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#Alto Brindisino
lamilanomagazine · 7 months
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Tenta il suicidio lanciandosi dalla scogliera. Brindisino salvato dalle volanti.
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Tenta il suicidio lanciandosi dalla scogliera. Brindisino salvato dalle volanti. Gli uomini della Polizia di Stato della Questura di Brindisi hanno soccorso un sessantenne brindisino che, in preda alla disperazione dovuta a problemi personali, aveva deciso di suicidarsi lasciandosi cadere dalla scogliera del litorale a nord del capoluogo. Ad allertare il numero di emergenza è stata la moglie dell’uomo, la quale, preoccupata per il mancato rientro a casa del marito, ha fornito la posizione registrata dal sistema di geo localizzazione montato sull’auto di proprietà. Le pattuglie dell’UPGSP- Sezione Volanti, portatesi immediatamente sul posto, sono riuscite ad individuare subito la posizione dello stesso che, in preda alla disperazione, aveva già raggiunto il ciglio della scogliera in un punto alto circa sette metri, ormai deciso a lasciarsi cadere. Dopo un primo approccio verbale che permetteva ai poliziotti di prendere tempo ed avvicinarsi all’uomo, gli operatori hanno evitato l’insano gesto bloccandolo proprio nel momento in cui si stava lanciando in mare. Nell’atto del soccorso due poliziotti hanno rischiato a loro volta di cadere dalla scogliera rimanendo lievemente feriti. Dopo l’intervento della Polizia di Stato, l’uomo è stato affidato alle cure dei sanitari del Servizio 118 giunti sul posto allertati dalla Sala Operativa della Questura.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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nardogranata · 8 months
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Guadalupi decide il match. Toro vincente a Barletta.
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BARLETTA - NARDO' 0-1
Goal: 21' Guadalupi.
BARLETTA (3-5-2): Sapri; Inguscio, Capone, Lacassia; De Marino (69' Diaz), Fornaro (81' Belladonna); Schelotto (81' Basanisi), Cafagna (Ngom) Garofalo; La Monica, De Marco (55' Eyango). Reserve: Bufano, Camilleri, Lippo, Rizzo. Trainer: Leonardo Bitetto
NARDO' (3-5-2): Viola; De Giorgi (88' Urquiza), Lanzolla, Gennari; Milli (71' Ciracì), Borgo (65' Latagliata), Guadalupi, Gentile, Di Benedetto; Dambros (85' Ferreira), D'Anna. Reserve: Della Pina, Dammacco, Cellamare, Rossi, Mariani. Trainer: Nicola Ragno
Arbitro: Daniele Arone di Roma 1 Assistenti: Francesco Raccanello di Viterbo e Massimiliano Cirillo di Roma 1
Ammoniti: Milli, Guadalupi (N) De Marino (B)
Guadalupi ritrova il goal su punizione dopo un anno e mezzo e il Nardò sbanca Barletta. Una partita proibita agli esteti del calcio che ha visto prevalere la concretezza dei neretini determinati a difendere il minimo vantaggio fino al fischio finale.
Non era scontato, nè facile per la compagine di Mister Ragno, oggi sostituito in panchina da Luciano Volturno per squalifica vincere al Puttilli. Il Barletta aveva l'imperativo di fare punti in chiave salvezza in un periodo di stravolgimenti tecnici e di possibili cambi societari con una tifoseria in fermento. Il Nardò ha saputo mettere da parte tutte le possibili pressioni psicologiche e ha portato a casa una vittoria di valore tecnico e morale.
La cronaca è scarna ma significativa. Il Nardò subito approccia con il pressing alto impedendo al Barletta giocate lineari e mettendolo in soggezione nelle ripartenze con palla rubata. La difesa barlettana regge concedendo a De Giorgi e Gentile solo dei cross su cui Sapri e il pacchetto difensivo prevalgono sulle punte Dambros e D'Anna.
La svolta arriva al 21' quando Borgo scambia con Guadalupi e centralmente fila verso l'area barlettana. Ci pensa Schelotto con uno spintone ad atterrare il ragazzo ex Lecce. Punizione dal limite. Sul pallone va Guadalupi e dopo il solito convegno sulla formazione della barriera e dell'antibarriera, il regista granata piazza un pallone velenoso proprio sul lato del portiere che, con visuale coperta, non riesce a intercettare la velenosa palombella. 0-1 ed esultanza sotto la curva neretina.
Il Barletta reagisce di nervi e manca di lucidità ma nel finale di tempo arriva l'occasione d'oro per pareggiare. Lunga sgroppata centrale di Garofalo con tiro radente deviato in tuffo da Viola, La Monica raccoglie da posizione defilata ma il tiro si infrange sul palo esterno.
Nel secondo tempo il Nardò pensa bene di tenere alto il baricentro per evitare sgradevoli sorprese in area. Viola deve intervenire in uscita alta sui cross di Schelotto e Lacassia. I biancorossi non pungono e Bitetto inserisce Ngom ed Eyango per dare maggiore incisività alla manovra. Il Nardò però non arretra e va vicino al raddoppio con D'Anna al 70'. Cross di Ciracì, spizzata dell'ex brindisino e reazione immediata di Sapri con palla alzata sopra la traversa.
Il Barletta guadagna un corner con Eyango con traversone spazzato da Lanzolla. Gli ultimi 20 minuti il Nardò li gioca col cronometro puntato. Falli, palloni trattenuti in attacco, interruzioni ad arte e tempo di gioco ridotto ai minimi termini.
I biancorossi non riescono mai a impensierire i granata che al 93' avrebbero la palla del definitivo match point. Gentile si libera in area e batte a colpo sicuro ma Sapri si oppone da campione deviando in corner. E sugli ultimi giochi sotto la bandierina si spegne il match con il Nardò ad incassare tre punti per stare ancora alle calcagna dell'Altamura mentre a Barletta il futuro si fa fosco e la zona play out molto chiara e delineata.
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fashionbooksmilano · 2 years
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Masserie
foto di Angelo Golizia
testi di Roberto Mutti e Domenico Blasi
Leonardo International, Milano 2004, 192 pagine, rilegato, 25,5 x 31 cm., ISBN  9788888828282
euro 40,00
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Angelo Golizia, fotografo, ha ricercato le radici della sua pugliesità nelle masserie di un ambito territoriale ristretto ma estremamente importante per la complessità dei modelli presenti fra la stretta pianura adriatica dell'Alto Brindisino e le propaggini meridionali dell'altopiano carsico della Murgia dei Trulli. Compie un viaggio nel tempo, cogliendo con il suo obiettivo i segni più minuti di un lentissimo e millenario processo di antropizzazione, che ha definito uno dei paesaggi più singolari d'Italia, in cui elementi naturalistici e opere dell'uomo sono in mirabile, quanto delicato, equilibrio fra loro, riuscendo ancora a resistere alla devastante frenesia consumistica di questi ultimi decenni.
29/05/22
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Brindisi tra Longobardi e Bizantini. Il diavolo fa le pentole, non i coperchi
   di Nazareno Valente
  Come tanti altri brindisini, sapevo appena dell’esistenza di san Pelino che neppure immaginavo fosse stato uno dei primi patroni della mia città. Di là dalla mia ignoranza su questi temi, pare tuttavia che sia un santo, se così si può dire, minore, sicché più d’uno dubita tuttora che possa essere davvero esistito, sebbene le autorità ecclesiastiche ne abbiano da tempo certificato in maniera solenne la trascorsa vita terrena. In effetti di lui è rimasta una sola flebile traccia, rappresentata da un vecchio manoscritto1 che ha la particolarità d’essere uno di quei testo di cui, anche i pochi che ne parlano, danno la sensazione di aver conosciuto solo tramite i brevi riassunti riportati in opere che trattano di cose sante. Non per niente il codice ha tuttora una diffusione molto limitata, forse anche a causa del fatto che nessuno ha mai pensato di curarne una traduzione dell’originale redatto in latino.
La “Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris” — questo è il nome dato al testo conservato dalla biblioteca Apostolica Vaticana — fa infatti parte delle agiografie che hanno ricostruito e tramandato appunto le vite, i miracoli ed i martiri dei santi della Chiesa cattolica, il cui interesse è circoscritto per lo più agli addetti ai lavori. Non desta quindi stupore se, nel caso della Vita di Pelino, si abbiano rari riscontri di interventi specifici tra i quali spicca quello dello storico Giacomo Carito che, in un originale ed apprezzabile articolo2, ne ha tratto spunto per caratterizzare un’intrigante pagina di storia cittadina collegata con la sede vescovile.
Analizzando appunto la Vita di san Pelino, lo storico ricava elementi utili per stabilire una diversa cronotassi dei vescovi della diocesi brindisina, nel periodo che va dalla sua istituzione al trasferimento ad Oria, vale a dire dal III secolo all’inizio dell’ultimo ventennio del VII secolo. Nel concreto Carito perviene ad una diversa collocazione cronologica di alcuni presuli (Leucio, Aproculo, Pelino e Ciprio), rispetto a quella fissata dalla tradizione ecclesiastica, finendo pure per dare una personale interpretazione ad alcuni tragici avvenimenti di quell’epoca. In particolare sulla conquista di Brindisi da parte dei Longobardi e sul trasferimento ad Oria dell’episcopato.
Senza entrare nel dettaglio delle due sequenze proposte, vediamone gli aspetti essenziali.
Innanzitutto entrambe concordano che la dislocazione temporanea della diocesi ad Oria — dove rimase sino all’XI secolo — avvenne attorno al 680, subito dopo la conquista e l’eventuale devastazione longobarda di Brindisi; condividono inoltre che il vescovo Prezioso, la cui morte fissano sempre al 680, chiuda la sequenza dei prelati di quel periodo. Di quest’ultima informazione non si terrà però per ora conto, in quanto il vescovado di Prezioso, come chiariremo a tempo debito, va anticipato di almeno un secolo e non ha diretta attinenza con le considerazioni che faremo nell’immediato.
Per quanto riguarda le divergenze, basterà invece citare solo la diversa collocazione nella sequenza di Aproculo, Pelino e Ciprio: l’ipotesi ufficiale li considera vescovi del IV secolo; quella di Carito li considera consacrati tre secoli dopo. Agli effetti pratici, mentre Carito fornisce una lista di prelati per il periodo che va dal 601 al 680, cioè a dire fino alla probabile data del trasferimento ad Oria, l’altra tesi, pur dando per scontato che la diocesi sia comunque rimasta in funzione, non è in grado di fornire nessuno nominativo dei vescovi che ne guidarono le attività.
Conseguenza interessante per la storia di Brindisi è che, dando per buona l’ipotesi di Carito, diviene credibile anche quella che giudica il trasferimento dell’episcopato brindisino effetto dell’occupazione longobarda. Se, viceversa, fosse valida la versione ufficiale che, come già riportato, dà per certa, senza tuttavia provare, l’operatività della sede episcopale nel VII secolo, nulla vieterebbe di pensare che il trasferimento sia avvenuto prima della conquista longobarda e, soprattutto, che esso sia stato effettuato per libera scelta del clero. Sarebbe in altre parole possibile che l’apparato ecclesiastico, preferendo la più sicura e tranquilla Oria, abbia deciso di abbandonare Brindisi al suo destino, comportando con questa scelta uno svuotamento dell’apparato gestionale della città che ha poi indotto i Longobardi a devastarla, avendola stimata indifendibile.
Poiché va da sé che, se Carito è nel giusto, il dubbio non si pone neppure, per dirimere la questione, sarà sufficiente verificare la bontà della sua tesi, cioè a dire se Aproculo, Pelino e Ciprio siano davvero vissuti nel VII secolo, come da lui affermato.
Anche per Aproculo e Ciprio, come per Pelino, il manoscritto riguardante la Vita del santo costituisce l’unica testimonianza scritta che ci dà menzione della loro esistenza sicché, senza l’aiuto di questo documento, non avremmo potuto mantenere memoria di nessuno di questi tre illustri vescovi di Brindisi.
Narra la Vita che Pelino nacque a Durazzo e che sin da giovane s’avviò lungo la via che l’avrebbe portato alla santità, a ciò instradato dagli insegnamenti di san Basilio. Tra i suoi più assidui seguaci si segnalarono subito i “letterati” Sebastio e Gorgone mentre Ciprio, pur «puerulus» (poco più che un infante), era il suo discepolo prediletto. A seguito delle persecuzioni dell’imperatore Giuliano, che intendeva riportare i riti pagani ai loro antichi fasti, i quattro dovettero emigrare e cercare riparo nella nostra città. Qui era vescovo il beato Aproculo il quale prese a cuore le sorti dei profughi, accogliendo Pelino nel clero brindisino ed impiegando Sebastio e Gorgone nella biblioteca vescovile.
Giunto a vecchiaia, Aproculo fece in modo che alla sua morte gli potesse subentrare Pelino, certo che questa scelta avrebbe rafforzato l’episcopato e fatto guadagnare alla causa cristiana molte anime pagane. Proprio l’opera di proselitismo condotta dal neo vescovo lo rese famoso tra la gente ma anche inviso all’imperatore Giuliano, che decise di farlo incarcerare. Dopo due tentativi risultati vani — dai quali Pelino si salvò grazie ai suoi poteri straordinari — il terzo andò ad effetto e lo consegnò al martirio. Condotto infatti a Corfinio, paese dei Peligni, fu ancora capace di far crollare, con la sola forza della sua eloquenza, l’empio tempio di Marte ma, infine, battuto selvaggiamente, morì oppresso da ottantacinque ferite.
