivolto alla sostenibilità del nostro sistema. Alla idea di società moderna come “incontro di lotta fra chi, come gli ambientalisti, pensa che corriamo rischi senza precedenti e chi preferisce concentrarsi sulle opportunità senza precedenti”. A noi come “esseri incapaci di percepire la fragilità umana” (Herny Mance, Financial Times).
Ma c'è un passaggio specifico della poesia che mi piace molto, e che riguarda il fare tesoro di questo tempo che essendoci stato tolto ci è in realtà stato regalato: “E' portentoso quello che succede. / E c'è dell'oro, credo, in questo tempo strano”; “pepite d'oro per noi”. Estrapolate dal contesto, vituperate nel senso, queste sono frasi che potrebbe stare benissimo in bocca anche ai nostri “amici” di Goldman Sachs. Il virus ha fatto saltare il banco, fatto convergere le parole. Come se lo stop globale fosse necessario, in fondo desiderato, ma essendo noi incapaci di rallentare o spegnere la macchina avessimo bisogno di qualcosa di ignoto per riuscirci. Covid-19 ha unito - nelle premesse e non nelle promesse – poeti ed economisti. Ed è buffa l'ironia che vede la poetessa italiana che meglio ha raccontato questi giorni così unici condividere lo stesso cognome del ministro dell'economia: Gualtieri.
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countrysidekid · 4 years
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Pensieri che cercano di tenere a bada gli spaventi
L’aggettivo più usato per il silenzio di questi giorni è surreale. Occorre trovarne uno diverso, più efficace. Questo è un silenzio diverso, presentissimo: lo spezza solo il suono delle sirene delle ambulanze (ne passano tantissime, purtroppo), o il festoso chiasso dei balconi che alle 12 e alle 18 si prendono la briga di sdrammatizzare, alleggerire. Potrebbe finire fra pochissimo oppure no: in ogni caso bisogna farci l'abitudine.
Questi giorni pieni di silenzio sono in realtà pieni di pensieri per me: "pensieri che cercano di tenere a bada gli spaventi" (Maurizio Crippa). E di dirette. Una manata di dirette Instagram e Facebook di ogni tipo, che nascono dall'idea di "intrattenere", "alleviare questi giorni", "regalare un sorriso". Vedo che hanno molto successo e ne sono felice. Mi hanno chiesto di farne qualcuna pure a me, ma io non ce la faccio. Non saprei che dire, è come se fossi bloccato.
Mi sento fondamentalmente inutile e al contempo estremamente grato a chi è nelle trincee degli ospedali. Faccio il mio: ho pagato le tasse, anche se avrei potuto rinviare. Ho fatto le mie piccole donazioni agli ospedali a cui potevo. Mi accontento di rispettare le regole: stare in casa, fare ciò che è giusto. Sarebbe bello lo facessero tutti, lo facessimo tutti: il virus non si propaga da solo. Mi viene in mente una discussione con i miei genitori, qualche anno fa, in piena esplosione no vax: si parlava dei vaccini, si discuteva senza che nessuno ne capisse granché. Mio padre troncò la chiacchiera: se ce lo dice l’ISS un motivo c’è. Ecco: la barzelletta dei no vax è finita, un motivo c’è. Ora più che mai.
Questi giorni li sto dedicando allo studio, alla lettura, dunque proprio ai pensieri. Durante la settimana lavoro, e quando non lavoro è un trionfo di call, zoom, party house, hangouts e via dicendo. Potrebbero essere settimane vuote ma invece sono occupatissimo, arrivo a dormire stanco. E là fuori c’è la corsa a riempire. Le tv e i social media sono carichi di contenuti. I servizi streaming pompano come non mai. Le videoteche offrono la visione di pellicole gratis. C’è troppo baccano. Io questo vuoto lo conservo per provare a costruire l’idea di quello che sarò, di quello che saremo dopo questa sfida a cui la Storia ci ha posto di fronte. Coraggio, ce la faremo.
