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Ingegnere per caso, lettrice per scelta, Anncleire legge troppo, anche quando non dovrebbe e ama parlare dei libri che le capitano in mano. Contattatela al seguente indirizzo: [email protected] °°°°°°°°°°°°°°°°°°
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pleaseanotherbook · 1 month ago
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Lemon di Kwon Yeo-Sun
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«La morte crea un solco profondo tra i vivi e i defunti» aggiunse Da-on in tono solenne. «La morte è li e noi siamo qua. Quando si muore, a prescindere dalla rilevanza del defunto, viene tracciata una linea infinita tra quella persona e il resto del mondo. Se con la nascita si entra nel mondo dei vivi, con la morte si viene sbattuti fuori con un semplice calcio. Ecco perché credo che la morte, con il suo recidere qualsiasi cosa per sempre, sia più obiettiva e dignitosa della nascita, che è il punto di partenza di tutto» disse Da-on con calma, come se stesse leggendo da un libro.
"Lemon" di Kwon Yeo Sun è un volumetto edito da Il Saggiatore che ho letto nel mio periodo di fissazione per i romanzi coreani, che non si è davvero spento neanche ora, ma forse ha preso un attimo una sosta. Chiunque mi conosce vagamente nella mia vita fuori dal web sa della mia ossessione per i limoni e il titolo ha da subito esercitato una forza magnetica su di me, non potevo certo lasciarlo lì, una storia sorprendente e amara.
«Per molto tempo ho cercato con fervida immaginazione di ricreare nella mia mente il secondo interrogatorio di Han Manu come se volessi incastrare dei mattoncini Lego. Il giovane era stato interrogato ben sette volte ma era questo interrogatorio quello in cui ci si era avvicinati più alla verità e alla direzione che infine avrebbe preso il caso. Ogni volta che immaginavo quell’interrogatorio, stranamente, era sempre presente un carico eccessivo di dettagli ed era come se quei piccoli e incurvati mattoncini Lego stessero cercando in tutti i modi una soluzione per incastrarsi bene. Anche questa volta è accaduta la stessa cosa. Ho scritto che l’investigatore avrebbe osservato le mani del ragazzo, pensando che non sarebbe stato necessario un colpo forte per colpire una ragazza dalla testa piccola e dai capelli morbidi e lucenti. Il dettaglio relativo ai capelli morbidi e lucenti non sarebbe stato necessario aggiungerlo ma, senza un perché, lo avevo fatto. Una testa piccola dai capelli mossi, morbidi e lucenti non avrebbe certamente modificato il fatto che era stata colpita al capo con un mattone. Anche se sono passati sedici anni sono ancora legata a quei dettagli chiari, nitidi e superflui. Non riesco a sottrarmi al ricordo perenne della bellezza di mia sorella. Proprio così. Mia sorella era di una bellezza sconvolgente. Nessuno poteva dimenticarla, anche se l’aveva vista una sola volta. La stessa estasi che si prova davanti a un foglio bianco senza scritte. Aveva diciotto anni. Chi ha strappato quel bellissimo foglio? È stato Han Manu oppure Shin Jeong-jun? E se invece fosse stata una terza persona, un perfetto sconosciuto? Adesso lo so: non chi si sia macchiato del suo omicidio, ma chi di certo non lo ha commesso. No, non è vero. So benissimo chi è stato, e il movente e il peso di questo crimine mi perseguiteranno per sempre, fino alla morte.»
Di solito mi tengo lontana dai thriller ma il fascino di un buon mistero colpisce facilmente anche me. Non c'è nulla di più sbagliato che affrontare spavaldi questo libro. La storia ruota intorno alla morte di Kim Hae-on scomparsa misteriosamente in un pomeriggio di sole con indosso un vestito giallo limone e ritrovata senza vita. Una ragazza bellissima, piena di vita, amata da tutti, la cui scomparsa sconvolge gli equilibri di chiunque intorno a lei: la sua classe a scuola, il suo ragazzo, le persone che la ammiravano, la sua famiglia e soprattutto sua sorella. Ed è lei che racconta la vicenda, è lei che anche a distanza di anni continua a cercare un colpevole che non è mai stato identificato, è lei che cerca disperatamente di trovare una verità e una pace che la eludono. Questa sorella che è sempre stata altro, che l'ha sempre subita nel confronto e nel contrasto. Non bella, non particolarmente brillante, incapace anche di costruire relazioni stabili, incerta, inquieta, abituata ad essere continuamente messa da parte anche quando aveva qualcosa da condividere. Da-on è l'immagine dell'esclusa, ma allo stesso tempo è l'unica sopravvissuta e porta sulle spalle il peso dei sogni non realizzati e della giovinezza spezzata di sua sorella. Nessuno si dà pace e ogni pagina è piena del lutto che non scompare mai del tutto, del dolore della perdita che ingrigisce i contorni della vita che va avanti. Perché inevitabilmente il tempo scorre ma si resta intrappolati nei ricordi, negli ultimi momenti in cui hai interagito con la persona amata. In un continuo flash tra il presente e le ricostruzioni, Da-on emerge con le sue idiosincrasie, paure e delusioni e la ricerca disperata di una risposta. Chi è il vero colpevole della morte di sua sorella? Cosa è successo davvero quel pomeriggio? Kwon Yeo-Sun sfrutta i molteplici punti di vista dei personaggi coinvolti nella vicenda per ricostruire la vicenda ma soprattutto per descrivere la condizione umana di chi subisce le conseguenze di questo omicidio. Ma soprattutto racconta l'incapacità di Da-on di andare davvero avanti, di superare davvero quel momento terribile. Anche quando reincontra le persone del suo passato, spera di non essere ancora associata a quella ragazzina spaventata, timida e incapace, ma non cambiamo mai davvero, al centro di noi stessi ci sono sempre gli stessi traumi, le stesse paure e le stesse idiosincrasie che hanno segnato la nostra adolescenza. Il tempo cura solo quello che gli lasciamo curare, se non lo lasciamo andare il risentimento resta ancorato alle nostre mani e alla nostra memoria senza lasciarci mai liberi.
Il particolare da non dimenticare? Il motorino per la consegna a domicilio...
Un thriller pieno di contraddizioni e mistero, immerso nel rimorso e nel lutto, in una ricerca estenuante di un colpevole che si nasconde abilmente tra le pagine del libro e nei ricordi della protagonista. Del limone ha il gusto aspro e forte e la smorfia che ti lascia dopo averlo finito, e soprattutto quella sensazione di calmo sgomento che si presenta di fronte alla letteratura coreana. 
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 2 months ago
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Racconti made Safarà: una breve selezione di libri di altro genere
Come racconto sempre Safarà Editore è una delle mie case editrici preferite, sono infatti legata alla loro esperienza editoriale fin dai loro esordi e mi ha sempre colpito per le scelte dei volumi da pubblicare, le cover, la comunicazione. Mi piace scoprirne le storie e le novità e allargare la mia collezione è una cosa che faccio sempre molto volentieri, soprattutto quando si tratta di raccolte di racconti, ecco quindi che vi parlo delle ultime che ho recuperato e che ho letto innamorandomi ancora una volta del fantastico, del realismo magico, di creature impossibili e di luoghi incantati e da sogno:
- L'azione di Sara Mannheimer 
- Corteo d'ombre di Julian Rios 
- Jagannath di Karin Tidbeck
- La cattedrale di nebbia di Paul Willems 
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Una donna vaga per le stanze della sua casa, affascinata prigioniera di un’immensa biblioteca che contiene una collezione completa della letteratura di tutti i tempi. Le stanze ricolme di lussureggianti scaffali si susseguono infinite, i dorsi dei libri rivolti contro di lei: un luogo spaventoso e invitante. Magia e realismo si intrecciano nella scrittura poetica e leggera di Sara Mannheimer, che riesce a rappresentare la fragilità spesso ben celata della vita quotidiana cancellando il confine sottile tra realtà e immaginazione in una prosa che dispiega il potenziale di infiniti universi narrativi. Sarà infine il dolore segreto della protagonista a essere la chiave di interpretazione del suo ostinato e furioso leggere: le linee nette tra vita e finzione diverranno sempre più sfocate, per aprirsi infine alle possibilità più indisciplinate e sorprendenti del connubio tra vita e letteratura.
"L'azione" di Sara Mannheimer mi è stato regalato dalla mia adorata Lorena di Petrichor che me lo ha recuperato dallo stand di Safarà al Salone del Libro e mi ha subito affascinato da questa copertina con una donna stilizzata a metà tra una scultura e un disegno e un libro in mano. E già dall'immagine con cui si presenta al mondo questo libro riassume gli elementi salienti della storia che contiene. Un testo di realismo magico, questo genere complesso e senza tempo, collocato in uno spazio immaginario ma che si muove da elementi estremamente reali, che si interroga sulla solitudine e la vita. Non c'è spazio per spegnersi tra le pagine di un libro, non c'è spazio per disilludersi quando le storie prendono vita. La protagonista del libro si racconta, nel corso di un anno intero, attraverso le pagine di un libro, con il tramite di un saggio, protagonista anche lui tanto quanto i personaggi che si succedono. Fuori le foglie ingialliscono, cadono e tornano a rinverdire e intanto ci si avventura nel mondo interiore della donna che racconta e nel lirismo e nella magia ci si riscopre a capire che non è solo l'azione che popola questa storia, ma soprattutto l'emozione che si nasconde dietro la sua esecuzione. La letteratura come mezzo e come scopo, d'altronde la biblioteca per un lettore è il luogo più sicuro che esista. 
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Alla fine degli anni Sessanta, Julián Ríos iniziò a lavorare a quello che sarebbe stato il suo primo romanzo, ma temendo che non avrebbe superato la severa censura spagnola sotto la dittatura di Franco, decise di non presentarlo a nessun editore. Presto distratto da quello che sarebbe stato il suo progetto più grandioso, il manoscritto fu messo da parte e dimenticato, finché l’autore non l’ha ritrovato quasi cinquant’anni dopo, intatto nella sua forza. "Corteo di ombre" è una ballata intrisa di storie indimenticabili il cui epicentro è una suggestiva evocazione della Galizia, tra le mura immaginarie di Tamoga: una città di confine, custode di gelosie e rancori, luogo di rappresaglie e vendette tramandate di generazione in generazione, teatro delle infinite varianti dell’odio e dell’amore.
"Corteo d'ombre" di Julian Rios è un romanzo inaspettato, interessante quanto la sua genesi: rimasto nascosto per anni e anni in un cassetto, ha visto finalmente la luce per regalare al lettore una storia fatta di intrighi, intrecci e scoperte. Al centro Tamoga una città fittizia nel cuore della Galizia che diventa tanto protagonista quanto i personaggi che si muovono per le sue strade e le sue abitazioni. Tamoga è il riassunto di un fondamentale concetto umano di condivisione, ma anche l'amara consapevolezza di vivere parallelamente tante storie, senza incontrarne mai davvero qualcuna. Un messo viaggiatore che sembrerebbe di passaggio, ma che di certo ha molti più affari a Tamoga che altrove, con una valigia in mano pesantissima e il cuore che fa le bizze. Una vecchia donna che passa la vita a guardare ritratti di famiglia, con la vita che le scorre davanti, intrappolata in un passato di ombre e incertezze, incapace di spezzare il filo che la unisce alle persone che ama. Un ribelle inseguito in lungo e in largo, in una caccia all'uomo che si dirama sperando in una salvezza che non arriva mai, affacciato su un dirupo che preannuncia la fine prima ancora che sia decisa davvero. Un matrimonio allo sfascio in una casa divisa e apparentemente inconciliabile ma poi il notaio, il dottore, il fabbro, ogni maestranza non è semplicemente una comparsa ma il pezzo di una gigantesca scacchiera che si muove tra i ciottoli di Tamoga, in un gioco surreale di specchi e rimandi che si allaccia inevitabilmente di fronte al lettore sbigottito. 
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Creature dalla nascita enigmatica, centralinisti in contatto con l’Inferno, immense donne avviluppate nei paradossi di un giardino senza tempo: questi sono solo alcuni dei protagonisti che abitano gli infiniti universi di Jagannath, in cui accelerazioni futuristiche ed echi ancestrali convivono seguendo orbite inconsuete. Ciascuno di essi manifesta l’esistenza di mondi dalle leggi seducenti e impossibili che si riveleranno pienamente solo a una condizione: abituare gli occhi alla vista di tutto ciò che è pensabile – e perciò possibile.
"Jagannath" di Karin Tidbeck è il secondo libro che leggo dell'autrice dopo Amatka che avevo molto amato e di cui avevo assistito anche ad una presentazione. Immergermi nei suoi racconti è stata una bella esperienza che mi ha dato modo di scoprire molto e di capire che il fantastico ha infiniti modi di esprimersi. I racconti inizialmente pubblicati da Ann e Jeff VanderMeer sono il perfetto connubio di magico e incredibile, straordinario e indefinibile in una girandola di creature che non si possono riconoscere e che a volte emergono direttamente dagli incubi. La Tidbeck disegna in maniera perfetta l'amore di un uomo per un dirigibile, un centralino che si collega direttamente con l'inferno, una marmellata, delle zie, la stessa Jagannath del titolo, sono la continuazione di una esplorazione di un universo che regala continuamente una nuova prospettiva. Che sia sottoforma di lettera che sia in una prosa classica, che sia in una sorta di monologo interiore che capovolge le regole della comunicazione ogni racconto sviscera il rapporto con un qualcosa di estraneo. Il diverso che ci spaventa tanto diventa tangibile e soprattutto vive e cresce dentro di noi. A volte sembra di muoversi tra le pagine di un bestiario, uno bazar di un collezionista eclettico, la rappresentazione visiva di un habitat multisfaccettato, ma ogni incontro, ogni creatura, ogni personaggio impone al lettore una pausa per apprezzarne ogni sfumatura.
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Pubblicate per la prima volta in francese nel 1983, le pagine de La cattedrale di nebbia distillano narrazioni eteree ambientate in un’Europa ancestrale, dove foreste diafane custodiscono architetture impalpabili che si dissolvono al sole per riassumere forma al crepuscolo – in una narrazione evanescente che propaga un fascino rarefatto e inesauribile. La raccolta include due saggi di tradizione proustiana, Leggere e Scrivere, che attraversano i mille perché della lettura e della scrittura offrendo un sentiero di esplorazione privilegiato per chiunque voglia inoltrarsi nella foresta di Houthulst e seguire le tracce sfuggenti che conducono alla leggendaria cattedrale di nebbia.
"La cattedrale di nebbia" di Paul Willems mi ha colpito immediatamente sia per il titolo, incredibilmente evocativo, sia per la copertina, è universalmente riconosciuto che io amo in maniera viscerale le costruzioni gotiche, quelle cattedrali che si stagliano verso il cielo con le guglie altissime, che si allungano verso il sole nella speranza di afferrarlo. Questa immagine viene racchiusa anche all'interno delle pagine di Willems che con le sue parole cerca di imprimere nella mente del lettore un'atmosfera eterea , sobria, delicata che sfugge alla materialità. Ambientato per le strade dell'Europa del Nord dove l'aria si fa rarefatta e le immagini si congelano nel freddo. In mezzo alla foresta emerge quindi la cattedrale di nebbia del titolo, ma i racconti richiamano tutti una certa sorta di misticismo inquieto dove il sangue e il corpo diventano centrali. Ma il tema centrale di tutti i racconti rimane il viaggio, sia l'atto di salire su un mezzo di trasporto e muoversi nello spazio per raggiungere una meta che la possibilità di sfuggire alla quotidianità della propria routine e scappare con la mente verso un altro luogo, altri pensieri, altri razionali. I personaggi non sono mai ancorati nel tempo e nella terra, ma sembrano quasi librarsi nel vuoto della scoperta che si nutre degli atti di "leggere" e "scrivere". Non esiste una mappa, una chiave di decodifica, ma solo le congetture del lettore che si avvicina timoroso ai luoghi incerti ed eterei che Willems descrive e la sensazione onirica di muoversi in un sogno. 
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pleaseanotherbook · 2 months ago
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Yellowface di R.F. Kuang
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Ma Twitter è la vita reale; è più reale della vita stessa, perché è il regno su cui poggia l'econima sociale dell'editoria, dato che questo settore non ha alternative. Offline gli scrittori sono tutte ipotetiche creature senza volto che macinano parole in assoluto isolamento. Non puoi sbirciare dietro la spalla di nessuno. Non puoi mai sapere se gli altri se la passano cos' bene come dicono. Online, invece, puoi sintonizzarti su tutti i pettegolezzi più scottanti, anche se conti meno di niente e certi mondi sono lontani anni luce dal tuo. Online puoi scoprire che la star letteraria del momento è in realtà così controversa che al sua intera opera dovrebbe essere cancellata una volte per tutte. In editoria le reputazioni vengono costruite e distrutte in continuazione, online.
"Yellowface" scritto da R.F. Kuang, la stessa autrice di Babel, è uscito in italiano per Mondadori ed è entrato subito nelle mie cose da leggere, sia perché volevo leggere altro della Kuang sia perché la trama mi aveva affascinato fin dalla prima lettura. Questa cover gialla che spicca dagli scaffali della libreria poi mi ha irretita subito. E devo dire che si tratta di una storia molto interessante che cerca di raccontare alcuni dei retroscena che si nascondono dietro l'editoria e la fama. 
Juniper Song ha scritto un libro di enorme successo. Però forse non è esattamente chi vuole far credere di essere. June Hayward e Athena Liu, giovani scrittrici, sembrano destinate a carriere si sono laureate insieme, hanno esordito insieme. Solo che Athena è subito diventata una star mentre di June non si è accorto nessuno. Quando assiste alla morte di Athena in uno strano incidente, June ruba il romanzo che l'amica aveva appena finito di scrivere ma di cui ancora nessuno sa nulla, e decide di pubblicarlo come fosse suo, rielaborato quel tanto che basta. La storia, incentrata sul misconosciuto contributo dei cinesi allo sforzo bellico inglese durante la Prima guerra mondiale, merita comunque di essere raccontata. L'importante è che nessuno scopra la verità. Quando però qualcosa comincia a trapelare, June deve decidere fino a che punto è disposta a spingersi pur di mantenere il proprio segreto. Un romanzo spassosamente tagliente che parla di diversità, razzismi, privilegi e appropriazione culturale. E dei limiti che non si dovrebbero mai superare.
Juniper Hayward è la protagonista di questa storia, una scrittrice mediocre, alla ricerca del successo letterario che le è sempre rimasto a portata di mano, ma mai raggiunto davvero. Una di quelle ragazze piene di sogni, che si avvicinano a lettere all'università, che riversano sulla pagina i propri desideri, ma che sembrano non fare mai abbastanza. Cercano in ogni modo di segnare la loro vita, alla ricerca di una svolta, ma sembrano destinate a rimanere nei meandri di chi non ce la fai mai davvero. La delusione e la frustrazione l'accompagnano in ogni mossa, soprattutto perché davanti a sè l'esempio fulgidissimo della sua compagna di università Athena Liu. Acclamatissima dalla critica, idolatrata dai lettori, Athena è il simbolo di chi ce l'ha fatta. Le sue storie sono piene di pathos e di tensione, e lasciano sempre il segno. Diventata famosa, Athena ha accesso a tutto quello che vorrebbe anche Juniper: gli inviti agli eventi, alle conferenze, nelle scuole, nelle librerie, tour in giro per l'America, contratti per la cessione dei diritti cinematografici, la sicurezza economica. Juniper vive di riflesso, in un rapporto tanto modesto quanto conflittuale con l'amica di sempre. Amica più per abitudine e convenienza che per reale affetto. Tutto sembra artefatto, incerto, condito dall'invidia di chi non ce l'ha mai fatta. Ma più si va avanti nella lettura, più veniamo a conoscenza di chi era Athena per Juniper. 
Mentre per il mondo la loro amicizia viene idealizzata e posta su un piedistallo: la condivisione delle idee e dei processi di scrittura, il brainstorming per le storie, la visione del mondo complementare, nel privato Juniper smonta ad uno ad uno i successi di Athena. Athena non era una santa, non era la paladina delle donne asiatiche, non era la rappresentazione del talento letterario. Quando Juniper decide di appropriarsi del lavoro di Athena lo fa convinta di renderle un favore, lo fa con l'occhio di chi crede di essere nel giusto. Athena non è perfetta, Athena non aveva reso giustizia alla storia, Athena non è la vera proprietaria del libro. Juniper non ha "rubato" un manoscritto, Juniper ci racconta di come ha preso un embrione di un racconto e lo ha reso un libro di successo. E questo rende tutto più complesso, la questione rilevante è cosa considerare plagio? Cosa considerare proprietà intellettuale? Il lavoro della protagonista della Kuang dove arriva a sorpassare quello originale? Ma si sa che la fama da alla testa, che si vuole sempre di più, che replicare le condizioni fortuite è impossibile, ma Juniper non si arrende, non può vivere ancorata al fantasma di Athena per sempre, è una entità separata, ha il suo potenziale, le sue storie da raccontare, la sua vita da vivere. L'ansia e la paranoia si accompagnano quindi alla scoperta dei dietro le quinte del successo, più si va in alto, più sembra tutto perfetto, ma dietro la facciata smagliante e di successo le ombre si accumulano. La capacità della Kuang di dipingere le emozioni e le contraddizioni di Juniper si unisce ad un ritmo serrato e il lettore resta invischiato nel racconto senza capire bene cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Il grigio del plagio si unisce alla gioia del successo di una scrittrice che finalmente ce l'ha fatta, e ogni passo in avanti è un mattone di un castello di carte che può crollare da un momento all'altro. Tra un successo e un altro però la Kuang si interroga anche di appropriazione culturale e di razzismo. Le pagine che scrive Juniper infatti sono ritagliate sulle sofferenze di un popolo che non le appartiene, a cui da voce senza apparentemente nessun credito. Il lettore viene posto di fronte alle sue scelte continuamente messe indiscussione da chi quelle esperienze le vive sulla pelle con le limitazioni e le discriminazioni che la protagonista di questo libro può solo immaginarsi. Tutto si somma alle critiche asprissime di una storia che diventa di dominio pubblico, che si accresce dal successo del pubblico, ma che poi diventa un'arma contro la minoranza che dovrebbe celebrare.
