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🌴Germogli di legalità, gli appuntamenti della prima decade di maggio 🌴“Germogli di legalità 2023, coltiviamo responsabilità”, comincia all’indomani della festa nazionale dei lavoratori il programma di iniziative organizzate dall’Amministrazione comunale di Mesagne in collaborazione Scuole e associazioni. “Legalità e giustizia sociale, un connubio che è soprattutto un impegno: si traduce in azioni condivise, che hanno come fine quello di rinsaldare il rapporto tra istituzioni e cittadini, attraverso occasioni create ad hoc con iniziative a tema, ma che in realtà servono per affermare l’importanza della legalità come regola di vita quotidiana”, – spiega il sindaco di Mesagne, Antonio Matarrelli. Sarà l’Associazione “Scintilla”, martedì 2 maggio a Lab Creation, a inaugurare l’intero programma attraverso una speciale sezione inserita al suo interno - “Maggio dei Diritti e della Legalità 2023 a scuola” il titolo - che si articola in quattro appuntamenti e si chiude l’1 giugno presso l’Auditorium del Liceo Scientifico “Epifanio Ferdinando”. Dal 2 al 10 maggio, le Sale espositive del Castello comunale ospiteranno la mostra fotografica “La strage dei fiori” a cura dell’associazione “Pari Opportunità”, sulle violenze di genere in Iran. Il 4 maggio la data è scandita da un importante anniversario, l’Associazione Nazionale Polizia di Stato di Mesagne festeggia i 25 anni di istituzione con un’intensa giornata celebrativa. Il 6 maggio la scena è per i bambini e i ragazzi: dalle 17.30 alle 19.30, nelle vie del Centro Storico si snoderà un percorso di letture itineranti che si concluderà all’interno dell’antico Maniero con uno spettacolo di burattini, l’iniziativa è a cura del Comitato interscolastico dei genitori. Si continua l’8 maggio... CONTINUA NEI COMMENTI • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #visiting #mesagne #comunione #24aprile #mesagnetop #lacittadellamore #lacittadelcuore #welcometomesagne #momentisenzafiltri #madeinmesagne #mesagneinlove #mesangeles #portiamomesagnenelmondo #mesagnedavedere #viveremesagne #mesagnemylove #mesagneview #mesagnemoremio #a2passinelmondo #mesagnea2passidalmare #tradizionepopolare #tradizionemesagnese #folklore #cultura (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/Crssn8lN4Jo/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Erbe e tarantismo
di Gianfranco Mele
  Introduzione
Che ruolo hanno avuto le erbe nell’ambito del tarantismo? Oltre ad avere impiego come medicinali da parte dei medici del tempo (molti dei quali e in ogni caso, a seguito della osservazione dei casi, hanno ammesso una superiorità del rituale musicoterapeutico), le vediamo inglobate anche nei contesti rituali, sia come presenze evocative di più antichi scenari naturali all’interno dei quali si svolgevano i riti, sia come strumenti complementari di guarigione. Non solo: nel caso dei cosiddetti cirauli o ceramati o tarantolari erano parte di un rito di tipo magico-medicinale che abbiamo descritto in precedenti occasioni.[1]
Analizzando il complesso dei loro impieghi a partire dai tempi più remoti, nei quali specifiche erbe erano considerate, a causa delle loro proprietà (reali e/o attribuite) strumenti salvifici per la cura degli avvelenamenti da morsi di animali, si può ipotizzare che la presenza nell’ambiente del rito di piante come  la ruta, la menta, il basilico (sebbene nelle forme rituali pervenuteci relegate ad un ruolo ornamentale o, come asserisce il De Martino di “stimolo olfattivo”), possa costituire il retaggio di loro precedenti ruoli più attivi,  e/o la rappresentazione delle virtù loro attribuite sin dalla antichità, ovvero rimedi e antidoti contro i veleni, contro le possessioni, insieme a tutta una serie di credenze magiche connesse al rapporto tra queste piante e gli animali velenosi.
Vi sono poi casi in cui rimedi a base di erbe sono impiegati sia nell’ambito  di rituali medico-magici operati da maghi guaritori, sia da parte di medici settecenteschi e ottocenteschi: ad esempio, i vapori di vino  bollito insieme a rosmarino ed altre erbe  (ruta, salvia etc.) sono utilizzati sia dai cirauli calabresi che dai medici salentini e siciliani.
Le applicazioni immediate di aglio al fine di “non far passare il veleno” sono utilizzate sia dai medici che nella tradizione popolare, mentre vi è  una lunga serie di più o meno complessi rimedi a base di erbe, impiegati esclusivamente nella tradizione medica, come l’ Acqua Vitale o l’ Elettuario Antifalangio utilizzati da Epifanio Ferdinando, la Teriaca o il Mitridazio utilizzati sin dall’antichità per i morsi di animali velenosi e suggeriti anche per la cura del tarantismo, e infine decozioni, tinture e applicazioni varie.
Nel caso mitico e atipico del “tarantismo” di Aracne, le erbe sono addirittura non già rimedio, ma causa della metamorfosi della fanciulla: qui non è un morso, non è il veleno inoculato da un aracnide a costringere il personaggio ad assumere quelle stesse movenze da ragno che assumono le tarantate salentine, ma alcune potenti erbe “infernali” che la dea utilizza per l’incantesimo.
  La presenza delle erbe nei rituali
E’ nota la presenza di elementi vegetali nell’ambito dei rituali di tarantismo. In genere, a tale presenza sono attribuiti due significati: 1) la ricostruzione all’interno delle mura domestiche di un più antico scenario arboreo (laddove la stanza in cui si svolge il rito viene adornata di fronde, rami verdeggianti, pampini di vite); 2) l’impiego di erbe specificamente aromatiche come “stimolo olfattivo” (su questo aspetto abbiamo pochissima, benchè significativa documentazione).
Tuttavia, laddove si fa riferimento agli stimoli olfattivi la questione pare liquidata in termini di un generico sollievo offerto dal piacevole odore delle piante, trascurando approfondimenti in merito alle loro proprietà specifiche e ad antichi e tradizionali impieghi di quelle piante nella cura dei morsi di aracnidi ed altri animali presenti nella simbologia del tarantismo.
Non sfugge al De Martino la presenza di tali piante aromatiche nel rito, ed è proprio lui ad ipotizzarne l’impiego a fini di stimolo olfattivo.
Nel De Martino, la questione della ricostruzione dello scenario arboreo è ben distinta dalle osservazioni rispetto alla presenza di determinate piante aromatiche. Se difatti pampini di vite, fronde e rami di piante varie hanno un fine più che altro ornamentale e al tempo stesso rievocativo di un rito svoltosi più anticamente all’aperto, alle cosiddette piante aromatiche sembra assegnato un ruolo (benchè secondario) più immediatamente terapeutico.
Il  De Martino riprende un passo della Caggiano, la quale nel 1931 aveva  osservato il rito svolgersi così nelle campagne di Taranto:
“tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [2]
Le erbe aromatiche utilizzate nel rito osservato dalla Caggiano dunque sono: basilico, cedrina, menta, ruta, e vedremo più avanti, nei dettagli, cosa hanno in comune tali piante. Nel commentare il su riportato passo, il De Martino scrive:
“ I vasi di basilico, di cedrina, di menta e di ruta erano impiegati durante l’esorcismo come stimolo olfattivo: la tarantata di tanto in tanto odorava queste piante aromatiche allo stesso modo come contemplava i colori dei drappi o dei nastri, o si accostava a questo o quello strumento per entrare con esso in particolare rapporto. In altri termini l’evocazione non si compiva soltanto attraverso suoni e colori, ma anche gli aromi potevano avere la loro parte, per quanto relativamente minore, almeno a giudicare dal fatto che questo particolare del rito non trova altri riscontri nella documentazione diacronica”.[3]
Passiamo ora perciò ad approfondire il legame di queste erbe citate nel passo della Caggiano, con il tarantismo, con la sintomatologia a questo attribuita, e con le cure in genere dei morsi degli animali velenosi.
Basilico (Ocimum basilicum)
  Basilico, tarantole e scorpioni
La presenza del basilico nel rituale del tarantismo è descritta anche in un recente testo di Mario Salvi, che riporta una ricerca effettuata su Villa Castelli:
“La cura per guarire  dagli effetti del morso di scorpioni, serpenti ecc. (dal dialetto: “sfogare la malinconia”) prevedeva l’intervento di musicisti e cantori che eseguivano uno specifico tipo di pizzica, detta tarantella, in cui le parti in minore (sonata a “malinconica”) si alternavano a quelle in maggiore, riprese dalla pizzica pizzica.
 La signora Lucia De Marco (97 anni) madre del cantore Vito Nigro, ricorda che negli anni della prima guerra mondiale quando si dovevano curare le tarantate, di solito donne il cui marito era al fronte, venivano chiamati suonatori di Francavilla Fontana. Si trattava di un trio costituito da violino, chitarra e tamburello, quest’ultimo suonato da una donna.
La cura della “malinconia” si svolgeva nella casa dell’ammalata, di solito nell’ambiente più grande, che spesso fungeva anche da camera da letto. A terra era posto un vaso di basilico e, al centro della stanza, un oggetto che ricordava nella forma l’animale che aveva morso o spaventato la tarantata.
La terapia musicale durava spesso più di un giorno e in tal caso i musicisti si trattenevano nella casa finchè la tarantata non aveva “sfogato”. [4]
Il basilico, che come abbiamo visto è presente sia nelle osservazioni della Caggiano che in quelle del Salvi, ha un ruolo particolare e una lunga tradizione come erba magica e medicinale. Nel Medioevo  era usato per cacciare i diavoli dagli invasati; si pensava inoltre che  guarisse dalla melanconia, e per questo vi era l’antico detto “mentis nubila pellit” (caccia l’oscurità della mente).
Per Dioscoride il basilico ha numerose proprietà e impieghi medicinali, da diuretico ad antiinfiammatorio, e ha la particolarità di essere utile rimedio alle punture degli scorpioni (“dissero gli Arabi, che essendo trafitti dagli scorpioni coloro, che quel giorno han mangiato basilico, non sentono dolore alcuno”)[5]. Vi era però anche una credenza opposta: ovvero, secondo Plinio ad esempio, “non puo guarire, avendo quel giorno mangiato basilico, chi sia stato trafitto dagli scorpioni”[6].
Si era attribuito a questa pianta persino il potere di generare scorpioni e vermi:  “dissero alcuni,che mettendosi   trito sotto una pietra ne nascono gli scorpioni: o che masticato,e posto al sole se ne generano alcuni vermi.”[7] Una variante di questa credenza è nella tradizione popolare siciliana, laddove si crede che gli scorpioni possano nascere da foglie di basilico messe sotto un recipiente colmo d’acqua.
Nicholas Culpeper, medico e botanico inglese del XVII secolo, nel suo trattato  Complete Herbal (1653) cita il medico francese Antoine Mizauld (1510-1578) che riporta la credenza  secondo cui il basilico messo nello sterco di cavallo genererebbe bestie velenose, e un certo Hilarious che raccontava della credenza diffusa secondo cui odorare troppo il basilico faceva nascere scorpioni nel cervello.[8]
Euscorpius italicus
  L’ “erba cedrina”
La cedrina citata dalla Caggiano è di difficile identificazione poiché questo nome volgare è attribuito sia alla Lippia citriodora che alla Melissa officinalis. Alla lippia sono attribuite proprietà antinfiammatorie, sedative ed antispasmodiche. Melissa officinalis ha proprietà sedative ed antispastiche, e in medicina popolare veniva utilizzata per il trattamento di isteria e stati d’ansia. Inoltre, come vedremo più avanti, la melissa ha avuto impiego nella cura di morsi di animali velenosi fin dai tempi della medicina antica, ed è citata anche nel trattato Centum historiae di Epifanio Ferdinando, il medico mesagnese del XVII secolo che si occupò di tarantismo.
Lippia citriodora
  Menta e animali velenosi
La menta è citata nel Dioscoride del Mattioli anch’essa come erba specifica contro i morsi degli animali velenosi, ed ha addirittura il potere di metterli in fuga: “scaccia tutta la pianta sparsa per terra i serpenti”.[9] Il Mattioli riferisce di proprietà ed usi comuni di varie piante della tribù delle Mentheae e quindi troviamo ad esempio che la calamintha “bevuta, ovvero impiastrata soccorre a i morsi delle velenose serpi”[10]   e usata con vino “vale contra a veleni”[11], così come la Mentha pulegium “soccorre con vino a i morsi di numerosi animali”.[12] In medicina popolare, la menta e la mentuccia sono sempre state utilizzate a tali scopi. Nella tradizione salentina, oltre a credere che la pianta potesse far fuggire i serpenti, la si utilizzava anche come rimedio contro i veleni (sia l’infuso che la masticazione delle foglie). La mentuccia ha avuto impiego specifico come rimedio per coloro che venivano morsi dallo scorpione. Epifanio Ferdinando cita la calamintha come rimedio contro tutti i veleni[13],  e la menta puleggio è citata come farmaco complementare nella descrizione di in un caso ottocentesco di tarantismo osservato dal medico calabrese Gaetano Spizzirri: in questo frangente la cura non era stata realizzata dal medico ma dai cirauli o ciraulari calabresi e lo Spizzirri era semplicemente testimone oculare dell’accadimento. Più avanti (nel paragrafo dedicato alla ruta), vediamo ancora come la menta puleggio sia citata anche dal Marciano.
Menta
  La Ruta: da “herba de fuga demonis” a rimedio contro i morsi
L’ultima delle erbe citata dalla Caggiano è la ruta, una pianta utilizzata sin dai tempi più antichi come antidoto contro gli effetti dei morsi di animali velenosi.  Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con  vino “in dose di un acetabolo”[14]; applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:
“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]
Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]
Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una  “Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]  Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca, che: “della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]
Ruta graveolens
  Teriaca e Mitridazio[19], antichi farmaci contenenti entrambi la ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[20], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. o inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[21]
Anche Achille Vergari, medico di Nardò, nella sua opera “Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose” (1859) indica teriaca e mitridazio come antico rimedio, e rende noto che in alcuni luoghi “si usano ancora con successo i sughi di aglio, di cipolla, di ruta, di rovi, tanto localmente che internamente”[22] e infine ricorda che “Celso per le punture delle tarantole e degli scorpioni prescriveva  l’applicazione dell’aglio con la ruta pesti e mescolati con l’olio”. [23]
Salvatore Pezzella, in una sua ricerca su antichi ricettari dell’Italia centrale, descrive la pratica del porre la ruta verde sulla parte interessata dal morso di tarantole o serpi.[24]
Ancora, sono menzionate ruta, menta (puleggio) ed altre erbe per la cura del tarantismo nel Marciano:
“Si sogliono anco curare i tarantati, come dice il Mattioli, con dar loro a bere la teriaca, il mitridato, ed altri diversi antidoti contro il veleno, e col fregar sopra la morsura  l’aglio scarnificarla e suggerla, fomentandola prima col vino tiepido, o caldo, ove siano stati decotti prima la ruta, l’origano, il dittamo, il puleggio, il serpillo e simili”.[25]
Nel rinascimento la ruta era considerata Herba de fuga demonis[26] la qual credenza ha origini antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni.
In medicina popolare la ruta era utilizzata anche per la sua azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di  “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente”.[27]
Si può comprendere dunque come, a causa di questa mescolanza di credenze ed effettive proprietà, la pianta potesse godere di particolare considerazione anche nell’ambito delle cure per il tarantismo.
  Altre testimonianze: malva e altre erbe
Un’altra testimonianza sulla presenza di erbe, è raccontata da Sergio Torsello e Vincenzo Santoro che riportano il caso di Nena, la tarantata 76enne di Alessano che utilizzava una malvacea (molto probabilmente Malva sylvestris):
La sua odissea, o meglio, il suo stato di agitazione “senza orizzonte”, cominciava qualche giorno prima del 29 giugno, la festa di S. Paolo, il solo capace di scendere a patti col ragno, lui che aveva dominato la vipera biblica, e poteva liberarla dal “rimorso” del ragno che opprime col suo mitico rigurgito. Girava di casa in casa, Nena, ad amici e parenti chiedeva i “fiureddhi”, una specie di malva spontanea dal forte potere sedativo, la sola cosa che riuscisse a regalarle qualche sollievo. Poi tornava a casa, si chiudeva in una stanza e cominciava a ballare.[28]
In effetti la malva, oltre ad essere considerata pianta medicinale utile ad ogni malattia (“la malva da ogni male salva”), ha avuto, sin dai tempi del Dioscoride, fama di pianta che cura gli avvelenamenti causati dai morsi dei ragni:
“Giova la decozione della malva fatta insieme con le sue radici bevendola a tutti i veleni mortiferi: ma bisogna che coloro che la bevono, continuamente la vomitino. Vale medesimamente ai morsi de i ragni, che chiamano phalangi…” [29]
Malva sylvestris
  L’amica Sandra Taveri  mi riferisce della presenza ornamentale di violaciocca a Ceglie e di gelsomino a Cisternino in alcuni riti di tarantismo. Anche qui, c’è da ricordare che in passato l’infuso di fiori di violaciocca mescolato al vino è stato utilizzato come antidoto per i morsi di animali velenosi, mentre il gelsomino ha avuto utilizzi come analgesico e antispasmodico.