Sebastio e Gorgonio seguirono la sua stessa sorte, mentre Ciprio, risparmiato per la giovane età, poté tornare a Brindisi dove, dopo breve tempo, fu nominato a sua volta vescovo. L’agiografia si conclude qui, ribadendo che il martirio era avvenuto il 5 dicembre («nonis decembris») a Corfinio, per mano del corniculario a capo del presidio, nel periodo in cui era imperatore Giuliano.
Il riferimento costante all’imperatore Giuliano, che ricordiamo regnò tra il 361 ed il 363, colloca pertanto la passione di Pelino in maniera inequivocabile al IV secolo, e, a tutta prima, parrebbe smentire la tesi di Carito che, invece, l’ha voluta spostare di tre secoli in avanti. Lo storico, però, suppone che la Vita sia stata originariamente redatta nel VII secolo — ancor prima della distruzione longobarda della città — e «in seguito interpolata espungendo il nome dell’imperatore Costante II e retrodatando la vicenda al IV secolo»3. Presume inoltre «che ciò possa essere stato possibile nel IX secolo [ndr. credo si tratti d’un refuso e che si debba leggere XI secolo] quando la rinnovata influenza di Costantinopoli su quest’area poté indurre a reinterpretazioni che chiudessero con dolorose pagine del passato»4.
Quindi, a giudizio dello storico, l’effettivo colpevole del martirio è Costante II, imperatore dal 641 al 668, che un’opportuna “manina” ha espunto dal testo originario sostituendolo con Giuliano l’Apostata, in modo da porre fine ad una dolorosa vicenda protrattasi per secoli.
In effetti Costante II aveva adottato provvedimenti restrittivi promulgando nel 648 l’editto dogmatico, noto come il «Tipo», con l’intento di porre fine alle controversie religiose sulla natura di Cristo, che minavano gli equilibri interni in un momento in cui l’impero era impegnato a difendersi dalle invasioni arabe e longobarde. L’editto vietava infatti alle autorità ecclesiastiche di dibattere sui temi dottrinari e cristologici, pena l’allontanamento dalle cariche ricoperte, ed ai privati cittadini di poterne discutere in pubblico, pena la fustigazione e la confisca dei beni. Sebbene avesse evidenti risvolti religiosi, era un atto in prevalenza politico con cui, dando un tacito assenso all’eresia, si voleva favorire la componente eretica che, concentrata per lo più nelle estreme periferie orientali, rappresentava l’unico argine consistente all’avanzata mussulmana.
Naturalmente questa implicita accettazione dell’eresia sollevò le proteste del papato che di lì a poco avviò un vero e proprio braccio di ferro con Costante II. Difatti, nel luglio del 649, appena eletto papa, Martino I procedette all’insediamento senza attendere il prescritto riconoscimento ufficiale («iussio») da parte dell’imperatore e, in rapida successione, convocò un sinodo che, nel riaffermare le due volontà in Cristo, quella divina e quella umana, rigettava le tesi eretiche e l’editto che ne vietava la discussione. A questo punto, Costante II si ritenne sfidato e reagì con violenza, ordinando l’arresto del papa con l’accusa di alto tradimento.
Senza voler sminuire la portata delle persecuzioni compiute, va precisato che esse ebbero il loro apice con la destituzione e la condanna del papa all’esilio e con le torture inflitte a san Massimo il Confessore, che dell’ortodossia era stato il più strenuo difensore. In periodi in cui anche il non pagar le tasse faceva meritare la fustigazione, erano pene che non sollevavano eccessivo scalpore, tanto è vero che, poco tempo dopo, Roma accolse con entusiasmo Costante II in visita della città, Né si dimostrò a lui ostile lo stesso papato, che lo ospitò con grande deferenza. Ma quel che più conta è che l’editto ebbe vita breve: le periferie orientali caddero sotto il domino arabo e la materia del contendere si esaurì. Nel concilio ecumenico del 680, convocato da Agatone, d’intesa con Costantino IV, l’ortodossia fu ribadita quasi all’unanimità. Come dire che la controversia era stata del tutto appianata e non lasciava questioni irrisolte in eredità.
Era stata una pagina dolorosa ma circoscritta sia nei suoi effetti, sia nel tempo: Costante II non era un colpevole scomodo e, anche fosse stato il promotore del martirio di san Pelino, non avrebbe suscitato sentimenti tali dal richiedere l’intervento d’un sostituto di comodo per attenuarne gli effetti. In definitiva, non c’era nessuna necessità di manipolare il testo della Vita, come presunto da Carito.
Il che fa credere che il vero colpevole sia stato Giuliano e che, di conseguenza, Aproculo, San Pelino e Ciprio siano vissuti nel IV secolo, come vuole la tradizione. Ma non è questo l’unico elemento che fa propendere per l’ipotesi tradizionale.
Nella sua ricostruzione, Carito fornisce una possibile cronologia degli avvenimenti che ha il pregio di porre in luce i momenti principali della storia. A suo giudizio: san Pelino viene martirizzato a Corfinio, all’incirca nel 662; Ciprio erige una chiesa in suo onore, tra il 668 ed il 674; Brindisi viene presa e distrutta dai Longobardi nel 674, per essere infine abbandonata, alla morte del vescovo Prezioso, dal clero che trasferisce la sede episcopale ad Oria verso il 680. Suppone inoltre che la vita del santo sia stata scritta da un Brindisino, in concomitanza con la costruzione della «chiesa» a lui dedicata su iniziativa di Ciprio, quindi nel VII secolo, prima dell’avvento del Longobardi. Lo storico desume tale datazione dal fatto che l’estensore colloca la costruzione «così come poteva esserlo solo da chi aveva conosciuto la città tardo-antica»5.
Ipotesi suggestiva ma che presenta evidenti limiti sotto ogni punto di vista. Intanto, edificare una chiesa era un’attività di per sé dispendiosa, probabilmente non alla portata delle tasche dei Brindisini del VII secolo, che avevano già difficoltà a tirare a campare. Figuriamoci poi ad avere le risorse necessarie per riuscire nell’impresa di realizzarla in sei anni scarsi.
Agli ostacoli di natura economica, si aggiungono poi quelli di carattere letterario. La struttura della Vita è infatti tipica delle agiografie compilate tra il X e l’XI secolo: in precedenza, tali opere, non solo erano molto più scarne, ma si limitavano in genere a trattare un solo aspetto alla volta, ad esempio: il martirio subìto oppure i miracoli compiuti, o l’opera di proselitismo. Per cui, salvo che l’autore brindisino in questione non sia stato un agiografo ante litteram, è alquanto difficile anche immaginare che abbia saputo precorrere i tempi con così largo anticipo. C’è poi l’aspetto dell’ubicazione, che merita un discorso a parte.
Bisogna intanto premettere che nel testo originale della “Vita” si parla di «basilicam»6, quindi di una basilica che, però, diventa chiesa in un passo apocrifo, aggiunto nel XVI secolo, di cui parleremo più diffusamente in seguito. La basilica appunto è detta situata non lontano dalla porta urbica, nei pressi della chiesa della “Beata Maria”(«haud longe a porta civitatis iuxta ecclesiam Beatae Mariae»7). Tuttavia la cinta muraria, e con essa la porta della città, è già data per inesistente alla metà del VI secolo da Procopio, che rappresenta infatti Brindisi “non cinta da mura” («ἀτείχιστον οὖσαν», «ateìchiston ousan»8), e pertanto non poteva far parte dello scenario cittadino cent’anni dopo. La porta urbica era invece presente nel IV secolo, quando c’erano pure le condizioni economiche per edificare una basilica (o una chiesa) da intitolare a san Pelino. Per cui la circostanza finisce per avvalorare la tesi tradizionale che fissa gli episcopati di Aproculo, Pelino e Ciprio nel IV secolo.
Altro motivo su cui Carito ha basato la propria ipotesi è «la complessità che mostra la struttura ecclesiale nella Vita»9 poco coerente, quindi, con quella più essenziale del periodo di tardo impero. A mo’ d’esempio riporta le modalità seguite da Aproculo nel designare Pelino suo successore. Rifacendosi al sunto della “Vita” presente negli “Officia propria” per i santi patroni di Brindisi, lo storico ricava che la nomina di Pelino fu fatta in tutta autonomia da Aproculo che però, per il problema che «i sinodi avevano… costantemente contrastato»10 un tale modo di procedere, fu costretto a richiedere l’autorizzazione papale.
L’appunto di Carito è in linea di principio condivisibile: il divieto per il vescovo di designarsi il successore divenne operante successivamente al IV secolo, tuttavia la procedura indicata nel testo originale della “Vita” è ben diversa da quella da lui indicata. Difatti Aproculo non aveva agito in maniera autonoma nella nomina del suo successore. Per l’occasione, aveva invece riunito il clero («cunctum clerum»11) e tutti i cittadini illustri («omnes illustres»11), i quali all’unanimità elessero poi Pelino vescovo («Episcopatus elegerunt»11). A grandi linee era questa la normale procedura in vigore nella seconda metà del IV secolo, che demandava la scelta del vescovo al clero ed ai cittadini rinomati, modificata in epoca successiva, giusto per garantire che non ci fossero abusi. Va infine osservato che l’autorizzazione del vescovo di Roma, raramente contemplata dalla prassi, non era di norma prevista a sanatoria e, nel caso concreto, è inserita nel racconto solo per dare enfasi all’elezione di Pelino.
In effetti, contare sui compendi non è il modo migliore per evitare errate valutazioni, anche perché nei sunti l’ambientazione è sempre ridotta all’osso e ciò rende vago il contesto storico che, al contrario, nel testo autentico risulta ben definito. Se si fa ricorso al codice originario, non c’è invece nessuna possibilità di ambiguità e, a chi vorrà farlo, apparirà sin dalle prime pagine evidente che il racconto si svolge in uno scenario tipico del primo periodo del tardo impero, vale a dire in un IV secolo facilmente riconoscibile. Lo si deduce dai nomi dei personaggi storici che agiscono, Costantino, Liberio, Basilio, Giuliano, Gioviano; dai numerosi templi pagani ancora esistenti, e che nel VII secolo erano ormai destinati ad usi profani; dalla moltitudine di pagani (anche questi ultimi di fatto inesistenti nel VII secolo) che, convinti dalla santità di Pelino, chiedono di convertirsi al cristianesimo; dagli stessi titoli assegnati ai funzionari che fanno da contorno al racconto. Emerge poi in maniera chiara che il dissidio tra i nostri eroi ed il potere costituito non è dovuto ad una disputa cristologica ma deriva da motivi ben più profondi, collegati al modo completamente diverso con cui i cristiani ed i pagani concepivano la religione.
Anche i brevi schizzi utilizzati per descrivere le varie località ci consegnano un quadro di gran lunga più coerente con il IV secolo. Un esempio tipico è costituito proprio dalla rappresentazione di Brindisi che, in quel periodo, viveva uno dei suoi momenti più floridi, lontani anni luce dalla tormentata e misera condizione in cui si sarebbe dibattuta nel VII secolo. L’anonimo autore ci racconta infatti che era noto a tutti quanto Brindisi si distinguesse dalle altre città, grazie ai suoi indiscutibili pregi: ben costruita, abitata da un buon numero di cittadini, piena di opportunità e di ricchezze d’ogni genere («civitas enim haec mirae fortitudinis esse dignoscebatur, et magna frequentia civium incolebatur, divitiis plena, terrenis commodis feliciter rutilabat»12).
Uno sguardo d’assieme è sufficiente poi per rendersi conto che il manoscritto non mostra nomi espunti o sostituiti, né manipolazioni o modifiche del testo, come supposto da Carito: le uniche annotazioni presenti — probabilmente effettuate nel XVI secolo — hanno quasi sempre valore esplicativo. Gli aspetti tecnici e storici chiariscono poi, senza dubbio alcuno, che non fu un Brindisino del VII secolo a curarne la redazione. Da un punto di vista paleografico, gli esperti affermano infatti che sia stato realizzato da mano esperta con scrittura beneventana, probabilmente a Montecassino nell’XI secolo13.
Il codice ha anche una sua particolare storia che merita di essere in parte raccontata. Custodito nell’archivio della Cattedrale di san Pelino a Corfinio sin dal XII secolo, fu regalato nel 1579 alla biblioteca Apostolica Vaticana per il timore che potesse essere «squinternato et arrobbato»14, com’era capitato ad altri testi lì conservati. Si narra anche che l’allora arcivescovo di Brindisi, venuto a conoscenza dell’esistenza del manoscritto, fece « gran instantia di haverla autentica»15 e ne ottenne una copia nel 1580.
Proprio la vana ricerca di questa copia inviata a Brindisi mi ha consentito di scoprire un fatto che colora un po’ di giallo tutta la questione. Qualche anno prima che il manoscritto fosse donato alla biblioteca Vaticana, Bernardino Fumarelli, vescovo di Valva, l’aveva fatto trascrivere e, in un secondo tempo, aveva incaricato tale Francesco Arola, maestro di teologia, di curarne una pubblicazione a stampa.
