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Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (II parte)
Pubblichiamo i brani conclusivi dell’Introduzione alla Messapographia sive Historia Messapiae
  di Domenico Urgesi
Le fonti di Diego
[…]
Le fonti basilari di Diego sono anzitutto quelle classiche: gli storici greci, Erodoto, Strabone, Pausania, da lui citati sia direttamente che attraverso le riletture umanistiche; allo stesso modo si avvale di Plinio, Virgilio e Festo. Copiosi sono i richiami da autori umanistici; Leandro Alberti e Gabriele Barrio sono suoi punti di riferimento, specialmente nel libro I della Historia Messapiae, come anche Lamberto Ortensio e Biondo Flavio. Non mancano Pontano, Facio, Sabellico, D’Alessandro, anche se in maniera un po’ defilata.
Le fonti della classicità greca e latina ricorrono specialmente nei primi due Libri. Notevole, per la trattazione dell’epoca romana, sembra anche il ricorso alla Historia Augusta, altra opera enciclopedica i cui estensori sono citati e/o parafrasati.
Il Galateo
  Continui e insistenti i riferimenti agli umanisti salentini, soprattutto Antonio De Ferrariis detto il Galateo il cui Liber de Situ Iapygiae (1558) viene citato molto spesso oltre che parafrasato; nei suoi confronti, il nostro riconosce continuamente un’autorevolezza indiscussa, attestata anche dal corografo Abrahamus Ortelius, che ne stampa un brano nella carta geografica della Apulia quae olim Iapygia inserita nel supplemento (1573) all’atlante Theatrum Orbis Terrarum, pubblicato più volte ad Anversa a partire dal 1570; è lo stesso brano che Diego commenta nella parte iniziale del suo ms., quella dedicata alla descrizione naturalistica della Iapygia. All’autorevolezza corografica dello stesso Ortelius, Diego si richiama più volte.
Un posto speciale occupa Virgilio[1], sulla scia della lettura fattane da umanisti quali Biondo Flavio e Lamberto Ortensio, ma soprattutto da Auctores di età romana imperiale come Servio Mario Onorato, privilegiato mentore di Diego, di Giunio Valerio Probo, e di Ambrogio Teodosio Macrobio (il quale aveva contribuito a rendere l’opera virgiliana enciclopedica e a diffonderla enormemente). Molto verosimilmente, questi autori che avevano fatto di Virgilio uno dei massimi “sapienti” dello scibile umano mitologico, storico, religioso e filosofico, agli occhi di Diego legittimano la validità storica della mitologia classica. Accanto ad essi, però, non è da sottovalutare l’influenza dell’umanista Natale Conti, la cui Mythologiae sive explicationes fabularum libri X ebbe numerose edizioni tra la fine del ‘500 e la prima metà del ‘600[2]. Sembra mutuata proprio dal Conti, ampiamente citato da Diego, il suo forte richiamo alla mitologia; come per l’umanista, i miti pagani sono completamente assorbiti da Diego all’interno della sua assoluta fede cristiana, alla quale sono ricondotti.
Epifanio Ferdinando
  Tra i Salentini, oltre al De Ferrariis, molto citato è l’amico e collega del padre Epifanio, Girolamo Marciano (1571-1628); sono anche conosciuti e citati, elencandoli qui in ordine cronologico, Antonello Coniger (XV-XVI sec.), Quinto Mario Corrado (1508-1575) e Iacopo Antonio Ferrari (1507-1588), come pure Giovan Battista Casmirio (XVI sec.) e Giulio Cesare Infantino (1581-1636), la cui opera (a noi nota come Lecce sacra) è citata come “Sacrarum Lupiarum”. Varie volte Diego attesta le sue affermazioni con l’autorevolezza del padre Epifanio.
Ad eccezione della Lecce sacra, pubblicata nel 1634, le opere di Marciano, Coniger, Casmirio e Ferrari, rimasero inedite per lungo tempo; ma, evidentemente, Diego ne possedeva (o, almeno, ne aveva letto) i manoscritti circolanti al suo tempo. L’elenco in ordine cronologico può essere utile: la cronaca del Coniger (Recoglimento de più scartafi de certe cronache moderne, et antiche de più cose, et rinuate le cose socesse in questa Provincia de Terra d’Otranto), databile al 1512, circolò manoscritta fino al 1700; la lettera del Corrado (Ad Cives Uritanos Oratio) è datata al 1561; la Epistola apologetica del Casmirio[3], databile al 1567, è stata pubblicata solo recentemente[4], ma circolava ms. ai tempi dell’autore; l’Apologia paradossica della città di Lecce del Ferrari (opera ultimata nel 1586[5] ma, benché pubblicata soltanto nel 1707 in Lecce, anch’essa era nota ai contemporanei essendo circolata ms.); la già citata opera (s.d., ma ante 1628) del Moricino (1558-1628), ms. ben noto ai tempi dei Ferdinando e che troverà solo nel 1674 la necessità di essere pubblicata (ma plagiata) dal Della Monaca; la Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto[6] (s.d., ma ante 1628) del Marciano, anch’essa circolata ms. ai suoi tempi. Sul Marciano, in particolare, bisogna rilevare che questo autore è continuamente citato e parafrasato da Diego, a volte esplicitamente, ma più spesso implicitamente.