Il particolare da non dimenticare? Un taccuino... 
Una storia piena di colpi di scena e di emozioni contrastanti, che mettono in discussione il lettore, anche quando vorrebbe solo condannare la protagonista. La storia della Kuang penetra per le sue contraddizioni, per la comprensione che si vuole estendere e l'infiammarsi del buon senso, in un vortice narrativo che lascia incollati fino all'ultima pagina. 
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 3 months ago
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Breve elenco di retelling mitologici
Nella mia vita ho sempre attraversato delle fasi, delle grandi ere, oniriche, totalizzanti, incerte, come quelle di Picasso, in cui fissarmi con un qualcosa diventa impellente. Non importa il soggetto l'ossessione nasce prima lenta, poi coinvolge ogni aspetto e finisco per leggere sempre di più sull'argomento, fino ad arrivare ad un punto in cui mi ritengo soddisfatta delle conoscenze che ho acquisito e semplicemente passo ad altro. Fin da ragazzina quindi il mondo della mitologia greca e romana ha sempre rivestito un ruolo importante nelle mie letture e nei miei approfondimenti, anche la letteratura greca e latina mi hanno affascinato al liceo, leggere di Omero e Virgilio non era mai un obbligo. Lo sforzo richiesto per le traduzioni di latino era inversamente proporzionale alla noia che sentivo durante le spiegazioni del mio prof di italiano e latino. Ora anche se non è uno dei miei argomenti principe, e anzi spesso non è proprio la prima cosa che mi capita in mano, pure mi lascio incantare dai retelling. I retelling sono delle interpretazioni che gli autori fanno di un determinato mito (fiaba, tema, leggenda, storia) e delle sue principali caratteristiche, in varie chiavi o cambiando il punto di vista sulla vicenda, magari raccontando le vicissitudini di personaggi secondari, o cambiando il setting, magari mettendolo in un contesto più moderno o semplicemente approfondendo episodi che non sono mai stati narrati o solo accennati nel mito originale. 
Ecco quindi una selezione di alcuni degli ultimi retelling che ho letto, vi avevo detto che ho diverse recensioni in ballo. In particolare mi riferisco a: 
Il canto di Calliope di Natalie Haynes
Galatea di Madeline Miller 
Lavinia di Ursula L. Le Guin 
Orfeo. Sogno e morte di Luca Tarenzi 
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Una donna sola corre nella notte, intorno a lei la sua città che brucia. Fuori dalle mura, la regina e altre sventurate attendono un destino che verrà deciso dai vincitori. È la caduta di Troia. Dieci interminabili anni di guerra sono giunti alla tragica conclusione, mentre le avventure dei protagonisti andranno a ispirare, nei secoli a venire, le opere di artisti e scrittori. «Cantami o Musa» invoca il sommo poeta Omero, che ha raccontato le gesta degli eroi. Ma Calliope, musa della poesia epica, questa volta è meno accomodante: è convinta che non tutto sia stato narrato, che qualcosa di fondamentale, legato alle figure femminili, manchi ancora per completare l’affresco. Se il bardo vuole che lei canti, allora lei canterà insieme a tutte le donne coinvolte nella grande tragedia. Dando voce a ciascuna di loro, Calliope prende in mano la storia e ce la racconta da una nuova prospettiva. Ecco Andromaca, Cassandra, Pentesilea, Clitennestra, che vengono alla ribalta, con i loro pensieri, con i complicati risvolti psicologici delle loro scelte, con la sete di vendetta, la solitudine, la dignità di fronte alla morte. E poi tutte le altre, da Penelope a Briseide, da Creusa a Ifigenia, dalle troiane che, vinte, saranno rese schiave, alle greche che attendono il rientro dei loro uomini, senza dimenticare le capricciose divinità che governano le sorti dei mortali. Attingendo alle fonti antiche, anche le meno note, Natalie Haynes rivisita una delle più grandi narrazioni di tutti i tempi, facendoci palpitare di commozione accanto alle leggendarie eroine, e trasmettendoci il sentimento vivo di come la guerra di Troia e la sua epopea appartengano alle donne non meno che agli uomini.
"Il canto di Calliope" di Natalie Haynes edito in italiano da Sonzogno, parte dal presupposto che la voce delle donne nella narrazione della guerra di Troia sia stata messa da parte, in favore delle gesta epiche degli eroi che ne hanno determinato le sorti. Calliope, Musa della Poesia, nella visione della Haynes non può restare indifferente e si fa portavoce delle storie di queste donne, che hanno vissuto e sofferto al pari degli uomini. La Haynes quindi recupera fonti varie e disparate, alcune anche poco conosciute per mettere insieme una storia corale che rifugge al mero atto di guerra e che si può quasi considerare una raccolta di racconti, tutti accomunati dagli eventi e dal luogo, ma ognuno con le proprie peculiarità.  La guerra di Troia è una storia di uomini, con gli scudi e le spade tratte, ma è anche una storia di donne. Penelope scrive lettere al marito, nell'attesa del ritorno di Odisseo ma tiene testa ai "Proci" che la circondano, le troiane che cantano un assedio che non finisce più, Criseide, la figlia del sacerdote, che nonostante la devozione nasconde un mondo interiore senza pari. La solitudine spaventosa che le accompagna si fa luce con tutti gli alti e i bassi di vite diversissime ma tutte accomunate dal sacrificio. Voci di donne troppo spesso tenute in silenzio. 
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Galatea, la statua che la dea Afrodite ha reso viva in uno slancio di benevolenza verso Pigmalione, il grande scultore greco, è ora una donna a tutti gli effetti: la sua bellezza uguaglia, o probabilmente supera, quella della marmorea opera d’arte del suo creatore. Dopo averla presa in moglie, l’uomo pretende che lei lo ripaghi incarnando altissime virtù di obbedienza e umiltà, assoggettandosi al suo desiderio. Così, per quanto Galatea provi un sottile piacere nell’usare la propria avvenenza per manipolare lo sposo, in lei comincia a farsi strada un sentimento di ribellione. Nell’ossessiva speranza di fermarla, il marito la tiene sotto stretta sorveglianza in una clinica, controllata da dottori e infermiere. Ma quando le nasce la figlia Pafo, in Galatea si desta un vigile istinto materno, pronto a esplodere al primo segno di pericolo. Ormai è troppo tardi per ostacolare la decisione di spezzare le catene della prigionia, costi quel che costi. Da Ovidio a Goethe al noto Pigmalione di George Bernard Shaw, il mito a cui si ispira questo racconto ha sedotto i lettori nei secoli: Madeline Miller ce lo ripresenta con la sua tipica sensibilità, in una chiave che si muove tra tempo antico e contemporaneo, proponendoci un ribaltamento di prospettiva che ci induce a riflettere su come leggiamo e rileggiamo le storie. Il volume è impreziosito dalle illustrazioni di Ambra Garlaschelli che, nell’interpretare la prosa dell’autrice, costruiscono a loro volta un ipertesto potente, iconico, poetico e lucidamente attuale.
"Galatea" è un retelling scritto da Madeline Miller più famosa forse per "La canzone di Achille" e "Circe". In un'edizione per Sonzogno illustrata dai toni onirici e vagamente surreali la Miller prende la storia di Galatea e la ripropone al lettore in una prospettiva del tutto nuova. Galatea è il nome della statua del mito di Pigmalione narrata nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Pigmalione aveva deciso di non sposarsi e di consacrare la sua vita all'arte e alla scultura e la sua opera più importante era una statua di avorio, con le fattezze della sua donna ideale. La scultura era così bella che il suo creatore se ne innamorò perdutamente, trascorrendo le sue giornate ad adularla e a riempirla di baci e facendole indossare gioielli e vestiti. Folle d'amore pregò la dea Afrodite di darle la vita e renderla sua sposa, e la dea intenerita decise di esaudire il suo desiderio, rendendo viva la statua. Il mito si tinge di sgomento nella versione della Miller che dipinge la vicenda di una luce oscura, ritraendo Pigmalione come un uomo accecato dalla ricerca della perfezione, e risentito dalla vita che scorre nelle vene di Galatea. La donna diventa il pretesto per sfogare tutta la sua frustrazione di fronte all'imperfezione della natura e della vita umana e Galatea sconta tutto. Rinchiusa in una stanza senza possibilità di fuga è costretta a subire le angherie di un uomo con tutto il potere dalla sua parte. Troppo bella per passare inosservata passeggiando per le strade della città, Galatea è innocente, ma vittima di un sistema che la vuole vigile e sveglia solo in certi momenti e nel resto del tempo dovrebbe essere solo un soprammobile. Nonostante la brevità un colpo al cuore, che induce alla riflessione, anche l'arte può diventare un'arma nelle mani sbagliate. 
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Unica figlia del re latino, la giovane Lavinia è corteggiata da Turno, re dei Rutuli. Il suo destino però è quello di sposare il principe esule venuto dall'Oriente, Enea, e da lui generare una stirpe che governerà il mondo. Un legame da cui nascerà un impero, ma al prezzo di un conflitto sanguinoso. Nonostante sia un personaggio cruciale nell'Eneide, in tutto il poema Lavinia non pronuncia una sola parola. Duemila anni dopo, finalmente Ursula Le Guin restituisce la voce alla principessa italica. Prendendo in mano la propria sorte, la giovane svela ciò che Virgilio ha la storia della sua vita, l'amore della sua vita. Lavinia è una rilettura attuale ed emozionante degli ultimi sei libri dell' un romanzo di austera bellezza che, come la migliore epica classica, parla di guerra e di passioni, intessendo un racconto ricco di dettagli e immaginazione, premiato con il Locus nel 2009.
Di Ursula L. Le Guin avevo già letto "La mano sinistra del buio" una storia di fantascienza ambientata in un pianeta di ghiaccio che mi aveva molto inquietata "Lavinia" però mi aveva incuriosita perché l'ultima versione uscita per Mondadori ha una coperta dai riflessi viola metallizzati che mi aveva molto colpita. E poi ho iniziato a leggere. La Le Guin ha un'estrema maestria nelle descrizioni, con pochi piccoli dettagli ricostruisce una scena e il lettore resta immerso nelle atmosfere e nei paesaggi. Anche in questo caso il Lazio di un'epoca lontana tra il mito e la realtà viene restituito alla pagina a partire dalla minuziosa opera di ricerca e approfondimento della scrittrice e dalla sua immaginazione e lascia nel lettore l'idea che sia estremamente verosimile. Lavinia per tutti è la moglie di Enea, che per Virgilio è l'eroe troiano da cui sono nati Roma e il Lazio, ma di Lavinia non si conosce molto, se non vaghi accenni e in tutto il poema non pronuncia una sola parola e con questo libro la Le Guin cerca di porre rimedio alla mancanza. Lavinia è l'unica figlia del re Latino del Lazio e sembra destinata a grandi cose. Cresciuta in un ambiente protetto, ha avuto un'infanzia piuttosto felice in mezzo alle colline, nei boschi, circondata dalle tradizioni della sua casa e da servitori fedeli. Ma la sua libertà non può durare a lungo, il matrimonio è dietro l'angolo e la sua mano è molto ambita, i pretendenti che arrivano alle porte di Latino cercano alleanze e visioni, in un mondo in cui le guerre hanno un ruolo tanto importante quanto le combinazioni della nobilità.  Lavinia però ha le idee chiare, ha avuto una visione e sa cosa deve fare, deve solo tenere duro per non farsi sommergere dagli eventi e da chi le vuole mettere i bastoni tra le ruote. Non è facile destreggiarsi tra chi la vuole sottomettere, ma la sua determinazione la porterà lontano. Non solo di fronte a Enea, un uomo pieno di passione e forza, con un fascino indiscutibile e il carisma di chi trascina i suoi uomini avanti a colpi di parole ed esempi in prima persona, ma di fronte ai suoi nemici per proteggere chi ama. Caparbia e volenterosa è uno di quei personaggi che non si perde d'animo e che preferisce stare da sola che a nascondersi dietro falsi sorrisi in mezzo alla scena, ma ciò che colpisce di più è proprio la sua visione di insieme, la sua capacità di andare oltre le apparenze e gestire un uomo, un eroe con un nome più grande di tutto. 
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Mediterraneo orientale, XIII secolo a.C. Orfeo è il figlio illegittimo di un re della Tracia, cresciuto senza conoscere l'identità della madre, privo dell'affetto del padre e disperatamente innamorato della sorella acquisita, Euridice. Una notte, nel tentativo di sottrarsi a un matrimonio combinato, Euridice fugge dalla fortezza in cui abita. Orfeo la insegue e, poco dopo, i due si imbattono in una banda di satiri, uomini selvaggi che venerano il dio Dioniso. I satiri però non fanno loro del male: Marsia, il loro capo, è il fratellastro di Orfeo che anni prima ha abbandonato il padre e il titolo di principe. Tramite Marsia anche Dioniso si incuriosisce nei confronti di Orfeo, e ordina ai satiri di istruirlo nelle loro arti sciamaniche. Mentre Euridice viene rinchiusa nella fortezza dal re per impedirle di scappare ancora, Orfeo scopre un insolito talento per le arti soprannaturali e, tra i tanti prodigi, impara ad abbandonare il proprio corpo per entrare nei sogni di altri. Un racconto brutale, lirico, violento e appassionato di magia, amore eterno e ribellione contro il destino.
Il mito di Orfeo è forse uno dei più ripresi e dei più riscritti perché ha la capacità di plasmarsi a qualsiasi estro che può arrivare ad uno scrittore. In "Orfeo. Sogno e morte" di Luca Tarenzi edito da Giunti si segue la strada classica, ma non per questo meno affascinante che porta a scoprire ogni perché delle azioni di Orfeo. In questo primo volume della storia Tarenzi immagina di seguire Orfeo dai suoi primi passi e ce lo rappresente immerso nel cuore della Tracia, dove è nato da un re illegittimo, fragile e impaurito che cerca i mezzi per proteggere Euridice, la ragazza di cui in fondo è innamorato da sempre. Il mito si fonde con la magia in un mix che incanta il lettore e lo porta alla scoperta dei Satiri e del culto di Dioniso e dal lato opposto a quello di Apollo. Orfeo inesperto e ingenuo, incredulo e vagamente codardo, si ritrova suo malgrado in mezzo alla seduzione operata dalle due divinità, accecato da un sentimento più forte di lui. Tutte le sue scelte, poco ponderate, sono dettate dall'amore per Euridice e dalla sua impazienza di fronte alle sventure. Abilissimo nelle arti magiche che gli tramanda Marsia, Orfeo diventa un punto di riferimento e il punto debole degli scontri, ma soprattutto è incapace di vedere la visione di insieme, bramoso di riuscire, finisce per strafare e diventare la vittima perfetta delle vicende e delle brame degli dei. Non si può sfidare una divinità e pensare di salvarsi indenni, mettere sul piatto qualcosa da scambiare diventa inevitabile e il costo è altissimo. La bravura di Tarenzi resta nelle ambientazioni e nelle ricostruzioni minuziosissime di luoghi e situazioni del XIII secolo a.C., di quel Mediterraneo Orientale culla di miti e leggende, di personaggi grandiosi e di storie terribili che fanno da illuminante monito per chiunque tenti di andare oltre e di muoversi al di là delle sue possibilità. 
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pleaseanotherbook · 5 months ago
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Il 2024 di Please Another Book
Il 2025 è iniziato da qualche giorno e io sono qui a chiedermi dove sia finito il 2024, che fine abbiano fatto tutti quei mesi di passi avanti, sacrifici, ansia e soddisfazione che mi sono scivolati dalle mani con la velocità del fulmine. Più ci penso più per me è strano realizzare che nell'età adulta il tempo vola, e diventa difficile afferrarlo e razionalizzarlo. Come sia possibile che sia scoccata la mezzanotte su un nuovo anno proprio non me lo so spiegare. 
Il 2024 è stato un anno che mi ha sconvolto sotto molti punti di vista e che mi ha dimostrato quanto io riesca a cavarmela da sola. L'immensa idea di essere una persona indipendente che non chiede aiuto se non quando è proprio completamente messa alle strette, è più reale di quanto immaginavo. Avevo degli obiettivi per il 2024 e credo di essere riuscita a realizzarli. La conquista più grande sicuramente quella di avere un posto tutto mio in cui vivere, da piangermi e godermi da sola, ma che nessuno, in teoria può portarmi via. Tornare a "casa mia" in un modo che prima non potevo fare completamente, ha rivoluzionato il mio modo di pensare. Stento ancora a crederci, ma ce l'ho fatta. Capire come funzionano certe cose burocratiche, la ricerca ossessiva a pochi passi da dove ho vissuto negli ultimi otto anni, avere a che fare con tecnici e maestranze, avere l'ansia per qualsiasi cosa è diventato un po' più facile e un po' più difficile allo stesso tempo. 
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Nel 2024 non mi sono fermata neanche con il percorso che mi ha permesso non solo di perdere peso ma che ha cambiato completamente anche il mio approccio alla vita. Mi sono sempre considerata una persona pigra, che preferiva stare sul divano a leggere o oziare e invece mi sono riscoperta in grado di fare tante cose, fare i devil press con 20kg di pesi, camminare in montagna in condizioni anche precarie, passeggiare per chilometri senza sentire stanchezza, trasportare pacchi e pesi di vario genere per il trasloco senza soffrire. Essere attiva è in effetti una prova contro me stessa, il concretizzare il senso di sfida a fare di più e meglio, il formicolio alle gambe dello sforzo, le vertigini che cercano di fermarmi, le salite che spezzano il fiato, la sensazione di essere in cima alla vetta e di aver superato tutti gli ostacoli, la vittoria di aver sollevato quei pesi sopra la testa in equilibrio precario con il core attivato. Non riconoscere il mio corpo che cambia e vedere i vestiti che diventano più larghi e le taglie che tiro su nei negozi diminuire è un qualcosa che non ho ancora completamente accettato e sono qui che mi chiedo quando succederà davvero, quando non mi sentirò e non mi vedrò più come la persona che ero tre anni fa. Sto aspettando di rendermi conto che ora sono cambiata, che sono diversa, che il posto che occupo nello spazio fisico è diminuito, ma la mia testa mi dice ancora che non lo sono davvero, che basterà un niente per portarmi indietro, che ci vorrà pochissimo per distruggere tutto. Fare pace con me stessa e il mio corpo è forse uno degli obiettivi di quest'anno. Spero di farcela. 
Gennaio comunque è iniziato con una Camminata nel parco della Mandria a Venaria, in un percorso piuttosto semplice, tutto in piano, ma mediamente lungo, che è già diventato tradizionale e che si è concluso con una incredibile zeppola alla crema ed è stato condito da chiacchiere e risate come al solito.  Sono stata a Milano a visitare la prima mostra dell'anno, quella di Van Gogh al Mudec una mostra molto interessante su aspetti inediti del pittore olandese che mi ha messo ancora più voglia di visitare il museo a lui dedicato ad Amsterdam. Ma non è finita lì perché siamo state anche a visitare Mirò al Mastio della Cittadella dopo una fila chilometrica al freddo in una immersione di colori e suggestioni, nonostante le didascalie non sempre precisissime. Poi siamo stati anche a vedere Turner a Venaria uno dei miei artisti preferiti e io mi sono persa, rimasta in fondo alla compagnia, a contemplare estasiata e in silenzio "Ulisse che scernisce Polifemo", pazzesco, quei cieli pazzeschi dalle mille sfumature in cui perderci. Non poteva mancare un giro nel nostro spazio espositivo. Siamo state a visitare André Kertész alla Camera, una mostra molto bella. L'uso di un contrasto altissimo che mette in risalto i soggetti e sfuma lo sfondo e quelle distorsioni che squarciano la pellicola rendono le foto di Kertész di una forza molto interessante. D'altronde Henri Cartier-Bresson ha affermato che tutto quello che è stato fatto dopo era già stato fatto da Kertész. 