Infine, nell’opera del De Martino è riportato il caso di Michele di Nardò, giovane pescatore di 18 anni, che suole annusare non meglio specificati “fiori di campo” alla ricerca di un sollievo o nel tentativo, come dice il De Martino, di “ottenere dall’olfatto quello stimolo che non veniva dall’udito o dalla vista”.[30] Il tentativo di autocura da parte del giovane di Nardò è citato anche  in altro passo della ricerca del De Martino, quello in cui riferisce delle osservazioni della Caggiano nelle campagne di Taranto. Dopo aver citato lo scenario rituale con presenza di erbe descritto dalla Caggiano, lo studioso ricorda e correla a questo il caso di Michele, il quale “durante l’esorcismo musicale occasionalmente odorava dei fiori di campo, proprio come se cercasse di trarre degli stimoli olfattivi quanto non riusciva ad ottenere da quelli sonori e cromatici”.[31]
  Tra magia e medicina
Vedremo dettagliatamente più avanti, anche se ne abbiamo già fatto diversi cenni, come nell’ambito delle cure mediche (sia quelle specifiche del tarantismo che quelle  rivolte più in generale ai morsi di animali velenosi) vengano utilizzate le stesse erbe (ed altre, dalle analoghe proprietà) che abbiamo visto esser presenti (secondo alcune testimonianze) nei rituali del tarantismo. La differenza fondamentale sta però nel fatto che mentre nel caso del rituale costituiscono una mera presenza (una sorta di complemento d’arredo dal De Martino individuato come finalizzato a funzionare come stimolo olfattivo), nel caso delle cure mediche le piante vengono ingerite sotto forma di preparati o utilizzate, dopo decozione e miste a vino, per bagni e vapori. A tale proposito, si potrebbe già osservare che in ambito magico-popolare sono ritenuti sufficienti  la semplice presenza o il possesso di una pianta perchè essa infonda le sue proprietà (vi sono numerosi esempi in ambito etnografico che evidenziano questo aspetto: ad esempio una pianta ritenuta afrodisiaca “funziona” come tale non solo se ingerita, ma anche se portata addosso o lanciata verso la persona che si intende ammaliare). C’è  però un caso  significativo di commistione della sfera del magico con quella  medica: si tratta di un episodio al quale già abbiamo accennato nel paragrafo dedicato alla menta. Nel 1827 sulla rivista  “L’Osservatore Medico” appare un articolo firmato da Samuele Spizzirri, allievo in medicina e nipote del medico calabrese Gaetano Spizzirri. Il giovane Samuele rendiconta dettagliatamente  intorno ad un caso osservato da suo zio: nel luglio del 1826 un giovane di Marano (prov. Di Cosenza) viene morsicato da ben due tarantole mentre lavora nei campi. Segue, nella narrazione, la descrizione di una serie di sintomi conseguenti il morso, tra i quali un continuo “tremore convulsivo” che spingeva l’infermo a danzare.  Vano è l’intervento di un chirurgo che applica nella parte colpita (l’avambraccio sinistro) “un bottone rovente” : a quel punto, il padre del ragazzo manda a cercare un ciraularo[32] il quale, dopo aver pronunciato dinnanzi al malato i suoi segreti carmi, interviene con medicamenti a base di erbe (il medico che assiste all’intervento riconosce unicamente, tra queste, il Rosmarino). Il giovane guarisce in tre giorni, e come medicinali oltre al bagno di vapori di vino ed erbe prende, da prescrizione, un succo di menta puleggio:
 “Il padre del paziente avendo una cieca fiducia in taluni cerretani di Mendicino, conosciuti col nome di Ciraulari, mandò tosto a cercare il più perito, il quale non appena giunto pronunciò i suoi superstiziosi carmi; applicò con la man dritta, dapprima sulla coscia sinistra, e quindi sulla dritta, e quasicchè tocco dalla mano di Medea, cessa come per incantesimo nel paziente il tremore, da prima nel sinistro, e quindi nel dritto lato; risultamento, che noi lasciamo alla considerazione del lettore per decidere, se debba o no attribuirsi alla morale influenza. Ciò ch’è certo però è che il villano Esculapio avendo fatto prendere al suo infermo, precedentemente coperto con mantello di lana, un bagno dei vapori di vino, dentro del quale avea fatto bollire, in vase di rame, le sue eroiche erbe, tra le quali noi potemmo distinguere il rosmarino, l’infermo al terzo giorno si ritrovò guarito, senza aver preso internamente altro rimedio che un bicchiere di succo di puleggio che gli defaticò lo stomaco”.[33]  
Lo Spizzirri prosegue citando poi brevemente un altro caso, quello di un quarantenne sempre di Marano, morso anche lui dalla tarantola. L’uomo viene guarito dallo stesso “cerretano” o “ciraularo” nel giro di tre giorni e con lo stesso metodo.
Samuele Spizzirri in una nota conclusiva ipotizza che il principale ingrediente del bagno di vapori nel quale sono state decotte varie erbe medicinali sia l’ Acanthus mollis. L’ acanto ha avuto in effetti utilizzo come lenitivo per eritemi e punture di insetti, e inoltre era considerato in antichità una pianta de fuga demonis come la Ruta. Tuttavia quella dello Spizzirri resta una ipotesi dal momento che nel composto di erbe suo zio riesce a riconoscere unicamente il rosmarino. Peraltro, vi sono numerose piante (come vediamo anche dalle varie citazioni inserite in questo lavoro) utilizzate nel corso della storia sia propriamente medica che magico-medicinale come rimedio specifico ai morsi di animali velenosi, altre utilizzate per ottenere sudorazioni, oppure ancora con duplice funzione. Descriveremo più avanti una caso analogo, in cui un tarantolato viene trattato, in Sicilia, con inalazione di vapori caldi di vino in cui son stati bolliti rosmarino, ruta, salvia ed altre erbe, ma questa volta il terapeuta è un vero e proprio medico.
  Medicina, erbe e tarantismo
In conclusione, le testimonianze rispetto alla presenza di questa tipologia di erbe nell’ambito dei rituali del tarantismo sono troppo poche per poter affermare con certezza che fossero là presenti per le loro qualità di agenti anti-veleniferi e/o per altre loro proprietà (reali o attribuite) medicinali o magico-medicinali quali quelle che abbiamo sin qui riportato. Si può però ipotizzare che la loro presenza derivi da un più antico e definito ruolo (del quale via via la presenza stessa è rimasta a livello meramente simbolico o come debole retaggio di un impiego più attivo e concreto). In tal caso, il divario tra elementi tipici del rito e rimedi medici sarebbe meno eclatante di quanto si sia sempre creduto. Difatti, si tratta delle stesse erbe indicate sia nella medicina popolare che nella letteratura medica di ogni tempo (dall’antichità sino all’ Ottocento) come specifiche per la cura di morsi di tarantole, scorpioni, serpenti e animali velenosi in genere. Cè un passo del Mattioli  significativo al proposito:
“Imperochè il lungo suono e il lungo ballare provocando il sudore gagliardamente vince al fine la malitia del veleno di questi animali: come che in quel mezo, che si suona, si gli dia delle theriaca, del mithridato, e dell’altre cose, che universalmente valgono ai morsi delle serpi, e degli aspidi”.[34]
Ancora più significativi, i casi dei tarantolati calabresi descritti da Samuele Spizzirri che abbiamo riportato di sopra: là, una mistura di erbe decotte son parte di un bagno a base di vapori di vino che il ciraularo somministra ai suoi pazienti, nell’ambito di un rituale di tipo medico-magico nel quale hanno una parte essenziale anche carmi e manipolazioni.
Epifanio Ferdinando, nel capitolo dedicato alle cure del morso della tarantola del suo Centum Historiae, cita, oltre ai composti (teriaca, mitridazio) diverse erbe come efficaci contro i veleni: l’ “herba Anchusa” (una Borraginacea), la mentuccia (o calamintha), il timo serpillo, l’ artemisia, il camedrio, il rafano, il nasturzio, l’aglio per uso esterno.[35]  
Epifanio elenca anche una serie di rimedi provenienti dall’antica medicina, quali i semi di Pastinaca già indicati dal Dioscoride, il decotto di melissa, l’impiastro di foglie di origano e l’origano in polvere bevuto nel vino, il decotto di centaurea minore assai consigliato da Galeno, la nigella bevuta con vino, l’ aristolochia con vino, il succo di foglie di gelso,  il cumino, i semi di agnocasto, il succo di piantaggine già raccomandato da Plinio come rimedio contro morsi e veleni, l’ elettuario di Albucasi (ruta, mnta, piretro, assafetida), gli asparagi cotti nel vino, l’olio di assenzio (Artemisia absinthium) per uso esterno, l’ essenza di rosmarino.[36]
Uno dei medicamenti a base di erbe prescelti da Epifanio è la sua Acqua Vitale. Tale acqua nasce dalla distillazione di una serie di elementi vegetali: fiori di citrus, foglie di quercia, cardo benedetto, scabiosa, acetosella, sonco, salvia, maggiorana, fiori di lavanda, assenzio, rosmarino, tussilagine, melissa, pimpinella, borragine, lentisco, ruta, cipero, alloro, ginepro, corteccia di citrus, tormentilla, curcuma, cinnamomo.[37]
Altro rimedio straordinario per Epifanio è l’ Elettuario Antifalangio, così composto:
“Prendi un’oncia di frutti di mirto e tamarice; semi di pastinaca, nigella, agnocasto, dauco, anice, cumino e origano una dramma; terra sigillata e bolo armeno orientale due dramme di ciascuno; centaurea minore, aristolochia rotonda, mezza dramma di ciascuna; foglie di melissa, trifoglio bituminoso, camepizio e abrotano mezzo pugno di ciascuno; teriaca ottima e mitridato due dramme di ciascuno; succo di cipolla, di aglio, di piantaggine, di atrepici e di edera depurati, quanto basta in parti uguali: si ottenga uno sciroppo col miele. Con questi ingredienti si faccia un elettuario, aggiungendo acquavite quanto basta”.[38]
Ritratto di Epifanio Ferdinando
  Non mancano nella trattazione di Epifanio altri consigli e rimedi di carattere non vegetale, come lo sterco di capra applicato sulle morsicature, i lavaggi delle ferite con acqua marina calda, l’induzione con vari mezzi di sudorazione abbondante, il pane masticato applicato sulla morsicatura, il falangio ridotto in polvere e bevuto con vino, il cervello di gallina con pepe, la cantaride (Lytta vesicatoria) nel suo ruolo di “veleno che agisce contro il veleno”, i bagni di sabbia calda o di cenere calda, il bagno in acqua di mare. Epifanio conclude che tutte queste terapie sin qui descritte sono sicuramente efficaci per espellere il veleno della tarantola, ma in Puglia il rimedio più utilizzato ed efficace è quello della musica (come altri medici dei suoi tempi, Epifanio ammette che la “terapia” funziona ma le attribuisce una spiegazione razionale: la musica serve ad espellere il veleno tramite il sudore “con tanto scuotimento del corpo, le forze assopite del veleno, messe al sicuro e tranquille, vengono rimosse e cacciate fuori dal sudore”).[39]
Centum historiae  di Epifanio Ferdinando
  A proposito delle ulteriori “tecniche” suggerite da Epifanio a base di acqua marina, acqua calda e balneazioni, non possiamo non ricordare il ruolo che tali rimedi hanno avuto sia nella medicina antica che nella specifica tradizione del tarantismo. Come già abbiamo evidenziato in altra occasione, la presenza dell’elemento acqua nel rituale di cura è una costante che, se tardivamente si manifesta con la presenza di bacinelle e tinozze piene d’acqua nell’ambiente del rituale domiciliare, presenza interpretata dal De Martino come mera rievocazione di un più antico “scenario acquatico”, suggerisce in realtà un continuum con forme più antiche di cura a base di balneazioni.[40]  Allo stesso modo, può essere che la presenza delle “erbe aromatiche” negli ambienti domiciliari in cui si svolgeva il rituale musicoterapeutico fosse l’eco di un ruolo o di una compresenza più attiva di determinate piante nell’ambito della cura medico-magica popolare.
Tornando alle cure mediche del tarantismo, come diversi suoi colleghi anche il Baglivi riferisce in merito alla azione del Rosmarino attraverso diverse ricette (spirito rosmarinato di vino, essenza distillata di rosmarino assunta assieme all’acqua teriacale); cita inoltre come efficaci rimedi la corteccia di limone, l’issopo, la melissa.[41]
Abbiamo già riferito dei rimedi a base di ruta ed altre erbe suggeriti dal Vergari. Ancora, il Vergari elenca applicazioni di tinture aromatiche, [42] e inoltre, dopo aver suggerito cataplasmi emollienti per i pazienti, al fine di medicare la parte ferita, consiglia:
“Dopo curata la parte, i morsicati si facciano stare in letto, facendo lor prendere  decozioni diaforetiche, di rosmarino, di foglie d’aranci, di melissa, d’issopo, di serpillo, di edera, di salvia, di ruta, di fiori di viole, di tiglio, di sambuco ec. Con gocce d’ammoniaca liquida. Taluni hanno usato con successo il vino poderoso, e l’alcoole, soli o con teriaca o con polvere di roccasecca” [43]
Vediamo qui nel testo del Vergari comparire anche l’edera, e in una nota a margine il medico neretino specifica che secondo Eliano “I cervi morsicati dalle tarantole velenose trovano il di loro rimedio nell’edera”.
Il Vergari continua elencando una serie di altri rimedi tra cui i bagni d’acqua calda, e le cure segrete dei cosiddetti “Tarantolari, Ciarauli, Benedetti di S. Paolo ecc”. [44]
In una successiva lunghissima nota a margine, infine, il Vergari elenca una serie di antichi rimedi in disuso “per l’avvelenamento de’ falangi”: ne ritroviamo moltissimi, con varie combinazioni di erbe già elencate in questo scritto, e altri che ricomprendono singolari preparazioni nelle quali son presenti anche solanacee tropaniche, papavero da oppio, cicuta ( un antidoto fatto di succo di papavero, pepe, mirto e altri ingredienti con aggiunta di vino,  un altro in cui insieme al papavero e varie erbe è presente anche la radice di mandragora, l’antidoto di Eraclide di Taranto in cui si ritrovano succo di cicuta, altea, pepe, mirto ed altre erbe, un antidoto fatto di vino e datura, e vari altri).
Il medico siciliano Giovanni Meli (1740-1815) cura il caso di un sacerdote morso dal ragno provocando la sudorazione del malato attraverso l’inalazione di vapori ottenuti facendo bollire “un mezzo barile di vino unitamente allo rosmarino, alla salvia, alla ruta, alle fronde di frassino, alla radice di genziana, allo scordio, all’abrotano e ad altre erbe amaricanti”. [45]
Paolo Boccone (1633-1704) nella sua trattazione giudica molto efficaci i rimedi proposti dal Baglivi e li ricapitola, dopo aver evidenziato come a suo parere, se si opera un intervento tempestivo con aglio pesto sulla parte offesa, il veleno “non passa più oltre”, e la persona morsicata “non patisce alcuno impulso al ballo, perchè non è seguita alcuna fermentazione”.[46] Il Boccone indica questo rimedio come empirico e tradizionale, provato dall’esperienza degli abitanti di Brindisi che solgono utilizzare tale  intervento, insieme all’uccisione, ove possibile, del ragno per esser sicuri di non patire ciclicamente il ritorno dell’esperienza del male.
  Le erbe come agente eziologico nel “tarantismo” di Aracne
Concludo questa rassegna sul ruolo e la presenza delle erbe nel tarantismo con la citazione di un mito spesso rievocato quando si va alla ricerca delle origini della credenza e del rito o di collegamenti  tra questi ultimi e tradizioni antiche. Nel ricollegare il fenomeno popolare al mito di Aracne, in genere non si presta molta attenzione ad un particolare: come Athena trasforma Aracne in ragno. Ecco il passo, tratto da Le Metamorfosi di Ovidio, che ci interessa:
“… nell’atto d’andarsene, la cosparse di succhi d’erba infernali, e subito, a contatto col malefico  filtro, le caddero i capelli e con essi il naso e le orecchie; la testa si fa minuscola ed è piccolo anche il corpo, tutto quanto; sui fianchi sottili zampe al posto di gambe spuntano; il resto lo occupa il  ventre, da cui quella emette un filo e, ormai ragno, tesse la tela come faceva”.[47]
Athena non si serve dunque di un ragno e del suo veleno per compire il suo incantesimo (procedimento pure utilizzato in ambito magico e descritto dal Della Porta nella sua Magia Naturalis[48]), né di astratti o mistici poteri: utilizza uno strumento naturale, quelle erbe infernali in grado di provocare alterazioni psicomotorie in chi le assume, assai ricorrenti in ambito stregonesco.
Nel caso del mito di Aracne siamo dunque in presenza di un tarantismo “atipico”: l’agente eziologico non è il veleno del ragno, ma quello contenuto in alcune erbe. Esiste difatti una serie di piante utilizzata in ambito stregonesco per incantesimi finalizzati alla trasformazione di uomini e donne in animali. Tali piante sono identificabili in alcune Solanacee tropaniche che provocano effetti allucinatori e delirogeni (ma su questo argomento mi soffermerò nei dettagli in un prossimo articolo).
  Note
[1]    Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud in La Voce di Maruggio, 2 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/cirauli-sanpaolari-i-maghi-serpentari-del-sud.html  vedi anche Gianfranco Mele, Il tarantismo e i “cirauli” calabresi. Due casi riportati su L’Osservatore Medico nel 1827, La Voce di Maruggio, 12 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/il-tarantismo-e-i-cirauli-calabresi-due-casi-riportati-su-losservatore-medico-nel-1827.html
[2]    Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[3]    Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Net Nuove Edizioni Tascabili, 2002, pag. 131 (1a edizione Il Saggiartre, Milano, 1961). Come vedremo più avanti, il De Martino cita anche un altro caso nel quale un tarantato (Michele di Nardò) cerca di trarre sollievo da alcuni non meglio identificati “fiori di campo”.
[4]    Mario Salvi, Domenico Caramia,  La pizzica nascosta. L’organetto nella musica e nei canti tradizionali di Villa Castelli, Edizioni Kurummuny, LE, 2010, pag. 25
[5]    Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride,  Pezzana, Venezia, 1744, pag. 332
[6]    Ibidem
[7]    Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 333
[8]    Nicholas Culpeper, The complete herbal, 1653 (ried. Milner & Sowerby, 1858, pag. 47)
[9]    Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, Venezia, Valgrifi, 1555, pag. 359
[10]  Ibidem
[11]  Ibidem
[12]  Pietro Andrea Mattioli, op.cit., pag. 353
[13]  Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264
[14]  recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068
[15]  Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133
[16]  Alfredo Cattabiani, op. cit.,  pag. 231
[17]  Cesare Ripa, op. cit.,  pag. 147
[18]  Cesare Ripa op. cit.,  pag. 148
[19]  Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi
[20]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in:  Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105
[21]  A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57
[22]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, Stamperia Società Filomatica, 1839, pag. 32
[23]  Ibidem
[24]  Salvatore Pezzella, Fitoterapia e medicina tra passato e presente: alcuni ricettari dell’Italia centrale, secc. XV-XVII, svelano i segreti delle piante curative, Orion Edizioni, 1997, pag.159
[25]  Girolamo Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1855, pag. 182
[26]  Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230
[27]          Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117
[28]  Sergio Torsello, Storia di Nena la tarantata, Pietre, marzo 1999, pag. 8
[29]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride,  Pezzana, Venezia, 1744, pag. 297
[30]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 81
[31]  Ibidem, pag. 131
[32]  I ciraulari (o cirauli, cerauli, ceravoli) sono ( in Calabria e Sicilia)  una sorta di maghi-guaritori-incantatori specializzati nel curare dal morso di serpenti o domare serpenti e scorpioni. Si veda al proposito Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud, cit.