Innumerevoli i richiami, quasi sempre espliciti, a Giovanni Giovine, Giovanni Antonio Summonte, Marino Freccia, Pandolfo Collenuccio, dalle cui opere Diego attinge notizie e considerazioni in continuazione; meno citati Tommaso Costo e Angelo Di Costanzo. In un’ottica comparativa, alla luce delle notevoli differenze ideologiche e di impostazione storiografica, nonché della loro differente dipendenza dal loro specifico contesto politico, sarebbe da approfondire quanto di codesti Auctores Diego condividesse, e fino a qual punto. Anche perché Collenuccio, Di Costanzo, Costo, Summonte, Freccia, ecc., sono i capostipiti di varie tendenze (filo-angioina, filo-aragonese, antispagnola) che saranno proposte tra XV e XVIII secolo, sulla cui fortuna utilissime sono le considerazioni di autorevoli studiosi quali Aurelio Musi[7] e Antonio Lerra[8] (che qui accenniamo solamente).
Peraltro, un altro illustre studioso, Angelantonio Spagnoletti, sottolinea che «… la ricostruzione della memoria municipale nel Regno di Napoli è organizzata su elementi facilmente riconducibili ad un unico modello: la fondazione eroica e leggendaria della città, la vita del santo protettore, il rinvenimento miracoloso del suo corpo, la costellazione di chiese e di edifici sacri, la cronotassi episcopale…»[9].
Questi autorevoli studiosi hanno, dunque, messo in evidenza il trasferimento agli storici-cronisti-storiografi locali di temi e modelli afferenti ai capostipiti napoletani, quali l’insistenza sui miti di fondazione di origine greco-romana, il tema della fedeltà, la dinamica del potere locale, il peso dell’agiografia, l’emergenza dell’antispagnolismo[10].
Troviamo questi temi in Diego Ferdinando, ma in una miscela del tutto particolare, in cui non sembra prevalere nessuna delle tendenze citate; insistente è, invece, il tema delle origini (incentrato sui Messapi) insieme a quello agiografico (incentrato su S. Eleuterio). La dinamica del potere è accennata nel ricordo della vicenda del pallio, ma soprattutto nel richiamo meticoloso ai privilegi[11] che Mesagne aveva ereditato dai sovrani angioino-durazzeschi, puntualmente elencati da Diego, teso a rivendicare alla propria patria l’antico status di città demaniale.
Ricorre spesso l’utilizzo di fonti ecclesiastiche come Eusebio di Cesarea e Lattanzio, il Venerabile Beda, S. Epifanio, Henschenius, ma soprattutto S. Agostino (il Doctor Gratiae), un epigono del quale, il monaco agostiniano Jacopo Filippo Foresti alias Eremitano, occupa un posto privilegiato nella narrazione del Ferdinando. Ma occorre aggiungere anche un’altra considerazione, più generale e complessiva: dalla narrazione di Diego emerge una Puglia incessantemente battuta da eserciti stranieri e da sciagure naturali; una narrazione che sembra ricalcare l’impianto degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, altro suo Auctor prediletto; considerazione che emerge da un sommario confronto tra l’intitolazione di alcuni capitoli del Baronio e di Diego e che meriterebbe, forse, un maggiore approfondimento. Il Martirologio del Baronio (presumibilmente nell’edizione del 1620), in particolare, fu la sua fonte privilegiata per attestare il martirio di S. Eleuterio a Mesagne; e Diego gli rimase fedele anche dopo la revisione fattane nel 1630 da Urbano VIII. Bisogna, però, notare che il Martirologio Urbaniano non chiuse definitivamente la questione del martirio di S. Eleuterio; tant’è che, ancora nel 1660, troviamo affermata, sebbene in maniera critica, la versione del martirio mesagnese in un Martirologio Agostiniano[12].
[…]
Altro autore utilizzato da Diego fu Cieco da Forlì, alias Cristoforo Scanello, autore di una Chronicha universale della fidelissima, et antiqua regione di Magna Grecia, overo Iapigia divisa in tre parti, cioè di Terra di Otranto, Terra di Bari et Puglia Piana, stampata a Venezia nel 1575. La cronaca pugliese dello Scanello ebbe notevole successo, ma fu ritenuta poco autorevole già dagli studiosi dei secoli seguenti; la sua credibilità fu definitivamente demolita nel 1892 da Ludovico Pepe[13].
[…]
Per il periodo angioino-aragonese e quello del Viceregno, Diego si avvale del Summonte, del Giovine, di Paolo di Tarsia, di Paolo Giovio ed altri (compreso il Mannarino), ma soprattutto dei protocolli notarili, dei Tavolari, del “libro dei privilegi[14], conservato in Archivio” come dice lo stesso Diego (ossia il cosidetto “Libro Rosso”), dai quali trae e mette in risalto i numerosi e preziosi diritti concessi specialmente dagli Angioini, dai Durazzeschi e poi da Ferrante e suoi successori.