Ebbene in questa Vita sancti Pelini Episcopi Brundusini Et Martyris Christi, edita a Venezia nel 1543, ho trovato un lungo passo, non presente nel codice, presumibilmente aggiunto al momento della trascrizione o della prima edizione a stampa. Essendo del tutto improbabile che siano stati l’amanuense oppure il teologo gli artefici del falso, pare scontato che la spinta al destino l’abbia data il vescovo Fumarelli, anche perché la parte aggiunta di fatto “invecchiava” la sua diocesi. In altre parole, si ha motivo di sospettare che il prelato abbia funzionalmente integrato la Vita, in modo da avvalorare la dignità vescovile di Valva — che, vedremo meglio in seguito, era un sobborgo periferico di Corfinio — a tutto danno della vicina Sulmona che le contendeva in quel periodo la cattedra episcopale.
A parte questa nota di colore, l’analisi del manoscritto chiarisce ancor più che Aproculo, Pelino e Ciprio non possono aver retto la diocesi della nostra città nel VII secolo, come ipotizzato da Carito. Dobbiamo pertanto accettare l’idea che, all’arrivo dei Longobardi, la sede vescovile brindisina fosse quantomeno vacante, se non addirittura da tempo emigrata in più sicuri lidi.
Se ci fossero ancora dubbi, alcuni dati di fatto serviranno a fugarli del tutto.
Dalla ricostruzione di Carito si evince che Pelino ed i suoi discepoli giungono a Brindisi, provenienti da Durazzo, tra la data di emanazione del Tipo (648) e quella del suo martirio (662), perché perseguitati da Costante II. Ebbene in quel periodo, i Bizantini, a causa degli attacchi degli Slavi che avevano reso impraticabile la via Egnazia, non presidiavano più la città albanese che, pur formalmente bizantina, di fatto era lasciata a sé stessa e godeva di un’ampia autonomia. È pertanto pacifico che eventuali dissidenti lì residenti non avevano motivo di temere per la propria incolumità, considerato che l’imperatore, anche se l’avesse voluto, non era certo nelle condizioni di poter loro nuocere. Non c’era pertanto necessità di affrontare un pericoloso tratto di mare, soggetto alle scorrerie dei Saraceni proprio perché non più controllato dal potere centrale, per arrivare a Brindisi, città allora senza grandi prospettive e con l’aggravante d’essere presidiata dai Bizantini. In pratica sarebbe stato come andare in cerca di guai.
Supponendo per un istante che un aspirante santo possa vedere motivi validi anche lì dove un comune mortale non ci riuscirebbe mai, ci sarebbe un’altra circostanza che rende la ricostruzione improponibile: la deportazione e il successivo martirio subìto a Corfinio da Pelino, Gorgonio e Sebastio.
Attorno al 662, periodo in cui a giudizio di Carito si sarebbero svolti i fatti, si dà per certo che Corfinio fosse una specie di deserto, i cui resti sopravvivevano in un suo quartiere marginale, Valva, che in antichità dava nome alla zona periferica sud orientale. Lo slittamento del baricentro urbano della città romana, avviatosi già dalla fine del IV secolo, era dovuto, oltre a nuove necessità difensive, all’introduzione del cristianesimo ed allo sviluppo in quella zona di un’area funeraria collegata proprio al culto di san Pelino. Questa convergenza di funzioni conferì un’importanza sempre più accentuata alla zona periferica rispetto al resto dell’abitato che, alla lunga, determinò una distinzione anche a livello toponomastico. Il toponimo di Valva prese sempre più piede, grazie alle funzioni laiche e religiose che lì si svolgevano, sino a soppiantare quello storico di Corfinio, che restò confinato ad indicare l’antico municipium romano, sino a quando poi, in epoca moderna, fu richiamato in vita. Il manoscritto, se ambientato nel VII secolo, avrebbe quindi dovuto probabilmente usare il nuovo toponimo e non quello della tarda antichità. Ma questo è niente: nel 662, Corfinio, o Valva che dir si voglia, era ormai da qualche decennio in mano ai Longobardi e faceva parte del ducato di Spoleto. In pratica era un dominio dei nemici giurati dei Bizantini e costituiva una zona ovviamente off limits per loro, in più talmente lontana dai loro possedimenti che, per arrivarci, avrebbero dovuto attraversare un altro territorio nemico, il ducato di Benevento. Appare perciò impensabile che, con tutto un impero a disposizione, i Bizantini abbiano potuto decidere di deportare e processare dei dissidenti religiosi in una città presidiata dai Longobardi. Come se, di questi tempi, gli Statunitensi decidessero di giudicare propri connazionali in tribunali costituiti in Corea del Nord o in Russia.
A questo punto è del tutto scontato che la vicenda di Pelino non può essersi svolta nel VII secolo e, di conseguenza, non si può neppure ipotizzare che in quel secolo Aproculo, Pelino e Ciprio siano stati consacrati vescovi di Brindisi.
In definitiva, se nel periodo che va dal 601 al 680 la diocesi brindisina ebbe vescovi, non è dato di conoscerne il nome, tranne quello eventuale di Prezioso sul quale s’era sino ad adesso sospeso ogni giudizio.
A prima vista, la posizione di Prezioso sembra pacifica: tutti sono d’accordo nel considerarlo l’ultimo vescovo brindisino, morto nel 680, appunto poco prima del trasferimento della sede ad Oria. Eppure, su quest’ultimo aspetto, verrebbe da dire che non sia tanto un convincimento, quanto piuttosto un taciuto desiderio dei cronisti di vederlo morto in quell’anno, e vedremo subito perché.
In realtà di lui abbiamo ben poco: un titolo sepolcrale scoperto nel 1876 in contrada Paradiso16, zona periferica brindisina, attribuibile al VI secolo o, con più d’una forzatura di comodo, al VII secolo. Quale sia la datazione esatta e, quindi, in quale periodo Prezioso sia effettivamente vissuto lo sa solo il cielo, ed è per l’appunto questa circostanza che — sospetto — lo ha reso, agli occhi della cronachistica cittadina, perfetto per svolgere il ruolo di vescovo del VII secolo e avvalorare così l’ipotesi che furono i Longobardi a causare il trasferimento dell’episcopato brindisino.
Infatti il luogo dove Prezioso è stato sepolto, ben lontano dalla necropoli cittadina, può giustificare la pretesa che la cerimonia funebre sia stata fatta in fretta e furia, cioè a dire, mentre i cittadini erano in fuga, pressati da un pericolo imminente; pericolo che i commentatori identificano, pur senza nessun indizio a supporto, con l’arrivo dei Longobardi. Tale sensazione viene poi accentuata dal fatto che il testo dell’epigrafe con la formula «aepescopus aecletiae cattolicae» (vescovo della chiesa cattolica) sottolinea la cattolicità del vescovo, quale rappresentante della santa chiesa ortodossa, in contrapposizione ad una chiesa giudicata eretica perché devota ad una diversa dottrina17. Quale sia questa dottrina, l’epigrafe funeraria non lo specifica ma, anche in questo caso, c’è consenso nel collegarla con l’arianesimo professato dai Longobardi.
Il ragionamento pare in effetti funzionalmente congegnato per provare la tesi preconcetta che il trasferimento da Brindisi fu causato, e non una libera scelta della curia, ed a questa evenienza la data di morte di Prezioso è obbligata a conformarsi. Essendo vincolato alla devastazione longobarda, che si dà per compiuta nel 674, il triste avvenimento non poteva che avvenire successivamente. In definitiva, il 680 è scelto perché il più indicato a soddisfare questo gioco ad incastro. In quell’anno s’era infatti svolto un concilio ecumenico, convocato dal papa Agatone, d’intesa con l’imperatore, che rappresentava una di quelle occasioni a cui non si poteva assolutamente mancare. Erano così presenti tutti i vescovi del mondo cristiano, anche perché Costantino IV, com’era tradizione, per evitare assenze, aveva impegnato il suo potente apparato burocratico nell’organizzare le trasferte dei prelati, che si svolgevano a totale carico del potere secolare. Eppure, mentre Otranto e Taranto furono in quella circostanza rappresentate, la diocesi brindisina non lo fu. Il che potrebbe far credere che il ministero fosse in quel periodo vacante, ed è proprio per non alimentare un simile sospetto che, a giustificazione dell’assenza, si vuol far credere che Prezioso sia passato in quei frangenti a miglior vita. Ecco perché la cronotassi dei vescovi brindisini prevede che Prezioso sia morto esattamente nel 680.
Il diavolo, però, fa le pentole e non i coperchi, tant’è che, pure in questa circostanza, la piccola astuzia adottata risulta appunto priva dell’indispensabile coperchio capace di occultarla. Caso vuole infatti che il testo dell’epitaffio, pur omettendo l’anno, riporti il giorno della settimana, quello del mese ed il mese della sepoltura del nostro Prezioso: venerdì («sexta feria») 18 agosto («XV kalendas Septembris»). Ebbene il 18 agosto 680 non cadde di venerdì, il che rende impossibile che Prezioso sia morto in quell’anno e, di conseguenza, fa crollare tutta la cronologia così meticolosamente messa in piedi.
A questo incontrovertibile dato di fatto, si aggiunge poi la stranezza che il vescovo di Taranto, città conquistata — e, a detta dei cronisti, devastata — dai Longobardi nello stesso periodo di Brindisi, invece di essere fuggiasco come Prezioso, partecipasse senza problemi al concilio di Costantinopoli.
Se si ricorda, infine, che il testo dell’epigrafe è molto più affine alle scritte funerarie del V e VI secolo, una soluzione che colloca Prezioso tra i vescovi del VI secolo sembra a questo punto più probabile. Una simile datazione potrebbe in aggiunta fornirci qualche appiglio attendibile per spiegare da chi, e perché, i Brindisini fuggissero talmente in fretta da essere costretti a seppellire il loro vescovo in un luogo così lontano da quello usuale.
Narra Procopio che la nostra città, dopo essere stata per i primi dieci anni risparmiata dal conflitto che impegnava i Bizantini ed i Goti, ne venne investita pesantemente. Il problema è che Brindisi non aveva cinta murarie a protezione e, risultando indifendibile, era di fatto soggetta alle frequenti scorrerie dei contendenti. C’è un passo poco conosciuto della Guerra gotica18 che sintetizza in maniera eclatante tale stato di cose. All’incirca nel 545 i Bizantini, da tempo impossessatisi senza colpo ferire della penisola salentina, subiscono il contrattacco dei Goti.
Trinceratisi ad Otranto, i Bizantini non osano accettare lo scambio in campo aperto, tranne tal Vero che Procopio dipinge «temerario, perché dedito all’ubriachezza»19. Questi lascia infatti Otranto ed arriva nella nostra città. I Goti, accortisi della manovra, pensano che sia un pazzo oppure che abbia con sé un esercito talmente numeroso da poter garantire le difese di una postazione, come Brindisi, priva di fortificazioni. Venuti a sapere che era in effetti una decisione avventata, attaccano decisi; Vero ed i Bizantini, appena li vedono comparire, non potendosi in alcun modo proteggere, se la danno a gambe, nascondendosi in una selva20.
Se pure un plotone armato di tutto punto stimava meglio darsi alla fuga, figuriamoci una cittadinanza inerme. Il racconto è così una chiara testimonianza di come i Brindisini si trovassero, indifesi, in balìa di entrambe le parti in lotta. In una simile situazione, non c’è da stupirsi se la fuga rappresentava l’unica possibile ancora di salvezza. Può quindi essere avvenuto che, in un frangente simile, si siano trovati costretti a seppellire il loro vescovo, e siano pertanto i Goti, anch’essi ariani al pari dei Longobardi, il possibile riferimento dell’epigrafe. Se s’aggiunge poi che il 18 agosto 545 capitò giustappunto di venerdì, si ha un altro piccolo tassello favorevole. Non è certo molto, ma comunque qualcosa rispetto al nulla su cui può contare l’ipotesi che fa dei Longobardi i sicuri inseguitori del fuggiasco Prezioso.
Con Prezioso cade anche l’ultimo sostegno alla tesi che prevede l’esistenza a Brindisi di una qualsivoglia funzione vescovile per tutto il periodo che va dall’episodio appena narrato all’arrivo dei Longobardi di Benevento che, a detta di Carito, conquistano la città «circa il 674»21 e la distruggono nello stesso anno22. Anche in questo caso non ci sono riscontri oggettivi che confortano una simile datazione, che pare anch’essa calcolata per dare supporto all’ipotesi formulata.
Infatti, l’unica fonte letteraria disponibile riporta gli avvenimenti in maniera generica, senza datare l’occupazione della città: Romualdo, duca di Benevento, messo insieme un grande esercito, espugnò Taranto e, nello stesso modo, prese Brindisi («Romualdus Beneventanorum dux, congregata exercitus multitudine, Tarentum expugnavit et cepit, parique modo Brundisium»23). Questo lo stringato racconto di Paolo Diacono da cui è desumibile solo che i fatti avvennero tra il 671 ed il 687, quando Romualdo I, reggendo le sorti del ducato di Benevento, poteva intraprendere simili imprese.
Nel passo citato non c’è in aggiunta nessuna menzione della presunta devastazione delle città conquistate, che pare far parte più d’una elaborazione successiva che della realtà storica. Anzi, nel seguito dello stesso brano, passando ad un argomento completamente diverso, Paolo Diacono dà un importante indizio per una descrizione dei fatti in netta controtendenza. Precisa difatti che Teuderata, moglie di Romualdo, è una fervente cattolica tanto che, nello stesso intervallo di tempo, ha fatto costruire una basilica ed un cenobio, appena fuori Benevento («Coniux quoque eius Theuderata eodem tempore foras muros Beneventanae civitatis basilicam in honore beati Petri apostoli construxit; quo in loco multarum ancillarum Dei coenobium instituit»24). Come dire che, a quell’epoca, i Longobardi non erano quei mangia cattolici che fa comodo lasciar credere.