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A febbraio ho visitatoThe Circle a Gallerie d'Italia una mostra fotografica molto interessante su cosa si può fare per istituire un circolo virtuoso all'interno di industria, artigianato, produzione di energia, riciclo, riutilizzo, nella forma più perfetta che esista, il cerchio. Ingegno è possibilità per un futuro più sostenibile. Ma il vero evento è stato il viaggio delle Merendine al completo a Bruxelles. Di Bruxelles io parlo sempre con la nostalgia dei vent'anni e dell'Erasmus, una delle cose di cui parlo più spesso, perché quei sei mesi che ho passato lì hanno completamente cambiato me e la mia vita e forse tra i più felici di sempre. Dieci anni fa ( D I E C I  A N N I  C O S A? ) arrivavo per la prima volta in questa piazza, Grand Place, e me ne innamoravo a prima vista, con un trasporto che riconosco per poche altre città. Non immaginavo cosa sarebbe successo, quel progetto di protesi su cui ho perso la vista, la compagnia di persone che mi hanno donato tanto, il salto nel buio da sola lontana da casa per la prima volta, un'esperienza che è nel mio cuore e non se ne andrà più. Tornarci con le mie amiche poi è stato forse il regalo più bello di tutti, rivedere questi posti e ripercorrere i miei passi: mangiare di nuovo le patatine di piazza Flagey, bere la birra del Delirium, mangiare la carbonade, guardare lo skyline da Mons des Artes, visitare Saint Gilles e tutto il giro del Liberty che ho messo in piedi incrociando mille mappe e mille siti e innamorarmi di nuovo di Victor Horta. Bruxelles è bella come me la ricordavo e sono grata per esserci tornata e averla riconosciuta mia proprio come allora.
A febbraio abbiamo anche mantenuto la promessa con noi stesse e affrontato la tradizionale camminata alla Sacra di San Michele in un percorso che passando dai laghi di Avigliana ci ha fatto percorrere più di 40000 passi e ci ha lasciate abbastanza distrutte. Siamo anche state a visitare una mostra su Hayez alla GAM una selezione molto interessante delle opere dell'artista. Nato a Venezia nel 1791 ha viaggiato molto e si è poi stabilito poi a Milano dove ha lavorato alla maggior parte della sua produzione. Famosissimo per "Il Bacio", conservato alla pinacoteca di Brera, utilizzato tra l'altro per la pubblicità dei baci Perugina, è un autore eclettico influenzato da Tiziano, di cui richiama i colori. Sicuramente i soggetti lasciano sempre intendere altro, in primo piano sembra esserci una storia e sullo sfondo se ne richiama un'altra, come se l'ombra celasse un arcano da svelare. Dice e non dice in un gioco di prestigio in cui ogni gesto è un doppio che va osservato attentamente.
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Anche marzo è stato un mese all'insegna dell'arte e delle visite, prima tra tutte quella a Casa Martini a Pessione molto interessante, è stato un po' come scoprire da zero qualcosa che conoscevi già ma di cui di fatti non sapevi niente. Magari sai cosa è un distillato ma non come si fa davvero il vermouth, poi lo assaggi e ritrovi quei sapori e quegli odori che ti sono rimasti appiccicati addosso durante la visita, e ti rendi conto che la riserva speciale con il nebbiolo forse è il tuo preferito, ma anche che fare aperitivo con le tue amiche sorseggiando un negroni non ha prezzo. Ma soprattutto sono stata a visitare Alphonse Mucha al Museo degli Innocenti a Firenze, di cui ho comprato anche il catalogo tanto me ne sono innamorata. Pensare che io ero stata da sola al museo di Mucha a Praga tanto lo amo. Se dovessi pensare ad un periodo storico in cui mi piacerebbe ritrovarmi forse sarebbe quello della Belle Epoque, dell'art nouveau, del liberty, di quello stile così particolare che ti resta nel cuore appena lo osservi. Mucha che con la sua maestria ha creato proprio lo stile Mucha è uno dei maestri indiscussi e questa mostra ne è la dimostrazione. Io innamorata come sempre, affascinata come non mai. Siamo anche andate alla mostra La Canestra di Caravaggio - segreti ed enigmi della natura morta ad Asti. Ammirare dal vivo la Canestra di Caravaggio è stata un po' un emozione ma tutta la mostra dedicata alla still life è stata una bella scoperta tra simbologia e particolari inediti. Curatissima nei pannelli e nella spiegazione, mi ha regalato moltissimi spunti, soprattutto il pensiero che un quadro all'apparenza così trascurabile abbia potuto cambiare le sorti di un soggetto fino a farne una vera e propria ricerca estetica. In mostra fino all'inizio di aprile grazie ai Musei di Asti è un'occasione da non perdere. Tra un giro e un altro alla fine ho anche inaugurato la stagione dei gelati con netto anticipo. Infine siamo state anche a visitare I Macchiaioli al Mastio della Cittadella e ci siamo immerse nel mondo della Macchia, in cui gli artisti ricostruiscono le loro impressioni "del vero dal vero" e le restituiscono allo spettatore con la maestria di un chiaroscuro intenso, emozioni palpitanti e soggetti poco convenzionali. In un momento in cui si iniziano ad affermare dipinti di vedute ritroviamo tra i soggetti dei Macchiaioli campi coltivati, animali, scorci di campagne, soggetti comuni, distinti tutti per la mano dell'artista che trasforma le macchie di colore in rappresentazioni in cui perdersi. Lasceranno presto lo spazio agli Impressionisti ma le loro opere esercitano ancora un fascino incredibile.
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Ad aprile sono tornata a casa dei miei per Pasqua con cui a Pasquetta, siamo andati a visitare L'Aquila soprattutto l'area archeologica e la fontana dei 100 Cannelli oltre a Duomo, ma viaggiare con i miei mi da sempre la misura di quello che per me rappresenta visitare un posto. Mettersi in macchina e andare, così senza grosse idee, se non una vaga idea di cosa visitare, di cosa scoprire e poi lasciarsi trasportare dal flusso. Sono anche stata a Bologna per il compleanno della mia bellissima Lorena di Petrichor, in un weekend all'insegna del divertimento, con lei non si conosce noia e sono felice di mantenere con lei una delle amicizie più preziose che ho. Non è mancata neanche la tradizionale camminata del 25 aprile (si ok, abbiamo delle camminate che ripetiamo ogni anno negli stessi posti e negli stessi periodi storici, ok?) che è sempre il momento in cui ricaricarsi nel bel mezzo della primavera. A fine mese siamo anche state a visitare la mostra Gerda Taro & Robert Capa: la fotografia, l'amore, la guerra alla Camera. Di Robert Capa si conosce tantissimo mentre la figura di Gerda Taro è molto più misteriosa ma i due sono diventati famosi per i reportage sulla guerra civile spagnola, preludio della Seconda guerra mondiale. La mostra mega interessante mostra il ruolo cruciale della loro relazione per sviluppare la loro arte e emergere come fotografi e come reporter. La guerra e la vita, gli scatti ravvicinatissimi, il racconto serratissimo dei miliziani, il ruolo delle donne e l'impressione di essere lì, d'altronde Capa ha affermato che "se una foto non è venuta bene, non eri abbastanza vicino". Curatissima nell'esposizione e nella resa le mostre della Camera di riconfermano sempre mega interessanti.
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Maggio è sempre il mio mese preferito, essendo quello del mio compleanno anche se quest'anno è stato caratterizzato da un lutto che non pensavo mai di vivere. Mentre stavamo pensando come continuare una camminata lungo l'anello verde che da Reaglie arriva a Sassi che ci aveva lasciato abbastanza sfinite per il fango che avevamo trovato lungo la strada, ho ricevuto una telefonata che mi ha spezzato le gambe e che mi ha fatto tornare a casa per essere vicina a una delle mie amiche più care. Abbiamo poi visitato la mostra Shinhanga a Palazzo Barolo. Il Giappone ha sempre un fascino particolare e anche se sono sempre irrimediabilmente attratta dalla Corea pure l'arte nipponica riesce ad attirarmi come una calamita. In un percorso tematico molto curato nello spazio espositivo di Palazzo Barolo le stampe giapponesi la fanno da padrone e anche se i ritratti non mi colpiscono mai particolarmente i paesaggi mi emozionano ogni volta. Se poi si mette insieme il blu, la luna e l'acqua allora sono una vittima molto facile. L'11 maggio abbiamo fatto una toccata e fuga al Salone del Libro di Torino. Inizialmente non avevo alcuna intenzione di andare ed ero già convinta che non ci avrei messo piede ma poi l'idea di salutare gli amici di Safarà ma soprattutto l'occasione di incontrare di nuovo Hoon Bae Myung grazie a Add Editore mi hanno fatto cambiare idea. Add Editore infatti ha portato l'autore coreano in tour per l'Italia a presentare In orbita la sua nuova raccolta di racconti e io non potevo lasciarmi scappare l'occasione per ascoltarlo parlare delle sue storie di fantascienza, di come il suo modo di approcciarsi all'estero sia cambiato anche grazie alla pubblicazione de La Torre e di come l'amore per la Corea si sta espandendo per il mondo grazie anche al kpop e ai kdrama. Devo ancora leggere il libro ma la presentazione è stata molto bella. Siamo anche state a visitare la mostra su Christina Mittermeier alle Gallerie d'Italia. Pensare che l'abbastanza sia uno stato mentale diventa concreto con le foto della fotografa messicana che cerca di salvare il mondo che vorrebbe lasciare al futuro. Persone, animali, habitat, luoghi che diventano l'immagine perfetta per trasmettere il suo messaggio. Mitty come viene amichevolmente chiamata non vuole riempirsi di scatti ma averne una manciata davvero concreta per parlare al mondo. Innamorata di quei colori e di quegli occhi che ti penetrano nel cuore. Bellissima.
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Giugno ormai da tradizione uguale Open House Torino. Altro anno e altro giro, l'opportunità di scoprire meraviglie nella città in cui vivo è un dono inestimabile. Nonostante non abbiamo trovato posto nei luoghi che ci interessava prenotare (Campanile di Santa Zita prima o poi saliremo le tue scale) ci siamo avventurate ad esplorare: il 25 Verde un complesso condominiale arricchito da una marea di vegetazione e fauna e abbiamo visitato un appartamento del primo piano. Poi siamo passate nell'Orto botanico in cui ci siamo perse a fare foto a fiori, soprattutto le rose, e io un reportage completo di tutte le api che vedevo e ho visto un bombo! Siamo finite al Bluplex un appartamento con mille dettagli blu davvero molto interessante e che mi ha molto colpito per i dettagli e soprattutto per gli elettrodomestici (non ho fatto foto distratta dai lampadari e dalla sensazione di star galleggiando nel blu) E infine abbiamo visitato C'era una volta: un appartamento sulla cui volta è stato ritrovato un affresco, che è stato restaurato e incorporato nella ristrutturazione del bilocale. Un dettaglio dell'affresco con delle scimmie. Non pensavo che saremmo riuscite a vedere così tanto. Non potevamo di certo perderci Toulouse-Lautrec al Mastio della Cittadella. Questa mostra propone un punto di vista molto meno conosciuto sull'artista molto più conosciuto per le sue opere pubblicitarie di piena Belle Epoque che per Au Cirque una serie di disegni che rievocano i suoi ricordi di bambini e le sue esperienze sul mondo del circo. In un mondo tra l'onirico e il grottesco Toulouse-Lautrec appare molto meno patinato di come è solito apparire, ma assolutamente non meno interessante.
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A luglio sono stata per un weekend a Perugia davvero rilassante a prendere il sole a bordo piscina e a rilassarmi e poi siamo state per la prima volta alla Nuvola Lavazza: il centro espositivo dedicato al famoso caffè allestito in una delle sedi storiche del marchio. Ovviamente ci siamo state per un tempo inconcepibile per il visitatore medio, nell'esplorazione minuziosa della famiglia Lavazza e siamo rimaste colpitissime dal cocktail della degustazione che completa il giro del museo. . Inoltre nell'ingresso della Nuvola era presente una mostra con alcuni poster delle copertine del The Torineser una rivista di finzione che si ispira al Newyorker, davvero molto bella, io ormai faccio il filo ad uno di questi poster con molto ardore.   
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Agosto, oltre ad una mostra dedicata Torino Anni '50 alla Fondazione Accorsi - Ometto con quadri dallo stile eclettico e molto moderno e ad una collezione di fotografie della Torino degli anni cinquanta, ha significato l'8 agosto firmare l'atto per la mia piccola casetta. La ricerca iniziata a fine maggio e concretizzata in un tempo davvero ridotto è stata un po' un colpo di fortuna. Ma sono entrata, quando era ancora un mezzo cantiere e me ne sono innamorata, c'era tantissima luce e io mi immaginavo lì, a viverci, la volevo. Tra un'ansia e un'altra che non sono proprio finite, ho preso possesso delle chiavi e durante le ferie ho iniziato il trasloco. Una settimana sono tornata dai miei, ma agosto non è coinciso con il riposo, ho cercato i primi mobili, e ho percorso chilometri da un appartamento all'altro a trasportare libri e oggetti che non mi servivano. La lettura è un hobby faticoso. Traslocare una spina del sangue che spero di non ripetere tanto a breve. Una delle cose più sfidanti che io abbia fatto. 
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Settembre mi ha visto ancora con i pacchi in mano, ma è stato anche il mese in cui ho visitato una mostra su Guercino a Palazzo Chiablese. Dedicare una mattinata ad una delle mie attività preferite: visitare una mostra di pittura da sola, fatto. La mostra prende la figura iconica del Guercino per raccontare il lavoro del pittore a 360°. Da un lato le sue opere, dall'altro il racconto della bottega, la sottolineatura di tutto quello che contribuiva a rendere un artista completo nel 1600. Dettagli interessanti come il Libro dei Conti in cui nella bottega del pittore di Cento si segnava tutto dai costi dei materiali ai committenti ai guadagni, al fatto che le maestranze si specializzassero nell'arte figurativa piuttosto che nelle nature morte. Veramente bella in una cornice particolare come quella di Palazzo Chiablese.
Ci siamo avventurate in una camminata al limite, in cui ad un certo punto non potevamo più tornare indietro, potevamo solo andare avanti sul crinale di una montagna con l'adrenalina a mille e la consapevolezza che prima o poi ne saremmo uscite. Siamo poi andate a visitare due mostre Margaret Bourke-White & Bar Stories alla Camera. Dalle opere del New Deal fino alle immagini di guerra, dalla Russia dall'India la fotografia della Bourke-White non lascia spazio a incertezze né a immaginazione. Piena di contrasti restituisce vivida l'immagine catturata nei momenti più impensabili, come per esempio agganciata ad un elicottero in volo. Veramente molto bella. La seconda era una mostra molto interessante che nasce dalla collaborazione tra il museo Campari e Magnum per un viaggio nel mondo del bar dal cocktail al caffè con al centro proprio il Campari.
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Il 30 settembre ho lasciato il monolocale in cui ho vissuto i miei primi otto anni a Torino ed è stato molto complicato e molto bello allo stesso tempo, ho quindi iniziato ottobre a casa nuova (anche se dormivo lì già dal 29) senza cucina, ma con la speranza di riceverla in un tempo utile per non impazzire (spoiler no, ma sono sopravvissuta). Ne ho approfittato una sera per andare a vedere una collaborazione Mao x Mercato Centrale: l'esibizione di danza del gruppo coreano Gooseung una bellissima iniziativa che si articolava in due momenti: il primo in una sorta di processione che partiva dal MAO (il museo di arte orientale) e che si concludeva proprio al Mercato Centrale e poi lo spettacolo vero e proprio, in cui gli artisti si sono esibiti per lo più con tamburi in una danza shiamanica tradizionale, veramente veramente bella. Siamo anche state alla World Press Photo Torino a Palazzo Barolo, di cui non mi sono persa una edizione negli ultimi anni. Visitare questa mostra è sempre una pugnalata soprattutto perché ti espone alle conseguenze tangibili di tanti avvenimenti che accadono nel mondo su cui non ci soffermiamo e sui tanti che neanche ci raggiungono. Dal cambiamento climatico alle guerre, dalle discriminazioni alle malattie, questa esposizione di fotogiornalismo è una delle mie preferite dell'anno per la sua forza e il suo significato. Le immagini sono uno dei media più immediati che abbiamo a disposizione e sono fin troppi i giornalisti che ogni giorno rischiano tutto per documentare adeguatamente quello che sconvolge quotidianamente il mondo.
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Novembre ci ha viste in un'altra camminata che non si è conclusa nei migliori dei modi e che ci ha fatto un po' rivalutare che cosa ci aspettiamo da queste esperienze nella natura e in montagna. Siamo anche state a vedere due mostre American Nature di Mitch Epstein & Arca di Antonio Biasiucci in Gallerie d'Italia. L'occhio di Epstein perso nei meandri dell'America più profonda tra alberi secolari, paesaggi industriali che fagocitano la natura viene restituito al visitatore con una stampa a pigmenti, un effetto in 3d e una sfilza infinita in cui perdersi, tra cui la conoscenza che le sequoie sono molto resistenti all'azione del fuoco. Biasiucci è un fotografo e un poeta, esplorare le sue foto a tratti inquietanti a tratti oniriche regala suggestioni veramente inaspettate. Immaginare prima di leggere le didascalie è un consiglio che mi sento di condividere. Il 19 novembre sono riuscita finalmente a prendere la residenza tra mille peripezie e poi siamo state a vedere la mostra su Berthe Morisot alla GAM. Nella nuova veste completamente ristrutturata, la GAM di Torino ospita una mostra dedicata a Berthe Morisot l'unica pittrice impressionista in combo con il palazzo Reale di Genova. Conosciuta ai più come modella di Manet e moglie del fratello, in realtà è una pittrice inquieta che incarna perfettamente lo spirito dei suoi tempi. Le pennellate che diventano sempre più fluide ritraggono soggetti della sua vita quotidiana: il marito, la figlia, le domestiche, i paesaggi intorno a lei. I colori delicati, il verde che sfuma nell'azzurro e quelle sfumature che richiamano le ninfee ma che poi delineano i tratti di una donna che si è fatta strada tra i più grandi pittori del suo tempo per affermarsi prima che come donna, moglie, madre, come pittrice. Prossima tappa, andare a Genova.
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A dicembre siamo andate a visitare due Madonne con il bambino di Gentileschi e Van Dyck alle Gallerie d'Italia in confronto tra loro e in prestito da Palazzo Corsini. Dipinti a distanza di circa quindici anni tra loro, i due quadri costituiscono due diverse interpretazioni della cosiddetta “Madonna del latte”, davvero molto interessante. L'ultima mostra dell'anno invece è stata quella dedicata a Tina Modotti alla Camera. Sono le foto a parlare, anche per Tina Modotti o Tinissima come la chiamava sua madre. Una donna carismatica ed eclettica con una produzione ampissima e ancora per lo più sconosciuta. Esposta fin da piccola alla fotografia, è stata anche pittrice, modella e attrice e la sua vita è piena di aneddoti curiosi. Tra l'Europa e l'America ha descritto le peculiarità del Messico, in un modo di fotografare spontaneo che lasciasse spazio ad emozioni e al suo essere e sentire. 
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Per il 2025 ho molti progetti e molte aspettative, ma vorrei anche che fosse un anno di calma, il 2024 è stato pieno di cambiamenti, nel 2025 vorrei godermi i risultati di quei cambiamenti, vorrei trovare tempo per rilassarmi e per essere serena, quella serenità che soprattutto nell'ultima parte dell'anno ho stentato a trovare. Vorrei trovare un equilibrio tra i miei slanci e le mie introspezioni, vorrei essere più incisiva e meno titubante, vorrei fare pace con me stessa e con la mia propensione a criticare ogni aspetto di me. Spero di riuscirci, spero di arrivarci. 
Per il blog e per le letture è stato un anno veramente brutto, forse l'anno in cui ho letto di meno, in cui mi sono impegnata meno, prendere un libro in mano è stato difficile, ho un po' ripreso ma ultimamente faccio davvero fatica. Vorrei impegnarmi un po' di più e soprattutto vorrei tornare ad essere un po' più costante nel postare recensioni, ne ho un sacco da scrivere devo solo trovare il tempo e la forza di volontà.
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pleaseanotherbook · 6 months ago
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BABEL di R.F. KUANG
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'It's so odd,' Robin said. Back then they already passed the point of honesty; they spoke to one another unfiltered, unafraid of the consequences. 'It's like I've know you forever.' 'I think,' said Ramy, 'it's because when I speak, you listen.' 'Because you're fascinating.' 'Because you're a good translator.' Ramy leaned back on his elbows. 'That's just what translation is, I think. That's all speaking is. Listening to the other and trying to see past your own biases to glimpse what they're trying to say. Showing yourself to the world, and hoping someone else understands.'
"Babel. Or the Necessity of violence: an arcane History of the Oxford Translators' Revolution" di R.F. Kuang è uno di quei libri che è entrato nella mia lista di cose da leggere perché temi di traduzione, lingua e storia mi affascinano incredibilmente. E non potevo certo lasciarmelo scappare. Uscito nella traduzione italiana per Mondadori, è un romanzo in cui linguistica e interpretazione e magia si avvicendano alla storia personale del protagonista in un racconto corale che sfugge alle regole e reinterpreta di fatto la storia della torre di Babele. Affascinante come non mai, per certi aspetti, estremamente inconclusivo per altri.