Nei due capitoli finora ignoti (Sepulchra ed Inscriptiones), i riferimenti sono soprattutto a Luciano di Samosata e ai Manuzio, Paolo e Aldo il Giovane. Nel capitolo sulle epigrafi mesagnesi, Diego espone quelle tramandate sia dal padre Epifanio che da lui viste, e si cimenta nella interpretazione del loro significato, anche per spiegare le incongruenze tra alcune versioni. In verità, alcune epigrafi erano state già pubblicate da Aldo il giovane, sulla base di comunicazioni inviate ai Manuzio da Quinto Mario Corrado (e da Giovanni Antonio Paglia), molto prima che se ne occupassero sia Epifanio che Diego Ferdinando. La vicenda ingenerò un po’ di confusione, poi perpetuata fino a Diego; un nostro supplemento di indagine[15] ha consentito di ricostruirne in parte i contorni (ma ne diamo un accenno nel relativo commento a pié di pagina, nella traduzione).
Uno sguardo particolare merita la polemica insistente (ma espressa cortesemente) che Diego propone nei confronti di Giovanni Maria Moricino[16], l’autore dell’opera Dell’Antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino, filosofo e medico dell’istessa città, descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604. Una copia di tale opera, di cui l’originale fu disperso, è custodita in Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi: ms. D/12, trascrizione datata al 1761. Essa fu pubblicata nel 1674 dal plagiario Andrea Della Monaca col titolo Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi.
Il Moricino era un medico e filosofo discendente da famiglia veneta, nato nel 1558, morto nel 1628; nel periodo 1604-1605 ricoprì la carica di Sindaco a Brindisi, mentre nel 1613 vi risultava Auditore[17]. Oltre che a Brindisi, visse anche in Mesagne, dove insegnò retorica, logica e geometria a Epifanio Ferdinando; molto probabile, quindi, che una copia del ms. del Moricino fosse stata nelle disponibilità della famiglia Ferdinando. Evidentemente, per poterlo contestare, Diego ne leggeva il manoscritto; e, ad onor del vero, in molti casi ne riconosceva la piena validità. Perché, allora, questa polemica? Quasi certamente, la possiamo capire leggendo ciò che Moricino scrive a carta 16v del suo citato ms.:
[…] Nel che non posso fare di non ridere la vana pretendenza di coloro che pretendono Misagne, picciola Terricciola distante da Brindisi otto miglia, esser Messapia Regia de’ Re Messeni e Capo de Salentini…
[…]
Il contenuto dell’opera
Anzitutto, il confronto storiografico di Diego con la bibliografia e gli studi storici di oggi sarebbe impari; pertanto, nell’edizione critica ci siamo limitati a segnalare gli studi e le ricerche storiche ed archeologiche più autorevoli. Risulta molto più proficuo, invece, metterlo a confronto con la bibliografia dei suoi tempi, sia per capire quali, e di quale tipo, fossero le sue fonti, sia per mettersi in sintonia col suo modo di pensare.
Un breve accenno (ma l’argomento meriterebbe un discorso a parte) alla forma linguistica del codice 1655: il latino di Diego è fatto di lunghissimi periodi, spesso scoordinati, circonvoluti, “torrenziali”, colmi di termini abbreviati; si ha l’impressione di leggere un “racconto orale”; e, forse, l’uso sfrenato delle abbreviazioni, alcune delle quali sembrano inventate proprio da lui, tanto sono inusuali e ardite, è funzionale all’incalzare del racconto. La traduzione ha cercato di essere fedele non solo nella lettera, ma anche nello stile, al testo dell’autore; ma, soprattutto, ha cercato di rendere pienamente il significato di ciò che Diego intendeva esprimere. Compiti non semplici, tant’è che soltanto dopo essere entrati in sintonia con il suo pensiero, è stato possibile individuare i sinonimi più adatti a rispecchiarlo. È utile, mi pare, segnalare l’utilizzo (non eccessivo, tutto sommato) di termini ed espressioni dialettali e pure in volgare, quali “vuttisciana”, “girator di paese”, “porta picciola”, “de corpo a corpo”, “adaquatione”, “porta nova”, “porta di Rusci”, etc., che è oggetto di uno studio in corso di stampa[18]. Interessanti, anche, le numerose varianti latine e vernacole del nome di Mesagne.
Ciò premesso, riassumere quest’opera in poche frasi è impresa titanica, se non risibile. A mio modesto parere, tuttavia, qualche breve considerazione sul suo contenuto è necessaria, per potercisi orientare. Se quello che abbiamo prima appena accennato è l’orizzonte culturale nel quale si muove Diego, sembra di poter affermare che il suo è un terreno piuttosto campanilistico, benché supportato da una vastissima erudizione. Ma, d’altronde, il campanilismo del Ferdinando non è poi tanto esagerato, se solo si mette la sua opera a confronto con quelle (del ‘500 e ‘600) di altre città meridionali, in particolar modo quelle calabresi ricordate da Francesco Campennì[19], in cui sembrano persistere le antiche contrapposizioni tra le varie colonie magnogreche, che riemergono più o meno consapevolmente addirittura in epoca seicentesca: si vedano, in particolare, le contrapposte storie municipali di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia[20]. Nel nostro caso, la contrapposizione è quasi a tutto campo, pur in forme erudite, tra la (presunta) centralità mitologica e religiosa di Mesagne e le circostanti città.