In effetti, nella ricostruzione dei fatti, i Longobardi paiono confinati alla visione alquanto faziosa del teologo Di Meo, insigne erudito del XVIII secolo che, pur di sollevare la Chiesa da ogni possibile colpa, non disdegnava di alzare i toni narrando di città «barbaramente sterminate da’ Longobardi»25 oppure che al pari di Brindisi «contarono i loro vescovi, finché divennero preda de’ Longobardi»26. In realtà nelle prime fasi dell’invasione ci furono distruzioni ed azioni contro i vescovi cattolici ma, a lungo andare, le cose cambiarono per cui l’immagine dei Longobardi sterminatori è uno stereotipo di comodo. Tanto è vero che, quando si apprestavano ad espugnare Brindisi, l’atteggiamento dei Longobardi di Benevento nei riguardi della chiesa cattolica era di fatto diverso, grazie alle numerose conversioni avvenute tra le loro fila e, soprattutto, alla politica distensiva attuata da Romualdo.
Lo stesso Romualdo pare avesse imboccato la via del cattolicesimo, anche se i contorni di questo suo cambiamento di fede sono riportati in un’opera agiografica, la Vita Barbati episcopi beneventani (Vita di san Barbato, vescovo di Benevento), le cui informazioni vanno quindi accolte con le dovute cautele. Fatta la dovuta tara, emerge tuttavia evidente l’influenza esercitata da san Barbato sul duca di Benevento che, d’altra parte, ne aveva accettato l’insediamento nella diocesi beneventana sin dal 664, quand’era ancora reggente. Nella Vita Barbati è in vario modo descritta l’assidua opera compiuta dal presule per rimuovere i culti pagani, ancora vivi tra i Longobardi del Sannio, allo scopo di affrancarli dalle loro innate credenze. In questo contesto, particolare risonanza assunse l’abbattimento dell’albero di noce, posto sulle rive del fiume Sabato, che rappresentava il simulacro del rito pagano della vipera a due teste a cui erano particolarmente legati i guerrieri del ducato. Con questo atto, imposto da Barbato, Romualdo prese le distanze dall’arianesimo e avviò, almeno dal punto di vista formale, il percorso di avvicinamento al cattolicesimo. Di là dagli aspetti di colore, la circostanza è rivelatrice dei tentativi compiuti dal duca per superare i contrasti con la popolazione latina e, al tempo stesso, instaurare relazioni pacifiche con il clero. Per tutto il periodo del suo ducato i suoi comportamenti furono pertanto ispirati ad una politica di conciliazione con la chiesa romana, anche perché sollecitato in ciò da san Barbato e dalla moglie Teuderata.
È per altro evidente che sarebbe stato impossibile mantenere rapporti amichevoli con il papato, rendendosi insieme protagonisti di azioni violente nei confronti dall’apparato ecclesiastico. Probabilmente Romualdo, quando conquistò Brindisi, non aveva ancora abbandonato la fede ariana ma la questione ha scarso rilievo pratico perché erano gli obiettivi politici che intendeva conseguire ad essere preminenti, e questi erano indubbiamente indirizzati ad un intesa sempre più stretta con le autorità ecclesiastiche. Stando così le cose, appare del tutto scontato che il duca non aveva nessun motivo logico, né alcun tornaconto, ad inimicarsi la curia vescovile brindisina. Anzi, al contrario, avrebbe avuto tutto l’interesse a farsela amica ed a sfruttarla per i propri fini. Fosse esistito in quel momento a Brindisi un clero capace di mantenere in vita un episcopato, Romualdo se ne sarebbe di certo servito per puntellare la conquista e consolidarla. Non c’era infatti struttura burocratica a quel tempo meglio organizzata di quella clericale, e tutti i governanti, quand’era possibile, se ne servivano per gestire e controllare il territorio. Il problema fu piuttosto che il clero s’era già da tempo trasferito, seguendo una logica d’interessi interni alla diocesi, e questa fuga rappresentò un costo elevato per la città in termini demografici e di risorse. I religiosi furono infatti seguiti dai loro clienti e la scelta da loro fatta condizionò le successive decisioni dei maggiorenti brindisini. In più, alla mancanza d’una classe dirigente in grado di gestirla, si aggiungeva un porto ormai in netto disarmo, neanche più collegato con le rotte per l’altra sponda dell’Adriatico e per le coste del nord Italia. Un porto diventato addirittura un pericolo: una specie di cavallo di Troia per il cui tramite i Saraceni avrebbero potuto insinuarsi nella penisola.
Non direi quindi che la conquista longobarda comportò la distruzione della città, che pare invece una soluzione costruita a tavolino, non del tutto corrispondente alla realtà dei fatti. Sarei piuttosto propenso a credere che i Longobardi, magari d’intesa con i Bizantini, resero inagibile il porto per evitare pericoli esterni e spostarono il baricentro della città, in modo da allontanarla dalla costa e porla al riparo dalle scorrerie dei Saraceni.
Comunque siano andate le cose, pare evidente che non furono i Longobardi la causa del declino e dello spopolamento della nostra città, come certa cronachistica vuol far credere. Gli atti da essi compiuti rappresentarono l’epilogo d’un processo, già da tempo avviato, che aveva visto come principale protagonista il clero, in questo caso, molto più propenso a salvaguardare il proprio tornaconto che l’interesse dei fedeli. E che ci fossero vescovi inclini ad abbandonare le proprie sedi vescovili per motivi di sicurezza, ce lo svela un fermo monito di Sant’Agostino che aveva ricordato loro che il dovere di un vescovo era sempre quello di stare con i suoi fedeli27.
Ma, a quanto sembra, a Brindisi, il santo consiglio non trovò molto ascolto.
            1 Il Vat. lat. 1197, contenente Passiones et Legendae Sanctorum tra cui è compresa nelle cc. 1v-9v la Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris, nelle cc. 9v-13r Miracula s. Pelini episcopi e nella prima colonna di c. 13v un Carmen de s. Pelino.
2 G. Carito, Gli arcivescovi di Brindisi sino al 674, in Parola e storia, I, n. 2/ 2007, pp. 197-225. Nel prosieguo il testo cui si farà riferimento è quello riportato sul sito Academia.edu.
3 Ibidem, p. 19.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 Vat. lat. 1197, Vita vel passio b. Pelini episcopi et martyris, c. 8v.
7 Ibidem.
8 Procopio di Cesarea (V secolo d.C. – VI secolo d.C.), La guerra gotica, II 18.
9 G. Carito, Cit., p. 19.
10 Ibidem, p. 18.
11 Vat. lat. 1197, Cit., c. 4r.
12 Ibidem, c. 3r.
13 P. Orsini, Cultura grafica tra l’XI e il XIII secolo a Sulmona, in Scripta et scripturae. Contributi per la storia di Sulmona, a c. di Ezio Mattiocco, Editrice itinerari, Lanciano 2002, pp. 143-178.
14 P. Orsini (a cura di), Archivio capitolare della cattedrale di san Pelino a Corfinio: inventario, Diocesi di Sulmona, Valva Sulmona 2005, p. 10.
15 Ibidem, p. 29.
16 PRETIOSUS AEPESCOPUS | AECLETIAE CATOLICAE SANC | TE BRYNDISINE DEPOSITUS | SEXTA FERIA QUOD EST | XV KAL SEPTEMBRIS REQUIEBIT | IN SOMNO PACIS | (II vescovo Prezioso, della santa Chiesa cattolica di Brindisi, sepolto venerdì 18 agosto, si è addormentato nel sonno della pace). Da R. Jurlaro, Problemi di epigrafia paleocristiana nel Salento, in Atti del III Congresso di Archeologia Cristiana, Aquileia 1972, p. 410.
17 Ibidem, p. 411.
18 Procopio di Cesarea, Cit., III 27.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 G. Carito, Cit., p. 18.
22 G. Carito, Cit., p. 22.
23 Paolo Diacono (VIII secolo d.C.), Storia dei Longobardi, VI 1.
24 Ibidem.
25 A. Di Meo, Annali critico-diplomatici del regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli 1795, volume I, p. 70.
26 Ibidem.
27 A. Cameron, Il tardo impero romano, Società editrice il Mulino, Bologna 1995, p. 239.
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sportpeople · 6 years
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Brindisi-Alto Tavoliere, Eccellenza Puglia: in memoria di Alberto
Brindisi-Alto Tavoliere, Eccellenza Puglia: in memoria di Alberto
Allo stadio Fanuzzi di Brindisi i biancoazzurri di casa e il San Severo si contendono i tre punti in palio in questa venticinquesima giornata del campionato di Eccellenza pugliese.
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lamilanomagazine · 1 year
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Melendugno: RocAntica conversazioni – un weekend di eventi con Daniele Rielli, Rocco Tanica e Mandrake
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Melendugno (LE): RocAntica conversazioni – un weekend di eventi con Daniele Rielli, Rocco Tanica e Mandrake. La tre giorni organizzata dal Comune di Melendugno, anima un luogo pieno di fascino e storia. Conversazioni tra cielo e terra, incontri con autori e personaggi che raccontano il territorio, lo esportano, vi lasciano il segno. Tre figure diverse tra loro ma allo stesso modo capaci di creare massa critica e dibattito. Primo incontro il 27 luglio con Rocco Tanica (Elio e le Storie Tese), autore di un libro-romanzo che, dice “ho scritto utilizzando l’intelligenza artificiale”.Protagonista della seconda serata, 28 luglio, stesso posto stessa ora, sarà invece Giuseppe Ninno – in arte Mandrake, il fenomeno social del momento, che con i suoi video social e il verso fatto alle abitudini della famiglia-tipo salentina, ha esportato il brindisino e le sue espressioni colorite sulla rete e in ogni angolo d’Italia, collezionando milioni di follower e una pioggia di condivisioni.   Si chiude il 29 luglio con Il Fuoco Invisibile – la vera storia della strage degli ulivi nel Salento, di e con Daniele Rielli. Incontro, dibattito e reading in musica con Gabrtiele Rampino Ensemble. Ingresso Gratuito “Questo straordinario viaggio – spiegano gli organizzatori -, nasce dalla volontà di recuperare la nostra storia fisica unendola a momenti di alto valore culturale. Solo così uniamo passato e futuro”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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nardogranata · 4 years
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Il primato del Toro, una splendida realtà.