Oxford, 1836. La città delle guglie sognanti. Il centro di tutta la conoscenza e l'innovazione del mondo. Al suo cuore c'è Babel, il prestigioso Royal Institute of Translation dell'Università di Oxford. La torre da cui sgorga tutto il potere dell'impero. Rimasto orfano a Canton e portato in Inghilterra da un misterioso tutore, Robin Swift credeva che Babel fosse un paradiso. Fino a che non è diventata una prigione… Può uno studente lottare contro un impero?
Per chiunque abbia mai avuto un minimo di interesse per una lingua diversa dalla propria, l'idea di essere capaci di capirla e interpretarla e farla propria ha sempre avuto un ruolo molto importante. Tutta la narrazione parte dal presupposto che la lingua sia un qualcosa da mantenere sempre vivo per poterne sfruttare tutto il potere intrinseco. Non basta sapersi esprimere in una lingua di cui non si è madrelingua, bisogna esserne così assorbiti da essere capaci di riprodurne ogni sfumatura, di risalirne l'etimologia, definire i confini di parole non più in uso ma che restano permeate nelle consuetudini attuali. Babel è sì una torre, ma è un luogo magico, un custode, un'entità che si muove da sola animata dai suoi studenti e dai suoi professori. Il racconto della Kuang si articola quindi non solo intorno ai suoi protagonisti che si muovono nei meandri di un luogo che ha mille tentacoli persi nel mondo, ma anche e soprattutto intorno alla babele di lingue, studi, regole e tradizioni che si tramandano nell'università di Oxford. Mentre alcuni dettagli emergono direttamente dalla realtà storica, altri sono completamente inventati e funzionali al racconto, costruendo un intrigo di fatti da cui è difficile identificare il vero dall'inventato.
Il lettore viene a scoprire la vita accademica direttamente dall'esperienza del protagonista Robin Swift che si immerge nello studio con un entusiasmo vivido insieme ai suoi compagni di corso. Robin in fondo è lì grazie al suo passato e alla sua lingua. Rimasto aggrappato alla corda che gli ha lanciato il Professor Lovell che da Canton lo porta in Inghilterra per istruirlo per i suoi scopi, Robin si adegua alle sue regole e alle sue aspettative perché sente di non avere altra strada. Ma d'altronde quando arriva a Babel sente che tutti i suoi sacrifici hanno avuto uno scopo. L'atmosfera lì è magica e senza tempo, ha la dolcezza delle prime scoperte dell'adolescenza e il profumo del potere che è quasi alchemico. Tutto il mondo accademico è una lenta scoperta, un accumularsi di strumenti che rendono gli accademici quasi delle divinità, i segreti che si nascondono nella torre rendono non solo Oxford, ma tutta l'Inghilterra estremamente potente, e con una leva in più rispetto alle altre potenze mondiali. Robin non è solo, sempre emarginato per il suo essere straniero e diverso, un cinese in mezzo a un mare di bianchi, si allea con i suoi compagni di corso, altri emarginati come lui, che nelle mura dello spazio della traduzione, sono tutto fuorché degli esclusi. Ma quando Robin si rende conto che questo non basta, che la pace per se stesso non significa la pace per tutti, che la sicurezza che arriva dalla Torre si ferma nei suoi confini, inizia a chiedersi se sia giusto che le cose restino così, se sia giusto che le sue conoscenze restino confinate in un punto solo del mondo, quando potrebbero salvare centinaia, migliaia di vite umane. Mentre la sua storia si intreccia con la politica e gli inizi della guerra dell'Oppio, quando Robin torna in Cina e si rende conto di cosa sta succedendo non può continuare a restare fermo, deve agire, le azioni che fanno da spartiacque alla storia diventano il motore che cambiano tutti gli equilibri, e nella seconda parte il ruolo del traduttore come traditore, perché l'atto del tradurre è sempre un atto di tradimento, assume un significato ancora più chiaro. Robin non è un personaggio semplice da leggere, ha mille contraddizioni dettate dalla voglia di fare la cosa giusta e dalle paure che gli scoppiano nel cuore ogni volta che un pericolo si approccia. Ma impara presto che ogni scelta comporta una conseguenza per sè e gli altri e che quando ci si immerge nella vita vera, la patina di romanzata magia che ci immaginiamo viene stracciata dalle contingenze della quotidianità. La conoscenza è un potere molto forte e messo nelle mani sbagliate può essere molto pericoloso. Dilaniato tra il tradimento verso le sue origini e la sua madrepatria e il tradimento di tutto quello che ha studiato per tutta la vita, Robin è lì che si macera e compie scelte a volte incomprensibili dettate dalla disperazione che lo portano inevitabilmente verso il solo scontro possibile.
Il particolare da non dimenticare? Una barra d'argento...
Una storia incentrata sulle parole, sull'amore per la lingua, sullo studio e il sacrificio, che si intreccia con le ambizioni di una società che vuole essere la prima potenza del mondo, tradurre non è solo diffondere le conoscenze e integrazione di culture diverse, è un compromesso tra le parole, la ricerca di una comunicazione efficace che unisce e divide, in una lotta continua che non lascia scampo.
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 10 months ago
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Drink coffee and reading books: a little selection of essay about my passion
Ci sono due cose che mi affascinano incredibilmente e su cui ultimamente ho posto l'attenzione più che ad altre: i libri e il caffè. Due mie grandi passioni, che in modi differenti hanno da sempre contribuito a cambiare la mia vita. I libri perché fin da piccola hanno influenzato il modo con cui mi relaziono con il mondo fornendomi il filtro necessario per affrontarlo al meglio e il caffè che ho sempre associato ad un piacere irrinunciabile. Ne adoro l'aroma che permea la casa quando sale la moka, il gusto amaro che si diffonde sulla lingua quando lo si degusta e la pace che caratterizza il momento preciso di quando lo si sorseggia soprattutto dopo pranzo. Fin da piccola mia madre si fermava dalle sue attività per gustare il caffè prima di riprendere le sue attività pomeridiane e per me resta indissolubilmente associato a quel momento di stacco. "Adesso ci sediamo e ci prendiamo il caffè" la frase della tregua, la frase della pausa, la frase della piccola gioia. Leggere un libro con un caffè in mano? Perfezione. Questi due aspetti della mia vita mi hanno sempre accompagnato come vi dicevo, ma ultimamente ho deciso di approfondire alcuni aspetti, anche grazie a dei saggi che mi sono capitati tra le mani.
- Piante che cambiano la mente: oppio, caffeina, mescalina di Michael Pollan edito da Adelphi
- Una storia del mondo in sei bicchieri di Tom Standage edito da Codice Editore 
- Papyrus. l'infinito in un giunco di Iren Vallejo edito da Bompiani
- Il dono di Cadmo: L'incredibile storia delle lettere dell'alfabeto di Alessandro Magrini edito da Ponte alle Grazie
- Tumbas. Tombe di poeti e pensatori di Cees Nooteboom edito da Iperborea
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Per tutti noi l’assunzione quotidiana di caffeina coincide nientemeno che con la «condizione normale della coscienza». Eppure, quell’alcaloide naturale è a tutti gli effetti una droga, come rivela l’«esperimento di privazione» cui Michael Pollan si è sottoposto, trovandosi afflitto via via da mal di testa, letargia e «intensa angoscia». Per cercare di rispondere alla domanda cruciale da cui è partito – che cosa sia esattamente una droga –, Pollan intreccia reportage, «memoir» e saggio scientifico, spaziando attraverso varie discipline e concentrandosi soprattutto su tre molecole psicoattive: oltre alla caffeina, l’oppio, il cui effetto – secondo il poeta vittoriano Robert Bulwer-Lytton – è assimilabile al «sentirsi accarezzare l’anima dalla seta», e la mescalina, la più «sacra», che permise ad Aldous Huxley di vedere il mondo nella sua autentica «bellezza, minuzia, profondità e “quiddità”». Da questo affascinante percorso emerge ogni aspetto di queste sostanze, e in particolare la loro «natura bifronte»: il loro essere cioè «veleni» e «attrattori» al tempo stesso, in grado da un lato di dissuadere gli animali dal mangiare le piante che le producono, dall’altro di spingerli a utilizzarle accrescendo così la loro espansione ecologica: la caffeina contenuta nel nettare di certe piante, per esempio, rende le api impollinatrici «più affidabili, efficienti e industriose». Un’ambiguità che contraddistingue anche il millenario rapporto con le «droghe» degli esseri umani – e spiega come mai, sul piano evolutivo e culturale, «quella che era iniziata come una guerra» nei loro confronti si sia «trasformata in un matrimonio».
"Piante che cambiano la mente: oppio, caffeina, mescalina" è venuto a casa con me perché mentre lo sfogliavo in libreria ho beccato una pagina in cui si parlava dell'effetto della caffeina sulle api. E boom, caffè più api? Una sorta di kriptonite per la sottoscritta. Ed ecco che allora mi sono avvicinata al saggio di Pollan edito da Adelphi con una curiosità senza precedenti. Mentre l'oppio e la mescalina sono due sostanze che non erano entrate nel mio radar, la caffeina esercita su di me un fascino senza eguali. Pollan analizza gli effetti che queste sostanze provocano su di lui in un affascinante riflettersi tra esperienze personali e informazioni scientifiche sulle sostanze, in un saggio che esplora ad ampio spettro l'effetto dirompente che ognuna di essa scatena nel suo corpo. Mentre per la caffeina è un lento disintossicarsi mentre i giorni procedono e Pollan supera il piacere di bersi una tazza di caffè nel suo locale preferito, sperimentare con i papaveri e i cactus è un po' più complicato e pericoloso. Mentre il giornalista si addentra nello scoprire come coltivare le piante che gli servono, racconta aneddoti e curiosità e soprattutto ci rivela informazioni preziose per comprendere meglio i principi attivi delle sostanze che ci circondano. Resta incredibilmente affascinante leggere sia le sue esperienze che gli incontri che lo accompagnano, perché non è mai un viaggio solitario ma sempre una scoperta reciproca, un metodo di comunicazione, una ricerca preziosa. Non è mai solo la ricerca dello sballo ma soprattutto un minuzioso lavoro di ricostruzione, di ricostruzione, di meraviglia, ed è sempre incredibile come piante apparentemente innocue nella loro semplicità possano avere effetti tanto trasformativi sulla nostra psiche. 
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Uccide di più la sete che la fame: la disponibilità d’acqua vincola da sempre le sorti dell’umanità, generando fortune e catastrofi, spostamenti di popoli e scelte di stanzialità, prosperità e guerre. Eppure l’acqua, pur essendo la più antica e la più usata delle bevande, non è certo l’unica ad aver condizionato la nostra storia, ad aver spinto la vita di ciascuno di noi in una particolare direzione in un determinato momento. Fotografando cinquemila anni di eventi, Tom Standage getta nuova luce sulle vicende dell’uomo, leggendole attraverso le bevande che ne hanno accompagnato le sorti – e concorrendo, nelle maniere più sorprendenti, addirittura a crearle. Cosa ha spinto gli antichi popoli del Vicino Oriente a divenire stanziali? Perché la spugna passata sulle labbra del Cristo crocifisso era intrisa d’aceto? Come mai i marinai della flotta inglese erano più in salute di quelli francesi? Cos’ha costretto l’Impero cinese a cedere Hong Kong ai britannici? Se gli archeologi distinguono le epoche in base all’uso di diversi materiali – pietra, bronzo, ferro – Standage le ripartisce riferendosi a birra, vino, liquori, caffè, tè e Coca-Cola. Originale e ironico, questa avvincente Storia del mondo in sei bicchieri alterna alla verità di documenti autentici le cuoriose trame di cronache e aneddoti, creando un cortocircuito tra realtà e leggenda in grado di soddisfare esperti e curiosi, ma soprattutto capace di offrire una visione “altra” della storia, una visione che alle rivelazioni degli eventi epocali preferisce i piccoli, grandi segreti racchiusi in un bicchiere.
"Una storia del mondo in sei bicchieri" era uno dei libri citati nella bibliografia del libro di Pollan era quindi inevitabile che finissi per cercarlo e scoprire che "wow si era proprio il libro che volevo leggere!" per approfondire ancora l'uso del caffè ma scoprire inevitabilmente altre bevande a me care: se del caffè pensavo di sapere tutto dopo aver chiuso il volume di Standage non potevo più affermarlo. La tazzina del caffè è quella che mi ha fatto approdare a questo saggio, ma poi sono rimasta per la birra, per il vino, per il the, per l'alcool in generale e per la Coca-Cola che mi ha permesso di scoprire tantissime cose interessanti e che non sapevo minimamente. Come la birra sia nata un po' per caso e come il vino dell'antichità non aveva il gusto attuale, come vengono preparate le foglie di the e come il rhum sia inevitabilmente legato alla storia della tratta degli schiavi e come la Coca-Cola abbia rivoluzionato il seltz e le bibite in bottaglia. Le storie si uniscono quindi per dare nuove prospettive alla storia che conosciamo con una chiave di lettura che non avevo immaginato e di cui non sapevo niente, davvero molto interessante, super mega consigliato. 
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Questo è un libro sulla storia dei libri: libri di fumo, di pietra, di argilla, di giunchi, di seta, di pelle, di alberi e, gli ultimi arrivati, di plastica e di luce. Ma è anche un libro di viaggio che percorrendo le rotte del mondo antico fa tappa tra i canneti di papiro lungo il Nilo, sui campi di battaglia di Alessandro, tra le stanze dei palazzi di Cleopatra, nella Villa dei Papiri di Pompei prima dell’eruzione del Vesuvio, sul luogo del delitto di Ipazia, e poi nelle scuole più antiche dove si insegnava l’alfabeto, nelle prime librerie e nei laboratori di copiatura manoscritta, fino ad arrivare davanti ai roghi dove sono stati bruciati i libri proibiti, ai gulag, alla biblioteca di Sarajevo e ai sotterranei di Oxford. Papyrus è un racconto personalissimo, dove l’esperienza autobiografica si intreccia a evocazioni letterarie e a storie antiche, e dove un filo invisibile collega i classici con il frenetico mondo contemporaneo e i dibattiti più attuali: Erodoto e i “fatti alternativi”, Aristofane e i processi agli umoristi, Tito Livio e il fenomeno dei fan, Saffo e la voce letteraria delle donne, Seneca e la post-verità. Ma questo libro è soprattutto una favolosa avventura collettiva che ha come protagoniste le migliaia di persone che nel corso del tempo hanno salvato e protetto i libri: cantori, scribi, miniatori, traduttori, venditori ambulanti, insegnanti, maestri, spie, ribelli, suore, schiavi, avventurieri... lettori al riparo delle montagne o di fronte al mare in tempesta, nelle grandi capitali dove l’energia si concentra o nelle comunità più remote dove il sapere si rifugia quando fuori infuria il caos.
"Papyrus. l'infinito in un giunco" è un libro per lettori, o per cultori della carta o per chi esalta al massimo l'oggetto libro. Come quando entri in un luogo per la prima volta e ne vuoi conoscere tutti i particolari, vuoi aggrapparti ad ogni dettaglio, vuoi scoprirne ogni segreto. Ecco entrare in questo libro è come entrare in un libro, perché se ne sviscera la nascita, l'evoluzione di come la carta di imposta di come le biblioteche si sono riempite e di come l'autrice ne è venuta a conoscenza. La storia del libro non è mai avulsa dalla storia personale dei lettori, la storia della parola scritta si intreccia in maniera primaria a come il supporto è stato scelto e conservato. Dalle rive del Nilo ai piedi del Vesuvio, dalla biblioteca di Alessandria ai sotterranei di Oxford tutte le descrizioni riempiono di meraviglia gli occhi del lettore che legge incantato e si aspetta di scoprire qualcosa ad ogni pagina. Purtroppo la nota dolente sono i riferimenti alla vita personale di Iren Vallejo: fin troppo ridondanti e poco funzionali alle storie della carta e dei libri, a volte è meglio essere più reticenti. 
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Perché la A è la prima lettera dell’alfabeto? Forse perché il bue era considerato dai fenici il più importante fra i beni? Perché la D, fra i numeri romani, significa 500? Come si può vedere nella M il volto di un uomo? Perché davanti a U usiamo Q? Questo libro è una storia dell’alfabeto. La storia di una delle più straordinarie invenzioni umane, di quei «venti caratteruzzi» che ci permettono di «parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni», per usare le parole di Galileo. (E perché per Galileo le lettere sono venti, e non ventuno?) Alessandro Magrini ci accompagna in un viaggio affascinante, un capitolo per lettera, dall’antico Egitto alla Fenicia alla Grecia a Roma (con lo zampino degli etruschi). E lo fa con la rara capacità di tenere sempre viva l’attenzione, complici la sua contagiosa curiosità e un’esposizione limpida e avvincente. Grazie anche al ricco apparato d’immagini, Il dono di Cadmo è uno di quei rari libri in cui il rigore scientifico convive con una genuina abilità divulgativa. Venite a scoprire la storia delle ogni scarabocchio sul muro, ogni insegna pubblicitaria non vi parrà più la stessa. Quando vedrete una N, penserete d’ora in poi a un antico serpente di mare.
"Il dono di Cadmo: L'incredibile storia delle lettere dell'alfabeto" il saggio di Magrini è diviso in capitoli uno per ogni lettera dell'alfabeto e di ognuna cerca di ripercorrerne le origini e di raccontare da quali segni è partita e come è diventata quella che leggiamo oggi nei libri stampati e nella tastiera del computer. Una carrellata affascinante che parte dalla scrittura cuneiforme o quella protosinaitica, passa dai geroglifici e si dirama tra greco e latino in un viaggio tra province confinanti, dialetti simili ma fondamentalmente diversi e pronunce che richiamano specificamente certe regioni. E se la casa è forse il concetto principale che dà origine a tutto, l'alfa e l'omega si rincorrono tra disegni di bui e vicende che non si penserebbe mai abbiano influenzato così tanto i segni da cui dipendono tutte le nostre comunicazioni. Comunicare è fondamentale e farlo in forma scritta lo diventa ancora di più soprattutto quando non c'è niente ed è tutto da costruire. Anche l'ordine in cui le elenchiamo diventa fondamentale e ogni aspetto riflette le scelte e i pensieri di chi ci ha preceduto, davvero molto affascinante anche se devo dire estremamente breve. 
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"La maggior parte dei morti tace. Per i poeti non è così. I poeti continuano a parlare." Perché comunicano a ognuno qualcosa di personale e accompagnano diversi momenti della nostra vita, innescando con noi un dialogo intimo al di sopra dello spazio e del tempo. Per questo Cees Nooteboom, nel corso di trent'anni di viaggi per il mondo e attraverso i cieli della letteratura, ha visitato le tombe dei grandi scrittori e filosofi che lo hanno segnato, raccogliendo quello che, dietro una lapide di marmo, un monumento bizzarro, un'epigrafe toccante o l'incanto di un'atmosfera, hanno ancora da raccontare. Dal famoso Père-Lachaise di Proust e Oscar Wilde alla pittoresca collina sopra Napoli che ospita Leopardi, dalla cima del monte Vaea, nelle isole Samoa, dove è sepolto R.L. Stevenson, a Joyce e Nabokov in Svizzera. Calvino a Castiglione della Pescaia, Melville in un angolo sperduto del Bronx, e Kawabata nel suo Giappone; Keats e Shelley accanto a Gregory Corso nel romantico Cimitero Acattolico di Roma; Brecht a due passi da Hegel a Berlino est; Brodskij insieme a Pound nell'isola veneziana di San Michele, e il Montparnasse di Baudelaire, Beckett e Sartre, a cui ha scelto di unirsi anche Susan Sontag.
"Tumbas. Tombe di poeti e pensatori" è un libro che giace nei meandri della mia lista di libri da leggere dall'estate 2018, conservavo ancora lo scontrino del Libraccio di Bologna dove lo acquistato al suo interno e mi è tornato tra le mani mentre riordinavo i volumi di cui sono impossesso. L'idea di questo libro edito Iperborea mi affascinava molto: l'autore in giro per il mondo a visitare le tombe di una selezione di poeti. E se da un lato ci sono le fotografie e il Cimitero in cui il poeta riposa, non posso dire che le informazioni condivise da Nooteboom siano esaustive. Mi aspettavo un resoconto delle sue sensazioni davanti ai grandi che hanno fatto la storia e invece l'autore condivide a seconda di chi sta prendendo in considerazione versi riguardanti la morte, estratti da saggi scritti da lui o sue considerazioni sull'autore se lo ha conosciuto, estratti dalla corrispondenza dell'autore, insomma un guazzabuglio di input non sempre facilmente decifrabili che rendono la lettura difficoltosa. Mentre l'intento di documentare il monumento funebre con la sua collocazione nel mondo è pienamente riuscito e devo dire anche molto affascinante la condivisione sui poeti lo è molto meno, soprattutto per quelli meno conosciuti che restano molto in ombra, nonostante gli sforzi dell'autore. 
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pleaseanotherbook · 1 year ago
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L'origine della specie di Kim Bo-Young
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È così che funziona la scienza. Il nostro compito è quello di aggiungere un mattone dopo l'altro alle fondamenta di una teoria per renderla sempre più stabile e solida, a prescindere da quanto insignificante o interessante possa sembrare. Sai quanti articoli altamente scontati vengono pubblicati su "la parte è più piccola dell'intero"? La tua determinazione ti fa onore, Kay, ma non sei realista.