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countrysidekid · 4 years
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Il 02.02.2020 - uno dei 366 giorni palindromi che accadono ogni 10mila anni (fonte GC) - è stato per me un giorno di attesa e solitudine, due condizioni che non temo e che spesso anzi mi sono necessarie. L’ho passato in silenzio, senza aprire bocca con alcuno, senza telefonate o chiacchiere eppure frastornato dalla quantità di voci che mi si accavallavano in testa. Sono uscito la mattina con Piera, la cagnolina, che notoriamente non parla, eppure era come se lo facesse. Ho comprato i giornali, e leggendoli sentivo che il frastuono di quelle parole fosse ben più rumoroso della telecronaca della partita che avrei seguito dopo. Ho scrollato il telefono, scorrendo con gli occhi la proiezione delle vite degli altri, gli annunci, le polemiche, le canzoni, le citazioni. Ho messaggiato, anche se nemmeno troppo. Le ore passate aspettando Franci sono volate via, in (non) solitudine. Quando lei è però arrivata (non la vedevo da una settimana, ero contentissimo di rivederla) mi sono accorto di come quella presenza umana, quella voce così concreta, che iniziava e finiva in uno spazio delimitato ed equilibrato dalla nostra contemporanea fisica presenza, mi era di difficile comprensione. Non mi veniva da dentro e reclamava, naturalmente e normalmente, un tipo di attenzione che mi sono trovato riluttante a dare. Come se questi sette giorni da solo mi avessero educato ad una dimensione così privata da esserne diventato geloso. Nel segno del doppio che è la matrice pluri-binaria del mio modo di essere, ho capito che il mio lavoro su corpo e mente va affinato per fluidità ma è solo nel contrasto che trova senso ed energia vitale.
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countrysidekid · 5 years
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Uno dei primi concerti che organizzai fu nel mio paese d'origine, Veruno. Era credo il 2002. Il Settembre Musicale invitò Luca Carboni, che in quel periodo era ancora certamente un gran nome, ma un po' in difficoltà. Io feci il facchino. Mi ricordo con quale orgoglio e entusiasmo aiutai, assieme al mio amico Stefano, a caricare e scaricare il palco. Quel concerto era il cantiere del mio mondo nuovo e io, flycase dopo flycase, stavo costruendo la mia casa nuova. Succhiai ogni singolo dettaglio della crescita della macchina produttiva, rubai ogni movimento della crew per cercare di imparare qualcosa. Il che - chiaro sintomo di raggiunta maturità - mi fa prudere le mani quando vedo giovanissimi approcciare questo mondo con la stessa voglia di un lombrico. Sveglia! Sempre di quella sera fu familiarizzare con i classici rituali del rnr: il backliner che chiede se qualcuno ha da fumare, i fan che vogliono le foto con l'artista, l'artista che si materializza e diventa uno speciale essere normalissimo. E' per questo che nel 2019, 17 anni dopo, potermi permettere di invitare Luca al MI AMI Festival da direttore artistico e sentirlo aprire il suo set con una dedica del genere è un piccolo bellissimo cerchio che si chiude.
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countrysidekid · 5 years
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Abbiamo iniziato ascoltando un disco speciale che ha fatto scattare qualcosa da cui non si può tornare indietro. Abbiamo proseguito ascoltandone di più, e ancora, suonando, leggendo, scrivendo, parlando, costruendo rapporti attorno a quel clic. Non siamo più stati gli stessi. E' capitato di schifare tutto ciò che era simbolo di successo largo e prestabilito, contrapponendogli purezza e qualità (ma eravamo giovani e si sa: l'identità si forma anche per contrasto).
Abbiamo messo tutta l'energia che avevamo dentro il nostro progetto, qualsiasi esso fosse, cercando di renderlo il più originale personale autentico intenso unico figo possibile. Era l'unica cosa che avremmo voluto avere dalla vita e in fondo l'unica cosa che la vita ci aveva dato, la musica, l'unica chance. Abbiamo sgomitato per farci sentire, sofferto l'indifferenza, caricato e scaricato van, dormito per terra, litigato con i promoter, discusso per una recensione, preso insulti, insultato a nostra volta... insomma fatto tutto quello che ci rende oggi quello che siamo, nel bene e nel male.
Volevamo cambiare il mondo.
E infine eccoci qui.
Sanremo.
Qualcuno a suonarci, tutti gli altri a commentare.
Che buffa la vita.
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countrysidekid · 6 years
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Al Fornà, 2007
Nel dicembre 2007 andai in Val Grande con Mattia e Barce. Fu uno dei weekend più forti della mia vita, perché rischiammo di morire e non ce ne accorgemmo nemmeno. Quell’anno già lavoravo in video per Mtv, e tenevo un blog su cui fondamentalmente raccontavo un po’ di me. Scrissi un post, che poi persi (con mio sommo dispiacere) e ritrovai grazie a WebArchive (con sommo sollievo). Lo posto qui sotto, a imperitura memoria.
§§§§§§§§§§§§§
1-2 dicembre 2007.
A tutti i fan della montagna.
A tutti quelli che provano qualcosa di diverso.
Non sempre c'è un motivo se uno va in montagna. A volte capita che ci si faccia tirare in mezzo, semplicemente. Che magari lo si era fatto qualche volta nel passato ed era piaciuto. Che magari la montagna è il posto giusto per farsi una boccata d'aria nuova e ripartire meglio in questo marasma di conti aperti e nuovi crocevia. Che magari negli ultimi giorni ad uno gli è capitata una bomba in mano e apriti cielo apritevi mondi apritemi la finestra perfavore. Insomma, ok, ci vediamo lì.