(Michele Climaco) - Dal pentolone ribollente di un campionato in cui sembra vigere la legge dell’alternanza in testa alla classifica, ecco spuntare il primato del Nardò. Lo sbarco granata in vetta alla graduatoria coincide con la quarta vittoria consecutiva di questo magico scorcio di stagione. Un filotto di successi che rappresenta quasi una sorta di alterazione del dna di un torneo, che procede per il resto nel segno di un grande equilibrio e di una discontinuità evidente tra le pretendenti al salto di categoria. Un primato provvisorio, certo, in virtù delle tante gare da recuperare da parte di tutte le inseguitrici, ma che è una immensa gratificazione per una stagione partita tra mille problemi e incognite. La rincorsa verso la beata solitudine della vetta, iniziata subito dopo il ko di Bitonto, si è quindi compiuta grazie al largo successo agguantato contro il Brindisi. Non tragga però in inganno il 4-0 finale, perché non è stata una vittoria facile. Per un’ora gli adriatici hanno opposto una lucida e strenua resistenza, indossando la mimetica e l’elmetto. E’ stata una partita complicata, che gli uomini di Danucci sono riusciti a riportare sui binari giusti con la spettacolare azione da cui è scaturito il vantaggio siglato da Rimoli. Un gol che, interrompendo quel flusso di autostima che aveva fin lì tenuto in piedi il Brindisi, lo ha esposto ad un vero e proprio tornado granata. E così nel volgere di appena due minuti il Nardò ha trovato seconda e terza rete, mandando in archivio il match con largo e insperato anticipo. Il sigillo finale di Gallo è servito solo per definire il punteggio finale di una vittoria casalinga contro il Brindisi che mancava ormai  da 26 anni. Precisamente dai tempi dell’aurea presidenza di Benito Papadia, ospite d’onore in tribuna, e festeggiato dalla società neretina con una maglia celebrativa per gli 80 anni compiuti da qualche settimana Per il Nardò si tratta della terza gara in sette giorni, da affrontare praticamente con una rosa con alternative limitatissime, in virtù della perdurante indisponibilità di Mengoli, Scialpi e Zappacosta, cui si aggiunge la squalifica di Stranieri. Potenza e Rimoli sono le due novità nell’undici di partenza. Danucci, pur nel segno di una evidente continuità di impianto tattico, getta dunque subito nella mischia le carte migliori del suo variegato mazzo offensivo, completato da  Caputo e Törnros.  Confermatissimo il collaudato quartetto difensivo over,  tocca agli under Cancelli e Valzano presidiare la zona nevralgica del campo. Il Brindisi, reduce dal ko casalingo contro l’Aversa, cambia invece modulo (3-5-2) e ben cinque uomini. Nel terzetto difensivo Panebianco prende il posto dello squalificato Boccadamo; a centrocampo c’è Bottari in regia e Forbes nell’inedito ruolo di interno, mentre Nives è il quinto a destra; il 2002 Buglia affianca Calemme in attacco. Chi si attende un Brindisi votato al martirio resta deluso. La squadra di De Luca tiene bene il campo e si mostra pure intraprendente. La prima palla gol del match è brindisina, ma nasce da un passaggio errato di Nicolao in fase di costruzione del gioco dal basso. E’ il 19’ e Calemme si avventa sul pallone e fila verso la porta di Milli, il quale si inarca sulla sua sinistra per deviare in angolo la bordata dell’ex compagno di squadra. Sono evidenti le difficoltà nella costruzione del gioco da parte dei granata, che deve affidarsi alle palle inattive per creare pericoli alla porta di Lacirignola. Al 22’ Törnros aggancia una punizione di Caputo e fa partire un destro, che il portiere brindisino sventa in angolo. E’ impreciso l’attaccante svedese al 29’, che sparacchia alto in piena area su punizione bassa del solito Caputo. Il primo tempo si chiude con un nuovo tentativo del centravanti neretino, che si avventa su una conclusione imprecisa di Potenza, e scaglia un destro che passa non molto distante dal primo palo. Va così in archivio con un nulla di fatto un primo tempo abbastanza intenso ma in cui le due squadre difettano della capacità di imbastire una manovra finalizzata ad innescare le punte. Ha un altro passo il Nardò in avvio di ripresa, nonostante la capacità del Brindisi di stringere con molta attenzione le maglie difensive. Il primo brivido si consuma però in area granata: Calemme trova spazio per affondare sulla sinistra e mette in area un pallone insidioso: Nicolao anticipa Forbes e sventa la minaccia. Al 7’ sale in cattedra capitan De Giorgi: percussione centrale e apertura sulla destra per Potenza che evita il portiere in uscita e calcia in porta da posizione defilata con Sicignano che salva praticamente sulla linea. La pressione del Nardò si fa sempre più intensa e il Brindisi non può più essere quello sbarazzino del primo tempo. Gli uomini di De Luca sono costretti alla difesa ad oltranza e pur non riuscendo più a ripartire si difendono comunque con accortezza. Il gol del vantaggio del Nardò giunge al 19’, al termine di un’azione davvero spettacolare: una fitta rete di passaggi corti (almeno cinque), che fa girare la testa ai pur accorti difensori brindisini, che assistono storditi alla veloce triangolazione finale tra Rimoli e Potenza che porta alla seconda rete stagionale dell’ex leccese.    Trafitto, il Brindisi cede di schianto. E il Nardò approfitta dello smottamento della difesa biancoazzurra per piazzare i colpi del definitivo ko., nel giro di un paio di minuti. De Giorgi ancora nelle vesti di uomo assist lancia in profondità Törnros, sul quale rovina Lacirignola in uscita: impeccabile la conclusione dal dischetto di Caputo che spiazza Lacirignola e raggiunge la doppia cifra in fatto di realizzazioni. Giusto il tempo di rimettere il pallone in gioco a centrocampo, che Potenza sfrutta una prateria per affondare sulla destra e beffare Lacirignola con un diagonale che si infila all’altezza del primo palo. E’ il 22’ e il Nardò si ritrova di colpo sul 3-0. Brindisi in ginocchio e gara ampiamente chiusa. Al 36’ Gallo cala il poker, con una conclusione di sinistro in piena area, su respinta corta della difesa avversaria. Poi da Fasano giunge la notizia del pareggio del Casarano e il successo del Nardò si fa ancora più luccicante. La decima vittoria porta in dote la vetta della classifica, probabilmente quella più inattesa nella lunga storia del calcio neretino.
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Brindisi, municipio romano (quarta parte)
di Nazareno Valente
    Meno rilevante il ruolo dei due quattuorviri aedilicia potestate che, però, avevano un compito esecutivo di gran lunga più gravoso perché dovevano sovraintendere al buon funzionamento delle strade, degli edifici pubblici, delle cerimonie religiose e degli spettacoli pubblici. Soprattutto questi ultimi rappresentavano forme di svago di cui tutto il mondo romano era oltre misura appassionato. Basterebbe ricordare la famosa frase di Giovenale panem et circenses (pane e giochi da circo) per rendersene conto. Erano di fatto una delle poche forme di svago che, al pari dei Romani, neppure i nostri antichi concittadini avrebbero mai fatto a meno. I magistrati che dovevano allestirli a volte si svenavano per andare incontro ai favori della gente, tant’è che la storia ricorda casi a Roma di celebri personaggi (e Cesare fra questi) che s’erano indebitati sino al collo quando ricoprivano la carica di edile.
Non c’è motivo di credere che a Brindisi fosse diverso perché lo spettacolo era connaturato anche allo spirito religioso del tempo. Ce n’era per tutti i gusti ma quelli che appassionavano di più erano i giochi circensi, soprattutto se cruenti. Anche il cinema moderno ha rappresentato la vita dei gladiatori e i loro combattimenti, a volte sino all’ultimo sangue. Su di loro ne sappiamo già abbastanza, per cui basta ricordare che, fatte le debite proporzioni, c’erano gladiatori osannati e famosi quasi – se non più – di idoli moderni come Messi e Ronaldo. E bastava la loro apparizione nell’arena per scatenare il boato della folla.
Molto meno conosciute – ma non certo meno gradite agli spettatori del tempo – erano gli allestimenti teatrali in cui dei criminali comuni interpretavano le parti di eroi mitici. Queste rappresentazioni avevano infatti la particolarità d’essere realiste sino alle più estreme conseguenze, tant’è che c’erano attori costretti a recitare scene il cui culmine era la loro stessa morte. In pratica venivano così eseguite pene capitali: invece del patibolo, il condannato sosteneva il ruolo d’un personaggio storico destinato a morire nel corso dello spettacolo teatrale. In definitiva erano esibizioni in cui non c’era bisogno di fingere. La paura, il dolore, i gemiti, le agonie erano reali, ed era questo che eccitava la platea.
Chi organizzava spettacoli apprezzati dal popolo poteva poi vivere di rendita; guai, però, a deludere, si rischiava d’essere bruciati e di dire addio ad ogni aspirazione politica.
Le epigrafi salvatesi dal tempo ci regalano i nomi di alcuni brindisini che ricoprirono tali alti incarichi municipali. Ad esempio i quattuorviri Gaio Falerio Nigro, Tito Aulio Aper, Lucio Cassio Flaviano, Lucio Audio e Lucio Graeceio, questi ultimi due anche quinquinnales, Caio Antonio Achaico, pure censore.
E possiamo immaginarceli mentre si aggiravano per le strade della città in toga praetexta — vale a dire la toga fregiata con un orlo di lana purpurea — che, insieme alla sella curule, faceva parte dei loro signa (segni distintivi).
Di sera passavano tra la folla accompagnati da torce (funalia) e candele (cereos) però solo i quattuorviri iure dicundo erano seguiti dai littori (lictores), muniti di verghe (fasces) ma senza le scuri (securibus), ad indicare che la loro magistratura non era insignita d’imperium1.
Per adempiere all’obbligo (officium) derivante dalla carica politica assunta, i magistrati municipali potevano contare sugli apparitores, personale subalterno che, pagato dal municipium, faceva parte dei cosiddetti officia. Questi erano composti con un numero fisso di addetti e dovevano comportare una spesa prestabilita anche nei rapporti tra magistrati: quelli a disposizione dei due giusdicenti prevedevano una spesa due volte e mezzo superiore a quella destinata ai collaboratori degli edili. Ed anche questo era indice del diverso peso politico e sociale dato ai quattuorviri iure dicundo rispetto ai quattuorviri aedilicia potestate.
Allora, bello o brutto che possa apparire, gli appiattimenti sociali non erano consentiti, e tutto andava graduato e collocato in una scala di valori ben delineati.
I due iure dicundo disponevano probabilmente del seguente personale: due lictores (littori), un accensus (usciere, aiutante), due scribae (segretari), due viatores (messi), un librarius (archivista), un praeco (banditore), un haruspex (aruspice) — che cercava di cogliere il volere degli dèi prima dell’avvio di una seduta o di una attività pubblica — un tibicen (flautista).
I due edili, invece, uno scriba, un praeco, un haruspex, un tibicen e dei servi pubblici che li assistevano nelle funzioni di carattere sacro, tipo nei sacrifici.
Quelli che godevano dello stipendio più alto erano gli scriba, tra l’altro obbligati a giurare che avrebbero svolto le mansioni con diligenza e facendo i conti senza dolo e senza tentare di appropriarsi dei soldi del municipium. Neanche a dirlo, e tipico d’una società meritocratica, gli scribae che lavoravano con gli iure dicundo percepivano un salario più alto.
Come per i magistrati, il loro incarico durava un anno.
Alle funzioni religiose (cura sacrorum) erano preposti a Brindisi i pontefici e gli auguri, eletti nei comizi con carica vitalizia.
Occorre rilevare che in ambito religioso avevano competenza anche gli iure dicundo che, oltre ad officiare molte cerimonie sacre, presentavano, per l’approvazione del consiglio dei decurioni, il calendario festivo (dies festi), vale a dire dei giorni in cui si celebravano cerimonie religiose in onore di divinità o per ricorrenze di carattere civile d’interesse locale. Questi erano decisi annualmente dai magistrati, che così fissavano appunto i giorni festivi d’interesse locale e quelli lavorativi (dies profesti) dell’anno in cui erano in carica. Ai giorni festivi, si dovevano aggiungere le feriae (festività) determinate a livello centrale dall’Urbe e che rappresentavano le feste in vigore per tutte le comunità romane.
Con ogni probabilità, a Brindisi, i pontefici e gli auguri erano raggruppati nei conlegia pontificum augurumque (collegi dei pontefici e degli auguri), i quali erano composti da non più di 3 sacerdoti ciascuno.
Al pontefice spettava la sorveglianza del culto e delle cerimonie pubbliche nei loro vari aspetti, oltre al compito specifico di sovrintendere ai sacra municipalia, ossia ai riti riguardanti divinità
onorate prima che Brindisi diventasse città romana. L’unica divinità indigena di cui è rimasta traccia, ma con il nome assegnatole dai Romani, è Pales2 che fu evocata da Attilio Regolo durante l’assedio di Brindisi.
L’augure, oltre a partecipare a tutte le funzioni sacre, aveva competenza esclusiva negli auspicia che erano delle forme d’investigazione del volere divino. Dal volo degli uccelli (da cui, auspicia da aves specere, osservare gli uccelli) che era il modo più antico d’indagine, dall’osservazione dei tuoni (tonitrua), delle saette (fulmina) e dei lampi (fulgura), vale a dire dagli auspicia caelestia (dai segni del cielo), e dal modo di mangiare dei polli sacri (auguria pullaria) gli auguri interpretavano la volontà degli dèi. Vale a dire se gli dèi erano consenzienti all’azione che s’era in procinto di fare.
In definitiva non si voleva conoscere l’avvenire ma sapere solo che quanto si stava per intraprendere non violasse il patto stipulato con gli dei, la cosiddetta pax deorum.
Tra i privilegi goduti, i pontifici e gli auguri — come per altro i loro figli — erano esentati dall’essere arruolati nella milizia e da obblighi pubblici (munera publica), in più, come i tribuni della plebe, erano inviolabili (sacro sanctius), nel senso che nessuno poteva arrecar loro anche il minimo danno fisico. Il solo toccarli, era infatti punibile con la pena capitale.
Avevano inoltre il diritto di partecipare alle cerimonie indossando la toga praetexta e prendendo posto tra i decurioni, quando c’era d’assistere ai ludi ed agli altri spettacoli che si svolgevano a Brindisi.
Durante le cerimonie sacre, i sacerdoti municipali erano assistiti da personale subalterno, quali i camilli (paragonabili agli attuali chierichetti), il tibicen (flautista), ed i victimarii, personale incaricato di uccidere l’animale vittima nei sacrifici.
Pare che a queste celebrazioni potessero partecipare officianti di altri specifici culti, come, ad esempio, Lucio Pacilio Tauro e Flavia Cypare, rispettivamente sacerdote e sacerdotessa della Magna Mater Cibele e della dea Syriae presso il municipio brindisino, i cui nomi sono stati preservati da due antiche epigrafi.
    (3 – continua)
Per la prima parte:
Brindisi, municipio romano (prima parte)
Per la seconda parte:
Brindisi, municipio romano (seconda parte)
Per la terza parte:
Brindisi, municipio romano (terza parte)
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La settecentesca accademia di S. Vito dei Normanni (2/2)
di Armando Polito
La settima riunione si tenne, come mostra la c. 213r di seguito riprodotta, il 1° gennaio 1738, cioè, almeno stando a quel che risulta registrato, a sette anni dalla precedente. Lacuna volontaria o no nella registrazione oppure sintomo di una progressiva stanchezza (fenomeno frequente per le accademie dopo l’entusiasmo e la prolificità dei primi anni)? Troppo il lasso di tempo per non credere nella prima ipotesi e la conferma viene dal fatto che più avanti (c. 221r) è riportato un sonetto di Ortensio De Leo e in calce una nota che recita: Il sopradetto Sonetto fu rappresentato nell’Assermblea Accademica per il compleanno del Signor Principe, tenuta nel palazzo di detto Signore a 7 Gennaio, Sabbato giorno di Santo Antonio Abbatead ore 21 1733. 