"L'origine della specie" di Kim Bo-Young è stato tradotto in Italia per Add Editore ed è entrato nelle mie cose da leggere perché seguo sempre con attenzione gli autori coreani che arrivano nel nostro paese e soprattutto case editrici come Add che riservano un'attenzione particolare per i testi che arrivano da uno dei miei paesi preferiti. Questa raccolta offre uno spaccato interessante sulle riflessioni verso cosa significa umanità e conferma che la fantascienza coreana è piena di piccole gemme.
Un principe ereditario subisce una drammatica trasformazione biologica che cambierà il suo destino; esseri umani ridotti a una condizione subalterna diventano gli animali domestici di enormi draghi; robot con sembianze antropomorfe, unici sopravvissuti in un mondo ormai ghiacciato, si chiedono se sia mai esistita una vita organica sulla Terra. Queste sono alcune delle storie raccolte in L’origine delle specie, popolate da esseri umani e non umani che cercano di sopravvivere alle minacce poste dall’evoluzione, siano esse biologiche, tecnologiche o sociali. Raccontano di fisica quantistica e viaggi nel tempo, di un futuro dominato da giochi in realtà virtuale, e di metamorfosi dei corpi. A cavallo tra fantascienza, fantasia e mito, gli scritti della pluripremiata autrice Kim Bo-young hanno un grande seguito in Corea del Sud, dove è ampiamente riconosciuta come pioniera e fonte d’ispirazione. In questo libro sono raccolte le sue storie più acclamate, che offrono delle riflessioni rigorose e toccanti sull’esistenza postumana.
L'annosa questione del "da dove veniamo" permea tutta la storia dell'umanità, probabilmente la domanda filosofica più irriducibile di tutte, ci hanno provato in moltissimi a rispondere, esiste un Dio, degli dei, una forza nascosta, qualcuno, qualcosa, che ha lanciato in aria la scintilla vitale, ha plasmato dell'argilla, ha prodotto un qualcosa che ha creato l'uomo. C'è stato il Big Bang e poi l'evoluzione della specie che pian piano si è fatta strada da una cellula passando per una scimmia fino ad arrivare all'uomo. La vita che diamo così per scontata resta una delle cose più affascinanti che possiamo incontrare e non sorprenderà scoprire che anche nel volume di Kim Bo-Young svolge un ruolo fondamentale. Non importa in che forma, garantire la sopravvivenza della specie è la cosa più importante. Tutte le forme di vita indistintamente lottano per sopravvivere. Ed è questo forse il punto fondamentale perché se sopravvivi vuoi anche sapere perché. La scienza in questo ha un ruolo fondamentale nel mondo di Kim Bo-Young. Ma a fare da filo conduttore a tutti i racconti è un disperato bisogno di amore, uno spietato senso di appartenenza, la consapevolezza di non essere davvero da soli. Uno dei protagonisti Kay, un robot senziente che vive in un futuro remotissimo, in un freddo estremo, in una bolla chiusa, inconsapevolmente fa una scoperta che potrebbe cambiare tutto il corso della storia, cosa c'era prima? Da dove vengono? Qual è il loro scopo? Una intuizione pericolosissima che mette in pericolo tutto, il sacrificio disperato nei confronti della scoperta e della meraviglia, il disperato bisogno di avere risposte, di avere un obiettivo. I racconti dell'autore coreano racchiudono questo senso impellente di scoperta, mentre ci si aggira in una città governata da draghi, mentre si scopre la riproduzione della vita, mentre tutte le certezze precipitano, la ricerca è al centro, le domande, il bisogno incancellabile di risposte. Kay attraversa tutti gli stati di un soggetto esposto ad una verità troppo grande e insostenibile. Siamo niente e siamo tutto nel nostro mondo. Siamo al centro della scena e allo stesso tempo ne siamo spettatori impotenti. "L'origine della specie" è uno di quei libri che non hanno risposte facili, che si attorcigliano intorno a verità scomode e racconti spietati. Senti freddo e scopri la vita, sperimenti e scopri come in un gioco su un server sperduto si nasconda l'unica vera forma di sopravvivenza. L'impossibilità di fare shut down diventa il pretesto per una ricerca insensata in un mondo in cui le mode hanno sentimenti e in cui i giocatori si aggrappano a qualunque cosa pur di scomparire, pur di essere ricordati. Cosa ci aspetta nel futuro e cosa resta del passato sono i due archi che uniscono il nostro presente verso l'impossibile, e concepiscono che l'umanità è costituita da un insieme infinito di sfumature, che forse è pure vero che sopravvive il più forte come in un'arena, o in un vicolo cieco di una città al collasso, ma sono sempre le nostre scelte che fanno la differenza. È più facile essere crudeli e spietati, ma amare riempie la nostra vita come un calderone imperscrutabile. Lo stile di Kim Bo-Young dettagli e scolpisce la scena, in un modo che incanta e non c'è niente di più inquietante di un drago che ti sorveglia.
Il particolare da non dimenticare? Una vasca piena d'acqua.
Kim Bo-Young si nutre della fantascienza classica, gli androidi che sopravvivono seguendo le regole di Asimov e ne rivoluziona ogni confine per donare al lettore una raccolta di racconti arguta e spietata, che scava nei segreti più profondi dell'animo umano e lascia nel lettore domande spinose su cui riflettere a lungo.
Buona lettura guys.
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pleaseanotherbook · 1 year ago
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Almond di Sohn Won-Pyung
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Books took me to places I could never go otherwise. They shared the confessions of people I'd never met and lives I'd never witnessed. The emotions I could never feel, and the events I hadn't experienced could all be found in those volumes. They were completely different by nature from TV shows or movies. The worlds of movies, soap operas, or cartoons were already so meticulous that there were no blanks left for me to fill in. These stories on screen existed exactly as they had been filmed and drawn. For example, if a book had the description, "A blond lady sits cross-legged on a brown cushion in a hexagon-shaped house," a visual adaptation would have everything else decided as well, from her skin tone and expression to even the length of her fingernails. There was nothing left for me to change in that world. But books were different. They had lots of blanks. Blanks between words and even between lines. I could squeeze myself in there and sit, or walk, or scribble down my thoughts. It didn't matter if I had no idea what the words meant. Turning the pages was half the battle.
"Almond" di Sohn Won-Pyung edito in italiano da HaperCollins, tradotto con lo stesso titolo, è finito nelle mie cose da leggere per la mia fissa per la Corea e la mia voglia di leggere qualsiasi cosa che arrivi da questo paese, e poi perché lo avevano letto anche da Namjoon and Yoongi dei BTS. Lo so, lo so, ma cosa ci devo fare? Inoltre "Almond" aveva fornito lo spunto per una delle canzoni presenti nell'ultimo album del rapper coreano August D Amigdala e la mia voglia di saperne di più è solo aumentata. E devo dire che ne sono rimasta molto affascinata.
Yunjae non è un ragazzino come gli altri. Per lui, un sorriso non significa gioia e non saprebbe riconoscere la tristezza dalle lacrime. Soffre di una condizione cerebrale chiamata alessitimia che gli rende difficile provare emozioni , come la paura o la rabbia. A causa di quella coppia di neuroni a forma di mandorla situata nella profondità del suo cervello, è cresciuto senza amici , ma la madre e la nonna hanno fatto comunque in modo di tenerlo al sicuro e senza problemi. Il loro piccolo appartamento, situato sopra la libreria dell’usato di famiglia, è decorato di bigliettini colorati che gli ricordano quando sorridere, quando ringraziare e perfino quando avere paura. Finché un giorno, alla vigilia di Natale, tutto cambia. Una terribile tragedia sconvolge il mondo monocorde di Yunjae . Incapace di affrontare la perdita, Yunjae si isola, ritirandosi nel silenzio, finché un sedicenne problematico, Gon, non arriva nella sua scuola. Stranamente i due stabiliscono subito un legame e Yunjae comincia ad aprirsi al mondo. La vita comincia lentamente a cambiare, ma quando Gon finisce per mettere la sua esistenza a rischio, Yunjae dovrà avere il coraggio di abbandonare tutte le abitudini e sicurezze ed essere l’eroe che non avrebbe mai immaginato di diventare.
Quando si inizia a leggere questa storia hai in mente cosa potrebbe descrivere, ma in realtà non se ne riescono davvero a percepire tutte le sfaccettature, non si riesce davvero a cogliere cosa significa trovarsi nella condizione di Yunjae. Più si va avanti nella lettura più le sfaccettature di una vita al di fuori della normalità emergono con tutte le sue più clamorose conseguenze. C'è nella vicenda del ragazzo il peso enorme di una incomprensione profonda che supera i contorni definiti di una socialità che si nutre soprattutto di sé stessi. Yunjae infatti, il protagonista della vicenda soffre di alessitimia: una condizione che gli rende molto difficile provare emozioni: dalla paura alla felicità, dalla pena alla gioia. Yunjae scivola nella sua normalità sfiorando gli altri ma non capendo davvero cosa vogliono dirgli, cosa provano, come si rapportano a lui. Sprezzante del pericolo, incosciente oltre misura, Yunjae segue la sua logica e non i suoi sentimenti. Neanche gli indizi che la madre cerca di insegnargli a cercare nelle espressioni degli altri sono sufficienti per appigliarsi a quello che gli succede attorno. Il ragazzo non si riconosce in niente, solo nella bolla di ciò che lo rende stabile. Cresciuto con la mamma e la nonna, nello spazio protetto di una libreria e dei consigli spassionati che lo invitano a integrarsi quanto più possibile, Yunjae naviga a vista finché tutto il suo mondo crolla e resta solo con la dimensione che lo domina di più questa sorta di indifferenza feroce che nasce dalla sua condizione ma che lo rende strano agli occhi di tutti. Nessuno lo capisce e lui non capisce nessuno. L'incomunicabilità quindi al centro, in un difetto congenito dell'amigdala e del cervello che si ripercuote a tutti i livelli. Ma le riflessioni di Sohn Won-Pyung vanno oltre e ci catapultano al centro di un dibattito che non è solo etico ma anche sostanziale. Cosa ci rende umani? Sono le nostre emozioni, la nostra capacità di compassione, i rapporti che riusciamo a instaurare? Quanto contano i pregiudizi nella rete di relazioni che instauriamo quotidianamente? Quanto rifuggiamo il diverso per la nostra incapacità di metterci nelle scarpe degli altri. Mentre Yunjae fa i conti con la perdita e la mancanza di integrazione, ci vengono presentati altri personaggi, come Gon o il vicino di casa del protagonista. che contribuiscono a rendere questa storia molto più tridimensionale e complessa di quello che inizialmente si può pensare. Perché è vero che al centro della scena c'è la alessitimia di Yunjae ma non è questo il punto. Il punto è che l'adolescenza è un periodo così complesso da bruciare chiunque, quando ci vengono a toccare nel profondo reagiamo in maniera violenta. Non è solo l'isolamento e la non comunicazione che ci colpiscono sono anche i tentativi maldestri di avvicinarsi a noi. Nel bene o nel male bisogna fare i conti con gli altri. Tutto ciò che arriva a sconvolgere i nostri equilibri diventa la spinta di un cambiamento che ha effetti a catena su tutto.
Il particolare da non dimenticare? Un libro…
Almond è la storia di un ragazzo coreano colpito dalla tragedia su più livelli, ma è anche la storia di un'amicizia, di una scoperta, di una rivoluzione e la riflessione profonda di cosa significa crescere e cambiare in un mondo che non sempre ci viene incontro. Buona lettura guys.
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pleaseanotherbook · 1 year ago
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Il 2023 di Please Another Book
Da quant'è che non aggiorno il blog? Mesi direi e che senso ha tornare con un post di recap dell'anno scorso? Me lo sono chiesto molto prima di impaginare e pubblicare questo post, ma poi mi sono risposta che questo recap serve più a me che a chi mi legge. Questo recap mi dà sempre la misura dell'anno trascorso ma soprattutto mi piace rileggerlo a distanza di tempo e ricordare cosa avevo fatto, cosa avevo scoperto (e poi si lo ammetto voglio rileggere di nuovo della Corea e crogiolarmi nel ricordo dei posti che ho visitato) e avere una memoria tangibile di quanto fatto, di quanto visto, di quanto realizzato. Un task facile su cui mettere una spunta anche se di solito realizzare questo post ha bisogno di tanto tempo, tempo che diventa sempre più difficile trovare, ma che voglio impegnarmi a salvaguardare. 
Chi mi legge da molto lo sa che periodicamente mi interrogo sul senso di questo posto e quanto valga ancora la pena impegnarmi per aggiornarlo, ma sono profondamente legata a questo angolo di web. Ci ho investito tanto, mi ha regalato moltissimo. Sembra passato il tempo della parola scritta, ormai si tende a tenere in considerazione molto più altre forme di comunicazione ma la parola è sempre quella che preferisco, quella che mi riesce meglio. Condividere in video mi sembra più complicato e penso sempre che mettersi in un angolo a scrivere sia più intimo, come quando ricevi una cartolina invece di una foto su whatsapp. Sì è vero la foto è immediata, ma quale gioia trovarsi un pezzo di cartoncino stampato con dietro delle parole per sapere che si è tornati in mente a qualcuno? Lo so, ho un animo antico, ma d'altronde essere una millennial significa anche tenere in grande considerazione cose che sono diventate un po' vintage ormai. 
Il 2023 è stato un anno ricchissimo, pieno, intenso che mi ha portato tantissimo, che resterà a lungo nel mio cuore. Non che sia sempre stato rose e fiori, ma le esperienze formative sono state sicuramente più di quelle che mi hanno fermato, la crescita personale è stata più degli stop. Il 2023 è sicuramente l'anno in cui ho imparato davvero che cosa è la costanza, che cosa significa impegnarsi seriamente nell'attività fisica. A gennaio ho iniziato ad allenarmi con i pesi e ora sono arrivata ad usare quello da 10kg e sono ancora sconvolta dalle capacità del mio corpo. Perdere peso, avere una taglia che non ho mai indossato, percepire il mio corpo come non l'ho mai fatto, guardarmi allo specchio e non riconoscermi sono cose che non avrei mai immaginato. Sto ancora scendendo a patti con me stessa.  Il 2023 però è stato anche l'anno della ripresa dei viaggi, delle scoperte, degli aerei presi e dei paesi visitati. 
All'inizio di  gennaio, sono stata a Venezia con la mia adorata Lorena di Petrichor in un viaggio in una delle mie città preferite. Ci ero già stata a fine 2022 ma ci torno sempre con una gioia senza fine, anche perché mi sono resa conto di riuscire ad arrivare alla Salute senza Google Maps che di fatto è un orgoglio senza fine per me. Sono anche stata a Milano per festeggiare il compleanno di una mia carissima amica e visitare la mostra "Fantasmi e spiriti del Giappone" al Tenoha con le opere di Benjamin Lacombe, ispirata ai suoi libri “Storie di Fantasmi del Giappone” e “Spiriti e Creature del Giappone”, pubblicati in Italia da L’ippocampo Edizioni. davvero molto interessante. A Torino invece abbiamo avuto modo di visitare a Palazzo Madama una mostra su Margherita di Savoia la prima regina d'Italia e invece a Palazzo Chiablese una mostra intitolata "Focus on future" in cui 14 fotografi hanno interpretato le disposizioni ONU per il 2030, un colpo d'occhio davvero molto potente. 
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A febbraio abbiamo inaugurato la grande stagione delle camminate AnnGiada, infatti abbiamo deciso che eravamo pronte per affrontare un percorso davvero impegnativo da Avigliana alla Sacra di San Michele e ritorno che ci ha distrutti fisicamente ma che ci ha dato la spinta emotiva per esplorare i percorsi della collina torinese e di sperimentare sempre di più nell'arco dell'anno. Camminare immersa nella natura è stata una scoperta che non mi immaginavo. Mi sono sempre considerata una persona pigra, che preferisce stare sdraiata sul divano a leggere invece che impegnarsi nell'attività fisica, e invece muovermi, allenarmi, camminare, andare è un qualcosa che mi ha fornito una valvola di sfogo senza fine. Abbiamo scoperto una app, Koomot che ci ha fornito lo strumento per non perderci, perché fornisce una serie di percorsi e tragitti che tornano sempre utili anche per cambiare strada. Questo però non ci impedisce di trovare ostacoli sul cammino (ruspe comprese) e deviazioni non previste, ma soprattutto tanto divertimento e soddisfazione, soprattutto quando arriviamo alla meta. Sono anche stata in quel di Ferrara finalmente a visitare la città, Palazzo Diamante, la Pinacoteca e il castello. Ho anche mangiato dei cappellacci alla zucca buonissimi che ancora me li sogno, perché ovviamente zucca >>>>> di qualsiasi cosa. 
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A marzo siamo state alla scoperta di una mostra bellissima alla GAM qui a Torino intitolata "Ottocento" che presentava settantuno opere tra dipinti, pastelli, grandi disegni a carbone, sculture in marmo, delicati gessi e cere, di vari correnti pittoriche, davvero molto bella. Siamo anche riuscite ad andare a visitare una mostra a Palazzo Reale intitolata "Rembrandt incontra Rembrandt" con un paio di opere di Rembrandt che io amo molto ma che in realtà mi ha molto delusa perché dai cartelloni pubblicitari sembrava davvero molto più ricca. Ma mi sono anche avventurata in giornata a Firenze per visitare al Museo degli Innocenti una mostra su uno dei miei artisti preferiti: Escher. Insomma io lì con la sindrome di Stendhal davanti alle mie opere preferite con le lacrime agli occhi per la commozione e la consapevolezza che sì finalmente le vedevo dal vivo. Sono anche stata a visitare Bellagio in una giornata cristallina e una passeggiata nel bosco veramente molto bella. 
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Ad aprile è arrivata Pasqua e io mi sono cimentata per la prima volta con la pastiera e ho finalmente capito perché mia madre mi guarda costernata quando gliela chiedo: è una scuola di pazienza per quanto i passaggi sono lunghi. Però ne sono rimasta soddisfatta, è venuta molto buona. Per Pasquetta abbiamo organizzato un picnic e una visita a Cavour: rimproverate perché siamo passate dove non dovevamo abbiamo scoperto una delle sue residenze e un po' della sua storia. Siamo anche andate a visitare a palazzo Barolo la mostra "Da Monet a Picasso: Capolavori della Johannesburg Art Gallery" in cui c'erano delle opere bellissime. La JAG, Johannesburg Art Gallery, è stata fondata nei primi anni del 1900 dalla collezionista Dorothea Sarah Florence Alexandra Ortlepp Phillips, meglio nota come Lady Florence Phillips, con l’intento di trasformare un centro minerario, cresciuto intorno alla ricchezza dei suoi giacimenti, in una città improntata sui modelli delle capitali europee. Sono anche stata a Caserta con i miei parenti e con loro siamo stati a visitare la libreria/biblioteca che ha adottato tutta la collezione di libri di mio nonno e poi a casa finalmente per una settimana di relax. 
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A maggio, uno dei miei mesi preferiti anche perché è il mese del mio compleanno, siamo andate a Palazzo Chiablese per visitare la mostra dedicata a Ruth Orkin una fotoreporter di un occhio davvero molto interessante: tra i 156 scatti presenti in mostra erano compresi American Girl in Italy, uno dei suoi scatti più iconici della storia della fotografia, i ritratti di personalità quali Robert Capa, Albert Einstein, Marlon Brando, Orson Welles, Lauren Bacall, Vittorio De Sica, Woody Allen e altri. Siamo state anche al Mastio della Cittadella per la mostra  "Impressionisti tra sogno e colore" con delle opere impressioniste fuori dalle solite già viste e che non sempre vengono ammirate. La sera del 19 la mia adorata Am mi ha fatto un grandissimo regalo portandomi ad una festa che ha aperto alla grande i festeggiamenti per il mio compleanno. Il 20 maggio, proprio il giorno del mio compleanno, sono andata al Salone del Libro con una mia carissima amica che non vedevo da anni e ho incontrato la mia adorata Martina di Liber Arcanus. Devo dire che anche quest'anno è stato abbastanza traumatico. Credo di non essere più abituata alla gente, questa massa informe di persone che arriva con una sua presenza e che vuole fagocitarti. Ma la struttura del Lingotto resta lì a coccolarti lo stesso. Forse rispetto al 2022 ho notato che gli spazi erano più dilatati ma è anche vero che sono rimasta per molto meno tempo. Ma ne ho parlato più approfonditamente in questo post.  
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Tra fine maggio e inizio giugno sono riuscita finalmente a recuperare insieme ad Alaisse il viaggio a Lisbona che avevamo dovuto annullare a marzo 2020 con l'inizio della pandemia. Lisbona è una città spettacolare in cui siamo rimaste cinque giorni e di cui mi sono completamente innamorata. A parte la sindrome di Stendhal davanti agli azulejos dell'omonimo museo e il Monastero di San Jeronimos, ho fatto in tempo a perdermi completamente davanti alle sponde del Tago e sulle salite e discese mangiando pasteis de nata a gogo. Lisbona è una città che ti sorprende, un po’ rustica e un po’ cosmopolita, con i suoi alberi di jacaranda, le sue piastrelle colorate, i suoi tram che si arrampicano in collina e che ti tolgono il fiato. Alaisse è riuscita a portarmi a fare una esperienza sul Pillar 7: il pilastro numero 7 del ponte del 25 aprile sul Tago, che ricorda un po’ il Golden Bridge di San Francisco, e su cui puoi salire sia per vedere come sono stati costruiti i pilastri, sia per affacciarsi ad un passo dalle macchine che scorrono veloci sul ponte e per salire su un balconcino di vetro, trasparente sotto. Io avevo il batticuore ma la vista in effetti ne valeva la pena. Sono veramente contenta di essere riuscita ad andare in Portogallo, anche se la prossima volta vorrei andare a Porto. 
