Diario di viaggi avventure e pandemie per combattere con parole e immagini le paure (di mia mamma )
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Aspromonte 🔥🖤 (presso Calabria) https://www.instagram.com/p/CSbvWeygP14/?utm_medium=tumblr
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“Star seduti il meno possibile, non fidarsi dei pensieri che non sono nati all'aria aperta e in movimento”. È da queste parole di Nietzsche in cui mi sono imbattuto qualche giorno fa che oggi ho alzato il culo e sono andato in montagna, in Aspromonte ovviamente, che da quando son tornato in Calabria è diventato la mia area di sgambamento mentale preferita.
Sarà che lassù a 1500 metri mi si riossigena la materia grigia. Sta di fatto che son ancora qui a scriverti delle mie passeggiate.
È una bellissima giornata di dicembre, non cammino da troppo tempo e siamo in zona gialla. Meglio approfittarne.
Oggi voglio salire su un posto che non ho ancora visto.
Parcheggio e comincio a salire su che è un piacere, su tappeti di umide foglie rosse. In una radura incrocio un bel gruppo di cavalli che appena mi vedono si disperdono per il bosco. Proseguo e il terreno si congela man mano che salgo di quota. Alle 11:30, complice un profumo proveniente dallo zaino irresistibile, cedo. Mi fermo per mangiare il panino. Quanto mi mancava questo rito. Trovo il più bel posto in cui sedermi, con voracità squarcio il primo panetto con le mani (il secondo invece, con l’appetito ormai domato, più tardi lo inciderò chirurgicamente col coltello), e lo farcisco del companatico prescelto per la giornata. Dopo un’estate a base di pomodori, oggi tocca alla mortadella. Nonostante le mie ultime tendenze vegetariane (con scarso successo) devo ammettere che questo è un profumo importante, che mi riporta indietro, a quando suonava la campanella ed era il momento di prendere i libri per la materia dell’ora successiva. Aprivi lo zaino e venivi investito da questo odore che ti aumentava la salivazione e poi non capivi più un cazzo fino a quando effettivamente c’era la ricreazione.
Questo panino ha il privilegio di vedere i due mari. Infatti l’ho portato fin sul monte Misafumera. Sul versante tirrenico il panorama è limpidissimo, dalla parte jonica meno. Mi prendo del tempo per studiarmi la morfologia di questi posti, di queste terre che da qui mi appaiono inedite. Da qui è tutto a portata di mano. Addirittura con mio stupore scopro di essere a pochi chilometri da Pietra Cappa. D’altronde è questo il bello, è anche per questo che si viaggia. Per riempirsi gli occhi di bellezza, sì, ma forse ancora di più per conoscere un punto di vista diverso, per tornare “arricchito di diversità”, per aprire la mente. Cercare di capire la forma del territorio è una delle mie ultime passioni. Diventare più consapevole di queste valli, di queste creste, che non son di carta pesta, dà soddisfazione. Di questi tempi però non ci si può distrarre, il tempo di finire il mio frugale pranzo a sacco che il sole minaccia già di andarsene dietro l’orizzonte. E sono solo le 2 del pomeriggio.
Proseguo rapidamente sul monte Scorda, fino ai 1500 metri. Le nuvole si raccolgono ai miei piedi, si muovono lentamente e vanno a sbattere sul versante jonico di questo promontorio. Come un mare bianco che trova la sua riva su questa sponda del crinale. Non capisco dove vogliano andare. Forse sono in trappola. Spinte fin qui dal vento, non riescono a inerpicarsi su questa salita. E io mi avvalgo dei mezzi tecnologici per rubare un…altro punto di vista: lancio il drone, lo mando in avanscoperta. Eccomi nel limbo, sul punto esatto in cui questa massa fumosa si adagia a metà della vetta. La superficie irta della montagna, con i suoi alberi, deve aver frenato l’ascesa candida delle nubi. Questa cima non sembra temere l’invasione gassosa e i suoi faggi, almeno per ora, sono salvi.
Ora tocca scendere e attraversare la nube che mi divertivo a scrutare. Nel cammino del ritorno ritrovo ancora i cavalli, questa volta fra gli alberi, in mezzo alla nebbia. Mi avvicino chiedendo loro una foto. Ma loro svaniscono come fantasmi nella nebbia. Sembra di essere in un film svedese. Invece siamo in Aspromonte. (presso Aspromonte) https://www.instagram.com/p/CI_Uk5PFlf5/?igshid=za7bo83yap8z
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Sul set di “Calabria terra mia” Scena 1/3: “chi è di mazzo?” (presso Calabria) https://www.instagram.com/p/CGpVAN8F0yh/?igshid=yevq7tlhhp9p
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Gallicianò, Mimmo e gli ultimi greci di Calabria
Un passo indietro.
Il giorno prima dell’escursione a Gallicianò io ero già a Gallicianò. Avevo voglia di vedere questo posto anche da solo, coi miei tempi morti.
Arrivo in auto di pomeriggio, sul tardi, e non c’è nessuno. Un piccolo spiazzo urbano è adibito al gioco del pallone. Due porte arrugginite troppo grandi per un campetto così piccolo. Dev’essere ancora più dura del solito organizzare una partita di calcetto a queste latitudini, con questo mortorio. Cammino e avverto finalmente qualcuno. Padre e figlio sono venuti a trovare i nonni per il fine settimana.
Qualche altro passo incerto e poi svolto. Ecco che da una finestra vengono fuori dei fonemi strani. Mi sa che non è dialetto. È buffo per me sentire il greco con accento calabro.
Gironzolo per vie dai nomi strani, che non riesco a pronunciare perché io ho fatto lo scientifico e ho studiato solo latino. Chiedo informazioni alle poche persone che incontro e tutti mi mandano da Mimmo, che sta facendo il giro del borgo con alcuni visitatori.
Continuo la mia passeggiata, senza cercarlo. Salgo all’anfiteatro, mi infilo sotto degli archi di pietra e mattoni che incorniciano perfettamente la manciata di case che formano il paese. Infine mi arrocco nel punto più alto, davanti alla chiesetta ortodossa, fatta anche quella della stessa pietra che costeggia la fiumara. Improvviso un aperitivo con la sola compagnia di qualche tegola. Intanto noto che i turisti stanno andando via e le luci, con la prima sera, si stanno accendendo.
Scendo giù in piazza davanti alla chiesa principale. Un lampione ribelle che si accende ad intermittenza mi conduce in una stradina laterale semibuia dove trovo Mimmo.