  Problema Accademico. qual fosse il motivo principale della Santità di Santo Francesco Xaverio: l’umiltà di sé stesso, ovvero la carità esercitò verso del Prossimo. Tenuta la presente Accademia nella Chiesa Vecchia a primo del 1738 giorno di Giovedì, e Capo del’anno ad ore 20, l’apertura della quale si fe’ dal Reverendo Andrea De Leonardis
Questa volta il problema accademico non è discusso in prosa ma trattato direttamente nelle cc. 214r-231v nei componimenti di Ortensio De Leo (6; l’ultimo, a c. 221r, in realtà è del 7 gennaio 1733, come riportato in una nota aggiunta in calce e del quale ho detto poco fa), Teodomiro De Leo (4), Ortensio De Leo (3).
L’ottava riunione ebbe luogo il 12 febbraio 1738, come si evince dall’incipit di c. 228r.
S’invitano li Pastori della nostra Arcadia a festegiare le felicissime nozze del nostro invittissimo Regnante D. Carlo Borbone, Rè delle due Sicilie, etc. colla Serenissima Real Principessa di Polonia Donna Maria Amalia Primogenita del Rè Augusto 3 di Polonia. e Duca della Serenissima Casa di Sassonia nella presente Assemblea Accademica, che si celebra quest’oggi li 2 di Febraio 1738 giorno di Domenica.  
Seguono a partire dalla stessa carta fino a c. 231v tre componimenti di Ortensio De Leo.
Si direbbe che le riunioni dell’accademia, almeno quelle registrate, terminino qui, perché la c. 232r non fa nessun riferimento specifico ad una tenuta nella data che pure è indicata (giugno 1738).
Seguono (cc- 233r-244r) i componimenti di Giovanni Battista Notaregiovanni, Ortensio De Leo, Giovanni Scazzioto (3) di Brindisi, Vito Ruggiero, Lorenzo Cavaliere, Lorenzo Ruggiero (2), Carmine Ruggiero (2), Francesco Ruggiero (2), Pietro Matera di Francavilla (3), Padre Piertommaso Barretta di S. Vito Baccelliere dei carmelitani, un autore il cui nome è illegibile (c. 242r), dottor fisico signor Carlo Evaranta (?) di Francavilla, un autore il cui nome risulta abraso.
Dopo aver angustiato il lettore con questa descrizione che pure era necessaria per avere contezza del documento e conoscere nomi di poeti poco noti se non ignoti sui quali varrà la pena in seguito approfondire [(solo alcuni di loro, per giunta parzialmente, risultano pubblicati in Pasquale Sorrenti, La Puglia e i suoi poeti dialettali : antologia vernacola pugliese dalle origini ad oggi, De Tullio, Bari, 1962; ristampa Forni, Sala Bolognese, 1981 (1 copia nelle biblioteca “Achille Vergari” di Nardò)], concludo, nella speranza che non si sia già dileguato, con un assaggio per così dire, divertente e anticonformista. Divertente perché riguarderà due componimenti che potremmo inquadrare nell’enigmistica; anticonformista, come è la stessa raccolta, perché, cosa inusuale in quelle di altre accademie, essa contiene pure sei componimenti in vernacolo, e ne leggeremo uno.
c. 134r
In lode dell’Eccellentissimo Signor D. Giuseppe Marchese
Eloggioa latino
                                                       I
                                                 oseph
                                                 illustri
                                              Marchese
                                           edito familia
                                      vestigiis maiorum
                                    consequuto suorum,
                                 miris patris santi gestis
                                   virtute, iustitia, clementia,
                         charitate, magnanimitate atque robore
                            insigni praecellenti celebris tantae
            probitatis specimemb, onusto gloriae immortalium
               donanti cunctis per Orbem concelebrantibus
              ad piramidis insta relogium hocce Leo per me  
                        struitur            erigitur     dicatur
                                                        dello stesso Signor Carmine de Leo    
  _________
a Forma che s’incontra anche nei libri a stampa dei secoli passati. b Errore per specimen.
Traduzione: A Giuseppe Marchese nato da illustre famiglia. che ha seguito le orme dei suoi antenati, le mirabili gesta del padre santo, che per valore, giustizia, clemenza, carità, magnanimità e forza, insigne, eccellentissimo, conosciuto, che, carico della gloria degli immortali,  dona a tutti coloro che nel mondo lo festeggiano un esempio di tanta onestà, ecco, questo elogio a forma di piramide da me Leo viene costruito, eretto, dedicato.
Il componimento dal punto di vista iconografico appare ispirato dal carme ropalico [dal latino Rhopalicu(m), a sua volta dal greco ῥοπαλικός (leggi ropalicòs), derivato  di ῥόπαλον (leggi ròpalon)=clava], gioco metrico-grafico praticato già in Grecia a partire dal IV secolo a. C. poi in ambito latino presso i poeti neoterici del II secolo d. C., consistente nel costruire un verso con parole in cui ognuna ha un numero di sillabe pari a quello della precedente più uno, in modo che, sistemando le parole una sotto l’altra, esce fuori una forma che ricorda quella della clava. Qui, come si nota, rispetto al modello originale l’aumento progressivo delle sillabe è rispettato solo nelle tre righe superiori e la forma finale (che non è quella della clava ma della piramide) è ottenuta anche con un’opportuno ingrandimento o rimpicciolimento dei caratteri (ragion per cui nella mia trascrizione, avendone adottato una dimensione fissa, la piramide è andata a farsi benedire. Oltretutto nelle composizioni latine similari la prima parola, anche e costituita da una sola lettera, doveva avere un senso compiuto. Qui, invece l’iniziale I (che in latino, imperativo presente del verbo ire, avrebbe significato va’) è parte integrante del successivo oseph: insomma, un giochetto di origine dotta ma furbescamente semplificato.
c. 138v
  il medemo soggettoa
Programma
Donno Fabio Belpratob Marchese
Anagramma purissimo letterale
Febbo nomar se po’ perch’è natal dì 
________
a Festeggiamento del compleanno di Fabio Marchese..
b Vedi la nota n. 2  
Anche qui il purissimo con cui l’autore (Ferdinando De Leo) definisce il suo anagramma è velleitario, come appare a contare solo il numero di lettere che compongono la frase di partenza (26) e quella anagrammata (27), la quale, inoltre, presenta una p in più, una p  invece di b e una e invece di o.
c. 73r
Dellu patre Rusariu Mazzottia Letture domenicanu pe’ la muta addegrizzab di tutti l’emminic, e le fimmene de santu itud pe’ la enutae de lu segnore Princepe donnuf Fabbiug Marchese 
Sunettu 
Oh quantu ndé presciamuh, ch’è benutu
Fabiu lu Sirei nesciuj, e lu Segnore!
Staamuk propriu propriu senza core
penzando ndé le fosse ntravenutu.
Nui Santu itu nd’è preammul mutu
cù lu ziccam pe’ ricchian, e caccia foreo
de Napul’, e lu nducap quae a do ore
pur’a fazza la mosciaq, ci ae pè utur.
Se ndé varda cu’ l’ecchi, nò ndé sazia!
E vol’à se la mbarcias n’autrat otau?
Potta de craev, í  com’olew à nde strazia!  
Deh Santu itu fermande ddax rota
de la fortuna, e fandey st’autraz raziaza:
middzb‘anni a mienzuzc á nui cù se reotazd.
_________ 
a Di Brindisi.
b Da notare in questa parola, nella penultima del terzultimo verso e nella prima dell’ultimo la grafia di dd, in cui ciascuna lettera appare tagliata a metà da una barretta orizzontale. È come se il copista con quel segno diacritico avesse voluto precisare che il gruppo dd (esito di ll) nel dialetto brindisino presenta una pronuncia ben diversa dalla cacuminale retroflessa del leccese (perquest’ultima vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/01/il-solito-dubbio-di-trascrizione-per-un-fonema-salentino/).
c Plurale di ommu, che a prima vista potrebbe sembrare un francesismo (da homme). Tra l’altro gli etimologi considerano l’italiano uomo derivato dal latino homo, che è nominativo, contravvenendo alla regola che vuole i nomi formatisi dall’accusativo (hominem), mentre il plurale uomini mostra chiaramente la sua derivazione dall’accusativo plurale homines. Credo che proprio in –mm– stia la spiegazione dell’apparente stranezza, ipotizzando la seguente trafila: homine(m)>homne(m) (sincope)>homme (assimilazione)>ommu (regolarizzazione della desinenza; simile il napoletano ommo attestato ne Le Muse napoletane di Giambattista Basile (XVI-XVII secolo); lo stesso fenomeno, mediato dalla lingua parlata, avrebbe coinvolto uomo.
d Per apocope da Vito; da notare in itu l’iniziale minuscola, quasi la parola si ricordasse dell’aferesi e sottintendesse V.
e Per aferesi, come nel precedente itu,  da venuta.
f Parallelo al donno dell’italiano antico, dal latino dominu(m) attraverso il sincopato domnu(m) e l’assimilato donnu(m).
g Incoerenza grafica (non errore ortografico a quel tempo, perché in testi a stampa dei secoli passati si legge, per esempio, Fabbio Massimo)  rispetto al Fabiu del primo verso. 
h Alla lettera ci pregiamo che, cioè siamo onorati che. Nel salentino il verbo è usato anche assolutamente (sta mmi prèsciu=mi sto rallegrando) e il sostantivo prèsciu come sinonimo di gioia.
i Nel dialetto salentino sinonimo di padre. La voce è dal francese antico sire, a sua volta dal latino senior, comparativo di senex=vecchio. Qui probabilmente si carica ulteriormente del significato che la parola, di uso letteraria e oggi obsoleta, aveva in italiano, anche se il successivo Segnore sembrerebbe, se non escluderlo, almeno limitarlo.
j Passaggio str>sci abituale nel salentino (maestra>mèscia, finestra>finescia, etc. etc.).
k Per sincope da stavamo.
l Da priare, dal latino precari, con aspirazione, evanescenzae scomparsa della c, a differenza di quanto successo per l’italiano pregare.
m Da (z)ziccare, corrispondente all’italiano azzeccare, che è dal medio alto tedesco zecken=menare un colpo. La voce salentina ha il significato di prendere, afferrare.
n Per aferesi da orecchia.
o Nel salentino è usato anche col significato di in campagna e, col valore di sostantivo (enallage), in espressioni del tipo fore mia=la mia proprietà rurale.
p Da ‘nducire, dal latino indùcere
q Vedi la nota j.
r Aferesi per voto.
s Da mbarciare (a sua volta per dissimilazione da mmarciare, che è per aferesi da ammarciare (a sua volta per assimilazione da ad+marciare). il riferimento è al camminare impettito, ostentando serietà e, per traslato, togliersi d’impaccio facendo finta di nulla e continuando imperterrito.
t Da notare l’esito al>au, come nel francese hautre; in altre zone del Salento, invece, è in uso aḍḍa, che fa pensare ad una derivazione dal greco ἄλλη (leggi alle).
u Per aferesi da volta e consueta caduta di l come in càutu=caldo, motu=molto, etc. etc.
v Potta d’osci (vulva di oggipotta è voce fiorentina d’incerto etimo; osci è dal latino hodie)  e potta de crae (crae è dal latino cras) sono entrambe interiezioni. Non sorprenda che un uomo di chiesa abbia inserito un’espressione volgare: evidentemente già all’epoca lessa era tanto inflazionata dall’uso che aveva perso gran parte, se non tutta, della sua valenza oscena. Piuttosto è da notare come solo ai nostri giorni il suo corrispondente maschile (cazzo!) sia stato sdoganato nella lingua parlata e in quella scritta.
w Da vole, terza persona singolare dell’indicativo presente di ulìri, con abituale aferesi di v-.
x Per aferesi da chedda (=quella); per la grafia di dd vedi la nota b.
y Per dissimilazione da fanne (fà a noi).
z Vedi la nota t.
za Per progressiva lenizione da grazia attraverso crazia (sottoposto poi ad aspirazione di c-) in uso in altre zone del Salento.
zb Vedi la nota b.
zc Per dissimilazione -zz->nz.
zd Da riutare, composto dalla particella ripetitiva re– e da utare, che, come l’italiano voltare, è per sincope dal latino volutare (=concamerare, cioè fabbricare a volta; può significare anche ), a sua volta da    A Nardò il verbo è usato con riferimento al vento che cambia direzione (sta rriota=sta rivoltando).
  (Del Padre Rosario Mazzotti lettore domenicano per la muta allegria di tutti gli uomini e le donne di San Vito per la venuta del signore principe Don Fabio Marchese
Sonetto
O quanto ci rallegriamo perché è venuto/Fabio  il padre e il signore nostro!/Stavamo proprio proprio senza cuore/pensando che non sarebbe intervenuto./Noi ne pregammo molto san Vito/perché lo prendesse per l’orecchio e lo spingesse fuori/da Napoli e lo conducesse qui in due ore/solo per mostrare che ci va per voto./Se ci guarda con gli occhi, non ci sazia!/e vuole svignarsela un’altra volta?/Puttana di domani, come lui vuole straziarci!/Oh san Vito ferma per noi quella ruota/della fortuna e facci quest’altra grazia:/che possa vivere mille anni in mezzo a noi)   
Prima, a c. 53r lo stesso tema era stato trattato in latino da Scipione Ruggiero in un componimento latino in sette distici elegiaci (numero che ricorda quello dei versi che compongono un sonetto).
Reverendi Domini Scipionis Ruggiero ad Eccellentissimum dominum nostrum Principem in eius reditum a Neapoli ad Patriam 
Principis adventum cives celebremus ovantes.