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A giugno nuovo giro e nuova mostra siamo andate alla Camera per la mostra dedicata a Eve Arnold, famosissima per i suoi scatti a Marilyn Monroe e ad altre straordinarie attrici e non. Eve Arnold è stata la prima donna, insieme a Inge Morath, a far parte della prestigiosa agenzia Magnum Photos nel 1951. Abbiamo anche di nuovo partecipato all'Open House e siamo state a scoprire palazzi ed edifici che non sempre sono visitabili e non sempre sono conosciuti. Un appuntamento annuale a cui mi piace sempre partecipare. Oltre a tornare alla Villa della Regina e assistere al Gran Galà della Musica Coreana, sono stata anche a Milano per la mostra "Leandro Erlich" a Palazzo Reale una mostra di illusioni e ricorrenze che permetteva di immergersi negli spazi della mostra e replicare foto con le opere esposte. 
A luglio siamo state in Galleria d'Italia qui a Torino ad esplorare due mostre fotografiche: Déplacé-e-s di JR e Senza tempo di Mimmo Jodice, due mostre molto diverse ma entrambe molto interessanti. Sono poi tornata a Firenze con la mia adorata Lorena per assistere al tour negli stadi dei Pinguini Tattici Nucleari che se mi seguite da un po’ sul blog sapete sono tra i miei gruppi preferiti e devo dire che il concerto è stato davvero uno spettacolo bellissimo. Era da un po’ che non assistevo ad un gruppo dal vivo e mi sono molto emozionata. Da Bergamo a Hikikomori, passando per Coca Zero, ho urlato e ballato come non mai in mezzo ad altra gente mega entusiasta, nel parterre gold, con Zanotti e gli altri membri della band molto vicini e la sensazione di star vivendo una esperienza incredibile. Super super bello. Siamo anche salite fino al Faro della Vittoria, perché ovviamente con le camminate ci abbiamo preso gusto.
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Agosto 2023 rimarrà invece nel mio cuore per sempre perché sono riuscita finalmente a realizzare uno dei miei sogni nel cassetto da una vita: andare in Corea del Sud. Ancora non ci credo che dopo averlo solo sognato per mesi e mesi sono riuscita ad andare lì, sono riuscita a vedere dal vivo un paese che mi ha rubato il cuore e il sonno e mi ha dato solo nuove ossessioni. L'11 agosto alle 21:50 siamo decollate da Malpensa per atterrare 11 ore dopo in quel di Incheon, l'aeroporto fuori dalla capitale. Da lì abbiamo preso un treno per arrivare a Seoul Station e poi il KTX il treno dell'alta velocità che alle dieci e mezza di sera ci ha portate a Busan. Lì siamo rimaste un giorno per iniziare ad esplorare la città salendo sulla Busan Tower e visitando il museo del cinema e poi per due giorni, il 14 e il 15 siamo volate su Jeju-do. L'isola di Jeju è la meta turistica per le vacanze dei Coreani, nonché meta dei viaggi di nozze, ma io sognavo di andarci da quando l'ho sempre e solo vista nei drama che ho divorato negli ultimi sei anni. Jeju è affascinante, abbiamo preso un albergo che affacciava sull'oceano e finalmente siamo riuscite ad andarci con la speranza inossidabile di iniziare ad esplorarla. Dal 16 al 20 agosto siamo rimaste a visitare Busan, a guardarne le spiagge, i templi, il Gamcheon Village, a salire sulle sky capsule, ad attraversare il mare su una cable car e a incantarci al museo d'arte. A Busan abbiamo sconvolto i locali con il nostro essere straniere e abbiamo mangiato gli hotteok, abbiamo camminato come non mai e assaggiato il kimchi più buono del viaggio e abbiamo imparato che la mossa giusta è farsi amica la ajumma (le signore di una certa età) che trovi sul tuo cammino e che a volte basta un grazie in coreano per fare la differenza. Il 20 abbiamo preso un KTX che da Busan ci ha condotto a Seoul e lì siamo rimaste fino alla fine del viaggio il 27 agosto. Seoul, ah Seoul, penso di averci davvero lasciato un pezzo di anima e lei me ne ha lasciato un pezzettino della sua e sono qui che mi chiedo quando riuscirò a tornarci davvero. Come raccontare cosa mi rimane in testa di una città che ho solo immaginato per anni, componendo in testa il puzzle che la definisce e poi boom eccomi lì a camminare per le sue strade a riconoscere che è uno dei posti in cui mi sento a casa? Arrivare a Seoul è stato un po’ come trovare il mio spazio, sapendomi orientare, riconoscendo i quartieri, urlando “ma io quel posto lo conosco” mangiando i japchae, emozionandomi per il bulgogi, credendo che quegli spazi enormi, i palazzi reali, i grattacieli, la Lotte Tower, la Namsan Tower, le salite e le discese, i locali, la musica, i café, ogni spazio era una casella che ricomponeva la mappa che ho costruito su Naver ed era lì tangibile.
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A settembre con la depressione post Corea ancora in circolo siamo state a visitare la mostra su Lee Miller a Stupinigi una mostra davvero mega interessante su una fotoreporter che non si è lasciata fermare da nulla, che si è reinventata molte volte nella sua vita e che la guerra ha segnato profondamente. Perché ormai la fotografia ci appassiona profondamente, soprattutto se si parla di fotografe donne, siamo anche state alla Camera per Dorothea Lange che si è concentrata nel raccontare la fuga dal midwest americano verso la California in una povertà e durezza di condizioni che non conoscevo e che mi hanno molto colpita. Sono anche stata a Modena in gita che mi ha molto affascinata.
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E se ottobre è partito con un piccolo incidente di percorso che non avrei mai immaginato e che mi ha molto spaventato è anche stato contrassegnato da molte bellissime camminate alla scoperta della collina torinese. Ho anche mangiato un gelato in un periodo in cui non lo avrei mai creduto possibile. E mentre le giornate si accorciavano, sono stata a Giaveno alla sagra dei funghi in una giornata bellissima con una mia amica e poi a fine mese sono stata a Reggio Calabria per un matrimonio e ne approfittato per osservare dal vivo i Bronzi di Riace in una scoperta emozionantissima che mi ha lasciato senza parole. Reggio mi ha anche fatto chiedere ancora una volta ma perché non vivo al mare? Come mi rimette al mondo il mare nessuna cosa.  Veramente veramente molto bella. 
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Novembre è sempre quel mese che ti lascia con un po' di tristezza addosso, con la pioggia che arriva e il freddo che ti circonda, e noi abbiamo cercato di combatterlo andando a visitare la World Press Photo Torino a Palazzo Barolo, che come sempre sono un colpo al cuore per le storie che raccontano e tramutano in immagine. La World Press è una di quelle cose che restano nel segno, che non perdonano, che segnano il visitatore e restano piantate nel cuore. Siamo anche state di nuovo a Milano al Tenoha a visitare la mostra  Donne Samurai  con le opere di Benjamin Lacombe tratte dal suo ultimo libro. 
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A dicembre per l'immacolata sono stata a visitare per la prima volta ad Aosta che devo dire mi ha molto colpita, sarà che ero con le Merendine, sarà che c'era la neve, sarà che uscivamo da un periodo complicato ma Aosta mi ha portato tanto, abbiamo assaggiato la grolla questo caffè alcolico che ti scalda fino al midollo, abbiamo mangiato degli gnocchi buonissimi e ci siamo scaldate con i nostri abbracci, oltre ad aver scoperto l'area megalitica in un museo che ha riaperto da pochissimo e che è davvero ben  fatto, super consigliato. Esplorare una città diventa mega interessante. 
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Per il 2024 ho molti progetti e alcuni li abbiamo anche già portati a compimento (tornare a Bruxelles dopo 10 anni dal mio Erasmus, ma questa è una storia per un altro momento) e spero di riuscire a realizzarli. Vorrei fare un viaggio da sola in stile Barcellona del 2019, ma vediamo. Spero che il 2024 sia un anno buono, in cui riesco a realizzarmi e a compiere un passo importante per la mia età adulta. Compiere 35 anni mi spaventa, il tempo che avanza e lo spirito che resta lo stesso ma la consapevolezza che è giunto il momento di mettere radici. Mi sento spingere in direzioni contrastanti e mi dà molto da riflettere. E' già marzo, lo so, ora che leggerete questo recap, ma ho tante speranze e spero di tornare qui con nuove recensioni a breve. E se siete arrivati fino a qui raccontatemi qualcosa del vostro anno passato o una speranza per il futuro, vi leggo volentieri. 
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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I want to die but I want to eat tteokbokki di Baek Se-hee
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Me: Then I feel like I'm rationalising and stop myself. Psychiatrist: What's wrong with rationalising? Me: It feels like I'm refusiong to accept the truth. Psychiatrist: It's a perfectly reasonable mechanism. It's you trying to find reasons behind your hurt or your decisions. Me: It's all right if I use it to protect myself? Psychiatrist: Of course. You're making a rational judgement. It becomes a problem if you overdo it, but there are many ways it can be looked at as a positive.
"I want to die but I want to eat tteokbokki" di Baek Se-hee è uno di quei libri che è entrato nella lista delle cose da leggere per due motivazioni principali: è una lettura suggerita da Kim Namjoon (RM dei BTS) e ho deciso di leggere tutti i libri Coreani su cui riesco a mettere le mani (e ho un buon numero di volumi che mi attendono e che mi bastano per i prossimi dieci anni). E se ogni volta che mi fisso su un qualcosa questo inizia a ricoprire ogni aspetto della mia vita forse ho un qualche problema, ma sarà un qualcosa di cui preoccuparsi in un altro momento. Intanto questo libro è stato tradotto da Mondadori con il titolo "Vorrei farla finita, ma anche mangiare toppokki", inoltre ne è stato annunciato un sequel intitolato "I want to die but I still want to eat tteokbokki" in uscita a giugno 2024. 
Baek Se-hee è giovane, ha una laurea in Scrittura creativa e lavora per una casa editrice: ha una vita apparentemente serena, una carriera che dovrebbe farla sentire appagata. Eppure un forte malessere esistenziale l'accompagna, non una vera e propria depressione, piuttosto un'apatia cronica che le impedisce di vivere pienamente i rapporti di amicizia, l'amore, i successi lavorativi. Baek si rivolge a uno psichiatra per cercare di dare un nome al suo stato d'animo e scopre di soffrire di distemia, una forma più lieve della depressione, ma con sintomi persistenti. Trascrivendo le sedute settimanali con lo psichiatra, Baek racconta con semplicità e ironia le difficoltà che si trova a vivere giorno dopo giorno; l'ansia del non saper gestire al meglio le nuove amicizie, l'ossessione per il proprio aspetto fisico, l'insicurezza provocata dal giudizio degli altri suscitano in lei una serie di meccanismi di difesa e comportamenti autolesionisti. E, soprattutto, un alternarsi continuo tra la sensazione di vuoto lancinante e l'allegria di una serata con gli amici; tra l'apatia e il desiderio impellente di uscire per gustare un bel piatto di gnocchi di riso saltati in padella e conditi con salsa piccante: i toppokki, il suo street food preferito. Come conciliare queste sensazioni così distanti tra loro?
Quando ho aperto questo libro avevo già in mente tutta un'idea di quello che ci avrei trovato dentro, mi ero costruita un'immagine sulla base del titolo che mi avrebbe portato a scoprire chissà quale profonda verità, che mi avrebbe regalato chissà quale segreto. Poi quando l'ho letto mi sono trovata davanti a qualcosa di completamente diverso, che andava a scavare nella storia di Baek Se-hee in maniera totale. Si tratta infatti delle trascrizioni delle sue conversazioni con la sua terapeuta mentre cerca disperatamente un equilibrio nella sua esistenza frenetica e incerta. La voce della protagonista emerge chiara nel suo percorso, con le sue fragilità e le sue paure, in un periodo in cui tutto sembra troppo complesso. Si muove nello spazio delle sue interazioni con chi la circonda con l'indecisione di chi non sa bene chi è e che vuole essere semplicemente amata. Tutte le conversazioni che cercano di scavare in ogni aspetto della vita della protagonista, si concentrano sul raggiungimento di una certa consapevolezza. Non c'è spazio per abbellimenti o censure quando ci si mette a nudo, si è ruvidi, incerti, spaventati, e tutto diventa incredibilmente difficile, esporre i propri segreti lascia nudi, senza pelle, fragili. Ed è questo che rende interessante il volume: lo scoprire i propri pensieri più intimi e la capacità del lettore di riconoscersi in quel dolore e in quelle mancanze che in un qualche modo diventano universali. Il rapporto con il cibo, il proprio aspetto fisico, il rapporto con il partner, con gli amici, con la famiglia, il lavoro, il tempo libero. Ogni aspetto dell'esistenza della protagonista viene posta al microscopio in un percorso di terapia volto a risolvere gli insoluti, sciogliere i nodi. Da un lato essere una people pleaser e dall'altro rifuggire rapporti che vadano davvero a scavare dentro, dall'altro la voglia di rispettare quelli che pensa essere i canoni di bellezza, la forma fisica perfetta che dovrebbe coincidere con la bellezza. In loop continuo di recriminazioni che si condensano nell'ansia di non essere mai all'altezza, la Se-hee si muove senza grosse certezze e con la paura di non essere abbastanza. Quello che ne emerge è che chiedere aiuto è importante e necessario e non dobbiamo aver paura di mostrarci deboli, fragili, indifesi, a volte sta tutto lì in quell'istante necessario a tendere una mano. Parlare, confrontarsi e analizzare diventano i passi necessari per uscire da un loop devastante che sfrangia la nostra esistenza e ci rende del tutto inconsapevoli e destinati a stare male a lungo. Non siamo mai pronti a trattare la nostra salute mentale con la cura che riserviamo agli altri aspetti del nostro corpo. Se ci fa male una gamba andiamo a farci visitare, se ci fa male il cuore ce ne stiamo in un angolo ad angustiarci senza prenderci cura della parte più importante della nostra vita. 
Il particolare da non dimenticare? I tteokbokki...
Baek Se-hee naviga i confini del suo mondo, analizzando la sua vita in una serie di illuminanti conversazioni con la sua terapeuta, mentre le risposte sembrano sempre più lontane, i meccanismi per riconoscere gli schemi distruttivi diventano sempre più chiari, in un percorso che è allo stesso tempo estremamente personale e assolutamente universale, e vi assicuro che vale la pena assaggiare i tteokbokki almeno una volta nella vita, soprattutto raccolti in un banchetto di street food insieme a un hotteok fumante, ma questa è una storia per un'altra volta.
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Indagine sulla felicità di Paolo Giuseppe Alessio
Che cos'è quella cosa che tutti inseguono e che nessuno riesce mai ad afferrare, se non per qualche istante? La sua ricerca può essere un rompicapo, un'ossessione o più semplicemente un divertimento. Ad alcuni riesce del tutto naturale, come fermarsi a comprare il latte dopo il lavoro, per altri è un gioco mai imparato o uno sport per cui si è negati. Morganti, come spesso gli capitava, si sentiva a proprio agio più con la teoria che con la pratica. Sì, perché sebbene avesse osservato decine di persone impegnate in quella ricerca, per quanto lo riguardava non era mai riuscito ad apprendere molto e aveva trovato ancora meno.
Se sono ancora presente in questo spazio di web lo devo anche alle occasioni che arrivano a sorprendermi nel mezzo della mia quotidianità. Anche se il tempo per leggere si è ridotto notevolmente e sono sempre più risucchiata in altro, pure rinunciare completamente alle mie vite di carta mi risulta difficile. Sono qui a tenermi stretti i momenti in cui mi immergo in storie e disegno con la mente le parole che leggo tra le pagine. Ma quando puoi avere l'occasione per incontrare dal vivo gli autori dei libri che leggi allora diventa ancora più speciale l'esperienza di lettura, perché confrontarsi su quello che pensi, su quello che hai carpito, su quello che hai ipotizzato è qualcosa a cui spero di non rinunciare mai. Ed ecco allora che non solo mi sono ritrovata a maggio a seguire di nuovo le orme del metodo di una nostra vecchia conoscenza ma anche quella di una mia cara amica. Amaranth de "Le Belle Recensioni" è di nuovo in giro per Torino a dialogare con Paolo Alessio della sua nuova produzione narrativa "Indagine sulla felicità" seconda avventura dell'Ispettore Morganti con uno spirito nuovo e un'evoluzione che neanche ci potevamo immaginare dopo aver chiuso il volumetto de "La rabbia".
Ho avuto il piacere di assistere a ben tre presentazioni: una il 20 aprile a Binaria in un pomeriggio piovoso e grigio in un clima da prepartenza per me perché poi sarei andata dai miei.
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In un lunedì scappata da lavoro, il 15 maggio, ho raggiunto il magico duo nell'ottica TooB.
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E sono riuscita ad assistere anche a quella a Spazio4 in pieno quartiere San Donato in un assolato pomeriggio di giugno, il 17.
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Questo tour è stato davvero molto interessante perché ogni volta approfondisce aspetti diversi della storia raccontata da Alessio. E forse è questo che rende le vicende di Morganti ancora più affascinanti, questo scoprire delle intenzioni che ogni volta vengono scoperte come in un gioco di carte dal suo autore, che racconta e si racconta entrando in contatto con tanti diversi lettori e prospettive.
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Che cosa succede quando la felicità si trasforma nel movente perfetto per una serie di crimini condotta senza colpo ferire ma seminando il panico con spietata astuzia? L’ispettore Morganti è colto come sempre del tutto alla sprovvista e si trova alle prese con una vicenda di cronaca nera subito battezzata dai giornali come “il caso dei birilli”, per il modo spietato e inappellabile con cui le vittime escono di scena: lanciandosi nel vuoto, come colpite da un’inesorabile palla da bowling, spesso a pochi passi dall’estasi completa. Che cosa spinge i suicidi a compiere un gesto così estremo? Qual è il motore che innesca questa imprevedibile caduta di uomini e donne qualunque? Morganti indaga, con l’aiuto del fidato assistente Giosafatte, e si accorge con qualche imbarazzo di essere sovente più spettatore che protagonista, più agito che agente, sorretto soltanto da un umano e disperato desiderio di ritrovare, nell’immane matassa che avvolge vicende e persone, l’esile bandolo di un senso.
Della trama come sempre non svelerò molto d'altronde sapere il minimo indispensabile rende l'esperienza di lettura più affascinante, i temi trattati infatti forniscono prospettive che mettono in discussione le convinzioni del lettore. La vicenda si apre con un quadro chiaro, nitido, una fotografia di un momento di perfetta felicità: va tutto bene, gli spiriti sono sereni, gli incastri possibili, la realizzazione personale a portata di mano. La città è circondata da quest'aura di perfezione che si colloca perfettamente al centro della scena. Ma ad un certo punto l'equilibrio si spezza, i "birilli" iniziano a cadere e una catastrofe si abbatte tra gli abitanti increduli, non ci vuole molto un pezzo di carta. Morganti, l'ispettore che sembra trovarsi sempre al momento giusto al posto giusto indaga, incalza, si interroga, ma soprattutto è anche lui alla ricerca della felicità. Al contrario di quanto succede per "La rabbia" in questo secondo volume non ci si concentra sull'emozione quanto più alla sua ricerca e in qualche caso alla sua mancanza. E' quindi l'indagine del titolo al centro, in un ripiegarsi sul piano reale delle vicende e quello emozionale del movente. Anche l'appuntato senza grazia che accompagna Morganti diventa catalizzatore della ricerca e improvvisamente spalanca sul lettore il suo mondo interiore che di fatto sfugge alle logiche che fino a quel momento gli sono state attribuite. Rispetto al primo libro vengono introdotti nuovi personaggi che contribuiscono a mettere insieme un insieme eterogeneo di aspirazioni e concretezze che spingono ad analizzare diverse sfaccettature dell'animo umano. Assistiamo curiosi al conflitto con la scrittura e la vastità del primo amore, con il rancore covato per una società che non lascia spazio ai diversi e ai deboli e alle conseguenze di una perdita che si incancrenisce fino a diventare insopportabile. Al centro però c'è anche l'ambientazione, questa città che viene nominata con il suo nome solo una volta, questa Torino che risulta "più prospera e pratica, che felice", la città industriale, la signora elegante, la custode dei crucci e dei drammi. Torino che emerge chiara anche quando viene citata di sfuggita, il labirinto del Quadrilatero che fa da scrigno dei segreti più inconfessabili.
Il particolare da non dimenticare? Una polverina rossa...
Un'indagine che sfugge i confini del delitto e si sublima nei confini delle esperienze dell'umanità che ci rappresenta tutti in una corsa verso la felicità che resta ancorata al dolore che ci consuma quotidianamente. Ogni tassello diventa il pretesto di una ricerca che supera i confini della pagina e arrivare direttamente al lettore.