In realtà, quello che Diego esplora e approfondisce è un terreno che in area salentina era stato già solcato dal Casmirio, dal Ferrari, dal Moricino, dal Marciano.
Come per costoro, anche il Ferdinando si ispira sostanzialmente ad una linea storiografica che, nel Mezzogiorno, parte dal Galateo e fa il paio con il De antiquitate et situ Calabriae (1571) di Gabriele Barrio. Le vicende dei popoli italici precedenti la civiltà romana sono lette dagli studiosi ed eruditi locali vissuti tra umanesimo ed età moderna, come il fenomeno culturale che fornisce gli specifici caratteri identitari costitutivi di una “nazione”. Così, Diego fonda l’identità della sua città, Mesagne, sulle memorie della “nazione messapica”, che tenta di definire, descrivere ed illustrare sulla base delle fonti di cui poteva disporre, quelle letterarie innanzitutto; a queste aggiunge, poi, le scarne fonti archeologiche che andavano emergendo nel periodo burrascoso del primo ‘600.
[…]
Diversamente dal Mannarino, è del tutto assente, in Diego, qualsiasi intento encomiastico di signori o feudatari coevi o passati; e, mentre Mannarino esalta la Misagne felix, in Diego risulta vano cercare un minimo accenno alla Mesagne reale dei suoi tempi, fatta eccezione per i ritrovamenti archeologici. La celebrazione di Mesagne era, per il primo, funzionale alla benevolenza (per sé e per la città) del feudatario Giovanni Antonio Albricci; mentre per Diego sembra fine a sé stessa, funzionale alla dimostrazione della magnificenza di Mesagne nei confronti di chicchessia.
[…]
Tuttavia, benché scarna, l’attenzione di Diego ai suddetti temi indica (e conferma) la consapevolezza, negli osservatori seicenteschi, dell’autonomia riconosciuta alle autorità comunali di Terra d’Otranto dai sovrani angioini e aragonesi e non da quelli spagnoli (nel sistema neo-feudale), come è stato messo in evidenza da vari recenti studi[21]. Probabilmente, non è senza motivo la puntualità archivistica che a tratti ritroviamo in questa Messapographia: sarà da illuminare nel quadro delle dispute e delle alleanze che sorsero tra l’Università di Mesagne, il potere baronale, quello ecclesiastico e quello Vicereale, un campo di ricerca che merita di essere ulteriormente e sistematicamente solcato[22].
L’intento programmatico, che oggi definiremmo ideologico, di Diego non è dichiarato (ma ce n’era bisogno?); tuttavia, rifulgono chiaramente due obiettivi: ─dimostrare che Mesagne fosse stata Messapia capitale dei Messapi; ─dimostrare altresì una forte preminenza cristiana di Messapia-Mesagne, in quanto sede del martirio di S. Eleuterio, posto cronologicamente nell’anno 121 d.C., secondo i ragionamenti logici di Diego. Da ciò derivano le due caratteristiche fondamentali di quest’opera: la valorizzazione della “nazione messapica” e l’apologia di S. Eleuterio, confluenti entrambe nella grandezza di Mesagne. Mentre rispetto al secondo punto, l’accostamento della storia cittadina a quella del santo patrono non è una caratteristica rara né in Terra d’Otranto, né in tutto il Mezzogiorno, riguardo al primo punto, invece, Diego è l’unico scrittore di storia municipale, nel Seicento salentino, ad illuminare la propria città sulla base di una storiografia messapica.
  Diego Ferdinando e il Patronato di S. Eleuterio
Tali impostazioni risultano oggi plasticamente erronee; ma non erano assolutamente errate per Diego, e neanche per i suoi contemporanei, se è vero che nei documenti notarili ed ecclesiastici del suo tempo, Mesagne veniva indicata come Messapia (e ciò, in verità, fin dalla metà circa del ‘500). E Messapia veniva, pure, indicata la città nella epigrafe[23] incisa sul frontone del primo ordine della Chiesa Matrice riedificata, che reca la data del 1653. E le statue di S. Eleuterio, con Anzia e Corebo, erano e sono scolpite sul portale maggiore di detta chiesa (ma con un S. Eleuterio stranamente simile alla classica iconografia di S. Oronzo). Se, oggi, l’apologia di S. Eleuterio non ha più alcun senso, non era così nella mentalità (1655) dell’autore mesagnese; ma non era così, evidentemente, anche per i fedeli mesagnesi. Messapia e S. Eleuterio erano strettamente vincolati a costituire la base identitaria dei mesagnesi, come avvenuto in molte altre città salentine[24]. Erano così vincolati, che le statue dei tre Santi furono poste sul portale maggiore, affianco alla epigrafe inneggiante a Messapia, col Santo Eleuterio centrale e imponente, nonostante che la nuova chiesa, appena riedificata, fosse stata intitolata ad Ognissanti, mentre prima era intitolata ai tre Santi, come dice lo stesso Diego in questo ms., e come sarà poi ricordato (nel 1744) dall’Arciprete Moranza (vedi appresso).