Lasciamo la macchina a 1200 metri. In spalla zaini pieni di tutto il necessario anche per qualche vizio. La prima parte del percorso è tranquilla: una piccola asprezza, una stradina tracciata, la prima neve, il sentiero che percorre la cresta e mi giro e vedo due scimmie poco più evolute comporre l'obiettivo di una magnifica fotografia. Con il cielo azzurro dietro. Tempo due ore di cammino e siamo di fronte ad un segnale che indica il nostro bivacco. Un rifugio dedicato a Cucciolo, un ragazzotto di vent'anni morto quassù in qualcuna delle stronze guerre che hanno combattuto da queste parti.
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Guardiamo giù e vediamo una distesa di neve, guardiamo su e vediamo i 2100 metri del monte Zeda. Porco cazzo inizia a fare buio e noi siamo nella merda bianca. Capiamo che l'unica strada percorribile è buttarsi in questa parvenza di sentiero che si arrotola su una montagna ripida. Molto ripida. Spesso ripidissima. Chi si butta ti butti tu no ti tu butti tu no ok mi butto io. Vado io come un incosciente scivolando coi miei scarponcini da passeggio anni '70 in pelle con l'interno in pelo, e penso che ho sbagliato a vestirmi a questo giro sisi certe cose non bisogna prenderle alla leggera. Anzi no, credo di non aver pensato a niente anche perchè ad un certo punto non so come guado una parete di ghiaccio non saprei dirvi come ho rimosso tutto. Perché dopo si chiude un versante e si apre questa valle che ci deve portare al rifugio non uno straccio di sentiero, solo arbusti e piccole grotte e sassi. Che ogni volta che fai un passo è affondare nella neve fino al bacino. Che ad un certo punto sei talmente sfinito che vedi le rocce e ti sembrano il rifugio. Che vai avanti con le ginocchia e ti senti tutto fradicio e ti rialzi per l'ennesima volta ma non c'è alternativa. E' buio. Fermati un attimo che mangiamo un biscotto mentre Mattia è dietro cento metri che urla "sono fermo! sono fermo!" e tu pensi ce la farà perché nonostante tutto ce l'han fatta tutti.
Poi ad un certo punto arrivi. 1850 metri. Non sai se il rifiugio è aperto, se c'è la legna per superare la notte. Provo, è aperto! La prima cosa che vedo è un cartello: "la montagna non perdona" (singhiozzo). La seconda cosa che vedo è la legna (giubilo silente). Mi giro verso gli altri, esplodo. Raga venite qui è aperto c'è la legna!
Siamo salvi.
Vien da dirlo anche se sembra poco modesto.
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(L’interno del rifugio in una foto presa da Internet. Lasciai i miei scarponcini con pelo accanto al fuoco ad asciugare, li ritrovai dopo un’ora senza più pelo)
La mattina dopo è svegliarsi, uscire, un bianco accecante che invade tutto. E dire. Oh cazzo noi abbiamo fatto quella roba lì? L'uomo davvero può, spesso, se vuole. E quindi da dove vogliamo tornare? Non c'è molto scampo, il sentiero di ieri è impraticabile, si provano improbabili soluzioni dettate ancora una volta dall'incoscienza e riequilibrate dal buon senso. Scegliamo di scendere a valle. Un'altra valle rispetto alla macchina. Il che vuol dire più lungo. Il che vuol dire più tempo. Il che vuol dire che si riparte. Ci affidiamo alle orme di un lupo nella neve imbattuta. Scendiamo per dune d'altezza variabile, facciamo scivolo, attraversiamo due fiumetti e reincrociamo il sentiero per puro caso. Siamo a 1400 metri, riconosciamo il tracciato grazie alle bandierine pitturate sui sassi. Incrociamo tagli su fondale ghiacciato che si scivola che un piacere e lì a dieci centimetri c'è un burrone. Tagliamo la montagna come correndo sulla buccia di un mandarino, le foglie a terra sono fradicie e rendono il percorso istabile. Ci sono le trincee qui. Qui marciavano i partigiani.
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(Lì *morivano* i partigiani)
Passiamo sotto alcune cascatella, la neve ormai s'è diradata e rimane l'umido, lo scivoloso. Infatti scivolo e cado, trasformo il mio dito medio sinistro in un enorme e gonfio dito medio sinistro. Ma non ha lo stesso sapore di un gigantesco vaffanculo. Fa male e stop. E' tre ore che camminiamo e mentre la strada inizia finalmente ad allargarsi e siamo nel bosco più pesto vediamo la prima casa (peraltro, con tanto di cartello con numero di telefono, in vendita). E' qui che realizziamo che ancora un'oretta e saremo sull'asfalto. Scherziamo su quanto è successo. Ce ne stupiamo un po'.