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Che fine ha fatto Anncleire? Recap degli ultimi mesi
Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho provato a scrivere un post qui sul blog? Tantissimo, ho iniziato ad abbozzare qualcosa tante volte e poi mi sono dissuasa dopo poco. Quando ti interrompi diventa difficile riprendere. Diventa difficile anche tornare, ti chiedi sempre se ne vale la pena, se è il caso, se è quello che ci si aspetta.  Però ho voglia di raccontarmi, di nuovo, in questo angolo di web che è mio ed è ancora molto importante, anche se magari solo per me.
Non so bene dove eravamo rimasti, proviamo di nuovo a riprendere le redini del racconto. Forse era maggio, quando ho pubblicato la recensione di "Crying in H Mart" e intanto avevo preparato un post che non è mai stato pubblicato ed è rimasto in bozze. A maggio, mese per me mega importante perché è quello del mio compleanno, maggio che sembrava novembre. 
Il 20 maggio, proprio il giorno del mio compleanno, sono andata al Salone del Libro con una mia carissima amica che non vedevo da anni e ho incontrato la mia adorata Martina di Liber Arcanus. Devo dire che anche quest'anno è stato abbastanza traumatico. Credo di non essere più abituata alla gente, questa massa informe di persone che arriva con una sua presenza e che vuole fagocitarti. Ma la struttura del Lingotto resta lì a coccolarti lo stesso. Forse rispetto al 2022 ho notato che gli spazi erano più dilatati ma è anche vero che sono rimasta per molto meno tempo. Prima tappa in una delle mie case editrici preferite, Safarà Editore, dove ho comprato un paio di volumi e ho salutato appena in tempo Cristina che resta una presenza amica sempre anche se ci vediamo solo al Salone, ma i libri di Safarà mi colpiscono sempre, come un dono.
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Dopo un breve giro esplorativo, sono stata alla presentazione "Tante voci, una voce: tre scrittrici raccontano la Storia" con Stefania Auci, Francesca Giannone e Alessandra Selmi organizzata dalla casa editrice Nord e che hanno raccontato le loro storie: rispettivamente "I Leoni di Sicilia", "La portalettere" e "Al di qua del fiume". Mentre del primo volume della duologia della Auci vi ho già parlato qui sul blog, gli altri due sono stati una piacevole scoperta. "La portalettere" è il racconto romanzato di una delle antenate della Giannone, una delle prime portalettere donna italiane, in un paesino pugliese, avvinghiata in un triangolo amoroso che pervade la scena e che mi ha molto incuriosita. La Selmi invece ha raccontato le vicende della famiglia Crespi che sulle sponde dell'Adda hanno messo in piedi un cotonificio e un villaggio industriale che sembra un miraggio a fine Ottocento e che si deve scontrare con tutta la storia della Lombardia. Le tre autrici hanno spiegato come hanno portato avanti la loro ricerca, le idee da cui sono partite, il loro rapporto con la storia e con la scrittura e come spesso la vita giochi un ruolo fondamentale. Tre donne e tre storie e la Storia che sembra così lontana e invece è incredibilmente vicina.
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Dopo un velocissimo salto da alcuni dei miei preferiti: Abeditore, Codice Editore, dove cercavo il volume che sto finendo di leggere in questi giorni "Storia del mondo in sei bicchieri" (libro di cui vi parlerò approfonditamente a parte perché veramente merita una lettura) e L'orma editore.
Tra fine maggio e inizio giugno sono riuscita finalmente a recuperare insieme ad Alaisse il viaggio a Lisbona che avevamo dovuto annullare a marzo 2020 con l'inizio della pandemia. Lisbona è una città spettacolare in cui siamo rimaste cinque giorni e di cui mi sono completamente innamorata. A parte la sindrome di Stendhal davanti agli azulejos dell'omonimo museo e il Monastero di San Jeronimos, ho fatto in tempo a perdermi completamente davanti alle sponde del Tago e sulle salite e discese mangiando pasteis de nata a gogo.
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Lisbona è una città che ti sorprende, un po' rustica e un po' cosmopolita, con i suoi alberi di jacaranda, le sue piastrelle colorate, i suoi tram che si arrampicano in collina e che ti tolgono il fiato.
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Alaisse è riuscita a portarmi a fare una esperienza sul Pillar 7: il pilastro numero 7 del ponte del 25 aprile sul Tago, che ricorda un po' il Golden Bridge di San Francisco, e su cui puoi salire sia per vedere come sono stati costruiti i pilastri, sia per affacciarsi ad un passo dalle macchine che scorrono veloci sul ponte e per salire su un balconcino di vetro, trasparente sotto. Io avevo il batticuore ma la vista in effetti ne valeva la pena. Sono veramente contenta di essere riuscita ad andare in Portogallo, anche se la prossima volta vorrei andare a Porto.
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A luglio tra una mostra fotografica e un'altra sono stata a Firenze con la mia adorata Lorena per assistere al tour negli stadi dei Pinguini Tattici Nucleari che se mi seguite da un po' sul blog sapete sono tra i miei gruppi preferiti e devo dire che il concerto è stato davvero uno spettacolo bellissimo. Era da un po' che non assistevo ad un gruppo dal vivo e mi sono molto emozionata. Da Bergamo a Hikikomori, passando per Coca Zero, ho urlato e ballato come non mai in mezzo ad altra gente mega entusiasta, nel parterre gold, con Zanotti e gli altri membri della band molto vicini e la sensazione di star vivendo una esperienza incredibile. Super super bello.
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Agosto 2023 rimarrà invece nel mio cuore per sempre perché sono riuscita finalmente a realizzare uno dei miei sogni nel cassetto da una vita: andare in Corea del Sud. Ancora non ci credo che dopo averlo solo sognato per mesi e mesi sono riuscita ad andare lì, sono riuscita a vedere dal vivo un paese che mi ha rubato il cuore e il sonno e mi ha dato solo nuove ossessioni. L'11 agosto alle 21:50 siamo decollate da Malpensa per atterrare 11 ore dopo in quel di Incheon, l'aeroporto fuori dalla capitale. Da lì abbiamo preso un treno per arrivare a Seoul Station e poi il KTX il treno dell'alta velocità che alle dieci e mezza di sera ci ha portate a Busan.
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Lì siamo rimaste un giorno per iniziare ad esplorare la città salendo sulla Busan Tower e visitando il museo del cinema e poi per due giorni, il 14 e il 15 siamo volate su Jeju-do.
L'isola di Jeju è la meta turistica per le vacanze dei Coreani, nonché meta dei viaggi di nozze, ma io sognavo di andarci da quando l'ho sempre e solo vista nei drama che ho divorato negli ultimi sei anni. Jeju è affascinante, abbiamo preso un albergo che affacciava sull'oceano e finalmente siamo riuscite ad andarci con la speranza inossidabile di iniziare ad esplorarla.
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Dal 16 al 20 agosto siamo rimaste a visitare Busan, a guardarne le spiagge, i templi, il Gamcheon Village, a salire sulle sky capsule, ad attraversare il mare su una cable car e a incantarci al museo d'arte. A Busan abbiamo sconvolto i locali con il nostro essere straniere e abbiamo mangiato gli hotteok, abbiamo camminato come non mai e assaggiato il kimchi più buono del viaggio e abbiamo imparato che la mossa giusta è farsi amica la ajumma (le signore di una certa età) che trovi sul tuo cammino e che a volte basta un grazie in coreano per fare la differenza.
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Il 20 abbiamo preso un KTX che da Busan ci ha condotto a Seoul e lì siamo rimaste fino alla fine del viaggio il 27 agosto. Seoul, ah Seoul, penso di averci davvero lasciato un pezzo di anima e lei me ne ha lasciato un pezzettino della sua e sono qui che mi chiedo quando riuscirò a tornarci davvero. Come raccontare cosa mi rimane in testa di una città che ho solo immaginato per anni, componendo in testa il puzzle che la definisce e poi boom eccomi lì a camminare per le sue strade a riconoscere che è uno dei posti in cui mi sento a casa?
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Arrivare a Seoul è stato un po' come trovare il mio spazio, sapendomi orientare, riconoscendo i quartieri, urlando "ma io quel posto lo conosco" mangiando i japchae, emozionandomi per il bulgogi, credendo che quegli spazi enormi, i palazzi reali, i grattacieli, la Lotte Tower, la Namsan Tower, le salite e le discese, i locali, la musica, i café, ogni spazio era una casella che ricomponeva la mappa che ho costruito su Naver ed era lì tangibile.
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Questo riassunto non riuscirà mai a ricollocare nello spazio le emozioni che ho provato ad essere in Corea, il senso di smarrimento che ho provato salendo sull'aereo che da Incheon ci ha riportate a Milano, in una serata da apocalisse, con la pioggia, il freddo, il ritardo, il jet lag. Ancora non mi spiego come io sia riuscita a tornare a vivere normalmente a Torino, in un settembre pieno di appuntamenti e di abbracci, di festeggiamenti e esperienze che mi hanno permesso di tornare in me. Mi manca la Corea, come se davvero avessi un arto fantasma da portarmi dietro e che in realtà è solo il pensiero di non essere più lì.
Sono qui, a raccontarvi queste cose, perché d'altronde è quello che ho sempre fatto e perché in fondo mi manca questo spazio di web con la speranza di non perderlo, di trovarlo ancora confortevole. Sono cambiata e anche la mia vita sta cambiando, con la velocità che arriva solo dalla vita adulta che pretende tutta la tua attenzione. Sono qui e allo stesso tempo vorrei trovarmi altrove. Sono qui e intanto vivo mille altre esperienze, sono qui aggrappata con le unghie alle certezze che solo i rapporti solidi che ho costruito in questi anni mi sanno dare, sono qui e penso già al prossimo viaggio, alla prossima esperienza, al prossimo abbraccio. Sono qui e penso che sia l'unica cosa vera che posso avere. Sono qui nonostante i crolli, le incertezze, le emozioni. Sono qui e non sono sola.
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Crying in H Mart di Michelle Zauner
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My parents wouldn't have known the names of authors I should read or foreign directors I should watch. I was not given an old edition of Catcher in the Rye as a preteen, copies of Rolling Stones records on vinyl, or any kind of instructional material from the past that might help give me a leg up to cultural maturity. But my parents were worldly in their own ways. They had seen much of the world and had tasted what it had to offer. What they lacked in high culture, they made up for by spending their hard-earned money on the finest of delicacies. My childhood was rich with flavor-blood sausage, fish intestines, caviar. They loved good food, to make it, to seek it, to share it, and I was an honorary guest at their table.
"Crying in H Mart" di Michelle Zauner edito in italiano da Mondadori, è entrato nelle mie cose da leggere perché quando si parla di cibo e Corea oramai il mio occhio e il mio cervello si attivano ed esplodono all'unisono con "lo voglio". La forma del mémoire ha iniziato anche ad essermi molto cara, nonostante il tema di fondo, quello della perdita e del lutto, mi devastano solo al pensiero, ma Michelle Z ha l'incredibile capacità di coinvolgere senza sensazionalismo e anche nei momenti più tragici conserva la compostezza di chi sta raccontando la sua storia e sa cosa ha provato.
Con struggente umorismo, Michelle Zauner racconta la propria esistenza a partire dall’infanzia, quando era una delle pochissime bambine di origine asiatica nella sua scuola di Eugene, in Oregon, e doveva soddisfare le aspettative di una madre esigentissima, fino alla sofferta adolescenza; e poi le estati passate nel minuscolo appartamento della nonna a Seul, dove, davanti ai piatti tipici della cucina coreana, il suo legame con la madre si fa sempre più forte. Michelle cresce, si trasferisce sulla East Coast per frequentare il college, inizia a muovere i primi passi nel mondo della musica e conosce l’uomo che diventerà suo marito. Sta costruendo la vita che vuole vivere, le radici coreane sembrano sempre più distanti. Fino a quando, a venticinque anni, la notizia che sua madre ha un cancro in fase terminale la spinge ad andare in cerca della propria identità culturale. E a riscattare il patrimonio di sapori, profumi, linguaggi e tradizioni che la donna le ha donato. Schietta e poetica, la voce di Michelle Zauner risuona luminosa sulla pagina come sul palco. Ricco di aneddoti personali e di foto di famiglia, Crying in H Mart è un libro da leggere, rileggere, amare e condividere.
Ci sono eventi che spezzano completamente la nostra vita e che rivoluzionano il percorso che stiamo tracciando e anche quando siamo capaci di ristabilire la presa, siamo inevitabilmente cambiati. In questo contesto la storia di Michelle si inserisce con una facilità che non mi sarei mai aspettata, con la descrizione a tratti ironica e a tratti molto dura della sua vita e della sua forza. Michelle è stata una bambina sensibile, una adolescente ribelle, una giovane adulta alla ricerca della sua strada, in un disperato tentativo di prendere in mano le redini della sua vita. Ma proprio quando sembra che le cose stiano iniziando ad ingranare ecco che una terribile sciagura si abbatte sulla sua famiglia: sua madre, la colonna portante di tutta la sua esistenza e di quella di suo padre, inizia a stare male e in breve deve iniziare a fare i conti con la malattia e la perdita. Tutto il volume ripercorre la sua intera esistenza in un susseguirsi di episodi e sentimenti conditi con dal suo disperato tentativo di non perdere le sue radici, il suo essere per metà coreana, l'eredità che sua madre ha cercato strenuamente di passarle, tenendo per sé un dieci percento, necessario per non lasciarsi sopraffare. Michelle racconta e nel frattempo regala al lettore uno scorcio ampissimo non solo della sua sfera privata ma soprattutto della cultura a cui è stata esposta. Sua madre infatti è una donna di Seoul che ha sposato un uomo americano con cui dopo aver attraversato vari paesi si è stabilita negli Stati Uniti, ad Eugene. Ma la Corea non ha mai lasciato la donna che applica tutti i giorni i passaggi della skin care spalmando sul viso ogni tipo di crema che trova a disposizione su QVC, sempre in ordine con vestiti perfettamente stirati, borse in condizioni eccellenti, la casa piena di suppellettili bellissime e delicate che basterebbe un colpo di vento per distruggere. Ma soprattutto i genitori di Michelle sono degli estimatori del buon cibo, ogni occasione è buona per festeggiare con piatti più o meno speciali, destinati a rimanere ancorati nei ricordi: zuppe tipiche, il kimchi un prodotto coreano il cui in principal modo il cavolo viene ricoperto di spezie varie e lasciato a fermentare in appositi contenitori, aragoste, noodles, carne marinata, affettata, arrostita, grigliata, amalgamata alle abitudini di una famiglia che rinuncia a molto ma non a uno dei piaceri della vita. Ogni cosa allora diventa un rito, con dei passi da ripercorrere e un modo per tenere insieme i pezzi che si dissolvono. Il cibo diventa anche il mezzo con cui prendersi cura delle persone che si amano, in un disperato tentativo di esserci anche contro tutto. Michelle da adolescente si è sentita soffocare dalle cure della madre che si è sempre concentrata su di lei per proteggerla e per ricordarle chi è, spazzolandole i capelli, comprandole vestiti e prodotti cosmetici, punzecchiandola per portarla ad eccellere in tutto quello che fa. Ma Michelle aveva un sogno, emergere nel mondo della musica, diventare una cantante, e fonda una band e inizia ad esibirsi nei locali che la ospitano nel tentativo di mantenersi con la sua passione. La madre non comprende questo desiderio di sfuggire dai tentacoli del suo amore e le rinfaccia il suo carattere scontroso e la sua necessità di non prendersi troppo sul serio, ma la donna continua ad esserci per lei. Quando torna a casa dal college prepara alla figlia i suoi piatti preferiti, quando va a trovarla in questo appartamento sgangherato disordinato e ammuffito non fa una piega e le lascia contenitori e contenitori di piatti già preparati solo da scaldare. Ed è questo rapporto tra madre e figlia che si nutre su così tanti aspetti che è impossibile incastrarlo in una scatola che rende quello che racconta Michelle molto interessante: il cibo, le gite annuali in Corea, le chiacchiere, i gesti insignificanti che accumulati modellano alla perfezione alla mancanza che senti quando non ce li hai più. Ogni pagina è ricalcata sulla madre dell'autrice, quando c'è e quando non c'è, quando non sa nulla di lei e quando diventa si rende conto di tutte le cose che non sapeva: la passione per la pittura, il dolore privato che non le ha mai mostrato, i non detti di ogni famiglia. C'è molto di Michelle la sua vita che si evolve ed elabora e c'è la sensazione angosciosa di non fare in tempo, di essere sempre in ritardo, di avere in qualche modo il tempo contato e diventa difficilissimo rimanere presenti a sé stessi. Il lutto è un mostro con molte teste che rischia di fagocitare tutto, ma da un qualcosa di terribile nasce la speranza e la possibilità di riscattarsi e di realizzare le proprie aspirazioni. La famiglia ha un ruolo di primo piano con le sue tradizioni e le sue specificità perché d'altronde "ogni famiglia infelice è infelice a modo suo". Un altro aspetto molto interessante che affronta l'autrice è il suo sentirsi sempre a metà spezzata tra due mondi e mai appartenente ad un'unica entità: i suoi tratti particolari che la rendono diversa dalla tipica ragazza americana e la mancanza della perfezione coreana che non la mimetizzano neanche per le strade della capitale sud coreana. Quella ricerca ossessiva di una identità e di una figura di riferimento che la rendono instabile tra i suoi coetanei. Questo senso spietato di smarrimento che non trova pace in nessun tipo di confronto se non nella musica, che vaga e cerca appigli anche quando sembrano non esserci. Che rimanere aggrappati a noi stessi passa anche dai nostri ricordi, dai gesti che hanno caratterizzato la nostra infanzia e soprattutto dai luoghi che meno ci aspettiamo.
Il particolare da non dimenticare? Una zuppa di pinoli...
Un mémoire che racchiude il potere curativo del cibo e la sua forza unificatrice, il mondo interiore dell'autrice e il suo modo di affrontare la vita e la perdita, gli insuccessi e le vittorie, la famiglia e la società, sul palco o nel mezzo di un H-Mart che magari con davanti il tuo piatto preferito davanti un po' di consolazione arriva.
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Toshikazu Kawaguchi: un breve resoconto della serie Finché il caffé caldo
Una cosa in cui credo fermamente è che non dobbiamo permettere che la morte di una persona cara porti infelicità. La ragione è semplice: se lasciamo che la morte porti infelicità, significa che le persone nascono per diventare infelici. Ma in realtà è sempre vero l'esatto opposto. La gente nasce per essere felice.
Il primo caffè della giornata
Durante la pandemia, quando l'imperativo categorico era rimanere a casa, in una chiamata insieme, una nostra amica ci ha parlato di uno scrittore giapponese, Toshikazu Kawaguchi, che ha scritto una serie che parlava di un caffè minuscolo, nascosto in un angolo, in cui succede una magia: se ci siede in un particolare tavolino, finché si beve il caffè caldo e seguendo una serie di regole, si può viaggiare nel tempo e incontrare persone che sono passate dal caffé. Protagonisti quindi il rito del caffè e l'idea del viaggio nel tempo: due concetti che mi hanno sempre affascinato e non potevo lasciarmi sfuggire l'occasione di metterci le mani sopra. Detto fatto mi sono messa a scartabellare e ho scoperto che la serie, ormai arrivata al quarto volume, è stata pubblicata in italiano da Garzanti. Nei volumi viene attraversata la storia del locale mettendo insieme le vite dei proprietari e di chi ci lavora, con gli avventori abituali o di passaggio che passano dal caffè mescolando scelte di vita e desideri, in una riscoperta e una consapevolezza che diventano sempre più evidenti mano a mano che si va avanti con la lettura. Il primo volume della serie è "Finché il caffè caldo", seguito da "Basta un caffè per essere felici", poi è stato pubblicato "Il primo caffè della giornata" e il 28 febbraio 2023 è arrivato sugli scaffali delle nostre librerie il quarto volume "Ci vediamo per un caffè".
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Un tavolino, un caffè, una scelta. Basta solo questo per essere felici. ECCO LE 5 REGOLE DA SEGUIRE: 1. Sei in una caffetteria speciale. C’è un unico tavolino e aspetta solo te. 2. Siediti e attendi che il caffè ti venga servito. 3. Tieniti pronto a rivivere un momento importante della tua vita. 4. Mentre lo fai ricordati di gustare il caffè a piccoli sorsi. 5. Non dimenticarti la regola fondamentale: non lasciare per alcuna ragione che il caffè si raffreddi. In Giappone c'è una caffetteria speciale. È aperta da più di cento anni e, su di essa, circolano mille leggende. Si narra che dopo esserci entrati non si sia più gli stessi. Si narra che bevendo il caffè sia possibile rivivere il momento della propria vita in cui si è fatta la scelta sbagliata, si è detta l’unica parola che era meglio non pronunciare, si è lasciata andare via la persona che non bisognava perdere. Si narra che con un semplice gesto tutto possa cambiare. Ma c’è una regola da rispettare, una regola fondamentale: bisogna assolutamente finire il caffè prima che si sia raffreddato. Non tutti hanno il coraggio di entrare nella caffetteria, ma qualcuno decide di sfidare il destino e scoprire che cosa può accadere. Qualcuno si siede su una sedia con davanti una tazza fumante. Fumiko, che non è riuscita a trattenere accanto a sé il ragazzo che amava. Kōtake, che insieme ai ricordi di suo marito crede di aver perso anche sé stessa. Hirai, che non è mai stata sincera fino in fondo con la sorella. Infine Kei, che cerca di raccogliere tutta la forza che ha dentro per essere una buona madre. Ognuna di loro ha un rimpianto. Ognuna di loro sente riaffiorare un ricordo doloroso. Ma tutte scoprono che il passato non è importante, perché non si può cambiare. Quello che conta è il presente che abbiamo tra le mani. Quando si può ancora decidere ogni cosa e farla nel modo giusto. La vita, come il caffè, va gustata sorso dopo sorso, cogliendone ogni attimo.