Sul culto mesagnese di S. Eleuterio vi sono precedenti studi, ai quali rinviamo[25]. Ma questa, finora ignorata, insistenza di Diego sul presunto martirio mesagnese di S. Eleuterio apre nuovi squarci. Il legame che Diego stabilisce tra la Città ed il “suo” martire sembra ricondurre all’importanza della “parentela” col santo martire, dalla quale deriverebbe una concittadinanza (ossia parentela col sacro)[26] che da sola sarebbe bastata a dare sicurezza e preminenza alla città di Mesagne.
[…]
Da alcune carte nell’Archivio Capitolare di Mesagne, anzi, possiamo forse capire le motivazioni più profonde alla base della lunga dissertazione su S. Eleuterio. Sappiamo che Diego, divenuto sacerdote dopo la morte della consorte, fu accolto nel Capitolo nel 1648[27]. Mentre la nuova chiesa era in costruzione (essendo crollata il 31 gennaio 1649), fu perorata – su iniziativa della Civica Università – l’attribuzione effettiva del patronato alla Madonna del Carmine. Cosicché il 30 aprile 1651, il Capitolo della Chiesa Collegiata, «come in virtù del decreto et Bolla di Papa Urbano di felice memoria», preso atto che la Civica Università di Mesagne aveva «pigliato ed accettato ad Avvocata et Protettrice la gloriosa Vergine Santa Maria del Carmine acciò a suo tempo se ne celebri et solennizzi la festa in conformità di quello che s’ordina nelli detti Decreti pontifici», diede il proprio «consenso a quanto da detta Università era stato conchiuso […] nemine discrepante [corsivo nostro]»[28]. […]
Peraltro, rispetto ad altre Conclusioni Capitolari, questa sembra piuttosto sbrigativa, e il Capitolo, dal numero dei partecipanti – per essere un evento eccezionale – non sembra neanche molto affollato: solo una trentina sui circa 50 titolari. Sembrerebbe quasi che i religiosi capitolari non fossero molto entusiasti. Comunque, tra i Preti, Canonici e Presbiteri partecipanti a detta riunione del Capitolo mancava proprio Diego Ferdinando. Sorge il dubbio che la sua assenza non fosse casuale; che, cioè, Diego non condividesse l’operazione e non avesse partecipato per “motivi di opportunità”.
[…]
Tale dubbio è corroborato da un’altra Conclusione capitolare[29], in cui risulta che, nel mese di aprile del 1660, nel Capitolo (presenti, questa volta, oltre 50 religiosi) si discusse, fra l’altro, una precedente proposta di Diego, che fu accolta:
[il R.do Bartolomeo Leonardo Sasso…] Inoltre propone che il Dr. Fisico D. Diego Ferdinando per rinovare la venerazione de’ Nostri S(an)ti Eleuterio, Corebbo et Antea ne havea fatto fare un Quadro Grande, e desiderava che detto R.do capitolo gli concedesse una cappella per collocarlo, offerendo ducati 100 di capitale a detto Capitolo con obligo di messe e desiderava ancora che l’istesso R.do Capitolo insieme con l’Univ.(ersi)tà comparissero nella Sagra Congregazione in Roma per ottenere che detti s(an)ti ci siano concessi per Compadroni con la Beatissima vergine del Carmine e da tutti parimente fu concluso che citra preiudicium dell’altre concessioni di cappelle che si faranno per essere detto Sig. D. Diego benemerito di Capitali si concedesse detta Cappella [— —] se gli darà l’assenzo di Mons. Ill.mo Arcivescovo e che per l’avvenire non s’intenda con ciò fatto pregiudizio nelle concessioni che si faranno con sì poca somma e gli fu concessa la Cappella all’incontro di quella dov’è collocato il Quadro del S.(acro) Monte che è la 3a à man dritta in ord(in)e nell’entrare dalla Porta Magg(io)re della Chiesa et andare al Presbiterio e che si supplicasse in Roma per ottenere la d(ett)a Compadronanza a spese del med(esi)mo Sig. D. Diego.
Con questa decisione, dunque, fu accolta l’istanza di Diego di dedicare un altare a S. Eleuterio, come anche quella di chiedere alla sacra Congregazione dei Riti che Eleuterio, Antea e Corebo fossero elevati a Compatroni della Città, insieme con la Madonna del Carmine. Curiosamente, però, – sia detto per inciso – una precedente Conclusione Capitolare del 1658 ci informa che il Capitolo aveva accettato anche la nuova proposta dell’Università di proporre S. Oronzo quale protettore di Mesagne[30]. […]
Quanto all’istanza di Diego, non sappiamo se, e come, si sviluppò la perorazione della Compadronanza, ma l’altare di S. Eleuterio fu effettivamente realizzato, come risulta dalla Santa Visita svolta dall’Arcivescovo di Brindisi Francesco d’Estrada[31], che lo ispezionò il 18 ottobre 1660. Esso risulta pure nell’elenco degli altari dichiarati dall’Arciprete Antonio Moranza nel 1744, nella sua relazione consegnata all’Arcivescovo Antonino Sersale durante la Santa Visita[32]:
[…] L’altare di S. Eleuterio martire è della famiglia Ferdinandi, oggi ne tiene possesso il di loro erede il reverendo D. Diego cantore Baccone che ha il pensiero di provederlo di sacre suppellettili.