Ha la mascherina che gli penzola da un orecchio. Evidentemente ha finito il suo lavoro e si gusta la frescura di una panchina con vista sulla montagna. Mi parla con una voce tenue e leggermente affaticata che mi costringe ad avvicinarmi per riuscire a udirla, quasi sovrastata dai versi sgraziati degli animali allevati nel dintorni, qui presenti in numero di certo maggiore rispetto ai residenti umani. Capisco grazie alle sue parole il valore di questa realtà priva di fama, anche fra i Calabresi stessi. Mi sento fortunato ad aver fatto ancora in tempo ad ascoltare queste voci calabro-elleniche destinate a scomparire forse proprio con questa generazione.
Fa riflettere che ancora adesso si parli questa lingua con una certa esitazione, quasi vergogna, a causa di un antico retaggio che i Greci di Calabria subirono quando entrarono in contatto con l’esterno, con gli Italiani: vennero etichettati con il termine di “zangrei”, un termine che evidentemente assunse un’accezione dispregiativa che stava a significare “volgare, rozzo, ignorante”.
Ci salutiamo, un po’ in greco un po’ in dialetto. Mi allontano dal paese. Quella parola strana mi vaga ancora per la testa.
Se questa eredità culturale verrà perduta vorrà dire che siamo davvero dei grandissimi zangrei.
(presso Gallicianò) https://www.instagram.com/p/CGNkVMXFsc1/?igshid=u61nwmeehdxr
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Aria grecanica
Un urlo lancinante attraversa l’ampia distesa di ghiaia. Nel silenzio e nella pace delle 8 di una domenica mattina, quel grido di dolore mi blocca in gola l’ennesimo pezzo di pane e marmellata che stavo golosamente buttando giù e manda in miseria l’ultima parte di quel momento sacro che è la colazione. “È appena iniziato ottobre, un po’ presto per ammazzare il maiale” mi dice il proprietario dell’agriturismo che mi ha ospitato la notte precedente, vedendomi turbato per quanto stava accadendo nelle vicinanze. Intanto i lamenti del povero animale continuano a risuonare. “Forse lo stanno castrando” si corregge. Butto giù un po’ di succo di bergamotto, mi alzo e cerco con lo sguardo di localizzare nella scarpata di fronte la provenienza esatta di quel guaito. “Forse era meglio se l’ammazzavano” conclude Ugo.
Inizia così la mia seconda giornata sulla fiumara Amendolea. L’appuntamento è alle 8:30 proprio qui all’agriturismo. Approfitto del ritardo degli altri per contemplare la Rocca del Lupo e la distesa di bergamotto che ho proprio sotto il naso. Sono arrivati. Siamo una “murra” (tanti). Briefing iniziale e si parte. “Quello di oggi è detto anche informalmente sentiero dei cancelli” dice Andrea. E capisco subito il perché: non facciamo altro che aprire e richiudere cancelli che servono evidentemente a contenere gli animali. Seguo Aria in testa al gruppo che mi porta proprio sui ciottoli dell’Amendolea. Scodinzola felice. Capisco che quello è il modo giusto con cui affrontare la giornata. La imito.
Si sale per un paio di ore lungo mulattiere. La fame mi porta a scuoiare fichi d’India, qui abbondantissimi. Incontriamo un pastore sulla sua vespa stargata. Gli chiedo una foto. Si concede. Gli dico di fare attenzione perché è sul ciglio del dirupo. Con un sorriso mi fa capire che non è il caso di preoccuparsi. Ci saluta e scompare dietro la curva sterrata. Ci siamo quasi. Ecco la strada asfaltata adesso. A lato una serie di casupole. Frigoriferi coricati e vasche da bagno fungono da abbeveratoi per gli animali. Capiamo che siamo arrivati davvero vedendo alcune bandiere: so’ greche.
Sono le 13 in punto. Aria arriva in città. Una lontana, piccola sagoma nera la mette all’erta. Si immobilizza per alcuni secondi. Parte il flauto de “Il buono, il brutto, il cattivo”. In breve decide di sferrare l’attacco. Il primo gatto se la svigna se la svigna arrampicandosi su un muro. Aria annusa per terra come fosse un segugio, sente altre prede nelle vicinanze. Si intrufola per le viuzze. La perdo di vista. Sento che sta seminando il panico. Dopo pochi secondi un gatto ci taglia la strada alla velocità della luce con Aria al seguito. I gatti più piccoli, i più indifesi, si sono rintanati su un balcone davanti ad un uscio di una casa, proprio nella piazza centrale. Aria abbaia. Ha vinto. Ha espugnato Gallicianò.
È l’ora del panino. Mi piazzo davanti al bar, sotto ad una piccola vecchia insegna del telefono. Roba vintage per davvero. Mi sdraio. Prego affinché il balcone malconcio sopra di me non renda eterno questo mio momentaneo riposo.Il bar così come anche la trattoria del paese sono aperti su richiesta. Chiedi e dopo un po’ arriva qualcuno ad alzare la serranda. Pochi minuti dopo l’apertura ecco anche il ragazzo in vespa di prima. Si gode una Peroni insieme ai viandanti forestieri.
Io mi perdo in cronache di maiali castrati ed inseguimenti canino-felini, ma se fossi una persona seria dovrei raccontare un’altra storia, dopo quelle di Roghudi e di Africo, a dir poco interessante.
Gallicianò è la vera roccaforte della grecità aspromontana. È un posto prezioso perché qui resistono le ultime tracce della cultura e tradizione grecanica. Infatti si parla ancora il greco di Calabria. Forse perché è stato uno degli ultimi posti ad essere raggiunto dall’asfalto. L’isolamento quasi totale ha avuto il risvolto positivo di proteggere nei secoli questa lingua antica risalente alla dominazione greca, non so quanti secoli prima di Cristo. Adesso qui il telefono mi segna tre tacche su quattro e una stradina, anche se malmessa, c’è. Quel poco di progresso ha messo a repentaglio le antiche tradizioni elleniche del posto. Il greco lo parlano principalmente gli anziani e morirà se i suoi 35 abitanti, prevalentemente pastori, non riusciranno a tramandarlo.
Mimmo, un gallicianoto DOC dalla grande cultura, nonché Cicerone del paese che meriterebbe un articolo a sé, ci conduce prima nel museo etnografico, poi alla chiesetta ortodossa. È tardi e dobbiamo iniziare a scendere. Mimmo ci saluta con un rincuorante “kalispéra”.
Passiamo dalla piazza dove un gruppetto di persone gioca a carte. Per fotografarli perdo di vista quasi il gruppo. Appena lasciato il paese una tarantella in lontananza pare volerci salutare. Si torna alla base ma da un percorso diverso dall’andata. Sempre aprendo e chiudendo inferriate, di tutti i tipi. Alcune staccionate fatte con le reti del materasso, risultano essere quasi delle opere di arte povera inconsapevoli che esprimono tutto il senso di precarietà, ma anche la capacità di arrangiarsi di queste persone. Ci imbattiamo in un Pandino 4x4, l’unico mezzo ammesso da queste parti. Dentro ci sta riposando qualcuno. Una carovana di trenta persone gli passa accanto senza svegliarlo.