A Falmenta c'aspetta Cognato, facciamo un'ora abbondante di macchina e siamo due valli oltre dove avevamo lasciato il mezzo. Mentre rimettiamo lo zaino in spalla per l'ultima camminata di abbondante mezz'ora ancora in salita, scuoto un po' la testa. Penso che non c'è un motivo per farsi così del male ma in fondo un motivo c'è. E penso che alla fine dei conti è stato addirittura bello.
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countrysidekid · 6 years
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La festa ci salverà
E così ieri, dopo i 29 gradi centigradi del 25 di ottobre, copiosa è scesa la pioggia a farmi credere che tutto sia tornato alla normalità; le stagioni con il loro regolare decorrere, la notte del cambio dell’ora a far scoccare l’autunno più inoltrato (prima che qualcuno decida che non serva più cambiare l’ora, e forse anche le stagioni).
Sotto una fitta precipitazione, esco di casa a Milano per dirigermi laddove casa è sempre stata e sempre sarà: Veruno, provincia di Novara. Torno sempre meno. Chiamo gli amici nel tragitto che mi ci porta: ci accordiamo per vederci la sera in un posto chiamato Circus a Cureggio, un piccolo paese oltre Borgomanero, passaggio obbligato per Baraggia di Suno laddove provavo con la mia prima band e dove distrussi il motorino. Suona una formazione chiamata Riciclette; mai sentita prima.
Manco così tanto da “casa” che non solo non so minimamente dove sia il Circus, ma a malapena ricordo la posizione di Cureggio. Arrivo e trovare parcheggio non è così facile. Pazzesco come la città cambi completamente la prospettiva della gestione degli spazi: in questi paesini bastano pochissime macchine per saturare tutto. Mi stupisce la quantità: è così difficile tirare fuori la gente di casa quando piove così forte, ancor di più per una serata “con musica live”, contesto che da queste parti ha spesso il sapore della tristezza, non certo dell’entusiasmo.
Entro e capisco che c’è qualcosa di diverso. Mi guardo intorno, levo la felpa e vedo cinque ragazze che suonano strumenti acustici (chitarra, ukulele, bonghi, scacciapensieri...) senza palco, in mezzo al pubblico che è ben assiepato attorno a loro. Fanno cover e brani inediti, suonano ultra compatte nel loro essere un po’ storte, la sezione ritmica ultra tight e le voci corali, è busking caldo.
Saluto qualche amico che non vedo da tempo e tutti, come veri padroni di casa, hanno piacere a fare gli onori a me, che sono ormai diventato il “milanese”, o forse semplicemente il vecchio lupo di città ormai lontano. In momenti diversi, più persone mi dicono che le Riciclette sono “bravissime”, e che - così specificato in tutti i casi citati - “hanno forte pubblico nella comunità LGBT+”. Di per sè questa non è una notizia ma effettivamente è la prima volta che vedo un gruppo interamente femminile in provincia, con questo successo, con questa condivisa militanza per i diritti sessuali.
Spesso si tende a pensare che questo tipo di battaglie abbiano senso solo in chiave urbana o a supporto di grandi eventi come il Pride. Invece eccoli i risultati di campagne mondiali sul piccolo: danno nome forza e orgoglio a persone che vivono in comunità periferiche, e che non devono più nascondersi per forza.
Qui al Circus in ogni caso c’è davvero un inaspettato entusiasmo. C’è addirittura il momento stage diving del gestore dal bancone del bar, un omone con la maglia dei Dropkick Murphys che mi fa ripensare a come la lezione collettivista e up-the-pints del punk non sia in realtà tramontata. Raramente ho visto così tanta gioia chiusa in un posto così piccolo, in questa provincia.
Spesso tendo a considerare la musica come tesoro di emozioni personali oppure -all’opposto- in senso discografico e di industry, invece ci sono esperienze come questa che sicuramente non rispondono a quel tipo di disegno ma creano contesti di comunità e popolo fondamentali, soprattutto per un paese come il nostro nel pieno di una regressione economica con alcuni fondamentali diritti messi in discussione.