[…]
Tirando le somme, possiamo affermare che, per Diego Ferdinando, la magnificenza di Mesagne è soprattutto fondata sia sulle antiche (ma pretese) glorie messapiche che su quelle, religiose, dei proto-martiri Eleuterio, Antia e Corebo. Diego ritrova tali glorie nelle fonti letterarie, nei monumenti, nei documenti; i quali tutti attestano, nella sua concezione, che la magnificenza di Mesagne risaliva a ben prima della vendita della Terra di Misagne ai baroni (Beltrano nel 1522, Albricci nel 1591, De Angelis nel 1646). Sembra proprio questo il filo conduttore di tutta l’opera, sebbene non esplicitamente dichiarato.
[…] In conclusione, questa Historia Messapiae è una vera e propria miniera; scavandola ne possono venir fuori sassi, scorie, ma anche molti gioielli (e sono tanti). A tal proposito, segnalo soltanto alcuni brani interessanti:
Un gioco dei fanciulli con le monete
[carta 23r] «… Da ciò l’antica usanza dei fanciulli, ed il gioco di lanciare in alto i denari, e di presagire la sorte scegliendo o “testa” o “Nave”, genera in noi non poca fiducia nell’antichità. La moneta così contrassegnata, [come dice] Macrobio nel primo libro, capitolo 7 dei Saturnali, anche oggi è avvertita nel gioco dei dadi, quando i fanciulli, gettando in alto i denari, esclamano “Testa” o “Nave” in un gioco [che è] testimone dell’antichità».
L’Artopticus: La “frisa” ai tempi di Diego
[95v] «… quello che noi [chiamiamo] Arton, gli stessi Romani lo denominano Pane. Da ciò Artopta in Plinio nel libro 18, cap. 11, o Artopta in Plauto, [vocabolo] con cui chiamavano la donna fornaia, o il vasellame in cui veniva cotto il pane abbrustolito detto Artopticus».
La Vuttisciana
[carta 135v] «Da ciò [gli eruditi] sembrano spiegare la ragione di quella parola [vedi in appresso Vuttisciana], di cui ci serviamo non solo in Messapia, ma in tutta la Regione; vale a dire il giorno in cui non ci asteniamo per nulla dalle attività, poiché Giano, sia che fosse istruito da Saturno che accolse come ospite, oppure che fosse animato dal suo stesso genio e dalla [sua] saggezza, fu promotore dell’[attività] di piantare e seminare, e coltivare i campi la ragione, ed insegnò gli altri lavori per il vantaggio degli uomini, e per la coltivazione della terra. Perciò il giorno, in cui si fanno tutte queste cose, veniva chiamato Vuttisciana, vale a dire, “giorno di Giano”, o “ritratto [la personificazione] di Giano”.»
Il primo stemma di Mesagne
[carta 136v] «Inoltre, si vedrà l’effigie del Sole posta tra le spighe di frumento e scolpita su una pietra quadrata in una delle torri che, dal lato Meridionale, racchiudono le mura della nostra Città; e le spighe, poste sotto il Sole da entrambe le parti, che – si pensa – [siano] tra gli antichi simboli di Messapia [Mesagne], vogliono significare che anticamente i Messapi adoravano il Sole.»
Il castello Orsiniano di Mesagne
[205v] «Giovanni Antonio del Balzo Orsini […] A Mesagne, in verità, presso cui era solito recarsi spesso per via dell’aria più salubre e per diletto, costruì una Fortezza o grande Torre nei pressi del Castello vecchio [Castrum vetus] …».
[167v] «E, da una cerchia più grande, forse di tre miglia (da cui prima era recinta) fu ristretta ad una di un miglio, trincerata da fossati, mura, torri e munita di una Fortezza nel lato Boreale ed occidentale. Di questa Fortezza (che era chiamata Castello Vecchio [vetus Castrum]), la parte boreale, subìta la forza del tempo, crollò, ed il Principe dell’Avetrana volle abbattere negli anni passati <1630> la parte occidentale, in verità provvista di archi e fornici…».
Le distruzioni di Mesagne
[117r] «Soprattutto le Città di Messapia [Mesagne] e di Oria, che [si trovano] in mezzo all’Istmo tra Brindisi e Taranto, furono prese con la forza da Annibale e nel contempo date alle fiamme» [nel 212-211 a.C.];
[152v] Totila nel 547;
[166r] I Saraceni nel 914;
[239r-240r] I Francesi nel 1528-29.
Il contributo dei Mesagnesi alla difesa di Otranto dai Turchi, nel 1480
[222v] «Durante questa guerra, inoltre, che fu combattutta da parte loro contro i Turchi per riconquistare Otranto, i Cittadini di Mesagne pagarono cento fanti col pubblico denaro; e per i Viveri dell’Esercito inviarono molti moggi di farina, botti di vino e moltissimi animali, come leggiamo in alcune lettere Regie, che i Mesagnesi conservano. In esse, come dicono, il Re ordinò che i Cittadini di Mesagne non venissero afflitti da pagamenti straordinari, poiché [avevano dato] tutte queste cose di cui sopra …. [4 puntini di sospensione] <si vedano le lettere Regie in Archivio e se ne riportino esempi>».