Riecco l’Amendolea, questa volta da un punto di vista inedito. Da qui la fiumara è davvero suggestiva. È ampia, serpeggia tra le montagne in maniera sinuosa, la sua forma zigzagante mi fa intendere che la sua poca acqua non ha fretta di tornare al mare.
Arriviamo giù. Ci togliamo le scarpe e ci bagniamo i piedi nell’Amendolea per poi asciugarli con l’ultimo sole che queste montagne ci concedono. Io e Aria camminiamo da ore, la stanchezza si fa sentire e il cielo si è improvvisamente coperto. Meglio andare. Perché a breve, come diceva una canzone, “potrei evaporare e diventare nuvola, magari un temporale”.
(presso Fiumara Amendolea)
https://www.instagram.com/p/CGFJ-Y-lsZ9/?igshid=yiyxc66d7981
#calabria#reggiocalabria#amendolea#gallicianò#fiumara#areagrecanica#grecodicalabria#blog#scrivimiquandoarrivi#escursionismo
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Pietra Cappa e la pesantezza dei peperoni
Qualche giorno fa è finita l’estate. Ed io c’ho messo una pietra sopra con la visita al monolite più alto d’Europa, Pietra Cappa.
Il circuito ad anello nella “Vallata delle grandi pietre” parte da Natile Vecchio. Inizio a stancarmi con tutti questi paesi sdoppiati fra il vecchio e il nuovo. Già dalla strada che porta a Natile si vede questo sasso abnorme piombato dal cielo in mezzo al bosco aspromontano.
Prima di raggiungerlo panino alle rocce di San Pietro, una montagnetta con tre grotticelle che formano una specie di volto spaventato. Un luogo panoramico, probabilmente scavato dai monaci basiliani.
Continuo. Ecco una famiglia molto numerosa che, con spirito diverso dal mio, si sta godendo quello scorcio di natura. “Favorite?”. Inutile la scusa di aver già pranzato, non ho potuto rifiutare pane e pipi (peperoni arrosto) e poi il capocollo: “questo devi assaggiarlo, lo facciamo noi”.
Pietra Cappa è là che mi fissa severa. Sembra quasi ammonirmi per la piega da tarallucci e vino che il pomeriggio sta prendendo. È il caso di proseguire, nonostante le salsicce di zi' Micu siano quasi pronte.
Ora riesco a scorgere anche delle capre proprio sulla sommità del monolite. Eppure il figlio di zi’ Micu mi aveva avvertito che è difficilissimo, eroico salire in cima. Lo aveva fatto solo suo zio. Mi chiedo quindi come è possibile che le caprette bruchino lassù in tutta serenità.
Pietra Cappa vista da qui sfama gli occhi. La sua superficie e le sue forme invitano a vederci qualsiasi cosa: un volto indiano, una sfinge, un panettone.
Arrivo ai piedi del masso, lo circumnavigo, lo attraverso anche tramite un piccolo passaggio laterale.
Poggiare le mani su questa roccia e alzare lo sguardo è la ricarica energetica necessaria per poi tornare indietro nella civiltà. Più che trekking questo è un pellegrinaggio. Mi sento uno di quegli antichi che veneravano una pietra.
Che sia un monolite come questo o un granello di sabbia, la roccia pare non rispondere alle leggi del tempo che passa, non possiamo vedere la sua formazione né la sua distruzione. E mentre penso queste ovvietà i peperoni si muovono pesanti dentro me. Buoni da morire, duri a digerire, pesanti come un macigno. (presso Pietra Cappa) https://www.instagram.com/p/CFefVxIIWYx/?igshid=1nwel6a8a7po1
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Il "non finito calabrese”, le ragioni di un paesaggio ferito
“Anche quando vado nelle altre città l'unica cosa che mi piace fare è guardare le case. Che bello sarebbe un film fatto solo di case” (Nanni Moretti nel film “Caro diario”).
Mi affaccio alla finestra. C’è la piana di Gioia Tauro e le isole Eolie che galleggiano sul Tirreno. Più in là l’infinito. Ma accanto, a pochi metri da qui, c’è il non finito del mio vicino di casa: tre piani di mattoni nudi senza intonaco, l’ultimo costituito solo da colonne di cemento armato esposte alle intemperie.
Ricordo quando da bambino da quel portone vidi uscire la figlia del vicino vestita in abito da sposa. La perfezione dell’acconciatura e il candore di quel vestito contrastavano col rossiccio dei muri grezzi, che all’epoca di certo non suscitavano in me particolari sensazioni. Era normale. Anche per me.
Siamo in Calabria. E sto parlando di quello che negli ultimi anni ha preso il nome di “non finito calabrese”, una presenza ingombrante quanto costante, che fa ormai parte di questo paesaggio.
A differenza delle opere incomplete di Michelangelo, in cui l’incompiutezza dell’opera è un valore, segno di totale libertà espressiva, queste costruzioni lasciate a metà, che sfigurano il territorio, non sembrano essere frutto di una coscienza estetica consapevole.
La casa è una delle icone più facilmente rappresentabili. Bastano solo quattro linee. Un quadrato con sopra un triangolo. Forse è il primo disegno che un bambino riesce a realizzare. In Calabria però è diverso e questa figura ha spesso contorni un po’ meno definiti.
A queste latitudini la fase di costruzione può prolungarsi in maniera indefinita. La casa può essere abitata già in fase intermedia. A volte viene terminata solo in parte, mentre il resto è lasciato in sospeso. Per sempre…
Sono un calabrese che ha trascorso gli ultimi quattordici anni fuori dalla sua regione. Dopo tanto tempo lontano dalla Calabria mi sono posto delle domande su questo fenomeno a cui non mi sono ancora abituato.
Sono sempre stato incuriosito, se non ossessionato, dalle ragioni che inducono a non terminare questi edifici, spesso abitati per metà. Sono ragioni economiche? Sociali? Storiche?
È molto facile cadere nella condanna e nella rabbia per un paesaggio spesso deturpato da questo cemento. Ma vorrei andare oltre l’indignazione e cercare le radici culturali di questo fenomeno.
In questa riflessione ho cercato di ascoltare alcune persone, calabresi come me, che hanno già affrontato questo tema, secondo la loro prospettiva.
La prima persona che decido di coinvolgere è Angelo Maggio, un impiegato delle Ferrovie della Calabria con l’hobby della fotografia, che da più di venti anni immortala il non finito nostrano. Mi perdo fra le foto del suo progetto “Cemento Amato”. Trovo immediatamente che i suoi scatti siano carichi di tutta quella decadenza e contraddizione che mi affascina e ripugna allo stesso tempo. Angelo mi racconta di quella volta in cui fotografò la statua del Cristo a San Luca, in un contesto di case di cemento e mattoni. Con sua grande sorpresa quella foto piacque molto agli abitanti di quel paese. Per loro era un normale contesto urbano. È proprio questo il punto centrale: come è stato possibile assuefarsi a questo codice architettonico?