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Accomodati a un tavolino. Gusta il tuo caffè. Lasciati sorprendere dalla vita. L'aroma dolce del caffè aleggia nell'aria fin dalle prime ore del mattino. Quando lo si avverte, è impossibile non varcare la soglia della caffetteria da cui proviene. Un luogo, in un piccolo paese del Giappone, dove si può essere protagonisti di un'esperienza indimenticabile. Basta entrare, lasciarsi servire e appoggiare le labbra alla tazzina per vivere di nuovo l'esatto istante in cui ci si è trovati a prendere una decisione sbagliata. Per farlo, è importante che ogni avventore stia attento a bere il caffè finché è caldo: una volta che ci si mette comodi, non si può più tornare indietro. È così per Gotaro, che non è mai riuscito ad aprirsi con la ragazza che ha cresciuto come una figlia. Yukio, che per inseguire i suoi sogni non è stato vicino alla madre quando ne aveva più bisogno. Katsuki, che per paura di far soffrire la fidanzata le ha taciuto una dolorosa verità. O Kiyoshi, che non ha detto addio alla moglie come avrebbe voluto. Tutti loro hanno qualcosa in sospeso, ma si rendono presto conto che per ritrovare la felicità non serve cancellare il passato, bensì imparare a perdonare e a perdonarsi. Questo è l'unico modo per guardare al futuro senza rimpianti e dare spazio a un nuovo inizio.
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Nel cuore del Giappone esiste un luogo che ha dello straordinario. È una piccola caffetteria che serve un caffè dal profumo intenso e avvolgente, capace di evocare emozioni andate. Di far rivivere un momento del passato in cui non si è riusciti a dar voce alle emozioni più profonde e sentite o si è arrivati a un passo dal deludere le persone più importanti. Per vivere questa esperienza unica, basta seguire poche e semplici regole: accomodarsi al tavolino che si preferisce e gustare il caffè con calma, un sorso dopo l'altro. L'importante è fare attenzione che non si raffreddi. Per nessuna ragione. Gira voce che cose inimmaginabili accadano a chi lascia anche una sola goccia, gelata, nella tazza. Non è un caso che entrare in questa caffetteria non sia per tutti. Solo chi ha coraggio e sente il bisogno di mettersi in gioco, può farsi avanti e rischiare. Proprio come Yayoi, che, privata dell'affetto dei genitori quando era ancora molto piccola, non sa bene come accogliere e accudire una nuova vita. O Hayashide, la cui carriera sfavillante, costellata di successi, non gli ha dato modo di accorgersi della felicità che ha sempre avuto a portata di mano. O ancora Reiko, che non ha mai saputo chiedere scusa all'amata sorella e ora si sente schiacciata dal senso di colpa, bloccata in un eterno presente dove ogni giorno è identico al successivo. E Reiji, per cui una frase semplice come “ti amo” rappresenta ancora un ostacolo invalicabile. Ciascuno vorrebbe poter cambiare quello che è stato. Riavvolgere il nastro e ricominciare da capo. Ma cancellare il passato non è la scelta migliore. Al contrario, ciò che conta è imparare dai propri errori per guardare al futuro con ottimismo, senza pensare alle occasioni mancate. Perché ci saranno sempre nuove possibilità di inseguire la vita che si desidera.
Il Giappone è un luogo affascinante che ti resta nel cuore una volta che lo hai scoperto, con una cultura molto interessante che diverge da quella occidentale e sicuramente piena di spunti. Immergersi in questo remoto paesino dove la storia di Kawaguchi si svolge è davvero molto semplice soprattutto quando l'immaginario congiura un viaggio nel tempo e nelle emozioni e la leggenda diventa tangibile. La bottega del caffè, che esiste da più di cento anni, diventa la porta per raggiungere le persone che abbiamo amato. Non puoi cambiare niente, non puoi agire sui fatti per modificarli, ma è la propensione e i sentimenti che cambiano visceralmente. Tutto acquista una dimensione intima, speciale, che si rannicchia nei meandri più oscuri del nostro cuore. E' questo forse che fa la differenza quando inizi a leggere questa serie, il chiudere gli occhi e affidarsi all'istinto e soprattutto la certezza che arrivi davvero dove hai più bisogno. Le storie che si intrecciano tra gli avventori del caffè sono come un ricamo che riprende fili apparentemente spezzati e storie che non hanno niente a che fare l'una con l'altra ma che in realtà sono determinanti per il benessere di tutti. Il fine ultimo di Kawaguchi è esplorare le relazioni umane e come queste evolvono allo scorrere del tempo, e come non sia necessariamente un evento modificato che faccia la differenza quanto piuttosto una cosa comunicata al momento giusto. D'altronde spesso è anche il tempismo che può far riflettere davvero sulle situazioni, a volte è l'impressione che lasciamo con parole casuali che fanno la differenza, che popolano il nostro mondo di intersezioni e cambiamenti che mai ci saremmo aspettati. Reazioni a fine di relazioni, morte, casualità, incontri mancati, incastri indelebili, l'ultima parola che avremmo voluto dire e che ci è rimasta incastrata in gola, sensazioni che resta ancorate in noi a lungo e ci danno la forza per andare avanti. Effettivamente si tratta di una consolazione, di un modo per rendere più lievi situazioni difficili, ci portiamo dietro le lacrime rese più sopportabili da questi momenti brevi, che durano il tempo di una tazza di caffè, ma che cambiano tutto in un istante. E la cosa più bella è questo senso di comunione fortissima tra tutti gli avventori le cui storie sembrano buttate lì un po' a caso e invece diventano consistenti proprio nella loro unione. I viaggi, le speranze, le nascite, le morti sono solo sfaccettature di una stessa comunità che vive e cresce proprio dall'unione dei diversi personaggi, queste donne e questi uomini pieni di rancore, tenerezza, ferocia, amore, speranza, che diventano i protagonisti di racconti che non hanno molta azione ma sono tutti accomunati dalle emozioni che derivano dal sedersi in una particolare sedia e seguire lo stesso rituale di fiducia e salto, di sollievo e dedizione. Anche il rituale del versamento del caffè e proprio la scelta del caffè mi hanno colpito proprio perché per me il momento di bere un caffè è sempre un atto di fede e un rituale che comporta di staccare la mente dalla quotidianità per immergersi in una pozza di amara rilassatezza, una sospensione di giudizio e di intenti che diventa l'espressione stessa dei passi da compiere, la somma di momenti in cui puoi fermarti a godere di un piacere che resta in quell'aroma che aleggia nella stanza mentre il liquido sale nella moka o scende nella tazza dalla macchina per l'espresso. Quell'odore particolare che sfuma instancabile e richiama situazioni ed eventi. Il caffè che fin dall'inizio è stato sinonimo di condivisione e comunione, di comunità ed esperienza, questi luoghi in cui gli scambi erano veicolati dal liquido nero che brucia la lingua e stimola il cervello allontanando la stanchezza. Il caffè questa bevanda che richiama un mondo antico e costituisce per Toshikazu Kawaguchi il legame tra presente passato e futuro, in una linea temporale gestita solo dall'intensità dei nostri sentimenti. E se inizialmente i proprietari del caffè sembrano quasi immuni al potere del rituale piano piano ci si accorge che nessuno ne resta al riparo, che anzi il vero potere di unione tra gli individui diventa sempre più evidente. La magia diventa palpabile e fa immergere ancora di più il lettore nei racconti di Kawaguchi che riesce a pennellare storie commoventi, intense e così vicine a noi che quando il lettore chiude il volume ha ancora voglia di leggere.
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Ritratto del barone d’Handrax di Bernard Quiriny
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Un trattato su chi guarda ma non compra. «È un tipo umano bizzarro. Si pianta di fronte alla vetrina di un negozio in cui ogni cosa appare desiderabile, ma non acquista nulla. Sa benissimo che non entrerà mai in possesso dell'oggetto contemplato, ma ciò non gli impedisce di continuare a fissarlo, quasi volesse impregnarsi della sua aura; da queste contemplazioni trae un piacere derivato e tuttavia reale, che rimpiazza - e al contempo nutre - il piacere originario e tuttavia virtuale, ovvero quello dell'acquisto. Anch'io, spesso, me ne vado in giro per negozi come quei bambini che, davanti alle vetrine di giocattoli, s'incantano su una macchinina che non possono comprare. Eppure non si scoraggiano; tornano li ogni volta che possono; sanno che non l'avranno mai, ma ciò, lungi dal generare repulsione e frustrazione, rintuzza il loro attaccamento e la loro brama dell'oggetto. A me accade lo stesso. Ecco, credo che questo istinto possa insegnarci qualcosa sulla psicologia umana, sul nostro rapporto con le merci e sulla nostra capacità di sperare senza credere.»
"Ritratto del barone d'Handrax" è l'ultima fatica di Bernard Quiriny edito in Italia da L'orma Editore. Io non vedevo l'ora di leggerlo fin dal momento in cui ho scoperto per caso che era uscito in un giro fortuito in libreria e sono contentissima che sia stato all'altezza delle mie aspettative. Ormai leggo il nome dello scrittore e non mi faccio più nessun tipo di domanda, voglio leggere ogni suo scritto. E ancora una volta mi sono innamorata della sua scrittura.
Il barone Archibald d’Handrax è l’ultimo rampollo di una lunga dinastia nobiliare, vive nel maniero di famiglia in un paesino che porta il nome della sua casata, e incontrarlo significa entrare in un universo bislacco in cui si parlano lingue sconosciute, si collezionano case fatiscenti, si organizzano cene tra sosia e di tanto in tanto ci si trasferisce in collegio per riassaporare il gusto dell’infanzia. Un giorno il narratore Bernard, appassionato d’arte, giunge al castello per chiedere informazioni su un avo del barone, il misconosciuto pittore Henri Mouquin d’Handrax, e si ritrova risucchiato suo malgrado in un mondo spiazzante e fuori dal tempo che finirà per cambiargli la vita. Nel Ritratto del barone d’Handrax Quiriny si abbandona al piacere dell’invenzione e dello stile, e affastella dialoghi arguti, dissertazioni erudite e brevi bozzetti di un’assurda quotidianità per consegnarci un romanzo gioiosamente strampalato che mescola con la consueta maestria umorismo nero e ridanciana ironia.
Da quando per un caso fortuito ho scoperto Bernard Quiriny non ho mai smesso di leggere tutto quello che ha scritto. Immergermi nel suo mondo è una esigenza forte che mi ha conquistato completamente e mi lascia sempre senza parole, come quando scopri un tesoro e lo devi studiare a fondo per capire cosa recuperare e tenere vicino. Quiriny ha la capacità di costruire fondamenta solide per storie che lasciano sempre senza parole, che disegnano i confini di personaggi che emergono dalla pagina scritta con una chiarezza che lascia sorpresi e compiaciuti. Non fa eccezione neanche il Barone Archibald d'Handrax l'ultimo personaggio nato dalla fantasia della sua penna. Lo scrittore belga ricostruisce la vita di questo personaggio tramite le esperienze del narratore, non percepiamo mai interamente l'intimità delle sue emozioni, ma la sua personalità e i suoi guizzi emergono chiari e precisi dalle sue interazioni e dagli episodi raccontati. Il narratore, appassionato d'arte fa conoscenza per caso del Barone d'Handrax, sta infatti cercando informazioni su un suo antenato e si ritrova catapultato direttamente nella sua vita e nelle dinamiche della sua famiglia. Mentre le sue ricerche si approfondiscono, Bernard resta affascinato dalla figura del Barone e mentre le pagine scorrono il lettore ne conosce sempre più aspetti fino a rimanere avvinghiato alla sua personalità. Il Barone è una persona curiosa, effervescente, che cerca sempre nuovi modi per affermarsi in un mondo che lo incuriosisce ad ogni passo. Bernard racconta episodi quotidiani: le cene, gli intrattenimenti, le feste e noi scopriamo la casa del Barone, i suoi hobby, le sue necessità. Mentre il gioco diventa scoprire le persone appena decedute, in una stanza della casa appare la stanza delle mappe, mentre i pasti sono un affare speciale, pure il suo menage familiare non è così scontato. Archibald è un uomo che ha un'opinione su tutto, che non si lascia facilmente spaventare, un instancabile collezionista, un portento affascinante. Mentre organizza cene con sosia di personaggi famosi, invia biglietti divertenti in giro, e mentre gli anni passano, Bernard diventa parte integrante della sua famiglia per più di un motivo. Quiriny è straordinario nel delineare un personaggio con tutta una serie di particolarissimi dettagli che creano una visione di insieme non solo di un uomo, ma di una intera situazione. In un angolo sperduto di mondo d'Handrax è una di quelle personalità molto amate e molto apprezzate, che conosce, che esplora, che vaga, che costruisce. Non è solo adamantino nelle sue esternazioni, ma diventa l'ago di una bussola per distinguere e destreggiarsi nella vita, per Bernard è più di un amico, è un riferimento che determina il cammino che continuerà ad intraprendere attimo dopo attimo. Tutto diventa un pretesto per condividere le opinioni del barone, le sue idiosincrasie, la sua visione dell'esistenza, in un insieme di aneddoti che diventano le pennellate per dipingere il suo ritratto.
Il particolare da non dimenticare? Un armadio...
Il ritratto pieno di contrasti di un uomo che ha vissuto appieno tutte le sue peculiarità, in un insieme di episodi apparentemente scollegati ma che regalano il senso di tutta una vita, difficile e serena, dolorosa ed effervescente, piena di affetti e di sacrifici. Quiriny esplora il barone d'Handrax ma esplora tutta una pletora di emozioni umane distintive della sua produzione, guizzi creativi che si sommano in una storia che rimane nei ricordi, perché il barone diventa una figura cara indimenticabile.
Buona lettura guys!
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pleaseanotherbook · 2 years ago
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Una stella senza luce di Alice Basso
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«Ma è terribile!» esclama Anita. «Quelle poverette si sentiranno malissimo!»
Bracco fa un mezzo cenno di scuse, come a dire "mi dispiace, ma si tratta di un male necessario". Il dolore è così, si scopre a pensare Anita: spesso non si limita ad affliggere un soggetto solo, ma ricade a cascata su chissà quanti altri, a volte diluendosi di gradino in gradino - come in questo caso, tutto sommato, in cui una sofferenza grande genera una sofferenza piccola, o come quando si risponde male a qualcuno perché si è appena stati licenziati e si è di cattivo umore -, a volte anche no - come quando la vittima di un crimine diventa criminale essa stessa.
“Una stella senza luce” è il terzo volume della serie di Anita di Alice Basso uscito lo scorso anno per Garzanti. Lo aspettavo con tanta ansia e anticipazione e quando finalmente ce l’ho avuto tra le mani ero al settimo cielo anche e soprattutto dopo aver assistito dal vivo ad una presentazione con la scrittrice che raccontava con entusiasmo le sue ricerche sul mondo del cinema e come sempre me ne sono innamorata.
Torino, 1935. Il lunedì di lavoro di Anita inizia con una novità: Leo Luminari, il più grande regista italiano, vuole portare sul grande schermo uno dei racconti gialli pubblicati su «Saturnalia», la rivista per cui lei lavora come dattilografa. Il che significa poter curiosare dietro le quinte, intervistare gli attori e realizzare un numero speciale. Anita, che subisce il fascino della settima arte, non sta nella pelle. L'entusiasmo, però, dura solo pochi giorni, finché il corpo senza vita del regista viene ritrovato in una camera d'albergo. Con lui, tramonta il sogno di conoscere i segreti del mondo del cinema. Ma c'è anche qualcosa che inizia in quell'esatto istante, qualcosa di molto pericoloso per Anita. Perché dietro la morte di Luminari potrebbe nascondersi la lunga mano della censura di regime. Anita e il suo capo, Sebastiano Satta Ascona, devono evitarlo: hanno troppi segreti da proteggere. Non rimane altro che indagare, ficcando il naso tra spade, parrucche e oggetti di scena. Tra amicizie e dissapori che uniscono e dividono vecchi divi, stelle che, dopo tanti anni lontano dai riflettori, hanno perso la luce. Ogni passo falso può essere un azzardo, ogni meta raggiunta rivelarsi sbagliata. Anita ormai è un’esperta, ma questa volta è più difficile. Forse per colpa di quell’incubo che non le dà pace, un incubo in cui lei indossa l’abito da sposa, ma nero. Perché i giorni passano e portano verso l’adempimento di una promessa, anche se si vuole fare di tutto per impedire l’inevitabile.
Ci sono quei libri che diventano di conforto senza neanche volerlo che diventano un porto sicuro in cui rifugiarsi quando tutto diventa troppo. Alice Basso ha creato un universo che non è solo incredibilmente curato ma diventa anche così tangibile da trasportare il lettore direttamente in quel mondo immediatamente. Anita è una forza della natura, una ragazza che sta trovando se stessa in un mondo che sta cambiando velocemente. E' il 1935 e mentre Anita acquista nuova consapevolezza, il mondo attorno a lei inizia a stringere la sua morsa. Mentre il suo matrimonio si avvicina sempre di più la ragazza si ritrova suo malgrado catapultata in un mondo di favola, quello del cinema. Infatti un famoso regista decide di girare un film con uno dei  ultimi racconti pubblicati su Saturnalia, in particolare l'ultimo scritto da Anita e Sebastiano e mentre Anita è piena di entusiasmo e non vede l'ora di lasciarsi trasportare nel vortice del mondo cinematografico, Sebastiano è molto più concreto e con i piedi per terra. Più attenzione arriva sui loro racconti e più il pericolo di essere scoperti si fa alto, soprattutto quando la morsa della censura si fa sempre più serrata. Ma d'altronde Anita è una ragazza impulsiva, che non si lascia fermare da niente e che si rende conto del pericolo solo quando è troppo tardi, ma la sua faccia tosta la porta sempre lontano. Sebastiano ha ben chiaro in testa il quadro generale e quanto sia facile cadere vittima del sistema, Sebastiano è spaventato e inquieto e vorrebbe vivere nell'ombra, ma anche lui si lascia facilmente travolgere dall'importanza del loro compito e dall'entusiasmo di Anita. E mentre l'incanto delle luci del cinema d'autore si spalanca di fronte a loro, la tragedia arriva fortissima a sconvolgere tutti i loro piani. Come al solito a pagine vividissime di descrizioni precise e d'impatto, si affiancano a pagine più concitate in cui il duo più improbabile della Torino del 1935 si ingegna per scoprire la verità. La capacità della Basso sta nel trovare il perfetto equilibrio tra brillantezza e serietà, tra il definire con chiarezza i passi che portano alla conclusione dell'indagine e la necessità di essere capace di intrattenere senza pressare. Anita sempre accompagnata dalla sua migliore amica e la Professoressa che continua a formarla, è l'immagine della spensieratezza e allo stesso tempo sta crescendo, più viene esposta alle magagne del suo tempo, più si interessa in prima persona di quello che c'è dietro i fatti che succedono, più Anita diventa consapevole e l'ambiente di casa e il suo futuro già scritto le va stretto. Ma anche Sebastiano sta cambiando, non è solo cauto e sulle sue, ma Anita lo pone di fronte alla necessità di fare qualcosa. Se il suo amico Julian se la ride dall'alto della sua vita con responsabilità ridotte mentre gli presta la sua fidata macchina rossa, Sebastiano si rende conto che la tentazione di lasciare la strada giusta, sicura, priva di curve, cresce ad ogni passo che compie al fianco di Anita. Se il mondo del cinema diventa la sfavillante occasione per uscire dalla comfort zone, i due si scoprono incapaci di rimanere davvero lontani. Scoprire la verità un imperativo categorico, i ricordi della città dello splendore del cinema, la Torino che naviga attraverso il Po e le sue rive perfette per ambientazioni e scenografie, luccica, incantando il lettore che si innamora sempre di più della storia raccontata dalla Basso.
Il particolare da non dimenticare? Una scala...
Il fascino della cinepresa scopre l'impellenza dell'indagine e un rapporto che diventa sempre più imprescindibile tra due protagonisti che hanno ancora tanto da raccontare. La Basso ricama uno scenario magico in cui le sue storie si muovono solenni mentre il mondo di Anita si avvicina sempre di più alla catastrofe. Non vedo l'ora di mettere le mani sul nuovo volume della serie.
Buona lettura guys!
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La serie di Anita:
- Il morso della vipera
- Il grido della rosa
- Una luce senza stella
- Untitled
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