Da rilevare, infine, il ricorso frequente all’etimologia (latina e greca), tanto per rafforzare i concetti espressi e/o argomentarli più compiutamente (emblematico il caso testé accennato di vuttisciana), quanto – invece – per escludere o confutare ipotesi e interpretazioni ritenute erronee. Ancora una volta, il nostro si avvale, per quelle che considera vere e proprie dimostrazioni, della letteratura specifica accreditata ai suoi tempi, tra cui Isidoro di Siviglia e Aldo Manuzio il Giovane (oltre che della propria vastissima erudizione). Sono spunti suggestivi, ovviamente; ma anche su questo specifico aspetto dell’opera di Diego Ferdinando, non c’è che da auspicare l’attenzione e il giudizio degli specialisti.
[…]
  Note
[1] Sulla ricezione di Virgilio in ambito meridionale, cfr. almeno F. Tateo, Virgilio nella cultura umanistica del Mezzogiorno d’Italia, in Atti del Convegno Virgiliano di Brindisi nel bimillenario della morte (Brindisi 15-18 ottobre 1981), Università di Perugia 1983.
[2] Cfr. almeno, V. Costa, Natale Conti e la divulgazione della mitologia classica in Europa tra Cinquecento e Seicento, in Ricerche di antichità e tradizione classica (a c. di E. Lanzillotta), Tored 2004, pp. 257sgg.
[3] Ms. D/8 in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[4] Iohannis Baptistae Casmirii, Epistola apologetica ad Quintum Marium Corradum, (a cura di R. Sernicola), edizioni Edisai, 2017.
[5] A. Laporta, Introduzione, in I. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce, Cavallino, Capone 1977, p. XIV.
[6] Ms. D/3, in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[7] A. Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria, Lacaita, 2004, pp. 13 sgg.
[8] A. Lerra, Un genere di lunga durata. Le descrizioni del Regno di Napoli, ivi, pp. 27 sgg.
[9] A. Spagnoletti, Ceti dirigenti e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi, Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2001, p. 37.
[10] Vedi soprattutto Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza…, cit., p. 20.
[11] Alcuni si sono fortunatamente salvati e si possono apprezzare in Storia e fonti scritte: Mesagne tra i secoli XV e XVIII: Documenti della Biblioteca Comunale «Ugo Granafei» (a c. di F. Magistrale, M. Cannataro, P. Cordasco, C. Drago, C. Gattagrisi, S. Magistrale), Fasano, Schena Editore, 2001.
[12] Vedi Martyrologium Romanum Illustratum Sive Tabulae Ecclesiasticae Geographicis tabulis et notis historicis explicatae…, Authore RP Augustino Lubin Augustiniano…, Lutetiae Parisiorum…, 1660, p. 180.
[13] L. Pepe, Il Cieco da Forli, cronista e poeta del secolo XVI, Napoli, Tip. dell’Accademia reale delle scienze, 1892.
[14] Il rif. è alla raccolta dei documenti, ovvero Libro Rosso, in cui erano trascritte le concessioni, esenzioni, etc., statuite dai Regnanti in favore delle città demaniali. Quello di Lecce, ad esempio, fu pubblicato da Pier Fausto Palumbo in due volumi, nel 1997 e ‘98. Quello di Mesagne, invece, fu disperso, o distrutto, e non ha avuto la fortuna di essere tramandato.
[15] D. Urgesi, Epigrafi latine da Mesagne nelle opere di Aldo Manuzio il giovane, in corso di stampa.
[16] Il medico-filosofo G. M. Moricino (1560-1628) era stato, per tre anni, insegnante di Epifanio Ferdinando per le materie di Retorica, Logica e Geometria. Vedi Profilo, Vie, piazze, vichi e corti…, cit., p. 243; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Rist. An. Bologna, Forni, 1972 dell’ed. Lecce, Pietro Micheli, 1674.
Per la sua bio-bibliografia, cfr. anzitutto Biblioteca Napoletana, et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno, delle famiglie, terre, città, e religioni, che sono nello stesso Regno. Dalle loro origini per tutto l’anno 1678. Opera del Dottor Nicolo Toppi Patritio di Chieti, in Napoli, appresso Antonio Bulifon All’insegna della Sirena, 1678, p. 349. Inoltre, cfr. almeno E. Pedio, Il manoscritto di Giovanni Maria Moricino e la Storia di Brindisi del P. della Monaca, in «Rivista Storica Salentina», VI, 1904, pp. 364-74; Dizionario biografico degli uomini illustri [ma chiari] di Terra d’Otranto, cit., pp. 375-76; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima …, cit; G. Jacovelli, Medici letterati brindisini tra 1500 e 1600, in «Brundisii Res», XV (1983), pp. 40-42.
[17] P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1529-1787 (a cura di R. Jurlaro), Brindisi, Ed. Amici della «A. De Leo», 1978, p. 75 e p. 87.