Laeta dies, nobis plaudite laeta quiete.
Viximus in tenebris, venit lux aurea ab Astris,
novimus ac cuncti, quam decet atque iuvat.
Omnes laetamur merito, sed maxime servus
qui vitam praebet pro sanitate tua.
Partenopesa, redeas, orat, nam bella moventur,
dextera tuta tua, te duce, seque tenet.
Vota, precesque deo dabimus ut proelia sistant.
Sic aderit nobis pax, et amica quies.
Quam tua nos hilares, Princeps, praesentia reddat,
en spectare potes, quo obsequio colimus.
Permaneas Patriae, cunctos solare rogantes
o domine, aspectu civica corda beas 
(Del reverendo don Scipione Ruggierob all’ eccellentissimo nostro signor principe per il suo ritorno in patria da Napoli
  Cittadini, celebriamo esultando la venuta del principe. È un giorno lieto, applaudite per la calma a noi lieta. Vivemmo nelle tenebre, una luce aurea è venuta dagli astri e tutti sappiamo quanto conviene e giova.  Tutti ci rallegriamo a buon diritto, ma soprattutto il servo che offre la vita per la tua buona salute. Partenope prega che tu ritorni perché vengono mosse guerre e, sicura della tua destra, si difende. Rivolgeremo voti e preghiere a Dio perché cessino i combattimenti. Così verrà per noi la pacee l’amica quiete. Ecco, o principe, puoi vedere quanto la tua presenza ci renda allegri, con quanto rispetto ti onoriamo. Resta in patria, tu, o signore, rendi felici con lo sguardo tutti quelli che chiedono consolazione, i cuori dei cittadini)
_________
a Per Parthenopes.
b Era parroco della chiesa di S.Maria della Vittoria, in cui si tenne, come sopra s’è riportato, l’accademia del 14 marzo 1731. La cronotassi degli arcipreti, per la stessa chiesa, registra anche i nomi di Carmelo Ruggiero (1757-1759) e di Francesco Ruggiero (1760-1775), quasi una dinastia …; Per quanto riguarda Francesco, poi, egli non è cronologicamante incompatibile con il Francesco Ruggiero registrato come principe dell’Accademia del 5 marzo 1730.
  Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/04/25/la-settecentesca-accademia-di-s-vito-dei-normanni-1-2/
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BrindisI: l'epigrafe del mercante e i suoi misteri
di Armando Polito
Per una volta tanto rinuncerò al consueto tono colloquiale e tratterò l’argomento per sezioni, nella speranza di essere il più esauriente e chiaro possibile nel minor tempo e nel minor spazio.
NOTIZIE STORICHE
Datata tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, risulta costituita da due parti rinvenute nel porto di Brindisi, La prima nel 1869, la seconda due anni dopo. È registrata in diverse raccolte (CIL, IX, 60; CLE,  1533 e AE, 2005, 161). Dato il luogo del ritrovamento, non è detto che la sua provenienza o la sua meta finale fosse proprio Brindisi, ma questo è un dettaglio sul quale tornerò alla fine. Va ricordato che la prima registrazione in cataloghi (quella nel tomo nono del CIL uscito nel 1883)  fu merito di Giovanni Tarantini (Brindisi 1805-Brindisi 1889) che la trasmise, insieme con altre al Mommsen.
Ecco la scheda tratta dal citato tomo del CIL:
Tuttavia la sua prima pubblicazione era avvenuta nel Bullettino di corrispondenza archeologica, per l’anno 1872, Salviucci, Roma, 1872, p. 30, a cura di Wilhelm Henzen. Mi piace riportare la parte iniziale del suo contributo perché è una testimonianza dell’autorevolezza e dell’acribia dell’archeologo brindisino pronto a riconoscere di aver tratto conclusioni azzardate (però nessuno ne aveva avanzato altre …) al ritrovamento del primo frammento, ma felice di poter formulare il giudizio definitivo, nonché la conferma che nelle piccole e grandi scoperte poca o tanta fortuna non guasta.
Scrive l’Henzen: Il nostro socio corrispondente, sig. arcidiacono Gio. Tarantini direttore della biblioteca di Brindisi, ci scrisse nell’autunno dell’anno scorso: “Nel 1869, partendo da alcuni dati storici, avventurai un’opinione su di quattro versi latini che aveva trovati incisi su di una mezza tavola di marmo che era stata allora estratta dal fondo di questo porto. La mancanza de’ versi precedenti, che trovar si dovevano nell’altra metà superiore della tavola, rendeva ben difficile l’indovinare chi parlasse in quelli versi. Ora debbo confessare che andai ben lungi dal vero nelle mie conghietture. Non poteva allora certamente augurarmi che un giorno tra i milioni di metri cubici di fango e macerie che si estraevano dal porto, avesse potuto rinvenirsi l’altra mezza lapide. Dopo due anni però è avvenuto quel che era affatto fuori delle mie speranze. In questi giorni esaminando alcuni rottami che fortunatamente non erano stati trasportati per esser gittati in alto mare, ho tosto riconosciuto l’altra mezza lapide che, unita alla prima, misura m. 0,65 di altezza e m. 0,5 di largo, e vi ho letto altri otto versi. Ecco ora tutta intiera l’iscrizione …
  Segue la datazione, stabilita in base alla scrittura, proposta dall’Henzen in collaborazione col collega G. B. De Rossi, da allora unanimemente accettata e che ho indicato all’inizio. W. Henzen, G. B. De Rossi, Georg Kaibel [in calce alla scheda del CIL a destra si legge: recognovit Kaibel (la emendò Kaibel); chiunque può notare, ad onor del vero, come l’emendatio di Kaibel si limitò all’aggiunta della punteggiatura] e, per finire, Theodor Mommsen: un quartetto di luminari di fronte al quale il Tarantini non solo superò brillantemente l’esame ma che con loro avrebbe potuto metter su un bel quintetto …
Attualmente l’epigrafe è custodita nella città in cui fu rinvenuta nel Museo archeologico Ribezzo
TRASCRIZIONE E TRADUZIONE
1   Si non molestum est, hospes, consiste et lege!
2   Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri,
3   accessi terras complures. Terminus hicc est
4   quem mihi nascenti quondam Parcae cecinere.
5   Hic meas deposui curas omnesque labores.
6   Sidera non timeo hic nec nimbos nec mare saevom
7   nec metuo sumptus ne quaestum vincere possit.
8   Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva:
9   fortuna infracta ter me fessum recreasti;
10 tu digna es quam mortales optent sibi cuncti.
11 Hospes, vive, vale! In sumptum superet tibi semper
12 qua non sprevisti hunc lapidem dignumq(ue) dicasti!
  Se non ti è di fastidio, o forestiero, fermati e leggi!
Ho corso spesso il grande mare con le navi che volano con le vele,
sono entrato in molte terre. Proprio questo è il punto d’arrivo
che a me che nascevo le Parche un tempo annunziarono.
Qui ho deposto le mie preoccupazioni ed ogni fatica.
Qui non ho paura del clima, né dei temporali, né del mare crudele,
non ho paura neppure che il guadagno non superi le spese.
Fede alimentatrice, santissima dea, rendo a te grazie:
tre volte hai rinfrancato me provato dalla infranta fortuna;
tu sei degna che tutti i mortali  ti desiderino per sé.
Forestiero, vivi e sta’ bene! Ti avanzi sempre qualcosa da spendere,
in quanto non hai disprezzato questa pietra e (le) hai dedicato qualcosa di degno.
OSSERVAZIONI TESTUALI
Va osservata sul piano grammaticale la forma HICC nella linea 3, intermedia tra la normale HIC (che ricorre, come avverbio e non come pronome, alla linea 5) e la rafforzata HICCE.
Sul piano lessicale vanno segnalati alcuni ricalchi letterari, tenendo conto, però, che certi lemmi e certe locuzioni erano di uso corrente.
Linea 1: Si non molestum est, hospes, consiste et lege!
Formula abbastanza frequente,  con alternanza tra hospes (forestiero) e viator (viandante), nelle epigrafi funerarie. Ne fornisco qualche esempio sottolineando la parte che interessa ai fini della trattazione: AE 1996, 00453 (da Lucera): Sic iter hoc felix tibi sit / consiste v(i)ator et me(a) fata / brevi percipe notitia / Propasi fuerat mihi nomen / flore iu(v)entae erepta ex / oc(u)lis morte gravi teneor / nam mihi bis quaternos / aetas compl(e)verat annos / amissa vita lugent ut(e)rque / parens multa queri pos(sis) / si mora grata foret …  (Così questo viaggio ti sia felice, o viandante, e apprendi con poche parole il mio destino. Propasi era stato il mio nome. Mi trovo rapita alla vista dalla pesante morte nel fiore della gioventù. L’età non aveva ancora compiuto per me otto anni. Per la vita perduta piangono entrambi i genitori. Possa tu dolertene molto se la sosta ti fosse gradita …; : CIL II, 3475 (da Cartagena): C(aius) Licinius C(ai) f(ilius) Torax / hospes consiste et Thoracis perlege nomen …(Caio Licinio Torace figlio di Caio. Forestiero, fermati e leggi il nome di Torace …); CIL XI,; RIU-06, 1554a (da Gorsium, in Pannonia): D(is) M(anibus) / tu qui festinas pe/dibus consiste vi/ator et lege quam / [dur]e sit data vita mihi [ … (Agli Dei Mani. Tu, o viandante, che ti affretti ferma il tuo piede e leggi quale dura vita mi è stata data […).
Linea 2: Navibus velivolis magnum mare saepe cucurri
Ogni possibilità di interpretare magnum mare (grande mare) come equivalente di mare magnum, nesso con il quale (oltre a mare nostrum e a mare internum) i Romani indicavano il Mediterraneo, è esclusa dal fatto che con entrambi i nessi l’esametro sarebbe stato perfetto, per cui, se l’autore avesse voluto alludere al Mediterraneo e non al concetto generico della vastità del mare avrebbe senz’altro usato mare magnum. Di seguito le due possibilità di scansione che dimostrano quanto ho appena finito di dire:
Nāvĭbŭs I vēlĭvŏIlīs II māgnūm mărĕ I saepĕ cŭIcūrrī
Nāvĭbŭs I vēlĭvŏIlīs II mărĕ I māgnūm I saepĕ cŭIcūrrī 
Per quanto riguarda navibus velivolis:
Macrobio (V secolo d. C.) in Saturnalia (VI, 5) ci ha tramandato due frammenti di Ennio (III-II secolo a. C.). Il primo è tratto dal libro XIV degli Annales: … quom procul aspiciunt hostes accedere ventis/navibus velivolis …(… quando da lontano scorgono i nemici accostarsi grazie al favore del vento con le navi volanti con le vele) ; il secondo dalla tragedia Andromacha: … rapit ex alto naves velivolas … (… ghermisce in alto mare  le navi volanti con le vele …) vele..                                                                                             
Lucrezio (I secolo a. C.), De rerum natura, V, 1442: tum mare velivolis florebat navibus ponti (allora la superficie del mare pullulava di navi volanti con le vele).
Cicerone (I secolo a. C.) nel De divinatione I, 31 riporta un frammento di Ennio (III-II secolo a. C.) dalla tragedia Alexander: Iamque mari magno classis cita/texitur; exitium  examen rapit/adveniet fera velivolantibus/navibus, complebit manus litora (E già per il vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di disgrazie,  arriverà crudele; un esercito su navi volanti con le vele occuperài nostri lidi). Qui, invece dell’aggettivo velivolus/velivola/velivolum è usata la variante deverbale (participio presente di velivolare) velivolans/velivolantis.
Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Epistulae ex Ponto IV, 5, 42: et freta velivolas non habitura rates (e le onde non destinate ad avere le navi che volano con le vele).
Linee 3-4: …. Terminus hicc est/quem mihi nascenti quondam Parcae cecinere
Orazio, Carmen saeculare, vv. 25-28: Vosque, veraces cecinisse Parcae,/ quod semel dictum est stabilisque rerum/terminus servet, bona iam peractis/iungite fata (E voi, Parche veritiere, avete cantato; perché lo stabile confine delle cose conservi ciò che una sola volta fu detto, aggiungete un destino favorevole a ciò che si è compiuto).
Linea 5: Hic meas deposui curas omnesque labores
Virgilio, Georgiche, IV, 531: Nate, licet tristis animo deponere curas (O figlio, è possibile allontanare dall’animo le tristi preoccupazioni); Ovidio, Rimedi d’amore, 259: Nulla incantatas deponent pectora curas (Nessun cuore allontanerà le incantevoli preoccupazioni);  
Linea 6: Sidera non timeo hic nec nimbos nec mare saevom
Da notare anzitutto la forma arcaica saevom invece della classica saevum, a impreziosire il testo di una patina di antica solennità.
Il nesso mare saevum è ricorrente negli autori latini a partire da Livio Andronico (III secolo a. C.) in un frammento della sua traduzione dell’Odissea: Namque nullum peius macerat humanum/quamde mare saevom (E infatti nulla di peggiore logora l’uomo del mare crudele). Da notare come mare saevum (mare crudele) costituisce uno sviluppo del precedente magnum mare (la crudeltà rende ancor più probabili i rischi legati alla vastità).