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countrysidekid · 6 years
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Ho troppa adrenalina in corpo questa notte, e qualche incrocio venoso denso in testa che non mi lascia dormire. Sarà la luna piena. "Sarà che non mi va di cercare risposte, che soffiano in un vento che non c'è". Io e Francesca abbiamo parlato a lungo di che cosa sia la felicità. La mia posizione, citazionistica come spesso accade: "una categoria conformistica" (Slavoy Zizek); "non l'ho mai cercata, la felicità" (Giorgio Canali). La sua, autentica: "non ricordi di avermi detto d'essere stato felice quando hai visto Piera correre in mezzo al prato? Eccola, è quella cosa lì". Esiste una sproporzione gigantesca fra la semplicità delle cose belle e la vastità oceanica - con le sue profondità - delle categorie filosofiche. Ci sono spesso volte in cui mi ritrovo lì in mezzo come un vascello in balia di grosse onde. Arrivato a riva, incredibilmente salvo, il mare si ritira e mi lascia qualcosa che ho fatto nel passato. Un mixtape laddove contrapposi metaforicamente la felicità alla creatività con il pretesto di suonare gli act meno noti del MI AMI 2016, che oggi mi rivela qualcosa sulla discussione avuta in precedenza. Forse chi ha necessità creative è costretto a rifiutare tutto ciò che possa mettere in discussione la molla che lo ha reso a suo modo unico. A volte la verità del dolore, specialmente in adolescenza, sembra essere l'unica cosa vera in un mondo finto. Non ci deve essere pietà per quelli come noi. Esiste un solo unico sforzo ed è quello nei confronti della pienezza della vita. "Sarà che questo pessimismo, troppo spesso mi conviene" (ecco, in quel mixtape manca solo quel pezzo di Giorgio Canali).
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countrysidekid · 6 years
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E se fosse completamente diverso? Se invece ci fossimo semplicemente sbagliati? Se tutta questa storia di Leonardo Bonucci fosse solo un abbaglio da cui ci siamo risvegliati?
Sono andato a rileggere cosa avevo scritto il 1 aprile 2018 (non è uno scherzo), il giorno dopo Juventus Milan 3-1. Esatto, quello del gol di Bonucci allo Stadium. Nella nostra porta.
"Sabato sera ero all’Allianz Stadium a vedere Juventus-Milan. Come tanti, forse come tutti, avevo gli occhi puntati su Leonardo Bonucci, calciatore italiano di mestiere difensore, uno dei motivi di grande interesse in una gara già di per sé estremamente complessa per la Juve, contro un Milan in estrema forma, tonico, con giocatori veloci e giovani, e due o tre fuoriclasse. La notizia della partenza di Leonardo in estate mi aveva emotivamente distrutto, un po’ come qualche anno prima era successo con Conte. Entrambi rappresentano la luce alla fine del tunnel, il successo conquistato out of the blue con sudore e organizzazione; vederli fuggire fu un vero e proprio colpo al cuore.
Ieri, più che la partita, mi interessava vedere come lo juventino avrebbe affrontato il ritorno di Bonucci allo stadio. Ebbene, la metà rumorosa del tifo non si è comportata diversamente dai napoletani con Higuain e dai fiorentini con Bernardeschi. E’ la inevitabile cornice da stadio, da arena, in cui gli istinti animaleschi prendono il sopravvento sulla ragione, e forse proprio grazie a questo è in luoghi così che vengono esorcizzate tensioni che altrimenti esploderebbero altrove.
Al fischio di inizio ho dunque puntato i miei occhi su Bonucci, che ha iniziato il suo match evidentemente intimidito. Ho interpretato questo suo atteggiamento come rispetto, perché è davvero chiaro che Bonucci della squadra oggi sua avversaria era pilastro fondamentale, leader egotico ma anche generoso. Dopo il meraviglioso gol di Dybala, come da tradizione nelle ultime partite, la Juve ha abbassato il baricentro e lasciato campo ad un Milan tonico e organizzato, particolarmente feroce sulle fasce. E’ lì che si è apparecchiato il tavolo del mito, per uno di quei banchetti che rendono la narrazione di questo sport così avvincente. Da un calcio d’angolo ben battuto, in mezzo a Barzagli e Chiellini, compagni di mille battaglie, si erge Bonucci. Allo Stadium, davanti a quella che è stata la sua gente per 7 anni. A 14’ dal record di imbattibilità. Proprio lui, cazzo. Bonucci esulta con il suo classico gesto attorno al viso, guarda la tribuna Nord ma poi si ricorda che i suoi attuali tifosi sono più a destra. Vira prima che sia troppo tardi. Il resto è la solita Juventus, che ha nell'abaco dei grandi giocatori come Cuadrado che possono da soli risolvere le partite.
Guardo Leo a fine partita. Ha lo sguardo goduto per aver segnato - ha risolto un conto con se stesso? - ma non sembra particolarmente sofferto per il risultato che ha visto la squadra di cui è capitano prenderne 3."
Forse quello dello scorso anno per Leo è stato solo un sogno che si è trasformato in incubo, un passaggio di una storia gloriosa che poteva finire in una barzelletta. Una nuova forma narrativa che ci ha tutti presi in mezzo e ci ha fatto sudare freddo, inventare nuovi insulti, godere soffrendo.