“Il problema non è tanto che quelle case sono brutte” mi dice Angelo, “quanto che sono disabitate, o abitate per metà. Buona parte di queste abitazioni è stata realizzata tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Ognuno cercava di costruire per i propri figli. Nelle culture più tradizionali si tende a non far spostare la figlia femmina dal nucleo familiare d’origine. Quindi si cerca di allargare lo spazio domestico per tenere unita la famiglia”. È forse questa la ragione che spinse a erigere questi appartamenti sovradimensionati poi rimasti in gran parte vuoti? La mentalità dei padri è stata questa: “Io intanto costruisco la struttura. Poi ognuno se la finirà per i fatti suoi”.
Scopro che anche il mio amico architetto Vincenzo Bernardi si è occupato di questo tema. Un altro calabrese emigrato, che lavora prevalentemente all’estero. Con lui iniziamo a parlare di viaggi, del fatto che se hai la possibilità di spostarti un po', riesci a vedere le cose con un altro occhio. Per Vincenzo “il non finito non è da bollare semplicisticamente come una vergogna, ma è un fenomeno da comprendere. Rappresenta una speranza. O almeno l’ha rappresentata. Sull’onda del boom economico si è cominciato a costruire con l’illusione di chissà quale chimera”.
Vincenzo mette l’accento sulla precarietà, in tutti i sensi, del territorio calabrese. “Un territorio spesso poco ospitale e che nel corso della storia è stato periodicamente devastato da terremoti e alluvioni”. È come se in Calabria si fosse storicizzata questa sfiducia, questa attitudine a non costruire “bene”, perché comunque prima o poi qualcosa renderà tutto vano.
Tramite Vincenzo, finisco per conoscere anche il punto di vista più antropologico di Angela Sposato. “Sono luoghi di drammaturgia che però esprimono il nostro essere calabresi. Prima che estetico è un problema dell’ethos. Siamo tutti un po’ dei non finiti, approssimativi, procrastinatori, tendiamo all’attesa. L’attesa è incantesimo, è delirio. Attesa di un avvento che non ci sarà mai”.
Un aspetto da considerare è tuttavia che in questi spazi disabitati ci sono piccoli segni di vita. Il non finito viene in qualche modo “goduto”. Diventa uno spazio in cui si mettono i pomodori a seccare, si fa la conserva, si stendono i panni. Spesso sono i cani a beneficiare di queste aree inutilizzate. Li senti abbaiare minacciosi verso i passanti dai piani alti. A volte diventano persino luoghi di divertimento. “Non dimentico quella festa di 18 anni in una casa non finita (il piano superiore finito nei minimi particolari ed il piano terra in mattonato). Fecero la festa al piano terra, in mezzo alle colonne di cemento armato con luci psichedeliche, buffet di tutto punto. Il contrasto era molto forte”.
Ma allora, che cosa ce ne facciamo di tutto questo non finito, che è un po’ l’estetica dominante del paesaggio calabrese? Bisogna abbatterlo? È una delle domande che rivolgo ad Emilio Salvatore Leo, architetto ed imprenditore. “Innanzitutto bisognerebbe indagare il fenomeno costruendo una tassonomia dei casi. Il non finito è un po’ questo sogno tradito di poter continuare a costruire i propri castelli. È opportuno considerare che una-due generazioni hanno investito le loro energie finanziarie (e non solo) per costruire tutta questa carica di bruttura. Alcuni di questi manufatti, all’interno di una nuova progettazione, potrebbero diventare dei “contenitori pubblici”, dei luoghi che, opportunamente trasformati, restituiscano questa dimensione della spazialità, dell’architettura come ricucitura del sogno collettivo.
Bisogna però spostare l’asset dall’autocostruzione ad una serie di professionisti che hanno gli strumenti culturali per rendere questa complessità non precaria, che la convertano in linguaggio che sia sovversivo e contemporaneo e che includano i moderni concetti dell’abitabilità”.
L’ultima persona con cui mi confronto è Vincenzo Filosa, un fumettista che è riuscito a coniugare il mondo dei manga con la Calabria. L’architettura calabrese finisce spesso nei suoi disegni. Vincenzo pone giustamente l’attenzione sul fatto che il non finito può essere “finito” dall’osservatore, con la fantasia. Può essere potenzialmente ancora tante cose. “Sono degli spazi vuoti su cui si può inventare qualsiasi tipo di storia. Crescendo ti rendi conto però che quei palazzi sono così perché l’emigrazione li ha svuotati, anzi ha fatto in modo che non venissero mai riempiti. Quelli sono gli edifici che la nostra generazione avrebbe dovuto abitare, ma che non occuperà mai”.
In Calabria ogni giovane si trova prima o poi di fronte ad una difficile, spesso dolorosa, scelta: rimanere o partire, cercare di sbarcare il lunario qui, fra mille difficoltà ma godendo di un territorio di grande bellezza, o cercare fortuna altrove, in luoghi più favorevoli allo sviluppo e alla valorizzazione del proprio talento.
Oggi questi edifici sono il segno tangibile di un abbandono, di un’assenza. È una delle sfaccettature, forse la più visibile, della famigerata e complessa “questione meridionale”.
La complessità è grande, soprattutto da un punto di vista antropologico. Il non finito oggi è paesaggio. Ci rappresenta. Fa parte della Calabria. È una categoria non facile da decifrare perché i mondi che richiama non sono solo estetici.
Il non finito spesso assume i tratti di una tensione verso il cielo, un’estensione dello spazio privato, di una sospensione del tempo. Questi totem di cemento che spuntano dai solai sembrano quasi fungere da congiunzione fra il finito e l’infinito, fra il privato e il pubblico, fra il dentro e il fuori.
Da bambino ero solito giocare nella casa dei miei vicini. Ricordo benissimo quei mattoni forati, la sensazione che mi davano al tatto quando mi appoggiavo al muro. Tra un mattone e l’altro si intravedeva il cemento. C’erano degli spazi segreti in quei muri. Delle fessure in cui un bambino poteva nascondere le sue cose più preziose.
E ricordo l’ultimo piano, senza pareti, sempre molto ventilato, che nel corso degli anni ha assunto le funzioni più disparate. Anche quella di pollaio. Oggi mi pare sia adibito a sola lavanderia. Eppure il piano del mio vicino di casa doveva essere diverso. La figlia avrebbe dovuto completare ed occupare quello spazio, invece vive in Valle d’Aosta e torna con i suoi figli solo in estate.