[33]  Samuele Spizzirri, Osservazioni sul morso della tarantola, del sig. Gaetano Spizzirri, Medico in Marano, in L’ Osservatore Medico, Giornale di Medicina e delle Scienze Affini, Anno V n. XIX, 1 ottobre 1827, pp. 145-146
[34]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo, Valgrifi, Venezia, 1568, pag. 385
[35]  Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264
[36]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 265
[37]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 161
[38]  Eipifanio Ferdinando, op. cit., pag. 266
[39]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 268
[40]  Gianfranco Mele, Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua, Fondazione Terra d’Otranto, novembre 2019 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/25/antiche-cure-e-rituali-del-tarantismo-presso-il-mare-le-sorgenti-e-i-corsi-dacqua/
[41]  Traggo il passo del Baglivi cui mi riferisco, dal testo di Arturo Viglione Il Tarantismo, studio clinico della malattia che per secoli aveva sconfitto i Medici, Pacini Editore, Pisa, 2012, pag. 200
[42]  Achille Vergari, op. cit., pag. 32
[43]  Achille Vergari, op. cit., pag. 33
[44]  Achille Vergari, pp. 34-36
[45]  Giovanni Meli, Capitolo di lettera in cui si descrivono gli effetti estraordinari del veleno d’un Ragnatello, in A.M. Spadafora, “Opuscoli di autori siciliani”, t. XII, Stamperia de’ Santi Apostoli, Palermo, 1771
[46]  Paolo Boccone, Intorno la  tarantola della Puglia, in Museo di fisica e di esperienze variato, e decorato di osservazioni naturali, note medicinali, e ragionamenti secondo i princìpi de’ moderni, Venezia, 1621
[47]  Ovidio,  Metamorfosi, IV, vv. 129 – 140
[48]  Giovanni Battista Della Porta, La Magia Naturale, Giunti Demetra Ed., 2008, pag. 158, titolo ed edizione originale Magia Naturalis, sive de miraculis rerum naturalium, libri XX, Napoli, 1859
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🌴 Domani, domenica 2 ottobre, Mesagne celebra l’ “Appia Day”, il festival di iniziative dedicato alla Regina tra le vie dell’antichità: percorsi podistici, visite guidate e accesso gratuito ai monumenti cittadini. L’Amministrazione comunale di Mesagne si prepara alla giornata nazionale con un ricco calendario, in collaborazione con l’ASD “Atletica Mesagne” e la cooperativa “Impact”, le associazioni “Amici Bike Mesagne” e “Cicloamici”. E grazie alla disponibilità dell’associazione “Borgo dei Presepi” e di don Gianluca Carriero, vicario foraneo e parroco della Chiesa Madre di Mesagne. Alle 8,30, l’appuntamento è in piazza Porta Grande, con il raduno di sportivi a piedi e in bicicletta. Il tempo di un saluto – sarò presente insieme a Mimmo Stella, consulente comunale alla valorizzazione, promozione e tutela di aree archeologiche e beni monumentali - e alle 10 partirà il percorso podistico che dal centro messapico dell’odierno insediamento urbano condurrà al Parco archeologico di Muro Tenente, “lungo il cammino dell’Appia Antica”. Alle 9.30 start anche per l’escursione in bicicletta “Il Cillarese, crocevia di antiche strade” – organizzata da “CicloAmici Fiab”, “Amici Bike”, con la partecipazione della Scuola superiore “Epifanio Ferdinando” – che farà tappa presso le masserie storiche e arriverà nel centro storico di Brindisi. In programma visite guidate e accesso gratuito ai monumenti cittadini, sulla locandina tutti i dettagli. • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #visiting #mesagne #ilovemesagne #cuordisalento #lacittadellamore #lacittadelcuore #a2passidamesagne #cosafareamesagne #boomdabash #mesagneinlove #ilovemesagne #autunno22 #castellomedievale🏰 #welcometomesagne #momentisenzafiltri #madeinmesagne #mesagnelovers #mesangeles #portiamomesagnenelmondo #mesagnedavedere #viveremesagne #mesagnemylove #mesagneview #mesagnemoremio #a2passinelmondo #mesagnea2passidalmare (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/CjLo6aCMxt4/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d'acqua
  di Gianfranco Mele
Oggi l’immagine più popolare del tarantismo è quella del ballo al chiuso delle mura domestiche, essendo stata una delle due forme rituali più recenti (l’altra, come noto, instauratasi in una fase successiva, è quella del pellegrinaggio nella chiesa galatinese dedicata a S. Paolo, che giunge anche a sostituire del tutto il rituale musicale domiciliare). Ma non sempre è stato così: forme più antiche son descritte da vari autori del passato e hanno come scenario a volte le strade e i crocevia, altre volte, e ancor più anticamente, ambienti arborei e/o acquatici. Come vedremo, il rituale domiciliare ha poi conservato questi elementi introducendoli (sia pur in modo rimaneggiato) all’interno delle mura domestiche. In “La terra del rimorso”, nella parte della trattazione dedicata agli scenari e all’ambientazione del rito, il De Martino ha ampiamente descritto questi aspetti. In questo scritto ripercorreremo e descriveremo in particolare gli scenari legati all’ambiente acquatico (e ai suoi “surrogati” domiciliari) cercando, per quanto possibile, di risalire ai significati e alle motivazioni del rito in acqua o con la presenza dell’elemento acqua.
E’ lo stesso De Martino, a riferirci che lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur”[1]
Sempre il De Martino, ci fa notare che
“Atanasio Kircher […] attesta che nel luogo destinato alla danza venivano spesso collocate conche colme d’acqua, addobbate con erbe e rami verdeggianti: e dall’acqua e dalle fronde i tarantati traevano grandissimo diletto, sino al punto di tuffarsi nella conca, e di guazzarvi a mò di anitre”[2]
  Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi” e di altri che “si lanciano in mare”;[3] i tarantati sembrano trovare conforto alla vista del mare e dell’acqua, traggono giovamento dall’immergervisi, manifestano desiderio ardente di bagnarsi nel mare, e gioia al solo sentir parlare di mare o di acqua. Epifanio si dà una spiegazione di questo comportamento, sostenendo che
“il veleno della tarantola non agisce esso solo in tutto e per tutto, ma essendo la sua costituzione secca, [i tarantati] amano quello che è opposto al secco, cioè l’acqua. Infatti nei tarantati l’immaginazione non è alterata a tal punto, come in quelli che sono stati morsi da un cane rabbioso, i quali hanno l’idrofobia e perciò, rabbiosi, rifiutano quel rimedio che a loro potrebbe giovare”[4] 
  Ma, altra cosa importante, Epifanio è a conoscenza del fatto che già secondo Dioscoride l’acqua del mare sana le persone morse dai ragni (e lo cita), così come cita   il medico persiano Rasis (854-930) il quale raccomanda l’immersione in acqua del mare per le persone avvelenate dai ragni.[5]
I tarantati trovano sollievo dall’acqua in genere, non solo quella del mare ma anche quella di conche e pozzi:
“Perché alcune fanciulle tarantate si lanciano nei pozzi, esibiscono le parti intime, si strappano i capelli e gridano? La causa deve ritenersi la stessa, ma più intensa: infatti, quanto più secca sarà la tarantola, più intensi diventeranno questi sintomi. “[6]
  Come le tarantole amano l’umidità, così secondo Epifanio la prediligono le persone che ne son state morse:
“Perché alcuni gioiscono a sentire nominare il mare e i canti che fanno riferimento al mare? La causa risiede in quello che si è detto: in conseguenza della secchezza del temperamento, sembrano amare l’umidità sia le tarantole, sia le persone che sono state morse da esse. Noi conosciamo molti che non trovano sollievo se non si immergono nell’acqua delle conche o nei pozzi, legati ad una fune per non annegare.” [7]
  Epifanio descrive anche i rimedi balneoterapici indicati dal Rasis:
“Rasis ha prescritto molti rimedi utili, come il bagno in acqua calda, teriaca, succo di foglie di mora, vino puro, aglio, cumino, agnocasto, l’immersione nell’acqua del mare riscaldata, la sudorazione abbondante”.[8]
  Cita poi il medico greco Rufo di Efeso (I sec.-II sec. d.C.):
“Rufo raccomanda più di tutto la teriaca, il bagno e il vino vecchio”.[9]
  Ancora, sui bagni:
“Ezio, nel libro XIII, cap. 18 e Paolo, libro V, cap. 7, fra gli altri rimedi, lodano molto l’aglio, il vino e i bagni; ugualmente nel libro V, cap. 27. “[10]
Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell’acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all’esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Nell’acqua, i tarantati immergevano anche fronde e rami verdi che poi si ponevano in testa. De Martino ne fornisce sunto:
“… il medico dalmata Giorgio Baglivi, non manca di accennare ai pampini e ai rami fronzuti che i tarantati agitavano e immergevano nell’acqua, per adornarsene poi il capo; e accenna anche al ricorrente gesto che i tarantati eseguivano di immergere nell’acqua mani e capo. Non parla a dir vero di tino o conca apprestati al centro dell’ambiente, ma di un fosso scavato nel terreno, e colmato d’acqua, onde l’immergersi in esso richiama al Baglivi non già, come nel Kircher, l’immagine di anitre che starnazzano, ma quella di maiali che si voltolano nel fango”.[11]
  Dei balli nell’acqua, e in questo caso nel mare, parla dettagliatamente anche il naturalista seicentesco Paolo Silvio Boccone, che scrive:
“Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d’hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l’altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l’imaginazione depravata, e corrotta degl’Infermi.” [12] 
  Il De Martino, proprio in riferimento a questi passi del Boccone, scrive:
“… il suicidio per eros precluso, l’impulso di morte per disperato amore, la corsa verso il mare per scomparire nelle onde trovavano orizzonte in un rito ch’era praticato a Taranto e a Brindisi: il tarantato in crisi, legato con una fune alla poppa di una barca, veniva fatto baccheggiare a suo agio nelle acque del mare, mentre i suonatori in barca cercavano di imporre al disperato il ritmo delle loro melodie”[13]
  Nel passo suddetto il De Martino non sembra sottolineare tanto il ruolo curativo dell’acqua, quanto il gesto disperato della corsa verso il mare, e rispetto al quale i parenti del tarantato si adoperavano a “limitare i danni” legandolo alla poppa o ricreando per lui il contesto acquatico in ambiente più “protetto”: rimarca questo aspetto quando in un passo successivo descrive la presenza delle conche d’acqua come surrogati casalinghi del mare, e, a seguire, parla, riprendendo i Kircher, dell’episodio di un cappuccino di Taranto il quale, morso dalla tarantola, corre con impeto verso il mare e là vi trova la morte:
“C’è da chiedersi se la tradizionale conca colma d’acqua nella quale diguazzavano i tarantati non assolvesse almeno in dati casi la funzione di modesto surrogato casalingo in cui spegnere simbolicamente un ardore che nel suo cieco trasporto poteva sospingere a disperate fughe verso il mare e a pericolosi salti in acqua: come fu il caso di quel cappuccino di Taranto, cui i superiori avevano proibito di eseguire l’esorcismo musicale e che un giorno, irresistibilmente stimolato dal suo impulso di immersione, fuggì dal convento come folle e con tanto impeto si inoltrò nel mare da trovarvi non già refrigerio al suo male, ma miserabile morte per annegamento”.[14]
  Eppure il De Martino, nel capitolo della sua trattazione intitolato “Tarantismo e cattolicesimo”, affronta il tema dell’acqua risanatrice e “miracolosa” del pozzo di San Paolo, ma evidentemente non la mette in stretta relazione con questi altri aspetti del rituale acquatico.
Laddove non era presente o non era immediatamente raggiungibile un ambiente acquatico (ed arboreo, altra caratteristica dell’ambientazione più antica del rito), questo veniva ricreato “artificialmente”, anche tra le mura domestiche: ancora una volta, è il De Martino a notarlo, riportando passi del De Phalangio Apulo di Ludovico Valletta (monaco della congregazione dei Celestini al convento di Lucera). Scrive il De Martino:
“Ludovico Valletta […] conferma che talora i tarantati gioivano «alla vista di limpide acque, e di fonti artificiali che con soave mormorio scorrevano in un tino apprestato alla bisogna», compiacendosi di verdi fronde spiccate di fresco dagli alberi e disseminate qua e là nell’ambiente destinato alla danza, e ciò «per rappresentare in qualche modo una selva».”[15]
  Successivamente, il Valletta descrive le spese che le famiglie dei tarantati son costrette a sostenere per l’organizzazione dell’intero rituale di cura (compensi in denaro, regali e vitto per i musicisti; ingaggio di giovinette abbigliate in abiti nuziali con il compito di danzare con i tarantati; spese varie per l’arredo – compreso il fitto di armi da appendere alle pareti o l’ acquisto di drappi multicolori -), e fa riferimento anche alle spese per la ricostruzione dello scenario acquatico-arboreo:
“E faccio grazia di molti altri sussidi e opportunità di cui si servono gli intossicati sia al fine di sollevare e rallegrare gli animi mesti durante la danza, sia perchè di queste cose hanno bisogno per qualche motivo: come, per esempio, fonti artificiali di limpida acqua congegnate in modo che l’acqua, raccolta, torna sempre di nuovo a versarsi: le quali fonti son ricoperte e circondate di verdi fronde, di fiori e di alberelli […]”[16]
  Anche il Valletta descrive il rituale della sospensione al soffitto con una fune (pratica che ai tempi delle indagini sul campo di De Martino è già in disuso e della quale, come lui osserva, gli intervistati conservano solo il ricordo): al termine del dondolio con le mani strette alla fune, e ad essa aggrappata con tutto il corpo, la tarantata, sudata, si immergeva in acqua:
“A motivo di questa agitazione e dell’incredibile fatica sopportata, tutto il corpo e soprattutto il volto della donna erano coperti di sudore copioso, finchè infiammata da così strenua agitazione correva anelante al gran tino colmo d’acqua apprestato a sua richiesta, e vi immergeva completamente il capo, onde trarre con l’acqua fredda qualche lenimento al dolore che l’avvampava”.[17]
illustrazione dal testo del Valletta
  Il Serao fa riferimenti sia ai balli in mare che alla presenza dell’acqua nel rituale domiciliare. Riferendosi alla ricerca di Epifanio Ferdinando, scrive:
“Cerca egli, verbigrazia, perchè i Tarantati si compiacciano di farsi seppellire fino al mento nella terra: perchè amino di cercar luoghi ermi , e desolati, e sogliano fin anche aggirarsi volentieri intorno a’ sepolcri, e cimiteri : perchè altri si gettino in mare; altri urlino; altri si avventino per mordere questo e quell’altro: perchè il sono delle campane loro ecciti passione, e mestizia: perchè cerchino di esser sospesi da una fune; o messi in una culla, e quivi dimenati, come si fa co’ fanciulli. Perchè le giovinette si sieno talora precipitate nei pozzi; perchè le medesime senza alcuno ritegno facciano altre sconcezze: si strappino i capelli: vogliano sentir le canzoni, in cui sia nominato il mare.” [18]
  In riferimento al rituale domiciliare, il Serao così descrive il ruolo e le funzioni dell’acqua:
“Ben credo d’intendere, perchè vogliano che loro si pongano avanti degli specchi; e molto meglio e più facilmente perchè cerchino de tinelli, e de’ bacini pieni d’acqua; o almeno perchè i pietosi spettatori arrechino di questi ordigni in vicinanza de Tarantolati che danzano: poichè vanno essi di tanto in tanto a tuffar la testa nell’acqua, e ripigliano perciò lena, quando sono più trafelati e molli di sudore.”[19]
frontespizio del testo del Serao
  Il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” (primi del ‘700), descrive tra le altre cose l’abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare di Taranto:
“A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. […] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “[20]
  Il leccese Nicola Caputi nel suo De tarantulae anatome et morsu, descrive gli scenari del rito e la presenza costante dell’acqua anche in ambito domiciliare:
“La camera da letto destinata al ballo dei tarantati sogliono adornare con rami verdeggianti cui adattano numerosi nastri e seriche fasce di sgargianti colori. Un consimile drappeggio dispongono per tutta la camera; e talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d’acqua, e addobbata con pampini di vite e con verdi fronde di altri alberi; ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito, e presso di queste i tarantati eseguono la danza, palesando di trarre da esse, come dal resto dello scenario, il massimo diletto. Quei drappi, quelle fronde e quei rivoli artificiali essi vanno contemplando, e si bagnano mani e capo al fonte: tolgono anche dal tino madidi fasci di pampini, e se ne cospargono il corpo interamente, oppure – quando il recipiente sia abbastanza capace – vi si immergono dentro, e così più facilmente sopportano la fatica della danza.”[21]
  Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto:
“Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un’estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da’ varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d’inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie.
Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajate per terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell’entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle.
Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell’acqua, ciò che dicevano Spupurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “[22]
  La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo.[23] La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l’ Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest’ultimo termine l’usanza di ballare presso sorgenti d’acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross:
“Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.
Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.[24]
  Albero millenario Leucaspide (disegno Carlo Orsi) dal testo di Janet Ross
  Antoine Laurent Castellan, riportando osservazioni sul tarantismo compiute durante un suo viaggio a Brindisi nel 1897, scrive:
“Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci.”[25]
illustrazione dal testo di Antoine-Laurent Castellan Lettres sur l’ Italie (1819)
  Sempre in un contesto di fine Ottocento, anche il manduriano Giuseppe Gigli riferisce della presenza di acqua durante i balli:
“Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E’ una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio!”[26]
  Esula dal tema di questo scritto l’occuparci in modo approfondito degli altri dettagli tipici dell’ambiente del rito domiciliare, tuttavia ne faremo un accenno, per completezza espositiva: come ci ricorda il De Martino, altri oggetti rituali sono le spade per il combattimento rappresentato durante la danza, gli specchi (nei quali i tarantati di tanto in tanto si contemplavano),[27] i nastri multicolori, i drappi, e fazzoletti, scialli, monili con i quali spesso le tarantate si adornavano.
Un ruolo particolare come abbiamo evidenziato più volte lo avevano anche le fronde e i rami degli alberi (una delle funzioni di questi addobbi posti nelle case dove si svolgeva il rito, era, secondo il De Martino, quella di ricostruire l’ambiente arboreo (insieme a quello acquatico), erbe varie, e/o, come riferisce Anna Caggiano a proposito dei tarantolati tarantini, vasi con piante vive. Nella descrizione della Caggiano, ritorna (e siamo già nel 1931) l’acqua:
“tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [28]
  Le piante poste a “decorazione” dell’ambiente del rito, secondo alcune interpretazioni fungevano anche da stimolo olfattivo, ai fini di una sorta di aromaterapia: è lo stesso De Martino a dedurlo e specificarlo,[29] anche se non specifica che molte di esse, e in particolare quelle che vengono nominate nel passo della Caggiano, nella medicina antica erano impiegate come rimedio specifico contro i veleni e contro i morsi di animali velenosi (ma affronteremo questo tema in altro scritto).
La “cura con l’acqua” (per i morsi delle tarantole, degli aracnidi e degli animali velenosi in genere) sia con l’acqua dolce che con l’acqua di mare, risale alla medicina antica (abbiamo già accennato a Dioscoride), e viene indicata come rimedio specifico sino ai tempi della letteratura medica ottocentesca, e difatti scrive nel 1859 il medico Achille Vergari:
“In certi luoghi la stufa secca forma l’unico mezzo curativo de tarantolati. I bagni d’acqua calda possono adempiere al la stessa indicazione. Si crede che l’acqua di mare sia meglio per più ragioni. […] Quando forti dolori vessano i tarantolati, conviene l’ uso dei bagni d’acqua calda, le stufe secche, e le vaporose. Quindi Mercuriale sull’avviso di Avicenna e di Aezio diceva, che gli avvelenati dalle tarantole con dolori deggiono essere posti ne bagni (Merc. de morbis venenosis. L. Il. C.V. p.39.)” [30]
  Dunque i bagni nell’acqua (e spesso nell’acqua calda) costituiscono un rimedio e una usanza di tipo strettamente medico contro i veleni, sin dai tempi antichi, e si ritrovano, come abbiamo accennato e come vedremo più avanti, nelle prescrizioni di Dioscoride (I sec. d.C.), Rufo di Efeso (I – II sec. d.C.), Aezio (VI sec.), Avicenna (980-1037), Girolamo Mercuriale (1530-1606), Andrea Mattioli (1501-1578), Ambrogio Parco (XVI sec. anche costui) fino alla medicina ottocentesca.
La medicina popolare, come noto, è fortemente intrisa di conoscenze sia empiriche che nozionistiche, trasmesse e accumulate oralmente attraverso la tradizione, nei secoli, e provenienti, in genere, dalla medicina più antica. Ad una cura contro i veleni a base di balneazioni nota e praticata da millenni, si aggiunge, nel rituale del tarantismo, la musica come complemento, contenimento e rimedio ad uno stato di eccitazione motoria provocato dal veleno (reale o immaginario che fosse), che gradualmente va a soppiantare totalmente la cura balneare (della quale tuttavia restano residuati o reminiscenze simboliche inserite nel rito terapeutico domiciliare).