Linea 8: Alma Fides, tibi ago grates, sanctissima diva 
Alma Fides è un nesso tipico della produzione colta:
Ennio, citato da Cicerone, nel De officiis, III, 29: O Fides alma apta pinnis … (O alma fede dotata di ali);
Stazio (I secolo d. C.), Tebaide, XI, 98: Tu mihi perplexis quaesitam erroribus ultro/advehis alma fidem, veterisque exordia fati/detegis, assistas operi, tuaque omina firmes (Tu [rivolto alla notte, qui dettaglio astronomico ma che nell’epigrafe potrebbe essersi trasfigurato nell’idea della morte], alma, mi porti nel groviglio delle incertezze la fede richiesta, sveli le origini del vecchio destino, dai aiuto all’opera e confermi tutti i tuoi presagi).
Silio Italico (I secolo d. C.), Punica, VI, 131-132: in egregio cuius sibi pectore sedem/ceperat alma Fides mentemque amplexa tenebat (… nel suo nobile cuore l’alma fede aveva preso posto per sé e dopo aver avvinto la mente la teneva salda).
Ricorre pure in altre epigrafi funerarie (CIL V, p 623,15; CIL IX, 60; CIL XII, 2115; CIL XIII, 3098; AE 1976, 243; AE 1902, 245; EDCS-42700150; EDCS-33900311; EDCS-30300366; EDCS-38700126; EDCS-30200094 E, in particolare, in riferimento alla mercatura, CIL XI, 382:  … hos non imbelli pretio mercatus honores/sed pretio maius detulit alma fides … ( … l’alma fede non recò questi onori della mercatura a buon prezzo ma cosa maggiore del prezzo). Il nesso, poi, diventerà obbligato a partire dal IV secolo, soprattutto con la letteratura cristiana. 
Linea 9: fortuna infracta ter me fessum recreasti
Difficile dire se il riferimento è l’essere sfuggito tre volte ad un naufragio o al fallimento. Fortuna infracta ricorda vagamente Valerio Massimo (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Factorum et dictorum memorabilium libri,  IV, 7: Accedit huc quod infractae fortunae homines magis amicorum studia desiderant (A questo si aggiunge il fatto che gli uomini dal destino infelice desiderano di più le attenzioni degli amici).
STRUTTURA COMPOSITIVA
il testo dell’epigrafe può essere schematicamente suddiviso in tre sezioni: la prima (riga 1) contenente l’invito a fermarsi e a leggere rivolto al passante, la seconda (righe 2-10) contenente la biografia, la terza (righe 11-12) contenente il congedo e il ringraziamento. Mi pare importante rilevare l’andamento circolare del testo, che si apre e chiude con lo stesso concetto (imperniato nella parola-chiave hospes) declinato al futuro nella prima sezione (invito a fermarsi e a leggere) e al passato/presente nella terza (ringraziamento per essersi fermato e aver letto). Per quanto appena detto non condivido minimamente quanto leggo in Antonio La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Einaudi, Torino, 1979, p. 48: La chiusa è in tono minore, e può essere ritenuta anche non del tutto degna del bellissimo carme. Se qualche appunto va mosso, esso potrebbe riguardare solo la metrica e precisamente la cesura, peraltro obbligara, del verso 9 che crea una frattura tra la preposizione in e il sumptum da essa retto. Può darsi, però, che lo scarso gradimento del finale per La Penna sia dovuto al carattere materialistico di in sumptum superet tibi semper (ti avanzi sempre qualcosa da spendere); faccio notare, però, come tale verso  sia la ripresa di nec metuo sumptus ne quaestum vincere possit (né temo che la spesa possa superare il guadagno), trasformato, ora che la morte lo ha escluso da ogni rischio, in augurioper chi resta.D’altra parte, cosa poteva augurare un mercante condizionato per definizione, per quanto idealista fosse, dalla legge economica della domanda e dell’offerta? E non voglio azzardarmi ad affermare che quel vive et vale sia stato ispirato per contrasto dall’Ego abeo. Male vive et vale (Io me ne vado. Vivi malamente e addio!) con cui Sicofante (il nome è tutto un programma …)  nella scena II dell’atto IV della commedia Trinummus di Plauto (III-II secolo a. C.) liquida bruscamente Carmide, con cui ha un conto economico in sospeso. Più probabile, invece, il calco da Orazio, Satire, II, 5, 109-110 (è Tiresia che parla ad Odisseo): Sed me/imperiosa trahit Proserpina. Vive valeque! (Ma la dominatrice Proserpina mi trascina [nel regno delle ombre]. Vivi e addio!).
STRUTTURA METRICA
È, a parer mio, quella che rende singolare l’epigrafe. Essa consta, infatti, di dodici versi, dei quali il primo è un senario giambico, i rimanenti esametri. È un dato di fatto che la poesia antica risponde a criteri rigidi, non tanto nella struttura dei singoli versi (in cui lo schema prevede alcune varianti) quanto nella loro alternanza. Mi spiego; a livello scolastico: quando si studiava (oggi non so …) l’Eneide con la sua sequenza di esametri, si acquisiva il dato provvisorio che non ci fosse altro modello compositivo; poi lo studio dei cosiddetti poeti elegiaci faceva capire che accanto ai componimenti costituiti da una sequenza di esametri ve n’erano altri formati da distici elegiaci (esametro+pentametro); quando si passava ad Orazio si scopriva che la varietà compositiva coinvolgeva pure altri tipi di verso. Così l’epodo XVI (si capirà dopo perché ho scelto questo) risulta costituito dall’alternarsi di distici costituiti da un esametro e da un senario giambico. Com’è noto, la liberazione della stessa poesia italiana dalle pastoie della rima prima e della metrica (quella tradizionale) poi risale ad un’epoca relativamente recente. L’unicità della nostra iscrizione riguarda proprio la sua struttura (ripeto: inizlale senario giambico seguito da undici esametri, quasi un misto tra la composizione virgiliana (come ho detto tutta in esametri) e quella del canto indicato di Orazio, ma con l’inversione nell’ordine dei primi due versi (lì esametro+senario giambico, qui  senario giambico+esametro). Questo fenomeno di struttura metricamente composita non è delle epigrafi funerarie (ma dubito, per quanto dirò alla fine, che la nostra lo sia) e, a quanto ne so, la nostra, se lo fosse,  ne costituirebbe l’unico esempio, non facendo testo, perché non presente nella metrica classica, la composizione (però tutta in pentametri, dunque da considerare strutturalmente uniforme, anche se tale sequenza mai s’incontra in letteratura) di CIL IV, 9123 (Nihil durare potest tempore perpetuo/cum bene sol nituit redditur Oceano/decrescit Phoebe quae modo plena fuit/ven[to]rum feritas saepe fit aura l[e]vis).
Nella nostra epigrafe al ritmo più serrato del senario giambico contenente l’invito a fermarsi ed a leggere segue quello più disteso degli esametri, adatto al carattere narrativo del contenuto. Faccio notare, ai fini della caratterizzazione funeraria o meno dell’epigrafe, che la formula rituale del primo verso in altre epigrafi senza dubbio funerarie (vedi sopra nel commento a Linea 1) è costantemente un esametro.
Ecco la scansione del nostro verso:
Sῑ nōn I mŏlēIstum ēst, II hōIspēs, cōnIsīste ēt I lěgě
Faccio notare che anche questo verso sarebbe stato un perfetto esametro se l’ultimo piede fosse stato non un dibraco o pirrichio (∪ ∪ ) ma uno spondeo (— ∪) oppure  un trocheo (— ∪), applicando, inoltre, la correptio iambica nel secondo piede (∪—>——).
Per il resto segnalo la consueta sinalefe nei versi 1 (molestum est e siste et),   6 (timeo hic), 8 (tibi ago), 9 (fortuna infracta), 10 (digna es), 11(vale In) e 12 (sprevisti hunc), la sinizesi nel verso 5 (meas)2 e la correptio iambica nel verso 2 (Nāvĭbŭs invece di Nāvĭbūs). 
Di seguito la scansione di tutti i versi.
1   Sī nōn I mŏlēIstum ēst,II hōIspēs, cōnIsīste ēt I lege!
2   Nāvĭbŭs I vēlĭvŏllīs II māIgnūm mărĕ I saepĕ cŭIcūrrī,
3  āccēsIsī tērIrās II cōmIplūrēs.ITērmĭnŭs I hīcc ēst
4   quēm mĭhĭ I nāscēnItī II quōnIdām PārIcae cĕcĭInērē.
5   Hīc mĕăs I dēpŏsŭIī II cūIrās ōmInēsquĕ lăIbōrēs.
6   Sīdĕră I  nōn tĭmĕo I hīc II nēc I nīmbōs I nēc mărĕ I saevōm
7   nēc mĕtŭIō sūmIptūs II nē I quaestūm I vīncĕrĕ I pōssĭt.
8   Ālmă FĭIdēs, tĭbi ăIgō II grāItēs, sāncItīssĭmă I dīvă:
9   fōrtūIna īnfrāIctā II tēr I mē fēsIsūm rĕcrĕIāstī;
10 tū dīgna I ēs II quām I  mōrItāllēs II ōpItēnt sĭbĭ I cūnctī.
11 Hōspēs, I vīvĕ, văIle! Īn II sūmpItūm sŭpĕIrēt tĭbĭ I sēmpĕr
12 quā nōn I sprēvīIsti hūnc II lăpĭIdēm dīIgnūmq(uĕ) dīIcāstī!
  CONCLUSIONI
Si riferiscono, più che altro, a quei suoi misteri presenti nel titolo, concetto, invero, scontato quando si studia una testimonianza non solo del passato ma anche del presente, anche se può far sorgere il sospetto che abbia usato quella  voce per assicurarmi qualche lettore in più, espediente gemello dei titoli sparati dei giornali o, peggio ancora, della spettacolarizzazione che contraddistingue tante trasmissioni televisive di carattere scientifico-divulgativo.
Nel nostro caso il mistero principale riguarda, secondo me, la funzione dell’epigrafe.
Escluderei quella funeraria, almeno nell’immediato, non solo per la disomogeneità metrica ma anche, e soprattutto, perché manca il nome del defunto.1 Ho scritto nell’immediato, nel senso che si può ipotizzare che la lastra non fosse stata ancora collocata al suo posto, ma era in fieri, destinata ad essere completata (notevole è nella parte inferiore lo spazio vuoto rimasto) dopo la morte del mercante (nulla vieta che ne fosse lui direttamente il committente). Credo, poi, eccessivamente campanilistico identificare l’hic (qui) della riga 5 come Brindisi, perché la lastra poteva benissimo essere a bordo di una nave naufragata nel porto di Brindisi ma con destinazione diversa e commissionata da un destinatario che sarebbe morto chissà dove. In alternativa, escludendo, questa volta,  non solo nell’immediato la funzione funeraria, si potrebbe pensare che fosse parte di una sorta di monumento al mercante (così come oggi, per restare a Brindisi,  il monumento  al Marinaio d’Italia), degno di trovare ospitalità in qualsiasi porto, non solo a Brindisi. E la funzione celebrativa finirebbe per confondersi con quella turistico-pubblicitaria, rendendo plausibile, anche grazie alla raffinatezza del testo, che per un compito quasi di rappresentanza fosse stata commissionata non da un privato ma da un’istituzione ufficiale.
Bibliografia
Alessandro Franzoi, Saggezza di mercante, in Rivista di cultura classica e medioevale, vol. 46, n° 2 (Luglio-dicembre 2004), pp. 257-263.
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1 Che, invece, compare in epigrafi senza dubbio funerarie e, fra l’altro,  riconducibili alla sfera del commercio.
Podgorica/Doclea (Dalmazia) AE 1993, 01251 C(aius) Utius Sp(uri) f(ilius) testament(o) / fieri iussit sibi et / P(ublio) Utio [f]ratri suo et Clodia(e) / F[au]stae concubinae suae / mult[a per]agratus ego terraque marique / debit[um re]ddidi in patria nunc situs hic iaceo / stat l[apis e]t nomen vestigia nulla (Caiio Uzio figlio di Spuro ordinò che fosse fatto a ricordo di sé, di Publio Uzio suo fratello e di Clodia Fausta sua concubina. Io dopo aver errato a lungo per ierra e per mare resi il dovuto in patria. Ora giaccio posto qui; ci sono la lapide ed il nome, non c’è nessun resto).
Pescara CIL 09, 03337 L(ucio) Cassio Hermo/doro nauclero / qui erat in colleg(io) / Serapis Salon(itano) per / freta per maria tra/iectus saepe per und(as) / qui non debuerat / obitus remanere / in a(e)tern(o) sed mecum / coniunx si vivere / nolueras at Styga / perpetua vel rate / funerea utinam / tecu(m) comitata / fuissem Ulpia Candi/da domu Salon(itana) co(n)i(ugi) / b(ene) m(erenti) p(osuit (All’armatore Lucio Cassio Ermodoro che era nel collegio di Serapide a Salona. Sballottato per gorghi, per mari, spesso tra le onde che non sarebbe dovuto morire in eterno ma con me compagno se tu non avevi voluto vivere. Piuttosto avesse voluto il cielo che io fossi stata accompagnata con te dallo stige o dalla barca funerea! Ulpia Candida di famiglia di Salona pose al marito benemerito).
2 Ma si può considerare pure la presenza di correptio iambica (mĕās>mĕăs). Nella scansione che segue si è privilegiata questa soluzione, non essendo possibile rappresentarle entrambe contemporaneamente. Se si fosse privilegiata la sinizesi nello schema non avremmo avuto mĕăs bisillabo ma unica sillaba lunga).
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