Oggi vedo questi ragazzini, dall’accento nordico, in vacanza aggirarsi per casa. Una casa che è loro. Ma loro forse non lo sanno.
Foto di Angelo Maggio (progetto “Cemento Amato”)
(presso Calabria)
https://www.instagram.com/p/CFHlq0jI5uZ/?igshid=1evw7pfw6rwx1
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Serra San Bruno. La fotogenia dell’umanità
Sono tornato da Serra San Bruno con una grande quantità di foto ai suoi abitanti. Il borgo è famoso per ospitare l’unica certosa ancora attiva in Italia. Che poi chi ci dice che i monaci siano ancora là dentro se non ci fanno entrare? Se qualche frate leggesse questo post batta un colpo per cortesia.
Ma al di là dei miei dubbi sull’ordine certosino, di Serra San Bruno mi ha colpito la sua popolazione per la sua fotogenica umanità:
l’avvocato Bruno che torna dall’edicola col suo giornale,
la bambina con le unghie smaltate che vaga scalza per il vicolo,
la vecchietta Giuseppina che mette ad asciugare i vaianeji (fagiolini) al sole,
la nonna che sta friggendo le melanzane e invita ad entrare brandendo una forchetta.
Personalmente mi sono affezionato all’avvocato Bruno. Non perché mi abbia chiesto se gradivo qualcosa da bere al bar dopo avergli scattato la foto. Ma perché dal suo sguardo affabile deduco che per lui non è più il tempo delle arringhe. Meglio dedicarsi agli ossequi per le vie del centro la domenica mattina. E poi troppo fighi quei suoi pantaloni a vita alta…
Anche a te capita di affezionarti alle persone del luogo che hai visitato?
(presso Serra San Bruno)
https://www.instagram.com/p/CE89kONo9am/?igshid=cnhe22akj8ho
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“Era il 57 o 58. Eravamo io, la mamma, zio Franco, zia Tita, Pinuccio. Volevamo vedere il faro di Capo Vaticano. Poi ci inoltrammo verso un altro punto panoramico, poco più in là. Eravamo poco pratici della zona e arrivammo a quello che a noi sembrava essere un chioschetto delle bibite. Un baracchino proprio sulla roccia a picco sugli scogli e sul mare. Un punto da cui affacciarsi procurava paura prima che stupore. Chiedemmo da bere alla signora che stava là. La signora senza obiettare ci portò delle gazzose. Pagammo e ci godemmo il panorama ancora per un po’.
Intanto, a pochi metri di distanza, un signore con una specie di cappello di carta in testa, di quelli che usano spesso gli operai, stava lavorando con la cazzuola alla costruzione di una casa.
Tempo dopo alla televisione vedemmo la consegna di un premio letterario. “Ma quella è la signora delle gazzose!”. Scoprimmo che avevamo scambiato la moglie dello scrittore Berto per una bibitara. Berto per un muratore”. Questo è l’aneddoto che papà ha raccontato a tavola, prima che venissi a trascorrere qualche giorno qui a Capo Vaticano.
Non conoscevo la storia di Giuseppe Berto prima di venire qui. Era uno scrittore veneto, di Mogliano per l’esattezza, poco distante da Treviso, la città che mi ha accolto in questi ultimi 5 anni della mia vita. Nel 56 fece un viaggio nel sud Italia con la moglie, s’innamorò di questo posto e decise che quella sarebbe stata la sua dimora.
Bravo Berto.
“…ecco, qui costruirò con le mie mani un rifugio di pietra e penso che in conclusione questo potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte”. (presso Capo Vaticano)
https://www.instagram.com/p/CEs9oVuIGKN/?igshid=z8k8reurcn9q
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Dopo Roghudi è la volta di Africo. Africo vecchio. Un altro borgo aspromontano abbandonato. Sempre a causa di un’alluvione, ma 20 anni prima rispetto a Roghudi. È il nome di questo luogo che mi ha portato qui. Mi fa pensare a deserti aridi, alla natura feroce, a civiltà ignote. Ma qui pare che il verde della vegetazione abbia vinto sul grigiore edilizio e sugli altri colori. Sul promontorio accanto a quello su cui sorge Africo è appena scoppiato un incendio, il cui fumo comincia filtrare la luce del sole. Il processo di abbandono di questi paesi è sempre stato molto discusso e controverso. Quello di Africo forse è stato approfondito un po’ di più rispetto agli altri. Qui nel 1928 si recò il filantropo Umberto Zanotti Bianco, che nel suo libro “Tra la perduta gente” raccontò all’Italia come si viveva in questo paese in Aspromonte. Ne raccontò sia i valori genuini di fratellanza, di comunione, di ruralità, ma ne evidenziò anche l’arretratezza che dipendeva dall’attitudine di questa popolazione, dalla posizione remota ed inaccessibile, ma anche dalla negligenza dello Stato. Ad Africo si è sempre vissuto in maniera rurale e quella era (e probabilmente è ancora) l’identità degli africoti. Soprattutto di quelli che hanno conosciuto Africo vecchio. Il pane che si mangiava ad Africo non era di grano, ma era fatto con la cicerchia, perché il territorio ostile impediva alcune coltivazioni. Africo era fortemente basato sulla pastorizia. C’è un servizio fotografico del 1948 de “L’Europeo” che mostra questa Calabria nascosta e sconosciuta. Scene di vita ad Africo che sembravano di secoli precedenti. Dopo l’alluvione del 1951 si è deciso di spostare tutti gli abitanti. Prima vennero temporaneamente sparsi sul territorio, poi trasferiti ad Africo Nuovo. Un agglomerato di costruzioni di dubbia accoglienza, anche a livello visivo, edificato sul mare in una parte del comune di Bianco. In seguito all’abbandono di Africo, il giornalista Corrado Stajano ha scritto un libro che mette in evidenza i lati oscuri di questo trasferimento. Questa comunità, dalla spiccata identità montanara, venne trapiantata sulla costa. Pastori, che non avevano mai visto il mare, furono costretti a diventare pescatori. Lo Stato autorizzò questo processo di snaturamento e si limitò ad inefficaci azioni di assistenzialismo, cosa che favorì le tensioni sociali e lo sviluppo della criminalità organizzata. Entro nella Chiesa di San Nicola, l’unica struttura ancora in piedi per miracolo. Dal tetto squarciato penetrano i raggi del sole di mezzogiorno. La cenere dell’incendio piove su queste macerie e si appresta a diventare polvere. [leggi l’articolo anche sul blog de @lamiacalabriabellissima ] (presso Africo Antico)
https://www.instagram.com/p/CEeDFpqIB0R/?igshid=fz7kdmr2i38t