Come abbiamo anticipato, anche Dioscoride individua i bagni nell’acqua come rimedio contro i veleni. Nelle indicazioni del medico greco si ritrova, fra i vari rimedi, come indicazione per la cura degli avvelenamenti in genere, il bagno in acqua calda. Ma come vedremo più avanti, il Dioscoride indica proprio nei bagni dell’acqua di mare il rimedio specifico per punture di ragni e scorpioni.
La cura per i morsi di animali ritenuti velenosi tramite l’ acqua (in questo caso di sorgenti, aventi anche la caratteristica di essere “calde”) era praticata anche nella Sardegna di alcuni secoli fa. In un manoscritto anonimo (intitolato “Delle tarantole”) della fine del XVII secolo – inizi XVIII, edito da Crsec Galatina si legge:
“La Tarantola solfuga, che nasce nell’ isola della Sardegna, ha pure di proprio li sovradetti sintomi, il nome di Serpente, ed il suo veleno ha per controveleno i medesimi medicamenti; afferma Giulio Salino, famosissimo ed antichissimo scrittore, nelle sue Istoriche descrizioni del Mondo, dove tratta dell’Isola di Sardegna: «la Sardegna è priva di serpenti, vi è soltanto, in vari luoghi nei campi della Sardegna, la “solfuga”, insetto molto piccolo privo di ali, simile ai ragni; è chiamata “sol fuga” poiché evita la luce e preferisce stare nelle miniere d’argento: si muove in modo poco visibile e, se uno senza vederla le si siede sopra, ne è morso»; e poco dopo, parlando del modo di curare questo veleno, soggiunge: «in alcuni posti vi sono sorgenti molto calde e salutari, che sono medicamentose: saldano le fratture ossee, annullano gli effetti del veleno della “solfuga” o quelli di punture di varie piante e animali».[31]
  Lo stesso Epifanio aveva parlato della Solfuga e delle fonti di acqua risanatrice:
“Quante sono le specie di ragni? Rispondo che noi troviamo 21 specie, infatti oltre le diciassette enumerate sopra, secondo le Storie delle Indie di Oucto, libro XV, cap. 3, c’è un’altra specie di tarantola che prospera a Ispaniola, isola del Nuovo Mondo, che è tanto grande da gareggiare col cancro gigante, della quale fino ad oggi non abbiamo nessuna conoscenza diretta. La diciannovesima è quella che secondo Solino e Isidoro, cap. 2, libro XI, si chiama solfuga e vive in Sardegna. È una specie di ragno e odia la luce, per questo di chiama solfuga; con il suo morso procura all’uomo un danno mortale, ma la natura o Dio Ottimo Massimo, per non lasciare niente senza uguale, ha prodotto lì delle fonti, la cui acqua bevuta da chi è stato morso funge da bezoartico”[32]
  La Solfuga o Solìfuga cui fanno riferimento questi autori, nonostante il nome generico e improprio, è da identificarsi nel Latrodectus tredigimguttatus, il ragno il cui morso sta probabilmente alle origini delle credenze sviluppatesi attorno alla “tarànta”, al suo veleno e ai sintomi del suo morso, e che ha un suo corrispettivo mitico-rituale nell’ Argia sarda.[33]
Tornando al ruolo dell’acqua, un cenno va fatto anche all’acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l’idea che l’acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno:
“Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell’ annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de’ pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all’acqua di Manduria“. [34]
  Nel Dioscoride del Mattioli si legge:
“Dell’acqua marina. […] E’ veramente salutifera alle punture velenose, specialmente degli scorpioni, di quei ragni che si chiamano phalangi, e degli aspidi, i quali inducono tremore, e frigidità nelle membra: il che fa anchora entrandosi in essa calda”.[35]
  Ancora, Il Mattioli cita Aezio, medico bizantino del VI secolo, scrivendo:
“Dei segni universali dei morsi dei Phalangi, e parimenti della cura, scrisse complicatamente il medesimo Aezio nel luogo sopradetto, così dicendo. […] si causa frigidità nelle ginocchia, ne i lombi, nelle spalle: aggravasi alle volte tutto il corpo: i dolori punto non cessano, il sonno si perde, e fassi la faccia non poco pallida, e smarrita. In alcuni nasce nella verga non poco stimolo del coito, con prurito di testa, e di gambe: fanno gli occhi lacrimosi, torbidi, concavi: il ventre inegualmente si gonfia, e gonfiasi oltre a ciò tutta la persona, la faccia, e massimamente quelle parti, che sono intorno alla lingua, di modo che non poco impediscono la loquela. Sono alcuni pazienti, che non possono orinare, quantunque n’habbiano desiderio, se non con dolore: e quantunque pure orinino, fanno l’orina acquosa, nella quale si veggono alcune cose simili alle tele dei ragni: il che similmente si vede nei vomiti loro, e nelle feccie, che vanno del corpo. Messi i pazienti nell’acqua, s’alleggeriscono d’ogni dolore: ma come se ne vengono fuori, si dogliono non pco nelle parti vergognose, e lor tira la verga fuori di modo, come che ne i vecchi intervenga tutto il contrario perciocchè in loro quelle membra del tutto si rilassano. […] Giovano ne i morsi di tutti i continui bagni […]”.[36]
  Successivamente il Mattioli parla anche della cura del “veleno delle tarantole” “con la musica dei suoni, e col lungo ballare”[37] ma risultano particolarmente interessanti le citazioni di cui sopra, per capire come tutta la sintomatologia attribuita al morso e al veleno dei “falangi” non solo abbia un riscontro in quella che nel Salento è attribuita al morso della “tarantola” (nome generico dato a un non meglio identificato ragno: non è assolutamente detto che ci si riferisse alla Lycosa piuttosto che non al Latrodectus oppure a tutte le specie di ragni più o meno velenosi), ma soprattutto che sin dall’antichità i bagni e l’acqua (e in particolare l’acqua calda e l’acqua marina) sono considerati strumenti terapeutici al fine di contrastare gli effetti del veleno.
Continuando con le citazioni sugli elementi acquatici nel rito e nel ballo, facciamo alcuni cenni sulla presenza costante dell’acqua e del mare anche nelle canzoni: a parte i numerosi versi che parlano di malinconiche storie d’amore (in genere perduto) e d’attesa in cui son presenti mari, naufragi, partenze per mare, almeno due canti in particolare sembrano delineare o quantomeno rievocare il quadro del rituale acquatico. Uno è quello pervenutoci tramite il De Simone, l’altro ci perviene tramite il Kircher. Il primo:
Mariola Antonia! Mariola te lu mare!
Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !
Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,
maccaruni de Simulà.
(nota del De Simone): “… la tarantata risponde, esclamando”:
Ohimme! Mueru! Canta! Canta!
  Il canto “allu mari”, citato dal Kircher nel Magnes sive, è ripreso anche dal De Martino:
Allu mari mi portati,
se volete che mi sanati!
Allu mari, alla via!
Così m’ama la donna mia!
Allu mari, allu mari:
mentre campo t’aggio amari!
  Come abbiamo già visto, Epifanio Ferdinando nel 1621 ci fa sapere che i tarantati amavano udire il nome del mare, e “canti che narravano episodi in cui aveva parte il mare”[38] : “tarantati gaudent audire nomen maris, et cantilenas de mare mentionem facientes”.[39]
In conclusione, l’elemento acqua ricorre sin dall’antichità come cura specifica per i morsi di una serie di animali ritenuti velenosi, così come anche nelle forme e nei riti più antichi ascrivibili al tarantismo.
Il rituale dell’acqua non solo è, dunque, antichissimo e precedente, nella cura del tarantismo, a quello domiciliare (che tuttavia ne conserva elementi come la presenza di tinozze o bacinelle), ma ha evidentemente una origine e una motivazione prettamente “medica”: sin dall’antichità si ritiene che i bagni in acqua, e specie nell’acqua del mare, giovino e siano rimedio alle morsicature da aracnidi e altri animali velenosi o ritenuti tali.
Antidotum Tarantulae, dal Magnes sive de magnetica arte (1644)
  NOTE
[1] Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, Venezia, 1581, V, pag. 171; vedi anche Ernesto Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 127
[2]            Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; qui De Martino traduce e riassume da Athanasius Kircher, Magnes sive de Arte Magnetica opus tripartitum, Colonia, 1643 (1a ed. Roma 1641), pag. 759
[3]            Epifanio Ferdinando, Centum historiae, Venezia, 1621, storia LXXXI “De morsu tarantulae”, trad. da Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002. Epifanio descrive anche altri comportamenti bizzarri, come quello dell’aggirarsi tra i sepolcri, del calarsi in una tomba e stendersi in un feretro in compagnia del defunto, ma anche di donne che mostrano i genitali, si strappano i capelli; riferisce di altri che cantano nenie, son tristi, desiderano essere dondolati in un letto pensile, altri che chiedono di essere ricoperti di terra fino al collo, altri che si rotolano per terra, altri che supplicano di essere frustati
[4]            Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pag. 64
[5]    Ibidem
[6]    Ibidem
[7]    Ivi, pag. 65
[8]    Ibidem
[9]    Ibidem
[10]  Ibidem
[11]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 129; cita qui Giorgio Baglivi, Dissertatio de anatome morsu et effectibus tarantulae, in Opera Omnia, Venezia, 1754; Dissertatio VI, pag. 314. Il De Martino, citando il Baglivi ed Epifanio Ferdinando, evidenzia anche l’utilizzo dell’altalena nel tarantismo antico, e più in generale di funi di sospensione appese agli alberi (nel rito domiciliare appese al soffitto) ricollegandolo (come del resto fa il Kircher) all’imitazione del comportamento del ragno che sta appeso ai fili della ragnatela oscillante al vento. La pratica dell’altalena è ritenuta dal De Martino parte integrante e originatasi dal rito all’aperto (nel duplice scenario arboreo ed acquatico):“La pratica dell’altalena, come è evidente, è legata all’esorcismo all’aperto, presso alberi e fonti; nell’esorcismo a domicilio si cercava di imitare lo scenario vegetale e acquatico e l’altalena si tramutava in una fune sospesa al soffitto, alla quale i tarantati si reggevano nel corso della loro danza...” (De Martino, cit., pag. 129)
[12]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 103
[13]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145
[14]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145. Qui il De Martino cita il Kircher, Magnes sive, pag. 768
[15]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; con citazione di Ludovico Valletta, De phalangio apulo, Napoli 1706, pp. 77 e sgg.
[16]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 92; cit. in Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128
[17]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 76
[18]  Francesco Serao, Della Tarantola o sia Falangio di Puglia, Lezioni Accademiche, Napoli, 1742, pag. 156. Sul farsi seppellire nella terra, citato in questo passo, vedi anche paralleli con il rito dell’argia sarda (in De Martino, op. cit. pag. 196): “L’esorcismo è effettuato a suonatori e ballerini, mentre l’avvelenato viene sepolto sino al collo nel letame o in una fossa ricoperta poi di terra, oppure lasciato al suolo in preda alla crisi: in quest’ultimo caso può aver luogo o meno la sua partecipazione al ballo”
[19]  Francesco Serao, op. cit., pp. 5-6
[20]  George Berkeley, Diario di viaggio in Italia (1717 – 1718), trad. it. a cura di Nicola Nesta, Ed. Digitali CISVA 2010, pp. 53-54
[21]  Nicola Caputi, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, 1741, pag. 201
[22]  Giovanni Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, pp. 64-65, Napoli, 1811
[23]  Janet Ross racconta di queste esperienze ella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.
[24]          Janet Ross, La Terra di Manfredi ( La Puglia nell’800), trad. I. Capriati, Tip. Vecchi, Trani, 1899, pp. 138- 140
[25]          Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pag. 82
[26]          Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto” Firenze 1893.
[27]  Nelle varie descrizioni e interpretazioni relative alla presenza degli specchi, questi oggetti vengono identificati come funzionali a una non meglio specificata auto-contemplazione, a volte specificamente interpretati come funzionali ad una sorta di auto-ammirazione narcisistica; da parte di alcuni autori si dice che nello specchio (e/o anche nell’acqua o nella bacinella d’acqua fungente da specchio) i tarantati “vedevano” la Tarantola che li aveva morsi, ma non è da escludersi una funzione dello specchio di tipo medico-diagnostico: nella antica medicina, difatti, lo specchio (e anche lo specchiarsi nell’acqua) era utilizzato per verificare il grado di avvelenamento e di malattia, e la compromissione delle facoltà del paziente. Nel Sesto Libro di Dioscoride del Mattioli, si legge: “Riferisce Avicenna, che quantunque temano i pazienti l’acqua, si può tenere nondimeno speranza di salute, pur che rimirando nello specchio, riconoscano se stessi. Il che dimostra, che si possa havere speranza di curare nel timor dell’acqua, quando il veleno non sia di tal forte confermato, che restino ancora i pazienti con qualche conoscimento” (Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, Sanese, Medico Cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia Medicinale, Venezia, 1573, pag. 947)
[28]  Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[29]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 131
[30]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, stamperia Società Filomatica, 1859,   pp. 34-35. Il Vergari prosegue citando anch’egli l’uso delle funi, ma in riferimento al morso della tarantola in Dalmazia: “Assicurava il Fortis « che nel Contado di Traù in Dalmazia i contadini che nella stagione ardente agir deggiono in campagna, sono soggetti frequentemente al morso della tarantola, Pauk nell’ idioma illirico; e che il rimedio che usano per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori dal veleno del pauk prodotti, si è il mettere gli ammalati a sedere sopra d’una fune non tesa, ben raccomandata tra due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore (Michelangelo Manicone, Fisica appula, vol. V pag 81. )” (Vergari, cit., pag. 35)
[31]          AA.VV., Sulle Tracce della Taranta, Documenti inediti del Settecento, Crsec Galatina, Crsec San Cesario – Regione Puglia, 2000, pp. 57-58
[32]  Silvana Arcuti, Epifanio Fernando e il morso della tarantola, Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pp. 43-44
[33]          Propriamente, con il termine Solifugae si intende, nella attuale classificazione, un ordine di aracnidi (peraltro non velenosi), e non già un genere e tantomeno una determinata specie. Tuttavia il Serao identifica, con una lunga dissertazione, la Solìfuga sarda con la “tarantola di Puglia” (Serao, op. cit., pp. 80-89); e Giovanni Spano, nel suo Vocabolario Sardu-Italianu (1851) riferisce che questo ragno è da identificarsi con la taràntola citata dal Berni nel suo Orlando innamorato (Francesco Berni Orlando innamorato, XLI, ottava 6, vv. 5-8; ottava 7, vv. 1-4 ), e, propriamente, con l’ Arza o Argia sarda ( Giovanni Spano, Vocabolario Sardu-Italianu, a cura di Giulio Paulis, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2004, pag. 110 e pag. 119). L’ Argia sarda altro non è che il Latrodectus tredigimguttatus, volgarmente detto malmignatta o anche vedova nera mediterranea.
[34]  Salvatore Pasanisi, Saggio chimico – medico sull’acqua minerale di Manduria, Napoli, Stamperia Nicola Russo, 1790, pp. 32 – 33
[35]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei Sei Libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo nella Materia medicinale, Venezia, 1573, V Libro, pag. 825
[36]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 958-959
[37]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 959
[38]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145
[39]          Epifanio Ferdinando, Centum historie seu observationes, Venezia, 1621, pag. 258
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Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (II parte)
Pubblichiamo i brani conclusivi dell’Introduzione alla Messapographia sive Historia Messapiae
  di Domenico Urgesi
Le fonti di Diego
[…]
Le fonti basilari di Diego sono anzitutto quelle classiche: gli storici greci, Erodoto, Strabone, Pausania, da lui citati sia direttamente che attraverso le riletture umanistiche; allo stesso modo si avvale di Plinio, Virgilio e Festo. Copiosi sono i richiami da autori umanistici; Leandro Alberti e Gabriele Barrio sono suoi punti di riferimento, specialmente nel libro I della Historia Messapiae, come anche Lamberto Ortensio e Biondo Flavio. Non mancano Pontano, Facio, Sabellico, D’Alessandro, anche se in maniera un po’ defilata.
Le fonti della classicità greca e latina ricorrono specialmente nei primi due Libri. Notevole, per la trattazione dell’epoca romana, sembra anche il ricorso alla Historia Augusta, altra opera enciclopedica i cui estensori sono citati e/o parafrasati.
Il Galateo
  Continui e insistenti i riferimenti agli umanisti salentini, soprattutto Antonio De Ferrariis detto il Galateo il cui Liber de Situ Iapygiae (1558) viene citato molto spesso oltre che parafrasato; nei suoi confronti, il nostro riconosce continuamente un’autorevolezza indiscussa, attestata anche dal corografo Abrahamus Ortelius, che ne stampa un brano nella carta geografica della Apulia quae olim Iapygia inserita nel supplemento (1573) all’atlante Theatrum Orbis Terrarum, pubblicato più volte ad Anversa a partire dal 1570; è lo stesso brano che Diego commenta nella parte iniziale del suo ms., quella dedicata alla descrizione naturalistica della Iapygia. All’autorevolezza corografica dello stesso Ortelius, Diego si richiama più volte.
Un posto speciale occupa Virgilio[1], sulla scia della lettura fattane da umanisti quali Biondo Flavio e Lamberto Ortensio, ma soprattutto da Auctores di età romana imperiale come Servio Mario Onorato, privilegiato mentore di Diego, di Giunio Valerio Probo, e di Ambrogio Teodosio Macrobio (il quale aveva contribuito a rendere l’opera virgiliana enciclopedica e a diffonderla enormemente). Molto verosimilmente, questi autori che avevano fatto di Virgilio uno dei massimi “sapienti” dello scibile umano mitologico, storico, religioso e filosofico, agli occhi di Diego legittimano la validità storica della mitologia classica. Accanto ad essi, però, non è da sottovalutare l’influenza dell’umanista Natale Conti, la cui Mythologiae sive explicationes fabularum libri X ebbe numerose edizioni tra la fine del ‘500 e la prima metà del ‘600[2]. Sembra mutuata proprio dal Conti, ampiamente citato da Diego, il suo forte richiamo alla mitologia; come per l’umanista, i miti pagani sono completamente assorbiti da Diego all’interno della sua assoluta fede cristiana, alla quale sono ricondotti.
Epifanio Ferdinando
  Tra i Salentini, oltre al De Ferrariis, molto citato è l’amico e collega del padre Epifanio, Girolamo Marciano (1571-1628); sono anche conosciuti e citati, elencandoli qui in ordine cronologico, Antonello Coniger (XV-XVI sec.), Quinto Mario Corrado (1508-1575) e Iacopo Antonio Ferrari (1507-1588), come pure Giovan Battista Casmirio (XVI sec.) e Giulio Cesare Infantino (1581-1636), la cui opera (a noi nota come Lecce sacra) è citata come “Sacrarum Lupiarum”. Varie volte Diego attesta le sue affermazioni con l’autorevolezza del padre Epifanio.