Una delle cose più difficili al mondo è accettare l'addio, specie quando assomiglia ad uno strappo. Se una cosa è tua, di una proprietà "naturale" ed indiscutibile, non metti nemmeno in conto che improvvisamente poi non lo sia più. O, peggio, che si trasformi nel suo opposto diabolico. Quando lo strappo è stato effettuato, non c'è quasi mai ritorno. Ti è stato tolto qualcosa per sempre. E se Leo rappresentasse suo malgrado il trionfo della ragione sul sonno che genera mostri?
Forse, per quanto difficilissimo da accettare (io, come potete vedere, sono ancora nel bel mezzo del processo), ciò che è accaduto quest'anno è davvero la cosa migliore per tutti. Il risveglio del sogno/incubo che mai tradisce. Di nuovo lì, in campo, come miglior compagno del miglior stopper d'Europa, il nostro capitano Giorgio Chiellini, uno che ha sempre avuto il merito di possedere intelligenza ed equilibrio. 
Che sia casa sua, Leo dovrà dimostrarlo come tutti dimostrarlo giorno dopo giorno. Ma io ammetto di sentirmi un po' più sicuro a saperlo là dietro, palla al piede, con la capacità mai troppo celebrata di saper imparare dai propri errori.
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countrysidekid · 6 years
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Leggo spesso con estremo interesse gli status dell'amico Mauro Del Rio sull'introduzione del reddito di cittadinanza. Propendendo per il sì, Mauro in qualche maniera condivide un tratto della politica del governo attuale, suggerendomi/stimolando una doverosa riflessione sull'argomento che vorrei condividere con voi, pur sapendo di non avere i crismi accademici per poter fare cattedra (in ogni caso, prego tutti coloro convinti invece di poterla fare di partecipare in modo costruttivo).
L'assunto di base è che tecnologia e robotica sollevano l'uomo delle tipologie di lavoro che fino ad oggi si è sobbarcato. E' necessario dunque, all'interno di una situazione macro-economica che può prescindere dal lavoro poco specializzato e di massa, che le grandi multinazionali (soprattutto quelle digital) in grado di produrre profitti esagerati (es. Facebook 2017: fatturato 40,65 miliardi $ - utile netto 20,22 miliardi $ - dipendenti 23.165) “restituiscano” parte del loro esagerato guadagno allo stato, che poi a sua volta lo redistribuirà ai cittadini sotto forma di reddito di cittadinanza. Questi ultimi – un termine che in questo contesto assume più significati – saranno poi liberi di farne ciò che vogliono, ma avranno dunque rispettato il diritto alla sopravvivenza, la ormai celebre “dignità”.
Nella visione che mi sento di poter attribuire a Mauro emergono poi tratti che potremmo definire aspirazionali e utopici: liberi dal lavoro, gli uomini saranno liberi di fare ciò che più loro amano, ad esempio giocare; “pensa che bello non dover sopportare più le lamentele di quelli a cui non piace il proprio lavoro”. L'idea insomma è che tecnologia e robotica, nella conseguente forma del reddito di cittadinanza, risolvano il problema dell'alienazione del lavoro teorizzata da Marx. Non ci saranno più lavoratori che non si riconoscono nel proprio prodotto e nella propria attività; non ci saranno più lavoratori a cui verrà sottratto ciò che essi producono. Non essendoci più lavoratori, insomma, non ci saranno più lavoratori “alienati”.
A tal proposito, mi è sovvenuto in aiuto un testo del filosofo coreano di stanza a Berlino Byung-Chul Han che sto leggendo in questi giorni: “Oggi viviamo in un'epoca post-marxista. Nel regime neoliberista lo sfruttamento non si verifica più nella forma dell'alienazione, bensì nella forma della libertà, dell'autorealizzazione e dell'ottimizzazione di se stessi”. In sostanza, colui che una volta mi avrebbe sfruttato, in realtà oggi contribuisce al mio sostentamento in forma terza. Ancora Han: “Il dominio neoliberista si dissimula dietro una libertà illusoria, e giunge a compimento nel momento in cui coincide con la libertà. La libertà che percepiamo è fatale, perché non rende possibile alcuna resistenza, alcuna rivoluzione. Contro cosa dovrebbe rivolgersi la resistenza? Non c'è più nessun Altro da cui aspettarsi una repressione”.
Dietro il reddito di cittadinanza, che è probabilmente una risposta di “buon senso” (sic) all'attuale situazione del lavoro, c'è insomma l'idea che le pochissime aziende multinazionali uberstatali dotate di grandissimi capitali, enormi come mai in passato, debbano contribuire sotto forma di tasse al sostentamento dei cittadini. Questi ultimi – di nuovo – diventano così una volta più che mai esclusivamente consumatori. Le persone non dovranno porsi più il problema di come reperire i soldi basici per vivere perché li riceveranno ogni mese in automatico, e potranno dunque spendere il loro tempo magari di fronte ad uno schermo consumando social media e, più o meno inconsapevolmente, fornendo informazioni sui propri gusti e comportamenti. Potremmo poi azzardare - senza il bisogno di evocare la morale calvinista per cui chi non lavora è considerato un reietto - che subentreremo in una logica per cui i reietti saranno quei soggetti il cui comportamento sarà considerato dannoso per la società, che li priverà del reddito di cittadinanza come maggiore forma punitiva.  