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Roghudi. Parte 2. In diurna 🐐🛏 Dopo la notte in tenda a pochi chilometri da Roghudi Vecchio, a debita distanza dai fantasmi, eccoci di nuovo qui. Questa volta è un’escursione autonoma. Volevo tornarci con la luce del sole, coi miei tempi. Le capre al mio arrivo si disperdono per le vie del paese. Le vedo distribuirsi in edifici che ormai immagino abitino solo loro. Se ieri il silenzio assumeva le forme della brezza notturna, oggi ha le sembianze della cicala. Questo frinio incessante, quasi da mal di testa, questa competizione canora per soli insetti, so che mi mancherà tanto quando l’inverno arriverà. L’istinto sarebbe quello di entrare ovunque, nonostante le costruzioni mostrino chiari segni di cedimento. Che ficcanaso che sono. Ma Teresa mi intima di rimanere sulla soglia delle case. Torniamo da Pangallo. Stamani mi è più chiaro che c’è un gran casino qua dentro. Un letto con sopra una sega. Un tavolo con un bottiglione e dei bicchieri. Delle carte da gioco. C’è il lavabo e dei piatti lavati ormai da rilavare sullo scolapiatti. Piuttosto che abitare con Leone prenderei un monolocale persino a Roghudi Nuovo. Case costruite su uno sperone di roccia non proprio granitica, su un fiume a stagioni alterne. Oggi più di ieri comprendo quanto sia inaccessibile e inospitale questo luogo. Perché si erano insediati qui? Forse semplicemente perché questo posto è figo. Probabilmente queste persone, quasi tutti pastori analfabeti a quanto leggo, che parlavano il greco di Calabria, erano innamorate e profondamente legate a questa terra scomoda, impervia e difficilmente addomesticabile. Quando ho detto a papà che sarei venuto a Roghudi mi ha detto ”Che ci vai a fare? È un posto per i corvi”. Corvi non ne vedo. Vedo capre molto schive, somari timidoni, tantissime rondini e perfino qualche poiana. E chissà quanti altri animali vivono in simbiosi con il cemento logorato da 50 anni di assenza. Il regno animale si è preso questi luoghi e li ha fatti suoi. Me ne vado immaginando le capre godersi la comodità del letto di Leone Pangallo. Forse le stesse capre per cui nel 1999 sborsò 248.000 Foto di @t_e_r_e_s_a_mazza Tinello di @LeonePangallo (presso Roghudi Vecchio) https://www.instagram.com/p/CDnt0JpKME0/?igshid=zvq668487pbs
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Roghudi. Parte 1. In notturna Arriviamo proprio durante il cambio turno, in quel breve lasso di tempo in cui il sole ha già fatto il suo dovere e il buio sta per conquistare tutto. Per fortuna siamo riusciti a scorgere il borgo dall’alto con le ultime luci del giorno, sulla serpentina che valica la montagna, una stradina di competenza dei ciuchi e del cimitero. Fisso il relitto di queste case nella penombra perché so che a breve dovrò affidarmi ad altri sensi. Difatti in breve è buio. Accendiamo le torce proprio mentre imbocchiamo la via principale che si addentra fra gli edifici. Non ci sono porte. Sbirciare negli anfratti è lecito perciò. Tetti sventrati per contemplare meglio le stelle, pavimenti fatiscenti per non rimanere coi piedi per terra, ho il presentimento che siano (stati) proprio dei sognatori questi qui. Ecco una sedia al centro di una stanza, un chiaro invito a prendere posto e sognare. Sarà per un’altra volta. Magari domani. Giungiamo in uno spiazzo. Ci mettiamo in cerchio. Il silenzio ed il buio. Scandito solo da una fontanella che non sa trattenersi. Una voce inizia a recitare dei versi in greco calabro. Non sono gli spiriti del villaggio abbandonato. È Noemi, la guida, che ci legge una poesia su Roghudi. Fino al 1971 questo borgo nel cuore dell’area grecanica contava circa 1700 anime. Poi una terribile alluvione rese questo posto inagibile. La popolazione fu costretta ad abbandonare le case e si disperse nelle zone limitrofe. Solo 17 anni dopo, a ben 40 km di distanza, si costruì Roghudi Nuovo. Un posto, a quanto pare, senz’anima, né identità. Roghudi in pratica non esiste più. È ora di proseguire. Ma intanto sta per sorgere la luna. Sbalza fuori dalle montagne in men che non si dica. Ed è quasi piena. Adesso su questi ruderi si posa una luce seducente, l’atmosfera è davvero cinematografica. È ora di proseguire. Ma intanto sta per sorgere la luna. Sbalza fuori dalle montagne in men che non si dica. Ed è quasi piena. Adesso su questi ruderi si posa una luce seducente, l’atmosfera è davvero cinematografica. Attratto da così tanta bellezza un po’ inquietante rimango indietro. È il classico incipit da film horror. Andrea, l’altra guida, mi aspetta e mi indica una targa: è la casa Leone Pangallo, l’ultimo abitante, morto pochi anni fa. Gli entriamo in casa. Vorrei proseguire il post scrivendo che all’improvviso crolla tutto e mentre sono in volo vengo salvato da Pangallo. Invece proseguo dicendo che Andrea mi mostra una chicca, una ricevuta del 27 settembre 1999, di 248.000 lire. Probabilmente per del bestiame. Scendiamo verso la fiumara Amendolea, una distesa di ghiaia secca ai piedi del borgo. Una lunga fila di torce prosegue ordinata in questo luogo disabitato da 50 anni. Penso. Non sono l’unico strambo ad essere qui questa sera. Arrivati sul posto, dopo una frugale cena, Noemi ci invita a “10 minuti in cui non voglio sentire volare una mosca”. Trovo uno spazio perfettamente ergonomico per la mia schiena fra i ciottoli e mi godo i fantasmi e questa luna al 97% della sue potenzialità. Prendo alla lettera il fatto di stare nel letto di un fiume assopendomi. È un sogno. Di una notte di mezza estate. Ma è ora di tornare. (presso Roghudi Vecchio) https://www.instagram.com/p/CDmb7bYKrtu/?igshid=1q7bczib2h2po