Ad eccezione della Lecce sacra, pubblicata nel 1634, le opere di Marciano, Coniger, Casmirio e Ferrari, rimasero inedite per lungo tempo; ma, evidentemente, Diego ne possedeva (o, almeno, ne aveva letto) i manoscritti circolanti al suo tempo. L’elenco in ordine cronologico può essere utile: la cronaca del Coniger (Recoglimento de più scartafi de certe cronache moderne, et antiche de più cose, et rinuate le cose socesse in questa Provincia de Terra d’Otranto), databile al 1512, circolò manoscritta fino al 1700; la lettera del Corrado (Ad Cives Uritanos Oratio) è datata al 1561; la Epistola apologetica del Casmirio[3], databile al 1567, è stata pubblicata solo recentemente[4], ma circolava ms. ai tempi dell’autore; l’Apologia paradossica della città di Lecce del Ferrari (opera ultimata nel 1586[5] ma, benché pubblicata soltanto nel 1707 in Lecce, anch’essa era nota ai contemporanei essendo circolata ms.); la già citata opera (s.d., ma ante 1628) del Moricino (1558-1628), ms. ben noto ai tempi dei Ferdinando e che troverà solo nel 1674 la necessità di essere pubblicata (ma plagiata) dal Della Monaca; la Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto[6] (s.d., ma ante 1628) del Marciano, anch’essa circolata ms. ai suoi tempi. Sul Marciano, in particolare, bisogna rilevare che questo autore è continuamente citato e parafrasato da Diego, a volte esplicitamente, ma più spesso implicitamente.
Innumerevoli i richiami, quasi sempre espliciti, a Giovanni Giovine, Giovanni Antonio Summonte, Marino Freccia, Pandolfo Collenuccio, dalle cui opere Diego attinge notizie e considerazioni in continuazione; meno citati Tommaso Costo e Angelo Di Costanzo. In un’ottica comparativa, alla luce delle notevoli differenze ideologiche e di impostazione storiografica, nonché della loro differente dipendenza dal loro specifico contesto politico, sarebbe da approfondire quanto di codesti Auctores Diego condividesse, e fino a qual punto. Anche perché Collenuccio, Di Costanzo, Costo, Summonte, Freccia, ecc., sono i capostipiti di varie tendenze (filo-angioina, filo-aragonese, antispagnola) che saranno proposte tra XV e XVIII secolo, sulla cui fortuna utilissime sono le considerazioni di autorevoli studiosi quali Aurelio Musi[7] e Antonio Lerra[8] (che qui accenniamo solamente).
Peraltro, un altro illustre studioso, Angelantonio Spagnoletti, sottolinea che «… la ricostruzione della memoria municipale nel Regno di Napoli è organizzata su elementi facilmente riconducibili ad un unico modello: la fondazione eroica e leggendaria della città, la vita del santo protettore, il rinvenimento miracoloso del suo corpo, la costellazione di chiese e di edifici sacri, la cronotassi episcopale…»[9].
Questi autorevoli studiosi hanno, dunque, messo in evidenza il trasferimento agli storici-cronisti-storiografi locali di temi e modelli afferenti ai capostipiti napoletani, quali l’insistenza sui miti di fondazione di origine greco-romana, il tema della fedeltà, la dinamica del potere locale, il peso dell’agiografia, l’emergenza dell’antispagnolismo[10].
Troviamo questi temi in Diego Ferdinando, ma in una miscela del tutto particolare, in cui non sembra prevalere nessuna delle tendenze citate; insistente è, invece, il tema delle origini (incentrato sui Messapi) insieme a quello agiografico (incentrato su S. Eleuterio). La dinamica del potere è accennata nel ricordo della vicenda del pallio, ma soprattutto nel richiamo meticoloso ai privilegi[11] che Mesagne aveva ereditato dai sovrani angioino-durazzeschi, puntualmente elencati da Diego, teso a rivendicare alla propria patria l’antico status di città demaniale.
Ricorre spesso l’utilizzo di fonti ecclesiastiche come Eusebio di Cesarea e Lattanzio, il Venerabile Beda, S. Epifanio, Henschenius, ma soprattutto S. Agostino (il Doctor Gratiae), un epigono del quale, il monaco agostiniano Jacopo Filippo Foresti alias Eremitano, occupa un posto privilegiato nella narrazione del Ferdinando. Ma occorre aggiungere anche un’altra considerazione, più generale e complessiva: dalla narrazione di Diego emerge una Puglia incessantemente battuta da eserciti stranieri e da sciagure naturali; una narrazione che sembra ricalcare l’impianto degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, altro suo Auctor prediletto; considerazione che emerge da un sommario confronto tra l’intitolazione di alcuni capitoli del Baronio e di Diego e che meriterebbe, forse, un maggiore approfondimento. Il Martirologio del Baronio (presumibilmente nell’edizione del 1620), in particolare, fu la sua fonte privilegiata per attestare il martirio di S. Eleuterio a Mesagne; e Diego gli rimase fedele anche dopo la revisione fattane nel 1630 da Urbano VIII. Bisogna, però, notare che il Martirologio Urbaniano non chiuse definitivamente la questione del martirio di S. Eleuterio; tant’è che, ancora nel 1660, troviamo affermata, sebbene in maniera critica, la versione del martirio mesagnese in un Martirologio Agostiniano[12].
[…]
Altro autore utilizzato da Diego fu Cieco da Forlì, alias Cristoforo Scanello, autore di una Chronicha universale della fidelissima, et antiqua regione di Magna Grecia, overo Iapigia divisa in tre parti, cioè di Terra di Otranto, Terra di Bari et Puglia Piana, stampata a Venezia nel 1575. La cronaca pugliese dello Scanello ebbe notevole successo, ma fu ritenuta poco autorevole già dagli studiosi dei secoli seguenti; la sua credibilità fu definitivamente demolita nel 1892 da Ludovico Pepe[13].
[…]
Per il periodo angioino-aragonese e quello del Viceregno, Diego si avvale del Summonte, del Giovine, di Paolo di Tarsia, di Paolo Giovio ed altri (compreso il Mannarino), ma soprattutto dei protocolli notarili, dei Tavolari, del “libro dei privilegi[14], conservato in Archivio” come dice lo stesso Diego (ossia il cosidetto “Libro Rosso”), dai quali trae e mette in risalto i numerosi e preziosi diritti concessi specialmente dagli Angioini, dai Durazzeschi e poi da Ferrante e suoi successori.
Nei due capitoli finora ignoti (Sepulchra ed Inscriptiones), i riferimenti sono soprattutto a Luciano di Samosata e ai Manuzio, Paolo e Aldo il Giovane. Nel capitolo sulle epigrafi mesagnesi, Diego espone quelle tramandate sia dal padre Epifanio che da lui viste, e si cimenta nella interpretazione del loro significato, anche per spiegare le incongruenze tra alcune versioni. In verità, alcune epigrafi erano state già pubblicate da Aldo il giovane, sulla base di comunicazioni inviate ai Manuzio da Quinto Mario Corrado (e da Giovanni Antonio Paglia), molto prima che se ne occupassero sia Epifanio che Diego Ferdinando. La vicenda ingenerò un po’ di confusione, poi perpetuata fino a Diego; un nostro supplemento di indagine[15] ha consentito di ricostruirne in parte i contorni (ma ne diamo un accenno nel relativo commento a pié di pagina, nella traduzione).
Uno sguardo particolare merita la polemica insistente (ma espressa cortesemente) che Diego propone nei confronti di Giovanni Maria Moricino[16], l’autore dell’opera Dell’Antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino, filosofo e medico dell’istessa città, descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604. Una copia di tale opera, di cui l’originale fu disperso, è custodita in Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi: ms. D/12, trascrizione datata al 1761. Essa fu pubblicata nel 1674 dal plagiario Andrea Della Monaca col titolo Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi.
Il Moricino era un medico e filosofo discendente da famiglia veneta, nato nel 1558, morto nel 1628; nel periodo 1604-1605 ricoprì la carica di Sindaco a Brindisi, mentre nel 1613 vi risultava Auditore[17]. Oltre che a Brindisi, visse anche in Mesagne, dove insegnò retorica, logica e geometria a Epifanio Ferdinando; molto probabile, quindi, che una copia del ms. del Moricino fosse stata nelle disponibilità della famiglia Ferdinando. Evidentemente, per poterlo contestare, Diego ne leggeva il manoscritto; e, ad onor del vero, in molti casi ne riconosceva la piena validità. Perché, allora, questa polemica? Quasi certamente, la possiamo capire leggendo ciò che Moricino scrive a carta 16v del suo citato ms.:
[…] Nel che non posso fare di non ridere la vana pretendenza di coloro che pretendono Misagne, picciola Terricciola distante da Brindisi otto miglia, esser Messapia Regia de’ Re Messeni e Capo de Salentini…
[…]
Il contenuto dell’opera
Anzitutto, il confronto storiografico di Diego con la bibliografia e gli studi storici di oggi sarebbe impari; pertanto, nell’edizione critica ci siamo limitati a segnalare gli studi e le ricerche storiche ed archeologiche più autorevoli. Risulta molto più proficuo, invece, metterlo a confronto con la bibliografia dei suoi tempi, sia per capire quali, e di quale tipo, fossero le sue fonti, sia per mettersi in sintonia col suo modo di pensare.
Un breve accenno (ma l’argomento meriterebbe un discorso a parte) alla forma linguistica del codice 1655: il latino di Diego è fatto di lunghissimi periodi, spesso scoordinati, circonvoluti, “torrenziali”, colmi di termini abbreviati; si ha l’impressione di leggere un “racconto orale”; e, forse, l’uso sfrenato delle abbreviazioni, alcune delle quali sembrano inventate proprio da lui, tanto sono inusuali e ardite, è funzionale all’incalzare del racconto. La traduzione ha cercato di essere fedele non solo nella lettera, ma anche nello stile, al testo dell’autore; ma, soprattutto, ha cercato di rendere pienamente il significato di ciò che Diego intendeva esprimere. Compiti non semplici, tant’è che soltanto dopo essere entrati in sintonia con il suo pensiero, è stato possibile individuare i sinonimi più adatti a rispecchiarlo. È utile, mi pare, segnalare l’utilizzo (non eccessivo, tutto sommato) di termini ed espressioni dialettali e pure in volgare, quali “vuttisciana”, “girator di paese”, “porta picciola”, “de corpo a corpo”, “adaquatione”, “porta nova”, “porta di Rusci”, etc., che è oggetto di uno studio in corso di stampa[18]. Interessanti, anche, le numerose varianti latine e vernacole del nome di Mesagne.
Ciò premesso, riassumere quest’opera in poche frasi è impresa titanica, se non risibile. A mio modesto parere, tuttavia, qualche breve considerazione sul suo contenuto è necessaria, per potercisi orientare. Se quello che abbiamo prima appena accennato è l’orizzonte culturale nel quale si muove Diego, sembra di poter affermare che il suo è un terreno piuttosto campanilistico, benché supportato da una vastissima erudizione. Ma, d’altronde, il campanilismo del Ferdinando non è poi tanto esagerato, se solo si mette la sua opera a confronto con quelle (del ‘500 e ‘600) di altre città meridionali, in particolar modo quelle calabresi ricordate da Francesco Campennì[19], in cui sembrano persistere le antiche contrapposizioni tra le varie colonie magnogreche, che riemergono più o meno consapevolmente addirittura in epoca seicentesca: si vedano, in particolare, le contrapposte storie municipali di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia[20]. Nel nostro caso, la contrapposizione è quasi a tutto campo, pur in forme erudite, tra la (presunta) centralità mitologica e religiosa di Mesagne e le circostanti città.
In realtà, quello che Diego esplora e approfondisce è un terreno che in area salentina era stato già solcato dal Casmirio, dal Ferrari, dal Moricino, dal Marciano.
Come per costoro, anche il Ferdinando si ispira sostanzialmente ad una linea storiografica che, nel Mezzogiorno, parte dal Galateo e fa il paio con il De antiquitate et situ Calabriae (1571) di Gabriele Barrio. Le vicende dei popoli italici precedenti la civiltà romana sono lette dagli studiosi ed eruditi locali vissuti tra umanesimo ed età moderna, come il fenomeno culturale che fornisce gli specifici caratteri identitari costitutivi di una “nazione”. Così, Diego fonda l’identità della sua città, Mesagne, sulle memorie della “nazione messapica”, che tenta di definire, descrivere ed illustrare sulla base delle fonti di cui poteva disporre, quelle letterarie innanzitutto; a queste aggiunge, poi, le scarne fonti archeologiche che andavano emergendo nel periodo burrascoso del primo ‘600.
[…]
Diversamente dal Mannarino, è del tutto assente, in Diego, qualsiasi intento encomiastico di signori o feudatari coevi o passati; e, mentre Mannarino esalta la Misagne felix, in Diego risulta vano cercare un minimo accenno alla Mesagne reale dei suoi tempi, fatta eccezione per i ritrovamenti archeologici. La celebrazione di Mesagne era, per il primo, funzionale alla benevolenza (per sé e per la città) del feudatario Giovanni Antonio Albricci; mentre per Diego sembra fine a sé stessa, funzionale alla dimostrazione della magnificenza di Mesagne nei confronti di chicchessia.
[…]
Tuttavia, benché scarna, l’attenzione di Diego ai suddetti temi indica (e conferma) la consapevolezza, negli osservatori seicenteschi, dell’autonomia riconosciuta alle autorità comunali di Terra d’Otranto dai sovrani angioini e aragonesi e non da quelli spagnoli (nel sistema neo-feudale), come è stato messo in evidenza da vari recenti studi[21]. Probabilmente, non è senza motivo la puntualità archivistica che a tratti ritroviamo in questa Messapographia: sarà da illuminare nel quadro delle dispute e delle alleanze che sorsero tra l’Università di Mesagne, il potere baronale, quello ecclesiastico e quello Vicereale, un campo di ricerca che merita di essere ulteriormente e sistematicamente solcato[22].
L’intento programmatico, che oggi definiremmo ideologico, di Diego non è dichiarato (ma ce n’era bisogno?); tuttavia, rifulgono chiaramente due obiettivi: ─dimostrare che Mesagne fosse stata Messapia capitale dei Messapi; ─dimostrare altresì una forte preminenza cristiana di Messapia-Mesagne, in quanto sede del martirio di S. Eleuterio, posto cronologicamente nell’anno 121 d.C., secondo i ragionamenti logici di Diego. Da ciò derivano le due caratteristiche fondamentali di quest’opera: la valorizzazione della “nazione messapica” e l’apologia di S. Eleuterio, confluenti entrambe nella grandezza di Mesagne. Mentre rispetto al secondo punto, l’accostamento della storia cittadina a quella del santo patrono non è una caratteristica rara né in Terra d’Otranto, né in tutto il Mezzogiorno, riguardo al primo punto, invece, Diego è l’unico scrittore di storia municipale, nel Seicento salentino, ad illuminare la propria città sulla base di una storiografia messapica.
  Diego Ferdinando e il Patronato di S. Eleuterio
Tali impostazioni risultano oggi plasticamente erronee; ma non erano assolutamente errate per Diego, e neanche per i suoi contemporanei, se è vero che nei documenti notarili ed ecclesiastici del suo tempo, Mesagne veniva indicata come Messapia (e ciò, in verità, fin dalla metà circa del ‘500). E Messapia veniva, pure, indicata la città nella epigrafe[23] incisa sul frontone del primo ordine della Chiesa Matrice riedificata, che reca la data del 1653. E le statue di S. Eleuterio, con Anzia e Corebo, erano e sono scolpite sul portale maggiore di detta chiesa (ma con un S. Eleuterio stranamente simile alla classica iconografia di S. Oronzo). Se, oggi, l’apologia di S. Eleuterio non ha più alcun senso, non era così nella mentalità (1655) dell’autore mesagnese; ma non era così, evidentemente, anche per i fedeli mesagnesi. Messapia e S. Eleuterio erano strettamente vincolati a costituire la base identitaria dei mesagnesi, come avvenuto in molte altre città salentine[24]. Erano così vincolati, che le statue dei tre Santi furono poste sul portale maggiore, affianco alla epigrafe inneggiante a Messapia, col Santo Eleuterio centrale e imponente, nonostante che la nuova chiesa, appena riedificata, fosse stata intitolata ad Ognissanti, mentre prima era intitolata ai tre Santi, come dice lo stesso Diego in questo ms., e come sarà poi ricordato (nel 1744) dall’Arciprete Moranza (vedi appresso).
Sul culto mesagnese di S. Eleuterio vi sono precedenti studi, ai quali rinviamo[25]. Ma questa, finora ignorata, insistenza di Diego sul presunto martirio mesagnese di S. Eleuterio apre nuovi squarci. Il legame che Diego stabilisce tra la Città ed il “suo” martire sembra ricondurre all’importanza della “parentela” col santo martire, dalla quale deriverebbe una concittadinanza (ossia parentela col sacro)[26] che da sola sarebbe bastata a dare sicurezza e preminenza alla città di Mesagne.
[…]
Da alcune carte nell’Archivio Capitolare di Mesagne, anzi, possiamo forse capire le motivazioni più profonde alla base della lunga dissertazione su S. Eleuterio. Sappiamo che Diego, divenuto sacerdote dopo la morte della consorte, fu accolto nel Capitolo nel 1648[27]. Mentre la nuova chiesa era in costruzione (essendo crollata il 31 gennaio 1649), fu perorata – su iniziativa della Civica Università – l’attribuzione effettiva del patronato alla Madonna del Carmine. Cosicché il 30 aprile 1651, il Capitolo della Chiesa Collegiata, «come in virtù del decreto et Bolla di Papa Urbano di felice memoria», preso atto che la Civica Università di Mesagne aveva «pigliato ed accettato ad Avvocata et Protettrice la gloriosa Vergine Santa Maria del Carmine acciò a suo tempo se ne celebri et solennizzi la festa in conformità di quello che s’ordina nelli detti Decreti pontifici», diede il proprio «consenso a quanto da detta Università era stato conchiuso […] nemine discrepante [corsivo nostro]»[28]. […]
Peraltro, rispetto ad altre Conclusioni Capitolari, questa sembra piuttosto sbrigativa, e il Capitolo, dal numero dei partecipanti – per essere un evento eccezionale – non sembra neanche molto affollato: solo una trentina sui circa 50 titolari. Sembrerebbe quasi che i religiosi capitolari non fossero molto entusiasti. Comunque, tra i Preti, Canonici e Presbiteri partecipanti a detta riunione del Capitolo mancava proprio Diego Ferdinando. Sorge il dubbio che la sua assenza non fosse casuale; che, cioè, Diego non condividesse l’operazione e non avesse partecipato per “motivi di opportunità”.
[…]
Tale dubbio è corroborato da un’altra Conclusione capitolare[29], in cui risulta che, nel mese di aprile del 1660, nel Capitolo (presenti, questa volta, oltre 50 religiosi) si discusse, fra l’altro, una precedente proposta di Diego, che fu accolta:
[il R.do Bartolomeo Leonardo Sasso…] Inoltre propone che il Dr. Fisico D. Diego Ferdinando per rinovare la venerazione de’ Nostri S(an)ti Eleuterio, Corebbo et Antea ne havea fatto fare un Quadro Grande, e desiderava che detto R.do capitolo gli concedesse una cappella per collocarlo, offerendo ducati 100 di capitale a detto Capitolo con obligo di messe e desiderava ancora che l’istesso R.do Capitolo insieme con l’Univ.(ersi)tà comparissero nella Sagra Congregazione in Roma per ottenere che detti s(an)ti ci siano concessi per Compadroni con la Beatissima vergine del Carmine e da tutti parimente fu concluso che citra preiudicium dell’altre concessioni di cappelle che si faranno per essere detto Sig. D. Diego benemerito di Capitali si concedesse detta Cappella [— —] se gli darà l’assenzo di Mons. Ill.mo Arcivescovo e che per l’avvenire non s’intenda con ciò fatto pregiudizio nelle concessioni che si faranno con sì poca somma e gli fu concessa la Cappella all’incontro di quella dov’è collocato il Quadro del S.(acro) Monte che è la 3a à man dritta in ord(in)e nell’entrare dalla Porta Magg(io)re della Chiesa et andare al Presbiterio e che si supplicasse in Roma per ottenere la d(ett)a Compadronanza a spese del med(esi)mo Sig. D. Diego.