Non sono mai stato né mai sarò pregiudiziale nei confronti del cambiamento. Sono altresì pragmatico di natura e penso che ogni grande occasione di mutamento delle forme economiche e sociali e economiche sia un passaggio interessante da vivere e una nuova sfida da affrontare. Se è lì che andrà il mondo, come probabile, ci andremo anche con queste considerazioni. E' evidente che il lavoro come l'abbiamo storicamente inteso dall'Ottocento ad oggi non esista più, ma agli entusiasti del reddito di cittadinanza chiedo di convincermi con qualcosa di più solido della “libertà di”, che mi sembra l'ennesimo spot per un mondo di possibili Nuove Depressioni in cui, peraltro, viene sempre e comunque ignorato il fattore ambientale – con il cambiamento climatico che di questo passo renderà impossibile il realizzarsi di Utopie e Distopie di ogni tipo.
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countrysidekid · 6 years
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Dieci anni dopo il mio primo tour di TRL
Circa dieci anni fa si chiudeva il mio primo tour come conduttore di TRL su Mtv, un programma che i ragazzini di oggi giustamente ignorano ma che ha invece fatto parte dell’immaginario teen italiano di almeno un paio di generazioni. In questi giorni di grande calore estivo mi sono preso del tempo, con l’aria condizionata accesa, per riordinare un po’ il mio archivio digitale. E’ una cosa che faccio raramente ma che mi piace molto, perché mette a confronto quello che sono oggi con l’idea che avevo di ciò che sarei diventato. Ho ritrovato un po’ di documenti che proprio avevo scordato. Dato che il tempo ha risolto molte questioni, vorrei condividerne uno con voi. Si tratta di una lettera che scrissi a Antonio Campo Dall’Orto - all’epoca AD di Mtv Italia - nel gennaio 2008, quando dopo avermi comunicato la chiusura di Your Noise - il bel programma che conducevo all’epoca - mi proposero di passare a TRL. Per molti sarebbe stata la proposta della vita, per me era fare un grande passo. La confusione era tanta, sentii il bisogno di esorcizzarne un po’ scrivendo. Non ricordo nemmeno se infine la inviai o meno (credo di no), ma poco importa ormai. Qui dentro ci sono tutti i miei 22 anni: tratti di ingenuità evidente alternati a sprazzi di enorme consapevolezza, egotismi che grazie a dio ho perso nel tempo a favore di un equilibrio meno competitivo ma più armonico con il mondo. Tutte cose che mi permettono di dire, con il senno di poi, che fare TRL fu per molti versi complicato e straniante, ma davvero intenso e molto educativo e formativo.
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(TRL Reggio Calabria, Luglio 2008, backstage)
Ciao Antonio,
spero tu abbia passato delle buone vacanze.
Mi avevi chiesto di aggiornarti sulla mia situazione dopo l'incontro con Rossini al quale ha partecipato anche Fiacco. Ti scrivo per condividere con te, esattamente un anno dopo essere entrato in Mtv, quello che ho visto e capito di questa grande famiglia. E quello che sento per il futuro.
In questi mesi ho maturato una preparazione, una sensibilità e un'esperienza di cui devo gran parte a Mtv e alle persone che vi lavorano. Ritengo Mtv una cosa importante, e sono una persona che si dedica alle cose importanti con abnegazione. Sono dunque molto contento che questo lavoro sia stato capito e apprezzato dalla rete, che mi ha comunicato per via ufficiale di essere una persona sulla quale investire e lavorare. Frasi come “non c'era nessuno che ci convinceva come te da quando abbiamo preso Nongio” hanno per me un significato speciale.
Credo d'altronde di aver portato a Mtv una ventata di aria fresca, qualcosa di urgente che cercavo/trovavo nel canale anche da spettatore, e sono contento di aver avuto la possibilità di esprimere questa caratteristica importante della mia personalità.
Il discorso, ora, è come crescere ancora assieme.
La rete mi ha proposto di condurre TRL. Un programma che da giovanissimo ho guardato, a cui oggi mi relaziono con rispetto e stima, ma che non rientra proprio nel mio percorso. Il fatto che mi si proponga lo show più visto del canale mi lusinga. Ma non c'è solo questo. L'idea di affidare a me lo show è principalmente incentrata su tre fattori che si incontrano: 1) Cattelan non ne vuole più sapere; 2) Your Noise è destinato a chiudersi; 3) la rete – anche secondo le parole di Rossini - vuole affidarmi qualcosa di forte e non più cose “tiepide”.