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Quando da piccolo mi facevo il bagno al mare tu dopo un po’ mi chiedevi di mostrarti le mani. Se le dita avevano delle pieghe era ora di uscire. Di recente la scienza ha ampiamente dimostrato che era tutta una farsa e che noi bambini avremmo potuto rimanere in acqua ancora a lungo. Andava così negli anni 90. E forse ancora oggi tante mamme poco studiate tirano fuori i propri figli dall’acqua con questa ignobile scusa. Fummo vittime del raggrinzimento delle pelle. E prima o poi la storia porterà a galla tutta la verità. Eppure nel 1972, proprio qui davanti a me, furono rinvenuti due fustacchioni bronzei che bighellonavano sul fondale marino dal V secolo a.C., senza che nessuno dicesse loro di uscire. Forse erano finiti in fondo al mare perché avevano fatto il bagno dopo mangiato. E il bagno dopo che hai magnato non si fa. Lo sapevano persino i (magna)greci. Ricordo le immagini del documentario sul ritrovamento. Questi due signori in fissa con il crossfit che riaffiorano in superficie tramite due specie di paracadute. Poi la folla curiosa che assale e soccorre i due forestieri sdraiati sulla battigia. Ho sempre invidiato la barba dei bronzi. Hanno una barba folta e riccia. Forse non è neppure una barba, sono onde marine. Hanno il mare in faccia. Inoltre i bronzi hanno degli splendidi addominali. A proposito di tartarughe. Oggi ho deciso di andare in una zona un po’ più isolata. Pianto l’ombrellone a pochi metri da una zona transennata. Mi avvicino. Penso al peggio (sarà la scena di un delitto?) e al meglio (avranno trovato altri bronzi?). Invece un cartello del WWF indica di fare attenzione: là sotto ci sono le preziose uova di tartaruga caretta caretta, un animale in via d’estinzione. Bronzi, tartarughe, non ci manca niente… È la seconda volta che vengo qui a Riace Marina. Forse anch’io mi aspetto di trovare qualcosa su questa spiaggia. Vorrei che lo Jonio mi facesse un presente. Basterebbe anche solo che mi restituisse i Super Santos che gli ho imprestato in gioventù. Il mare d’altronde mi dona sempre questa sensazione, soprattutto quando lo guardo dall’alto e riesco ad apprezzarne bene l’immensità. Chissà cosa c’è là sotto? Quanti tesori, quante minacce si potrebbero celare? Per questo anni fa presi il brevetto per le immersioni subacquee. Spesso ci si immerge per vincere la paura, per andare oltre la superficie e cercare di capire come è profondo il mare. Ma in questi ultimi anni la pigrizia ha avuto il sopravvento su di me e le mie paure. E me ne sto in panciolle su spiagge assolate, mangiando panini, buttando like su Instagram. La nonna, tua mamma, vide il mare per la prima volta a 15 anni. Mi raccontava sempre con enfasi quel suo primo, fin troppo rinviato, incontro: quando lo riconobbe esclamò stupita “Che beeello! che graaande!”, con un tono euforico che ricordo ancora bene, ma che non posso descrivere a parole, chiaramente. Noi ci siamo abituati. Ma scoprire il mare da grandi dev’essere qualcosa di sconvolgente. Sarebbe bello tornare a stupirci. [leggi l’articolo anche sul blog de @lamiacalabriabellissima ] (presso Riace Marina, Calabria, Italy) https://www.instagram.com/p/CDTu80zqcM4/?igshid=1ocbsotpof7nw
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Statale 106, ferrovia e costa jonica sono tre linee che si incontrano solo all’infinito. Anzi, in realtà le prime due si incrociano in vari punti. Entrambe ambiscono a correre accanto alla linea del mare. Ma si son messe d’accordo e fanno a turno. La costa jonica calabra è per lo più ampia e piatta. Siamo lontani anni luce dalla più appariscente e ripida costa tirrenica. Io che sto esattamente a metà fra i due mari, non mi sono mai deciso su quale preferire. Lo Jonio, dal canto suo, ha il silenzio che gioca a suo favore. E la solitudine. Se non sai stare da solo sullo Jonio non puoi andarci. Vattene a Tropea che è meglio. Sullo Jonio devi sapere sopportare la vastità delle spiagge assolate. Devi saper piantare bene l’ombrellone perché qui se la dovrà vedere con la brezza greca. Anzi, in realtà di solito spira verso la Grecia. Quanti dei miei palloni baciarono la pietrosa Itaca solo Eolo lo sa. Oggi mi dirigo a Badolato. Come per quasi ogni paese della zona, c’è una parte “marina” e una parte “superiore”. E capita anche che le due parti non siano contigue. È fondamentale quindi specificarlo quando ci si dà appuntamento. Per evitare dissidi e alterchi. Mi permetto di dare questa piccola, banale informazione pratica in questo mare di poesia… Dopo una mattinata sulla spiaggia di Badolato marina, una pioggerella estiva mi convince ad inerpicarmi verso il borgo. Delle curve sinuose mi conducono verso la meta. Il sole fa capolino e i colori caldi della valle aumentano di saturazione. Cammino. Comincio ad abbandonarmi alle inclinazioni del luogo. Chissà dove mi condurranno. C’è un silenzio di pace estiva. Immagino che tanti siano stati sorpresi dalla sonnolenza di un pasto non proprio leggero. I gatti ronfano beati sulle automobili. Qualcuno tormenta la porta di casa a suon di artigli. Se ci si allontana per un attimo dalla via principale è molto facile finire su terrazze con vista sull’infinito. L’infinito jonico è arido, ti riempie gli occhi di giallo e ti fa venire voglia di una granita al bergamotto. Sento delle voci tedesche provenire dall’alto, da balconi con chissà quale vista. Si sa, a certe latitudini non si riposano mai, sono produttivi anche in vacanza, alle 3 del pomeriggio. I figli non sono da meno e disturbano cani e gatti sull’uscio di casa. Mi intrufolo in una serie di casupole abbandonate. Queste rovine calabre mi fanno imprecare contro l’incuria dell’essere umano, ma mi fanno apprezzare il tempo, me lo rendono tangibile e concreto. Arrivo in fondo. C’è una chiesa, una delle tredici di Badolato, che avevo notato sin dalla valle, mentre salivo in macchina: la chiesa dell’Immacolata. Contemplarla da lontano è suggestivo. Arrivarci un’estasi. A ritorno i gatti hanno lasciato il posto ai bambini che, con i loro agguati acquatici, hanno deciso di porre fine alla siesta pomeridiana dei grandi. Immagino sia stato questo il rito con cui hanno dato inizio alla loro estate. Mi rifugio in macchina, bagnato e sconfitto. Vinto dalla pigrizia dei gatti, dal silenzio postprandiale, dal tempo che infierisce sulle cose e sulle persone. (presso Badolato) https://www.instagram.com/p/CC3QnULqkos/?igshid=11c0lnjdh16c1