Con questa decisione, dunque, fu accolta l’istanza di Diego di dedicare un altare a S. Eleuterio, come anche quella di chiedere alla sacra Congregazione dei Riti che Eleuterio, Antea e Corebo fossero elevati a Compatroni della Città, insieme con la Madonna del Carmine. Curiosamente, però, – sia detto per inciso – una precedente Conclusione Capitolare del 1658 ci informa che il Capitolo aveva accettato anche la nuova proposta dell’Università di proporre S. Oronzo quale protettore di Mesagne[30]. […]
Quanto all’istanza di Diego, non sappiamo se, e come, si sviluppò la perorazione della Compadronanza, ma l’altare di S. Eleuterio fu effettivamente realizzato, come risulta dalla Santa Visita svolta dall’Arcivescovo di Brindisi Francesco d’Estrada[31], che lo ispezionò il 18 ottobre 1660. Esso risulta pure nell’elenco degli altari dichiarati dall’Arciprete Antonio Moranza nel 1744, nella sua relazione consegnata all’Arcivescovo Antonino Sersale durante la Santa Visita[32]:
[…] L’altare di S. Eleuterio martire è della famiglia Ferdinandi, oggi ne tiene possesso il di loro erede il reverendo D. Diego cantore Baccone che ha il pensiero di provederlo di sacre suppellettili.
[…]
Tirando le somme, possiamo affermare che, per Diego Ferdinando, la magnificenza di Mesagne è soprattutto fondata sia sulle antiche (ma pretese) glorie messapiche che su quelle, religiose, dei proto-martiri Eleuterio, Antia e Corebo. Diego ritrova tali glorie nelle fonti letterarie, nei monumenti, nei documenti; i quali tutti attestano, nella sua concezione, che la magnificenza di Mesagne risaliva a ben prima della vendita della Terra di Misagne ai baroni (Beltrano nel 1522, Albricci nel 1591, De Angelis nel 1646). Sembra proprio questo il filo conduttore di tutta l’opera, sebbene non esplicitamente dichiarato.
[…] In conclusione, questa Historia Messapiae è una vera e propria miniera; scavandola ne possono venir fuori sassi, scorie, ma anche molti gioielli (e sono tanti). A tal proposito, segnalo soltanto alcuni brani interessanti:
Un gioco dei fanciulli con le monete
[carta 23r] «… Da ciò l’antica usanza dei fanciulli, ed il gioco di lanciare in alto i denari, e di presagire la sorte scegliendo o “testa” o “Nave”, genera in noi non poca fiducia nell’antichità. La moneta così contrassegnata, [come dice] Macrobio nel primo libro, capitolo 7 dei Saturnali, anche oggi è avvertita nel gioco dei dadi, quando i fanciulli, gettando in alto i denari, esclamano “Testa” o “Nave” in un gioco [che è] testimone dell’antichità».
L’Artopticus: La “frisa” ai tempi di Diego
[95v] «… quello che noi [chiamiamo] Arton, gli stessi Romani lo denominano Pane. Da ciò Artopta in Plinio nel libro 18, cap. 11, o Artopta in Plauto, [vocabolo] con cui chiamavano la donna fornaia, o il vasellame in cui veniva cotto il pane abbrustolito detto Artopticus».
La Vuttisciana
[carta 135v] «Da ciò [gli eruditi] sembrano spiegare la ragione di quella parola [vedi in appresso Vuttisciana], di cui ci serviamo non solo in Messapia, ma in tutta la Regione; vale a dire il giorno in cui non ci asteniamo per nulla dalle attività, poiché Giano, sia che fosse istruito da Saturno che accolse come ospite, oppure che fosse animato dal suo stesso genio e dalla [sua] saggezza, fu promotore dell’[attività] di piantare e seminare, e coltivare i campi la ragione, ed insegnò gli altri lavori per il vantaggio degli uomini, e per la coltivazione della terra. Perciò il giorno, in cui si fanno tutte queste cose, veniva chiamato Vuttisciana, vale a dire, “giorno di Giano”, o “ritratto [la personificazione] di Giano”.»
Il primo stemma di Mesagne
[carta 136v] «Inoltre, si vedrà l’effigie del Sole posta tra le spighe di frumento e scolpita su una pietra quadrata in una delle torri che, dal lato Meridionale, racchiudono le mura della nostra Città; e le spighe, poste sotto il Sole da entrambe le parti, che – si pensa – [siano] tra gli antichi simboli di Messapia [Mesagne], vogliono significare che anticamente i Messapi adoravano il Sole.»
Il castello Orsiniano di Mesagne
[205v] «Giovanni Antonio del Balzo Orsini […] A Mesagne, in verità, presso cui era solito recarsi spesso per via dell’aria più salubre e per diletto, costruì una Fortezza o grande Torre nei pressi del Castello vecchio [Castrum vetus] …».
[167v] «E, da una cerchia più grande, forse di tre miglia (da cui prima era recinta) fu ristretta ad una di un miglio, trincerata da fossati, mura, torri e munita di una Fortezza nel lato Boreale ed occidentale. Di questa Fortezza (che era chiamata Castello Vecchio [vetus Castrum]), la parte boreale, subìta la forza del tempo, crollò, ed il Principe dell’Avetrana volle abbattere negli anni passati <1630> la parte occidentale, in verità provvista di archi e fornici…».
Le distruzioni di Mesagne
[117r] «Soprattutto le Città di Messapia [Mesagne] e di Oria, che [si trovano] in mezzo all’Istmo tra Brindisi e Taranto, furono prese con la forza da Annibale e nel contempo date alle fiamme» [nel 212-211 a.C.];
[152v] Totila nel 547;
[166r] I Saraceni nel 914;
[239r-240r] I Francesi nel 1528-29.
Il contributo dei Mesagnesi alla difesa di Otranto dai Turchi, nel 1480
[222v] «Durante questa guerra, inoltre, che fu combattutta da parte loro contro i Turchi per riconquistare Otranto, i Cittadini di Mesagne pagarono cento fanti col pubblico denaro; e per i Viveri dell’Esercito inviarono molti moggi di farina, botti di vino e moltissimi animali, come leggiamo in alcune lettere Regie, che i Mesagnesi conservano. In esse, come dicono, il Re ordinò che i Cittadini di Mesagne non venissero afflitti da pagamenti straordinari, poiché [avevano dato] tutte queste cose di cui sopra …. [4 puntini di sospensione] <si vedano le lettere Regie in Archivio e se ne riportino esempi>».
Da rilevare, infine, il ricorso frequente all’etimologia (latina e greca), tanto per rafforzare i concetti espressi e/o argomentarli più compiutamente (emblematico il caso testé accennato di vuttisciana), quanto – invece – per escludere o confutare ipotesi e interpretazioni ritenute erronee. Ancora una volta, il nostro si avvale, per quelle che considera vere e proprie dimostrazioni, della letteratura specifica accreditata ai suoi tempi, tra cui Isidoro di Siviglia e Aldo Manuzio il Giovane (oltre che della propria vastissima erudizione). Sono spunti suggestivi, ovviamente; ma anche su questo specifico aspetto dell’opera di Diego Ferdinando, non c’è che da auspicare l’attenzione e il giudizio degli specialisti.
[…]
  Note
[1] Sulla ricezione di Virgilio in ambito meridionale, cfr. almeno F. Tateo, Virgilio nella cultura umanistica del Mezzogiorno d’Italia, in Atti del Convegno Virgiliano di Brindisi nel bimillenario della morte (Brindisi 15-18 ottobre 1981), Università di Perugia 1983.
[2] Cfr. almeno, V. Costa, Natale Conti e la divulgazione della mitologia classica in Europa tra Cinquecento e Seicento, in Ricerche di antichità e tradizione classica (a c. di E. Lanzillotta), Tored 2004, pp. 257sgg.
[3] Ms. D/8 in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[4] Iohannis Baptistae Casmirii, Epistola apologetica ad Quintum Marium Corradum, (a cura di R. Sernicola), edizioni Edisai, 2017.
[5] A. Laporta, Introduzione, in I. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce, Cavallino, Capone 1977, p. XIV.
[6] Ms. D/3, in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[7] A. Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria, Lacaita, 2004, pp. 13 sgg.
[8] A. Lerra, Un genere di lunga durata. Le descrizioni del Regno di Napoli, ivi, pp. 27 sgg.
[9] A. Spagnoletti, Ceti dirigenti e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi, Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2001, p. 37.
[10] Vedi soprattutto Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza…, cit., p. 20.
[11] Alcuni si sono fortunatamente salvati e si possono apprezzare in Storia e fonti scritte: Mesagne tra i secoli XV e XVIII: Documenti della Biblioteca Comunale «Ugo Granafei» (a c. di F. Magistrale, M. Cannataro, P. Cordasco, C. Drago, C. Gattagrisi, S. Magistrale), Fasano, Schena Editore, 2001.
[12] Vedi Martyrologium Romanum Illustratum Sive Tabulae Ecclesiasticae Geographicis tabulis et notis historicis explicatae…, Authore RP Augustino Lubin Augustiniano…, Lutetiae Parisiorum…, 1660, p. 180.
[13] L. Pepe, Il Cieco da Forli, cronista e poeta del secolo XVI, Napoli, Tip. dell’Accademia reale delle scienze, 1892.
[14] Il rif. è alla raccolta dei documenti, ovvero Libro Rosso, in cui erano trascritte le concessioni, esenzioni, etc., statuite dai Regnanti in favore delle città demaniali. Quello di Lecce, ad esempio, fu pubblicato da Pier Fausto Palumbo in due volumi, nel 1997 e ‘98. Quello di Mesagne, invece, fu disperso, o distrutto, e non ha avuto la fortuna di essere tramandato.
[15] D. Urgesi, Epigrafi latine da Mesagne nelle opere di Aldo Manuzio il giovane, in corso di stampa.
[16] Il medico-filosofo G. M. Moricino (1560-1628) era stato, per tre anni, insegnante di Epifanio Ferdinando per le materie di Retorica, Logica e Geometria. Vedi Profilo, Vie, piazze, vichi e corti…, cit., p. 243; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Rist. An. Bologna, Forni, 1972 dell’ed. Lecce, Pietro Micheli, 1674.
Per la sua bio-bibliografia, cfr. anzitutto Biblioteca Napoletana, et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno, delle famiglie, terre, città, e religioni, che sono nello stesso Regno. Dalle loro origini per tutto l’anno 1678. Opera del Dottor Nicolo Toppi Patritio di Chieti, in Napoli, appresso Antonio Bulifon All’insegna della Sirena, 1678, p. 349. Inoltre, cfr. almeno E. Pedio, Il manoscritto di Giovanni Maria Moricino e la Storia di Brindisi del P. della Monaca, in «Rivista Storica Salentina», VI, 1904, pp. 364-74; Dizionario biografico degli uomini illustri [ma chiari] di Terra d’Otranto, cit., pp. 375-76; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima …, cit; G. Jacovelli, Medici letterati brindisini tra 1500 e 1600, in «Brundisii Res», XV (1983), pp. 40-42.
[17] P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1529-1787 (a cura di R. Jurlaro), Brindisi, Ed. Amici della «A. De Leo», 1978, p. 75 e p. 87.
[18] F. Scalera, Dialettismi e volgarismi nella Messapographia di Diego Ferdinando.
[19] F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, in Il libro e la piazza…, cit., pp. 69 sgg.
[20] Ivi, pp. 87-93.
[21] Sull’argomento, vedi anzitutto M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 199 sgg., con la sua ampia bibliografia.
[22] Segnaliamo che una prima, fertile, incursione in codesto campo fu compiuta da Luigi greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. I: I sindaci, l’università, i feudatari, Fasano 2000.
[23] Emendata dagli errori del lapicida, così recita: IN HONOREM SANCTORUM OMNIUM COLLAPSUM MESSAPIA RESTITUIT MDCLIII.
[24] Cfr., in proposito, M. Spedicato, L’identità plurima: i santi patroni nel Salento moderno e contemporaneo, in «L’Idomeneo» n. 10 (2008), pp. 145 sgg.; Id., Santi patroni e identità civiche nel Salento moderno e contemporaneo, Galatina 2009, pp. 9-18.
[25] F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia al principio del secolo VII (an. 604), vol. I, Faenza 1927; G. Antonucci, Il martirio di S. Eleuterio, in Curiosità storiche mesagnesi, Bergamo 1929; L. Scoditti, S. Eleuterio e Mesagne (datt.), 1957; D. Urgesi, Una correzione all’iconografia mesagnese: Eleuterio, Anzia e Corebo non furono martirizzati a Mesagne, in Studi Salentini, LXX (1993).
[26] Interessanti, in merito, le considerazioni di F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 102.
[27] Cfr., per tutti, Profilo, Vie, Piazze…, cit., p. 95.
[28] Archivio Capitolare di Mesagne, Conclusioni Capitolari, Cartella R/2, anno 1651, 30 aprile; v. anche A. C. Leopardi, Il Carmine nella realtà mesagnese, Bari 1979, pp. 70-71; e T. Cavallo, Il Santuario della Vergine SS. del Carmelo e i Padri Carmelitani nella storia di Mesagne, Fasano 1992, p. 74.
[29] A. C. M., Conclusioni Capitolari, ivi, anno 1660, 10 aprile.
[30] Ivi, anno 1658, 6 ottobre.
[31] L. Greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. III: L’architettura sacra nella storia e nell’arte, Fasano 2001, p. 273.
[32] Ivi, p. 296.
  Per la prima parte leggi qui:
Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (I parte)
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Diego Ferdinando di Mesagne (?-1662), ovvero raramente il figlio d’arte supera il padre, per lo più nemmeno lo eguaglia (2/2)
di Marcello Gaballo e Armando Polito
Se Epifanio, come abbiamo visto nella prima parte, pubblicò quattro libri e un numero ben più grande di suoi lavori affidò a manoscritti da considerare tutti (non solo gli autografi ma pure le eventuali copie) perduti1 meno l’Antiqua Messapographia,  di Diego non solo non abbiamo opere a stampa ma di lui abbiamo solo un’opera manoscritta che lo lega strettamente al padre. Il De Angelis, infatti, nel citare nell’elenco delle opere manoscritte di Epifanio, a proposito della Messapographia, seu historia Messapiae aggiunge: Quest’opera fu accresciuta, e notabilmente illustrata da Diego suo figliolo2.
Lo stesso De Angelis ci dà passim altre notizie su Diego: A Giovanni Anselmo [fu il quinto dei dieci figli che Epifanio ebbe dalla moglie Giordana Longa. Anselmo visse dal 1609 al 1663] succedette in sesto luogo Diego, che oltre all’essere stato celebre nell’arte del medicare, fu ottimo Teologo, Storico, e Poeta. Dopo la morte di Margarita Geofila sua moglie, fattosi Sacerdote, menò sempre, mentre visse, vita incorrotta, ed illibata: e non solo per la sua dottrina, che per la bontà dei costumi, fu tenuto in grandissima stima da quanti lo conobbero. Morì a 13 di Maggio del 1662, per suppressione d’orina. Generò Diego con Margarita molti figliuoli, de’ quali (essendo morti gli altri in età puerile) sono oggi viventi Epifanio, mentovato di sopra nel principio di questa Storia3, uomo versatissimo in ogni sorta di scienze, e celebre nella medicina, per la quale vien riputato per uno de’ migliori, e più saggi del Regno di Napoli, e per la sapienza non meno, che per la bontà de’ costumi, vien chiamato il Socrate de’ Salentini: e Giacomo Antonio , Dottor di leggi, Cantore della celebre Collegiata di Mesagne, uomo anch’egli saggio, e tenuto in molta stima tra’ suoi.4
Il De Angelis non riporta per Diego la data di nascita che, comunque, dovette avvenire tra il 1609 (nascita di Giovanni Anselmo) e il 1614 (nascita di Giovanna, che occupa il settimo posto tra i figli).
Nell’anno 1635 [Epifanio] fu assalito da una gran difficoltà di respiro, la quale, avvegnacchè non fosse stata continua, lo rendeva però quasi inabile alla cura degl’infermi, al che supplivano Giovanni Anselmo, e Diego suoi figliuoli, i quali erano già addottorati in medicina, e sotto la condotta saggia del Padre avevano fatto in essa notabil profitto. Non mancava intantoil buon vecchio, comecchè continuamente afflitto, e travagliato dall’acutezza del male, dalle molte, e continue sue indisposizioni, e dall’età avvanzata, di assister loro col consiglio, e col sempre istruirli di cose nuove.5
Di Diego è rimasta una copia della rielaborazione dell’opera del padre, della quale ho dato ampia notizia nella prima parte. Questa copia, dovuta a più mani, è custodita anch’essa nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi (ms. D/4, cc. 2r-164v). Di seguito il frontespizio.
Il destino, però, certe volte è capriccioso e magari concede al figlio ciò che negò al padre più illustre di lui e cioè che la sua firma sia destinata a sopravvivere.
Quello che segue è un certificato autografo stilato da Diego il 13 agosto 1657.
Per chiarezza espositiva trascriviamo e commentiamo separatamente le due parti di cui il documento consta.
La prima parte contiene la dichiarazione autografa di Diego con in calce la sua firma.
Io sottoscritto Diego Ferdinando medico e filosofo di Messagna faccio fede con la presente e con giuramento attesto quatenus opus est6  come il Vice Abate Guglielmo Massa di Nardò al presente commorante7  in detta Terra, si trova attualmente infermo e convalescente da un’infirmità di molti giorni curata con insagnie8 , sciroppi, midicamenti: che sul principio mostrava febre continua e doppo9  tipo di due terzane10 e stando anche indisposto con le reliquie11 delli humori che comporta la detta malattia. Perciò non deve far moto, viaggio alcuno senza pericolo di vita. Et in fede del vero hò fatto la presente scritta e sottoscritta di mia propria mano. Messagna 13 Agosto 1657. D. Diego Ferdinando Medico e filosofo.
La seconda parte è la sottoscrizione del notaio, con in basso a destra il suo contrassegno (con termine tecnico tabellionato) a garanzia dell’autenticità del documento.
Io Don Cesare Saraceno canonico messapico, della diocesi brindisina pubblico notaio per apostolica autorizzazione, attesto che la sopraddetta  dichiarazione di fede è stata scritta e sottoscritta in mia presenza di propria mano dal sopraddetto dottore dell’arte e della medicina (endiadi per dell’arte della Medicina) medesimo Ferdinando e in fede delle premesse  richiesto apposi il mio segno.
Da notare nella parte alta del tabellionato N. C. S. (Notarus Caesar Saracenus).
  Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/06/05/diego-ferdinando-di-mesagne-1611-1662-ovvero-raramente-il-figlio-darte-supera-il-padre-per-lo-piu-nemmeno-lo-eguaglia-1-2/?fbclid=IwAR3uFFfvJWyrVAqD4v68A-VsJG5TI5qgppUNYS1UM6vsTcwSwHJ7QjTyKL4 
  __________
1 De Angelis, op. cit., p. 226: Ebbe un’amichevole, e lunga controversia con Marco Aurelio Severino intorno all’uso dell’incisione della vena salvatella, per la quale vi scrisse dottamente un trattato a parte, che si conserva insieme con molti altri suoi M. SS. da Epifanio Ferdinando suo nipote. Chissà se il manoscritto di quest’opera che nell’elenco del De Angelis riprodotto nella prima parte reca il titolo di Paradoxologia de Salvatellae sectione ad M. Aurelium Severinum e, magari, pure qualcun altro non giace impolverato in qualche dimenticato scaffale senza che lo sappia lo stesso erede, magari proprio di Epifanio Ferdinando junior …
2 Op. cit., p. 230.
3 Op. cit, p. 217: … Il Padre di Epifanio fu, mentre visse, tenuto sempre in molto conto tra’ suoi Cittadini, da’ quali venne eletto due volte in Sindaco universale della sua Patria; carica principalissima, e di sommo credito, e stima, per la suprema autorità, che le appartiene nell’amministrazione delle cose pubbliche. Né la famiglia della Madre cedeva punto a quella di suo padre; poiché l’una, e l’altra è stata sempre feconda di saggi Giurisconsulti, e di chiari Medici, come presentemente anche si osserva in Francesco Valentino, ed in Antonio de’ Rini, ed in Epifanio Ferdinando, nipote del nostro, Medici tutti e tre celebratissimi per tutto il Regno Napoletano, non che per la sola Provincia Salentina, dalla quale vengono reputati, e tenuti in grandissimo conto, particolarmente Epifanio, di cui l’ultimo pregio è la somma perizia nella Medicina, essendo versatissimo in ogni sorta di antica, e moderna erudizione, e tenendo in impronto molte opere per darle alle stampe. Ma per far ritorno al nostro Epifanio …
4 Op. cit., p. 220.
5 Op cit. p. 227.
6 quatenus opus est=per quanto è necessario.
7 dimorante.
8 salassi.
9 per dopo, forma dialettale ancora oggi tipica del Brindisino.
10 Febbre, di solito malarica, che si manifesta con un rialzo febbrile un giorno sì e l’altro no. Qui due terzane vale terzana doppia, nome che la febbre assume quando il rialzo febbrile si manifesta ogni giorno.
11 strascico, complicazione.
  Per la prima parte:
Diego Ferdinando di Mesagne (1611-1662), ovvero raramente il figlio d’arte supera il padre, per lo più nemmeno lo eguaglia (1/2).
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Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l'Affumicato
di Armando Polito
Una delle via più lunghe ed importanti di Mesagne è intitolata a Luca Antonio Resta. L’omonimia è sempre in agguato e il trascorrere inesorabile del tempo rende sempre più complicato evitare equivoci, soprattutto quando sono coinvolti personaggi del passato sì, ma cronologicamente non così distanti l’uno dall’altro. E la situazione si complica ulteriormente se si pensa al vezzo, molto diffuso, direi comunemente usuale e quasi obbligato, in passato di dare al neonato  lo stesso nome del nonno o, addirittura, del padre. Intanto, però, una prima possibilità di equivoco va eliminata per chi non abbia notato l’iniziale maiuscola di Affumicato, il che esclude qualsiasi amore o, perché no?, odio del vescovo per un particolare tipo di salame o di formaggio. …
Probabilmente a Mesagne i Luca Antonio Resta succedutisi nel tempo sono stati una miriade, ma due di loro si distinsero a tal punto che la memoria del loro nome non rimase nascosta  tra le pieghe di atti notarili o di registri di nascita e di morte. Sotto questo punto di vista, poi, Mesagne appare più favorita rispetto ad altre realtà territoriali. perché un suo figlio illustre, Epifanio Ferdinando junior1,  scrisse l’opera genealogica Delle famiglie mesagnesi in quattro volumi. Il manoscritto, di proprietà della famiglia Cavaliere di Mesagne, costituisce un’autentica miniera per gli studiosi di storia locale. Non ho avuto il privilegio di averne tra le mani neppure una, sia pur parziale, riproduzione digitale e, quindi , non posso andare al di là dell’affermazione generica che sicuramente i due Luca Antonio erano parenti.
Posso, invece, sfruttando altre fonti, collocarli cronologicamente. Comincio dal più anziano, prima arciprete della Collegiata di Mesagne e poi, dal 1565, vescovo di Castro, dal 1578 di Nicotera e dal 1582 fino alla morte, avvenuta nel 1597, di Andria. Al periodo andriese risalgono le opere che di lui ci restano. La prima è Constitutiones editae in diocesana synodo andriensi, Desa, Copertino, 1584
Da notare nel frontespizio lo stemma vescovile del quale dirò tra poco.
Fu autore inoltre di Directorium visitatorum, ac visitandorum cum praxi, et formula generalis visitationis omnium, & quaruncumque ecclesiarum monasteriorum, regularium, monialium, piorum locorum, & personarum, Facciotti, Roma, 1593.2
Di seguito il frontespizio recante lo stemma degli Aldobrandini, essendo l’opera dedicata al papa  Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini (1536-1605).
Al testo dell’imprimatur concesso dal papa e sottoscritto da Vestrius Barbianus segue l’immagine di Luca Antonio, che deve riferirsi, giocoforza, al periodo andriese, cui, d’altra parte, fanno esplicito riferimento il frontespizio e l’imprimatur.
L’immagine precedente ricalca nel dettaglio dello stemma) quella di una lastra collocata nell’episcopio di Andria (di seguito nella foto di S. De Tommaso tratta da http://www.andriarte.it/ChiesaMonache/documenti/Monastero-OrdinationiEtCostitutioni_LAResta1593.html), commemorativa della ricostruzione fatta dal vescovo nel 1582 (anche se sulla lastra si legge, incredibilmente, 1532) del vecchio monastero delle suore  benedettine.
LUCAS ANT(ONIUS) )RESTA/MESSAPIEN(SIS) DEC(ANUS) DOCT(OR)/EP(ISCOP)US ANDRIEN(SIS) A fUNDA(MENTIS) EREXIT/1532 (Luca Antonio Resta dottore decano di Mesagne, vescovo di Andria eresse dalle fondamenta 1532
Nello scudo qui compare il motto CHARITAS, mentre nella stampa si legge CARITAS. E qui s’innesca una polemica antica che già vide contrapposti, pressoché contemporaneamente, due pezzi grossi dell’epoca: il Vico e il Muratori. Il primo nel De constantia philologiae usa charitas in unione a patriae (amor di patria) e nel De constantia philosophiae per la ben nota virtù teologale. In una nota del De uno universi iuris principio et fine uni usa la locuzione caritas sapientis (la manchevolezza del sapiente) e ancora nel De constantia philologiae usa frugis caritas (la mancanza del raccolto); in entrambi i casi è evidente come caritas sia connesso con il verbo carere=mancare3 e come i precedenti charitas vengano connessi con il greco χάρις (leggi charis)=benevolenza.
Contro l’opinione del Vico vi è Il Caritas del suo contemporaneo Ludovico Antonio Muratori ricorrente  nelle citazioni in latino presenti in Della carità cristiana, Soliani, Modena, 1723. Proprio nella prefazione ai lettori il Muratori giustifica la sua scelta e ribadisce la derivazione dal latino  carus, essendo la a di caritas lunga, mentre quella del greco χάρις è breve.
Le ragioni addotte dal Muratori mi appaiono filologicamente ineccepibili e, oltretutto, il passaggio carus>caritas è di una linearità esemplare, associandosi nella tecnica di formazione a fecundus>fecunditas, humilis>humilitas, etc. etc. Altrettanto non si può dire di χάρις>charitas perché, essendo χαριτ– il tema di χάρις (che deriva da *χάριτς con normalissima caduta della dentale davanti al sigma), pure in latino avremmo dovuto avere non charitas ma charis (da *charits), come miles è da *milits.
Non è da escludere, come ipotizzava il Muratori, che la possibilità di equivoco tra caritas=mancanza  (deverbale da carere) e caritas=benevolenza (deaggettivale da carus) abbia indotto all’aggiunta di h nel secondo per una sorta d’influsso paretimologico di χάρις.
Questa epentesi di h sembrerebbe abbastanza datata e nel glossario del Du Cange mi appare sintomatico che al lemma CHARITAS si rinvii a CARITAS, assunto, dunque, come principale). Mi pare particolarmente interessante CARITAS 5, che riporto in formato immagine con la mia tradizione a fronte.
Quanto riportato rende plausibile credere che la confusione, prima concettuale (carità diventa, addirittura il corrispettivo di un donativo con paradossale inversione delle parti: i monaci danno, non ricevono la carità) e poi grafica, risalga all’epoca medioevale. in cui dev’essersi sviluppata in ambienti non molto i acculturati l’epentesi paretimologica di cui ho detto. D’altra parte il processo inverso ha coinvolto charta, che è dal greco χάρτης (leggi chartes) con innumerevoli attestazioni medioevali di carta.
Questa volta, perciò,  non condivido le argomentazioni dell’amico professor Federico La Sala, che pure sento il dovere di citare rinviando il lettore al link http://www.ildialogo.org/filosofia/interventi_1360186035.htm.
Infine c’è da notare che tutti i vocabolari, nessuno escluso4, nonché gli studi etimologici, continuano imperterriti a recare il lemma carità derivato da carus.
Tornando alla pubblicazione del nostro, lo stemma che campeggia in alto a sinistra nel ritratto risulta replicato all’inizio della seconda parte. Nello scudo si notano nell’ordine: una croce maltes5, una stella a otto punte ed un’armatura, oltre al CHARITAS di cui si è estesamente detto.
Il Directorium visitatorum … ebbe un’edizione postuma per gli stessi tipi e col titolo Praxis visitatorum ac visitandorum … nel 1599.
Passo ora all’altro Luca Antonio, all’Affumicato. Riprendendo quanto detto all’inizio sull’iniziale maiuscola e per non rendere troppo seriosa la trattazione, dico che non si hanno notizie di sue malattie curate coi suffumigi e tanto meno di morte dovuta ad intossicazione da fumo di tabacco o sviluppato da qualche incendio. Affumicato è semplicemente perché faceva parte dell’accademia mesagnese degli Affumicati, riconosciuta ufficialmente nel 1671 ma nata certamente prima di tale data.6
Sull’accademia uscirà a breve un post più corposo;  di questo anticipo qui ciò che riguarda il nostro dicendo anzitutto che sull’accademia ben poco sapremmo senza le notizie lasciateci da Antonio Mavaro (1725-1812), giurista e storico locale mesagnese, in un manoscritto (ms. M/4) custodIto nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. Lì il Mavaro, fra l’altro, riporta l’elenco dei 19 soci, dei quali riproduce, da un manoscritto più antico in suo possesso secondo quanto dichiara, anche l’emblema, il motto e lo pseudonimo assunto dal socio in seno all’accademia, non mancando di fornire la sua interpretazione di questi tre dati.
Ecco quanto si riferisce al nostro (dettaglio tratto dalla carta 336r) che nell’elenco compare al n. XIV:
Apprendiamo, così, che il nostro era detto Il tormentato e che il suo motto era Purgatur non comburitur (Viene purificato, non bruciato). Quanto all’emblema il Mavaro a carta 341v così si esprime.
XIV Siegue il Tormentato, col motto Purgatur, non comburitur. Ciocché nel di lui emblema si vede, abbenché  non sia con chiarezza espressato, potrebbe riferirsi all’oro, ò qualche altro metallo simile, che nel crogiuolo si purifica, ma non s’abbrugia).
La conferma dell’interpretazione data dal Mavaro dell’emblema viene dal fatto che il concetto e i vocaboli fondamentali della relativa locuzione erano ben radicati nella cultura del XVII secolo. Un esempio per tutti in Elogium de laudibus, et prerogativis sacrorum liliorum in stemmate Regis Gallorum existentium, Apud Stephanum Colineum, Parisiis, 1608, p. 126: Et iterum aurum in igne positum non comburitur, sed probatur, et purgatur (E d’altra parte l’oro posto sul fuoco non viene bruciato ma viene temprato e viene purificato).
Molto probabilmente, a sua volta è lo sviluppo dell’in fornace ardet palea et purgatur aurum (Nella fornace la paglia viene bruciata, l’oro viene purificato) di Agostino nel suo commento al Salmo 61.
Per dovere di completezza debbo aggiungere che nell’elenco del Mavaro compare un altro rappresentante della famiglia Resta e precisamente al n. XII Francesco detto L’inabile, con il motto Ad fabrilia ineptus (Non adatto a lavori manuali) e per emblema un pezzo di legno inservibile posto sul fuoco.
Ecco quanto al proposito scrive il Mavaro a carta 340r.
(XII L’inabile col motto Ad fabrilia ineptus. Viene nell’emblema espressato un pezzo di legno, posto ak fuoco, volendosi collo stesso significare essere quello inservibile all’Artefice. L’Accademico, che volle dirsi L’inabile, volle per effetto di sua umiltà far presente all’assemblea,ed à quei dotti Accademici che la componeano, che sebbene in quella fosse stato annoverato, pure inabile egli riputavasi à poter produrre colle sue forze cosa di buono.)
Giunto a questo punto, rischio di sbagliare se dico che il Luca Antonio della via è il vescovo (del quale ci resta una pubblicazione e pure il ritratto) e non l’Affumicato, del quale, senza il Mavaro, nulla ci sarebbe pervenuto?
_________________
1 Per restare nel tema dell’omonimia …, era figlio del medico  Diego e nipote di Epifanio, il più famoso dei Ferdinando.
2 Mi sono limitato a riportare i dati essenziali, quelli che, conosciuti, sanciscono,  piaccia o no, lo spessore storico di qualsiasi personaggio. Per altri dettagli secondari rinvio a Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, tomo III, parte IV, Severini, Napoli, 1755, pp. 82-84.
3 Cfr. Livio, Ab Urbe condita libri, II, 12: Obsidio erat nihilominus et frumenti cum summa caritate inopia (C’era non di meno l’assedio e disagio con l’estrema mancanza di frumento). Ne approfitto per ricordare che connesso con carere è pure l’aggettivo carus=caro (in base ad un’elementare regola psicologica ci è più caro ciò che ci manca e in base all’altrettanto elementare principio economico del rapporto inverso tra offerta e domanda, per cui il prezzo è più caro quando il bene non è molto richiesto.
4 C’è da dire, però, che ne conosco uno, illustre, che nel tempo se n’è lavato le mani. È quello della Crusca che nella prima e seconda edizione (1612 e 1623) fa derivare carità da charitas, nella terza (1691) si limita a citare come sinonimo il greco ἀγάπη (leggi agape) in cui l’assenza di coincidenze fonetiche con il presunto charitas e con χάρις la rileverebbe il più superficiale dei lettori. Il lavaggio si completa con la quarta e con la quinta edizione (1729-1738 e 1863-1923) nelle quali non c’è ombra di proposta etimologica.
5 Allusiva, insieme con la stella ad otto punte,  alle benemerenze acquisite nella difesa della cristianità da qualche antenato. Leggo in Mario Vinci, Lucantonio Resta, in I Mesagnesi, a cura di Marcello Ignone, Tipografia Neografica, Mesagne, 1998, p. 131: La sua famiglia, originaria dalla Dalmazia, si stabilì dapprima a Ragusa (dove troviamo il ramo dei Resta di Ragusa) e successivamente alcuni di loro si trasferirono in Mesagne nei primi del 1500 con Mariano Resta. Mariano de Resta arriva in Mesagne nella II metà del XV sec. al seguito di Castriota Scanderbeg).
6 In Pietro Marti, Movimento intellettuale nel Salento, nel secolo XVII, in Fede: rivista quindicinale d’Arte e di Cultura, anno III, n. 5 (15 marzo 1925) in nota a p. 69 si legge che sorse il 1638, per opera di Giovan Matteo Epifanio, che ne fu più volte Principe.
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designme2011 · 4 years
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🌴 Via Oliviero Maya prima e dopo, Via Accademia Affumicati e Via Epifanio Ferdinando • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #visiting #mesagne #ilovemesagne #cuordisalento #designme #minuzzerie #a2passidamesagne #cosafareamesagne #mesagnetop #lacittadellamore #lacittadelcuore #welcometomesagne #momentisenzafiltri #madeinmesagne #mesagneinlove #mesangeles #portiamomesagnenelmondo #mesagnedavedere #viveremesagne #mesagnemylove #mesagneview #mesagnemoremio #a2passinelmondo #mesagnea2passidalmare (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/CLO0h7EMrA2/?igshid=l4drjaici2qp
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designme2011 · 4 years
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🌴 Epifanio Ferdinando (Mesagne, 2 novembre 1569 – Mesagne, 7 dicembre 1638) è stato un medico e filosofo italiano. Chiamato "il Vecchio" per distinguerlo dal figlio, fu docente di medicina e filosofia oltre che Primo Cittadino di Mesagne per ben due volte, e uno dei medici più famosi e colti della Puglia di inizio Seicento Nasce a Mesagne, in provincia di Brindisi, il 2 novembre 1569 e ivi muore nel 1638. L'attenzione di questo medico-filosofo, laureatosi presso l'Università di Napoli in filosofia e medicina il 24 agosto 1594, per campi non strettamente connessi a quello medico quali l'astronomia, l'astrologia, la storia e la teologia, ne testimoniano la poliedricità. Nella sua vita si dedicò, oltre che alla professione di medico, anche all'insegnamento declinando però l'offerta di una cattedra di medicina avanzatagli dall'Università di Padova, luogo di insegnamento di menti geniali come Andrea Vesalio e Galileo Galilei, per il suo grande attaccamento al Salento e soprattutto alla sua città natale, Mesagne, di cui fu anche eletto Primo Cittadino nel 1605. Epifanio Ferdinando (il Vecchio), definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”, studiò grammatica, poetica, greco e latino sotto la sapiente guida, in Mesagne, di Francesco Riccio, intimo amico di Paolo e Aldo Manuzio. Si trasferì successivamente a Napoli nel 1588 dove studiò medicina , filosofia, geometria e matematica prima di conseguire la laurea in filosofia e medicina nel 1594. Tornò poi a Mesagne dove prese in moglie la ventinovenne Giordana Longo Pecoraio, da cui ebbe dieci figli, ed esercitò la professione di medico fino alla sua morte avvenuta il 7 dicembre del 1638. CONTINUA NEI COMMENTI - - > 🌴 Il giorno di Ognissanti a Mesagne Tutti i Santi, All Saints' Day 💛💙 • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #googlelocalguides #mesagne #visiting #cuordisalento #lacittadellamore #lacittadelcuore #gialloblu #designme #traveldesignme #cuoreantico #festadeimorti #ognissanti #giornodeimorti #2novembre #sud #tradizione #architettura #monumentale #monumenti #cemeterylovers #cementery #momentisenzafiltri #mesagnemia #mesangeles #mesagnedavedere (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/CHDPUOhjjpB/?igshid=1o3wwka5gqpj
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Diego Ferdinando di Mesagne (1611-1662), ovvero raramente il figlio d’arte supera il padre, per lo più nemmeno lo eguaglia (1/2).
di Marcello Gaballo e Armando Polito
La vita dei cosiddetti “figli d’arte” ha probabilmente aspetti più negativi che positivi e il fenomeno che possiamo chiamare “professione ereditaria”, non è certo recente.