Io penso che una persona che fa questo mestiere a Mtv debba soltanto essere contenta di avere una tale possibilità su questo canale, ma penso anche che una persona come me che ha fatto del proprio percorso un punto di forza debba necessariamente porsi delle domande. Quanto posso portare di mio dentro un contenitore così forte e così rodato come TRL? Dal punto di vista dell'empatia con il pubblico, penso di aver capito di avere una capacità che prima avevo annusato solo quando ero rappresentante di istituto durante le assemblee scolastiche. L'altro giorno ero al Palladium a Roma a presentare un contest di Fazi Editore legato alla saga della Meyer (in America ha superato Harry Potter) e mi sono divertito alla grande, lo show è venuto fuori cazzutissimo (1′30 di improvvisazione), ho buttato in mezzo tutti. Dal punto di vista della professionalità e del ritmo, la visibilità di TRL ti impone necessariamente una crescita che non può che farmi bene. Devo migliorare parecchio. D'altro canto, pensavo di poter rappresentare un'alternativa e uno squarcio di futuro per questa rete; questa scelta in qualche modo cambia le cose.
In questi mesi ho ricevuto i complimenti di Fabri Fibra, Jovanotti; Tiziano Ferro mi ha detto: “sei il futuro di Mtv”. Non sono mondano, spero non sia piaggieria. Se penso a Mtv, dico che è dieci anni che TRL va avanti come un carrarmato e ancora non siamo riusciti a costruire qualcosa di altrettanto forte e nuovo. Forse non ce n'è bisogno, Striscia d'altronde va avanti da 20 anni e non mi pare soffra di salute. Però io penso che dobbiamo lavorare sul lungo periodo e non sulle necessità dell'oggi. I Clash cantavano “no Elvis, Beatles e Rolling Stone”. L'Italia ha bisogno di innovazione e cose forti. Credo che fare di Carlo Pastore il “nuovo Maccarini” o il “nuovo Cattelan” non sia proprio la cosa giusta.
Come mi hai consigliato, ho chiesto alla riunione di dirmi cosa Mtv aveva in mente. La risposta, quella l'ho intuita, è questa: se fai TRL ti becchi un sacco di visibilità e ci togli un sacco di problemi. Apprezzo. Però possiamo fare di più, no? Quello che mi pare manchi in questo momento sia la percezione completa di un percorso. Se da un lato è chiaro che una televisione come Mtv debba porsi l'obiettivo di arrivare competitiva all'incontro/scontro con i dati d'ascolto (anche se credo che sulle date sarebbe opportuna una maggiore chiarezza: Our Noise cambiò lo scorso marzo perchè entro settembre si sarebbe entrati nel rilevamento dati... non mi pare sia successo né mi pare succederà nel 2008), dall'altro non è assolutamente chiaro *come* si debba arrivare a quel punto. Mtv è in questo momento un agglomerato di reality americani, serial TV, cartoons, show, videoclip musicali e in minima parte show musicali. E' giusto che non possiamo più permetterci la nicchia, è sbagliato perdere l'identità. Mtv è stata forte nel costruire alternative che generassero in maniera nuova, fresca, striking, un senso comunque di aspirazione fra i ragazzi. Quest'anno il palinsesto di Mtv è molto bello. Kebab For Breakfast, bellissima serie. Skins, spaccherà. Però sappiamo tutti che sono gli OC e i Grey's Anatomy che spostano il grosso, e quelli costano parecchio. E mentre si investe sui grandi nomi - che automaticamente, necessariamente e giustamente attraggono a sé tutte le risorse (economiche ma non solo) - quello che caratterizzava Mtv (e che Mtv produceva) viene a diventare meno prioritario.
Non ti nego di aver colto segnali di disorientamento all'interno dell'azienda in questi ultimi periodi, soprattutto fra i lavoratori semplici, quelli che attraversano l'Arabia ogni giorno per arrivare in Via Belli; segnali che a mio avviso vengono enfatizzati per un cambiamento strutturale/logistico sicuramente importante ma anche ancora poco lucido, ma che non possono essere trascurati. La linea editoriale è poco percettibile. Come andiamo incontro al videoclip che domina ormai su Internet e alla televisione satellitare che offre quello che si cerca? Se è solo con Ambra, mi spiace ma non ho capito.
Perdona la mail un po' lunga, i temi si accavallano. Purtroppo non ho mai occasione di parlare con te; e se c'è un motivo per cui lavoro in questa azienda è perché ne condivido i valori e perché tu ne sei amministratore delegato.
Grazie per l'ascolto,
buon lavoro e a presto!
Carlo
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