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Giorgio, l’amico di qualche post fa, mi continua a consigliare luoghi da visitare. Stamattina faccio quella più a portata: la salita al Monte Cucudo. Si parte dalla villa comunale di Cittanova, il paese del liceo. La villa era il centro della vita liceale cittanovese. Qui ci radunavamo quando c’era il mitico “sciopero dei termosifoni”, o quando avevamo un po’ di tempo prima di prendere la littorina e tornare a casa. Tappa obbligatoria, in entrambi i casi, era il panino in un posto in cui le norme igieniche lasciavano a desiderare. O almeno così si diceva a suo tempo. Ma si sa, i ragazzini sono bastardi. Oggi ci sono passato, perché volevo il classico hotdog, ma era chiuso. La cosa incredibile è che a pochi metri da quel posto parte il sentiero che scopro e percorro oggi. All’epoca la voglia di esplorare era pari a zero. C’era solo la speranza di passare il compito di matematica. Il sentiero inizia con una tipica costruzione calabra: piano terra abitato, primo piano incompleto, senza muri, lasciato a due scriccioli di cane che abbaiano e segnalano l’inizio del sentiero e che quindi immagino siano tesserati CAI. Il sentiero pare sia breve, ma è piuttosto ripido. Attraverso una foresta di sughero, più propriamente detto sughera. Il contatto con la vegetazione quindi è piuttosto morbido. Mi fermo più volte per godermi il silenzio assoluto. Forse il sughero aiuta ad insonorizzare il percorso. Dopo un’oretta arrivo in cima. C’è un crocifisso, un altare e delle panchine. E soprattutto una vista per me inedita sulla piana. Prendo il posto d’onore, sul pulpito. Mi viene voglia di fare un’omelia, ma poi penso che il mio spazio per le prediche ce l’ho già ed è questo. Scendo. Sono alla macchina. Passo dal liceo. O per lo meno, quanto ne rimane. Si tratta di un condominio che era stato riadattato a scuola. Adesso credo sia abbandonato. Pagherei per rifare pipì in quei bagni. Prima di tornare un saluto alla stazione della littorina. Anche qui vincono i rovi. Le rotaie, una volta lucenti, oggi le trovo arrugginite e coperte di vegetazione. Qui ascoltavo “She’s electric” sul mio primo lettore mp3. Altri 2 o 3 post nostalgici e poi cambio mood. Promesso. (presso Monte Cucudo) https://www.instagram.com/p/CCq13QwqeGe/?igshid=z5i8x2ispb1z
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Oggi mi è arrivata una mail di un’agenzia immobiliare di Treviso. Sono rare ma ogni tanto il loro database si ricorda di me. Sono proposte di acquisto. Questa casa è in zona Ghirada. Non hanno capito un cazzo, quindi. Io la volevo in zona Restera, "con gli uccellini, le anatre e le oche". 3-4 anni fa la mia vita a Treviso trascorreva apparentemente tranquilla. E tu suggerivi di passare dall’affitto al mutuo. Contattai un’agenzia che mi diede un appuntamento. Il sabato successivo mi presentai all’ufficio. Avevo avuto a che fare molte volte con agenti immobiliari nelle varie città che mi avevano visto alla ricerca di una dimora. Ma quella fu l’ultima volta e me la ricordo bene, anche perché fu l’ultima. Il ragazzo, che avrà avuto poco più di vent’anni, vestiva il classico costume da agente immobiliare, ma mi colpirono le scarpe, da ganster americano. Quella vista mi procurò un piccolo ma impetuoso riflusso del cappuccino che avevo appena buttato giù. Gli strinsi la mano e un bagliore proveniente dal suo pacchianissimo orologio mi esplose in un occhio. La mia indisposizione di stomaco si trasferì immediatamente ai piani alti. Il giovane mi condusse al piano di sopra attraverso una ripida scala a chiocciola. Fosse stata una donna avrei avuto la speranza di intravedere qualche pezzo di caviglia. Invece niente, per me solo scarpe da bowling e calzini Enrico Coveri. L'agente probabilmente aveva fatto qualche corso avanzato, perché cominciò a farmi domande molto personali che poco c’entravano con il mondo delle quattro mura domestiche. Come diceva Mia Martini "L'agente è strana".
Da quell’incontro scaturirono 2-3 visite, che poi interruppi per non passare tutti i weekend nei bilocali di classe energetica E. Poi solo una manciata di mail fuori luogo, in tutti i sensi. E la mia voglia di mettere radici svanì. Chissà, se mi fossi imbarcato in un mutuo le mie scelte sarebbero state le stesse? In questo momento, devo dire, più che una casa sogno un camper, anzi una barca, una barca con le ruote. E le ali magari. Ma se proprio devo scegliere, andrei per la barca. Le barche in mezzo al mare. Le ammiro dagli scogli. Le spio dai sentieri. Spero non mi menino. #barcamenare (presso Calabria) https://www.instagram.com/p/CCoUmtMKGDG/?igshid=1c4bt0cwwh521
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Oggi ho ritrovato nell’armadio in garage un vecchio Super Santos. Floscio e mezzo scolorito. Negli anni 90 la situazione era questa. Se eri uno sfigato (o un bambino) avevi il Super Tele, un pallone super leggero dalle traiettorie odiose che ricordavano il volo delle api. Spero sia andato fuori produzione. Se speravi di passare dalla strada ad una scuola calcio allora dovevi prepararti per lo meno con un Tango, un pallone più pesante, con cui ho rotto varie lampadine qui sotto. Mi era stato regalato anche un pallone di cuoio che bucai subito. Fu un trauma che mi stroncò una carriera sicura nel calcio che conta. E poi c’era quell'arancione che metteva allegria, il Super Santos. Con mille lire te ne davano uno e forse ci scappava anche una Goleador. E al mare si faceva tirare volentieri, oltre a fungere da cuscino. Unico difetto: tendeva ad arroccarsi sui balconi di case disabitate. Se un giorno mi daranno la possibilità di fare un’installazione a Venezia per rappresentare l’infanzia anni 90 farò una terrazza piena zeppa di palloni. A proposito, esattamente 14 anni fa vincevamo i mondiali, che a me ricordano solo una cosa: la prima pagina della Gazzetta dello Sport che tu, mamma, tu che non butti nemmeno l’inserto di Starbene del 97, hai fatto sparire. Ma dico io…Come hai potuto pulire i vetri con Cannavaro che alza la coppa sotto il cielo di Berlino? Un minimo di sensibilità, di patriottismo sportivo… I mondiali mi fanno pensare anche all’esame di maturità. Il mio orale fu una passeggiata. La sera prima avevamo vinto la semifinale contro la Germania. A nessuno fregava quanto ne sapessi di Cesare Pavese. Piuttosto, che cazzo di genio era stato Pirlo a fare quel passaggio a pochi minuti dai rigori? Accanto alla commissione d'esame, in disparte, la prof d'italiano che piangeva, non per come stessi recitando i versi di Boccaccio e nemmeno per come era riuscita a metterla dentro Grosso la sera prima, ma per una terribile emicrania. Finito l’orale mi diede i soldi perché andassi a comprarle la Novalgina. I miei esami si erano conclusi in farmacia. Forse con il resto avrei potuto anche comprarmi un Super Santos. Ma nel 2006 ne avevo imbarcati già troppi sui balconi. (presso Super Santos) https://www.instagram.com/p/CCbi5xhqb6z/?igshid=17zvnzqrqen7b
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