I personaggi di oggi costituiscono una coppia, una delle tante, del passato i cui componenti, padre e figlio, sono caratterizzati dall’aver esercitato la stessa professione: quella di medico. Nel nostro caso il figlio è Diego, il padre Epifanio (1569-1638).
Cominciamo, per motivi, come si conviene, anzitutto cronologici da Epifanio. E lo facciam nel modo più immediato, oggi alla moda, cioè con il suo ritratto, riservandoci dopo un approfondimento meno frivolo di quanto, in generale, lo sia la sola immagine.
La tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando in Domenico De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, t. II, 1713.
Ingrandiamo due dettagli:
Nel primo: Epiphanio Ferdinando Messapien(si) Medico et Philosopho/Dominicus De Angelis Lycien(sis) D(onum) D(edit) D(edicavit)
A Epifanio Ferdinando di Mesagne1 medico e filosofo/Domenico De Angelis di Lecce come dono diede dedicò.
Nel secondo: F. De Grado sculp(sit).
Francesco De Grado incise.
Il De Grado fu un apprezzatissimo incisore (sculpsit=incise) attivo a Napoli tra il 1694 ed il 1730.
Questa seconda  tavola è a corredo della biografia di Epifanio Ferdinando a firma di Pasquale Panvini in Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, tomo VI, Gervasi, Napoli, 1819. Da notare che la data di morte (1635) che non coincide con quella (1638) registrata nella biografia scritta dal De Angelis. Nel dettaglio ingrandito: 
  C(arolus) Biondi inc(idit)=Carlo Biondi incise
Anche Carlo Biondi fu un incisore abbastanza famoso, attivo a Napoli nel XIX secolo. La derivazione del suo ritratto da quello del De Grado è troppo evidente  per parlarne. Non possiamo, però, non fare osservare che, se per i tratti somatici il Biondi era giocoforza costretto a seguire il De Grado, sul piano dell’originalità avrebbe potuto farsi sentire meglio, magari giocando sui dettagli. Lo ha fatto sì, ma rendendo uniforme lo sfondo con l’eliminazione del tendaggio che nel primo ritratto conferiva profondità e per il resto conservando l’ovale ma riducendolo col taglio (di mano e libretto) all’altezza della penultima coppia di bottoni. Come vedremo alla fine con Ferdinando e Diego, anche qui l’ultimo arrivato non rimedia una bella figura.
Per chi ha interesse a conoscere tutti i dettagli registrati della vita di Epifanio rinviamo alle due opere appena citate, il che consentirà di cogliere la grande differenza di spessore professionale tra padre e figlio.
Siamo un popolo che scrive tanto, senza saperlo fare e legge poco o nulla, non sapendo fare, nemmeno quello, complice il degrado sempre più spinto della scuola.
Fino a qualche decennio fa non era così e non lo era ancor più qualche secolo fa, sicché nel passare al vaglio quegli autori si può assumere come parametro di giudizio il numero delle loro pubblicazioni, prima ancora della qualità.
Nel nostro caso, poi, giudicare in base a questi parametri è ancora più semplice, dal momento che Diego, come brutalmente anticipiamo, non pubblicò nulla, per Epifanio, invece, lascimo parlare i titoli (con i relativi frontespizi quando reperiti in rete).
Theoremata medica et philosophica, Tommaso Baglioni, Venezia, 1611
+
Ci piace segnalare che dei quattro componimenti encomiastici in latino che precedono il testo vero e proprio uno è del nostro concittadino Scipione Puzzovivo. Il lettore non neritino ci perdonerà se lo riportiamo e lo traduciamo:
(Esastico di Scipione Puzzovivo, dottore di entrambi i diritti, all’autore
Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegni più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica)
De vita proroganda, seu iuventute conservanda et senectute retardanda, Gargano e Nuccio, Napoli, 1612.
Purtroppo in rete non è reperibile alcun esemplare di questa edizione. Dato il tema trattato, il libro dovette andare a ruba, ma è strano che non abbia avuto subito una o più ristampa. La ristampa anastatica con traduzioni  a cura di Maria Luisa Portulano-Scoditti e Amedeo Elio Distante è uscita nel 2004 per i tipi di Sulla rotta del sole,  Mesagne. Gli stessi autori hanno il merito, con questa ed altre pubblicazioni che volta per volta verranno segnalate,  di aver riportato alla ribalta la figura del mesagnese, a parte la citazione fatta da Ernesto De Martino in La terra del rimorso (1961) di alcune testimonianze sul tarantismo presenti nell’opera del mesagnese che subito dopo nominerem.
Centum historiae, seu observationes, et casus medici, omnes fere medicinae partes …, Tommaso Baglioni,  Venezia, 1621
Segnaliamo: Amedeo Elio Distante, Maria Luisa Portulano-Scoditti Epifanio Ferdinando: le “Centum Historiae” e la medicina del suo tempo, s. n., Mesagne, 2000.
Aureus de peste libellus, varia, curiosa, et utili doctrina refertus, atque in hoc tempore unicuique apprime necessarius, Domenico Maccarano, Napoli, 1626.
Segnaliamo l’edizione a cura degli stessi autori menzionati per Centum historiae: La peste. Epifanio Ferdinando,  s. n., s. l., 2001.
Oltre alle quattro opere a stampa ricordate, il De Angelis nella sua opera citata all’inizio ci ha lasciato un lungo elenco di titoli di Epifanio rimasti manoscritti. Lo riproduciamo da p. 229 in modo che il lettore abbia contezza della molteplicità di interessi nutriti dal mesagnese (dalle voglie delle donne in gravidanza al vulcanismo, dal tarantismo alle api, dai gechi all’obesità, dalle comete al modo per generare figli maschi, etc. etc.
Purtroppo, a quanto ne sappiamo, di tanta produzione solo della Messapographia, seu Historia Messapiae è custodita nella Biblioteca Arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi una copia (ms. D/13), dal titolo Antiqua Messapographia,  eseguita da Ortensio De Leo nel 1752 (come recita una nota a c. 2r). Di seguito il frontespizio.
A proposito di quest’opera ricordiamo che la stessa biblioteca custodisce un manoscritto (ms. M/4) del XIX secolo che ne contiene in due libri la traduzione fatta dal latino all’italiano da Antonio Mavaro, giurista mesagnese vissuto tra il XVIII e il XIX sec. (di seguito il frontespizio.
Nella carta 1r che più avanti riprodurremo il Mavaro ha avuto la felice idea di riportare due composizioni scritte, una in latino l’altra in italiano, in lode di Epifanio e della sua Messapographia dal canonico Francesco Roma, all’epoca vicario foraneo. In calce le trascriveremo, tradurremo la prima e commenteremo entrambe, non senza aver prima  sottolineato che questo tipo di omaggio è frequente nelle opere a stampa di quei tempi (vedi l’esastico di Scipione Puzzovivo prima riportato) e che la loro presenza, di cui nessuno avrebbe sospettato l’ esistenza senza la pubblicazione  pur manoscritta del Mavaro, alimenta l’ipotesi che tutto fosse pronto o quasi  per consegnare il libro alla stampa ma qualcosa lo impedì. Forse le pessime condizioni di salute nell’ultimo decennio di vita e la volontà venuta meno a causa della malattia di fare l’ultima revisione. Scrive il De Angelis a p. 227 della sua opera:
carta 1r
Ad Epiphanium Ferdinandum Medicum praestantissimum in Librum de antiqua Messapographia D. Franciscus Roma Canonicus Messapiensis. Epigramma.
Messapi! Regale decus ne longa vestustas/obrueret tenebris, dirueretque solo/Ferdinandus, adest, fama clarissimus atque/Euboica fulcit moenia ducta manu./Et solide munit sic cuncta, ut temporis ictus/non timeant imbrem, praecipitemque Notum./Perpetuo stabunt cunctis miranda per Orbem,/sed magis a casu, qui eripuit Patriam./Qui inde fugat morbos. Qui Cives eripit Orco,/et famae tradit nomina cuncta virum.   
Traduzione: Ad Epifanio Ferdinando medico validissimo per il libro sull’antica Messapografia Don Francesco Roma canonico mesagnese. Epigramma.
Messapi! Perché il lungo trascorre del tempo non avvolgesse nelle tenebre una nobiltà regale e non l’abbattesse al suolo è venuto Ferdinando chiarissimo per fama e sorregge con la mano tesa le mura euboiche2. E fortifica tutte le cose  così saldamente che esse non temono le offese del tempo, non la pioggia e l’impetuoso Noto3. Tutte resteranno per sempre degne di ammirazione per tutti sulla Terra, ma più (lontano) dalla sventura che ci ha rapito la Patria. (Ferdinando) che mette in fuga da qui le malattie. (Ferdinando) che sottrae i cittadini alla morte e consegna alla fama tutti i nomi degli uomini.
L’epigramma è costituito da cinque distici elegiaci di buona fattura. Da notare i congiuntivi imperfetti obrueret e dirueret in dipendenza dal presente abest. Secondo la consecutio temporum classica ci saremmo aspettato obruat e diruat. Tuttavia c’è da ipotizzare che quel presente sia stato usato, non sappiamo quanto consapevolmente, quasi a mo’ del perfetto greco, per cui, per esempio un οἶδα  alla lettera significherebbe vidi ma si traduce con so. Qui il processo, però, è inverso, cioè adest alla lettera significherebbe è presente ma è come se derivasse da un è arrivato. Questo valore logico di perfetto attribuito a ciò che grammaticalmente è presente giustifica gli imperfetti congiuntivi, non solo, ma dà quasi l’idea che Epifanio sia in grado non solo di frenare gli effetti nefasti del tempo ma, addirittura, di sanare in qualche modo quelli già atto.
                                                           Sonetto dello stesso Autore
Visse Messapia già da mano altera/eretta e cinta da superbe mura:/ma qual cosa mortal che poco dura/sull’alba del natal vidde4 la sera./Cadde, ma ne’ tuoi scritti oggi qual’era5/anzi più bella assai si raffigura;/cadde ma la tua penna oggi la fura6/a morte, e la richiama a vita vera./Tanto può dotta penna. In marmi egreggi7/tuo nome inciso il Mondo già ne attende./Già ti cede Messapo i suoi gran preggi8./Eresse egli Città che alle vicende/del tempo cader vide i propri freggi9/ma eterna il tuo saper oggi la rende.
Che rabbia fa leggere nell’elenco dei titoli dei manoscritti lasciatoci dal De Angelis quel Dilucida, et compendiosa tractatio de Terraemotu, et incendio Montis Vesuvii, et de remediis  ad futuros Terraemotus pensando che sicuramente l’eruzione del Vesuvio è quella disastrosa del 1631 e che il nostro sarebbe stato una fonte salentina  certamente attendibile da aggiungere altre salentine in passato oggetto di studio.
Per oggi basta con Epifanio. Alla prossima, con Diego.
(CONTINUA)
________________
1 Alla lettera Messapiensis significa messapo, della Messapia, ma in dediche ed iscrizioni assume il significato ristretto di mesagnese. Sui problemi etimologici posti da Mesagne vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/16/la-menza-e-giove-menzana-altre-perle-dalla-rete/.
http://www.vesuvioweb.com/it/wp-content/uploads/Aniello-Langella-e-Armando-Polito-Leruzione-del-Vesuvio-del-1631-letta-attraverso-le-epigrafi-di-Torre-del-Greco-e-di-Portici-vesuvioweb-2011.pdf.
2 Strabone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Geographia, IX, 2, 13: Ἐν δὲ τῇ Ἀνθηδονίᾳ Μεσσάπιον ὄρος ἐστὶν ἀπὸ Μεσσάπου, ὃς εἰς τὴν Ἰαπυγίαν ἐλθὼν Μεσσαπίαν τὴν χώραν ἐκάλεσεν (Nel territorio di Antedonia [regione della Beozia] c’è il monte Messapio [così chiamato] da Messapo, colui che dopo essere andato in Iapigia chiamò la regione Messapia).
3 Vento del sud.
4 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.
5 Su questa grafia errata che si trascina e prolifera fino ai nostri giorni vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/05/quale-il-problema-e-che-sei-una-capra-direbbe-vittorio-sgarbi/. Non ho mai incontrato qual’era per qual era nella letteratura del XVII secolo, ragione per la quale penso che molto probabilmente l’errore di scrittura qui è da imputare più al Mavaro che al nostro Epifanio.
6 ruba, sottrae.
7 Forma normalmente in uso nel XVII secolo, giustificata dal fatto che egregio deriva dal latino egrègiu(m), composto da e-=fuori+grex/gregis=gregge. La geminazione della g in egreggio è dovuta proprio al gregge e non grege italiano.
8 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.
9 Forma normalmente in uso nel XVII secolo.
10 http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/12/leruzione-del-vesuvio-del-1631-nella-poesia-di-un-salentino-e-di-un-napoletano-con-una-sorpresa-finale/
  Francesco Porrata Spinola di Galatone e l’eruzione del Vesuvio del 1631
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designme2011 · 5 years
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🌴 Visto che siamo a Sant'Antonio, vi racconto una storia di tale Cataldo Antonio Mannarino. Mannarino ebbe DUE grandi AMORI: Porfida, sua moglie e MESAGNE. Della sua amata Mesagne diceva: << E quindi é, ch'á caso per le diffigurate forme antiche de / primieri siti boggi una cittá rassembra la FIGURA DI UNA NAVE / come la mia cittá di TARANTO, un'altra una PADELLA, come / la cittá di GALLIPOLI, un'altra d'una TESTA CERVO, come la città / di BRINDISI, un'altra d'un ARCO come la cittá di BARI, un'altra d'un arco, come la città di NAPOLI, et un'altra, tra mille che / traccio, d'un CUORE HUMANO, come questa NOBILISSIMA TERRA di / MESAGNE, ne senza ragion ritiene la forma d'UN NOBILE CUORE / questa leggiadra patria, perchè così come il CUORE RISIEDE / nel mezzo del suo corpo, come membro più perfetto, così MESAGNE / risiede nel mezzo di questa provincia, come patria più nobile [...] >> Mannarino, definito da Epifanio Ferdinando "consummatissimus medicus", è stato anche un medico, nonché poeta e storico italiano. Nato a Taranto nel 1568 da una famiglia di piccola nobiltà provinciale. In seguito suo padre Francesco si trasferì a Mesagne e qui Cataldo Antonio trascorse l'adolescenza. Poi, si trasferì a Napoli dove studiò Medicina e nel 1593 si sposo con Porfida De Rossi. Mannarino ritornò a Mesagne con l'aura del letterato famoso e, introdotto nella cerchia ristretta degli Albrizzi, divenne il medico del vecchio marchese Giannantonio. Dopo la morte della moglie, si fece prete. Il dolore per la perdita dell'AMATA consorte rimase vivo nel poeta che chiese al suo amico pittore rinomato Giampiero Zullo di dipingerle un ritratto. Erano anni di pieno fermento per... CONTINUA A LEGGERE SU FACEBOOK 🌴Mesagne • • • #visitmesagne #visitmesagnecuordisalento #weareinpuglia #thehub_italia #salentodascoprire #top_italia_photo #top_puglia_photo #likes_puglia #pugliastreetphotography #ig_salento #igerspuglia #igerssalento #salentodove #puglia_super_pics #loves_madeintaly #thehub_puglia #loves_puglia #loves_united_puglia #loves_united_italia #coloridipuglia #pugliaview #vivopuglia #volgolecce #volgopuglia #bestpugliapics #loves_united_salento #volgoitalia #yallerspuglia (presso Mesagne) https://www.instagram.com/p/B9E0d0aqJRx/?igshid=1nahzc0fcrjg6
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Storia di Mesagne [frammenti] - 1596 circa, di Cataldantonio Mannarino
E’ stato presentato ieri sera il volume, come da programma allegato
  a cura di Domenico Urgesi
Cataldo Antonio Mannarino
nacque a Taranto nel 1568, da un’importante famiglia, la quale, secondo il contemporaneo medico-filosofo Epifanio Ferdinando (il vecchio), si trasferì a Mesagne negli anni della sua infanzia. Trascorse la giovinezza in questa città, poi si trasferì a Napoli e si laureò in medicina. A Napoli fu introdotto nell’Accademia degli Oziosi dal poeta e amico mesagnese Gianfrancesco Maia Materdona.
Nel 1592, ventiquattrenne, si sposò con la nobile Porfida De Rossi, in Mesagne, territorio la cui feudalità era stata comprata (nel 1591) da Giannantonio Albricci I, nobile commerciante di antica schiatta lombarda.
Nel settembre del 1594 avvenne l’attacco dei turchi a Taranto; Mannarino partecipò alla difesa della sua città natale ed alle trattative di pace; in quell’occasione ebbe confidenza con vari feudatari accorsi a difesa della città, tra cui Alberto I Acquaviva d’Aragona, don Carlo d’Avalos, gli Albricci, Michele Imperiale e molti altri piccoli signorotti e cavalieri (tra cui Pietro Resta di Mesagne).
L’evento gli ispirò l’opera Glorie di guerrieri, e d’amanti in nuova impresa nella città di Taranto succedute, che nel 1596 pubblicò a Napoli. Nella stessa occasione conobbe Giovanni Lorenzo Albricci (figlio di Giannantonio) e lo ammirò per il suo coraggio.
Nel 1596 scrisse buona parte dell’inedito manoscritto, tramandato come “Storia di Mesagne”, che ora viene pubblicato integralmente per la prima volta.
Il manoscritto, dedicato in gran parte proprio al capostipite Albricci I, rimase inedito, forse per la morte dell’Albricci (avvenuta nel 1596); una parte di esso è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli; ed è quella contenuta in questo volume.
Il Mannarino era già noto ai suoi tempi, per opere letterarie e teatrali che ebbero ampia circolazione:
-Glorie di guerrieri e d’amanti… (Napoli, 1596); esso costituisce una preziosa testimonianza della precoce diffusione del culto di Torquato Tasso in area meridionale.
-Il pastor costante (Bari, 1606), dramma pastorale ambientato nei territori dell’antica città di Taranto. Poiché il libro conteneva molti errori e imprecisioni, l’Autore ripubblicò l’opera nel 1610 a Venezia col nuovo titolo Erminia.
–La Susanna, tragedia sacra (Venezia, 1610), incentrata sulla figura della vergine martirizzata sotto Diocleziano. La tragedia fu effettivamente rappresentata nella cittadina di Torre Santa Susanna ed ebbe un’altra rappresentazione a Ruvo di Puglia.
-Le Rime (Napoli, 1617), un compatto canzoniere, organizzato secondo lo stile delle sillogi tardocinquecentesche e del primo Seicento, con interessanti riferimenti a fatti e persone reali.
-La Prefatio alle Centum historiae seu Observationes et casus medici (Venezia, 1621) di Epifanio Ferdinando.
Negli anni successivi alla morte della moglie, avvenuta nel 1614, prese i voti ecclesiastici e fu suddiacono della Collegiata di Mesagne; continuò ad esercitare la professione medica. Si spense nel 1621.
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designme2011 · 7 years
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