[18] F. Scalera, Dialettismi e volgarismi nella Messapographia di Diego Ferdinando.
[19] F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, in Il libro e la piazza…, cit., pp. 69 sgg.
[20] Ivi, pp. 87-93.
[21] Sull’argomento, vedi anzitutto M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 199 sgg., con la sua ampia bibliografia.
[22] Segnaliamo che una prima, fertile, incursione in codesto campo fu compiuta da Luigi greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. I: I sindaci, l’università, i feudatari, Fasano 2000.
[23] Emendata dagli errori del lapicida, così recita: IN HONOREM SANCTORUM OMNIUM COLLAPSUM MESSAPIA RESTITUIT MDCLIII.
[24] Cfr., in proposito, M. Spedicato, L’identità plurima: i santi patroni nel Salento moderno e contemporaneo, in «L’Idomeneo» n. 10 (2008), pp. 145 sgg.; Id., Santi patroni e identità civiche nel Salento moderno e contemporaneo, Galatina 2009, pp. 9-18.
[25] F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia al principio del secolo VII (an. 604), vol. I, Faenza 1927; G. Antonucci, Il martirio di S. Eleuterio, in Curiosità storiche mesagnesi, Bergamo 1929; L. Scoditti, S. Eleuterio e Mesagne (datt.), 1957; D. Urgesi, Una correzione all’iconografia mesagnese: Eleuterio, Anzia e Corebo non furono martirizzati a Mesagne, in Studi Salentini, LXX (1993).
[26] Interessanti, in merito, le considerazioni di F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 102.
[27] Cfr., per tutti, Profilo, Vie, Piazze…, cit., p. 95.
[28] Archivio Capitolare di Mesagne, Conclusioni Capitolari, Cartella R/2, anno 1651, 30 aprile; v. anche A. C. Leopardi, Il Carmine nella realtà mesagnese, Bari 1979, pp. 70-71; e T. Cavallo, Il Santuario della Vergine SS. del Carmelo e i Padri Carmelitani nella storia di Mesagne, Fasano 1992, p. 74.
[29] A. C. M., Conclusioni Capitolari, ivi, anno 1660, 10 aprile.
[30] Ivi, anno 1658, 6 ottobre.
[31] L. Greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. III: L’architettura sacra nella storia e nell’arte, Fasano 2001, p. 273.
[32] Ivi, p. 296.
  Per la prima parte leggi qui:
Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (I parte)
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Scripta volant, verba manent. Wikipedia, Valerio Levino e Brindisi
 di Nazareno Valente
 Sino all’adozione del telecomando, l’uso del pollice della mano era limitato a poche funzioni di base, prevalente quella di aiutare le altre dita a prendere qualcosa. Da allora s’incominciò a destinarlo allo zapping e, visto che dava buone prove di sé, lo si adoperò in maniera più massiccia per la compilazione e la trasmissione degli sms, con risultati che rasentano la maestria quando si tratta di giovani utilizzatori. Le nuove tecnologie, in definitiva, impongono pure dei mutamenti nell’impiego dei diversi muscoli, oltre che di mentalità, di abitudini e di modi di pensare.
Di pari passo anche l’approccio alle conoscenze si sta modificando: credo lo si debba ad una informazione sempre più rapida e diffusa, che porta all’istante sulla scena degli avvenimenti, e dalla memoria sempre più corta, che brucia tutto in pochi attimi senza consentire, a momenti, neppure il tempo d’accorgersi di cosa sia effettivamente successo.
In questo clima anche i detti popolari vanno modificandosi.
Le parole, sinonimo un tempo di evanescenza perché volavano via con il vento, adesso, memorizzate nei filmati e riproposte in maniera ossessiva, stanno diventando indistruttibili. Al contrario lo scritto, veicolo in passato pressoché unico di conservazione, appare sempre più inconsistente e volatile, essendo oggetto di modifiche, rielaborazioni e cancellazioni.
È quanto di solito avviene in Internet, soprattutto in quella fonte di apprendimento veloce qual è Wikipedia, che ormai costituisce l’enciclopedia di più diffuso accesso, dove con tagli, variazioni e rimozioni sembra si scontrino le diverse correnti di pensiero desiderose di imporre il proprio punto di vista. Almeno questo si evince dall’approfondita ricerca del professor Massimo Marchiori, i cui risultati possono essere consultati sul suo sito Negapedia.org. Di là dalle faide, ciò che se ne può ricavare è, a mio avviso, l’aleatorietà della cosiddetta enciclopedia libera, troppo condizionata da chi è l’anonimo compilatore di turno
Non è per altro questo l’unico tema che spingerebbe ad essere cauti nell’utilizzo d’uno strumento che, riassumendo in sé certo tutti i pregi della rete ma, nel contempo, pure tutti i suoi peggiori difetti, meriterebbe un approccio critico e non di accettazione incondizionata, come spesso avviene. Per accreditare in un qualche modo queste mie perplessità, affronterò la questione limitando l’esame ad un argomento d’interesse comune – le antichità del nostro Salento – per il quale fornirò esempi di imprecisioni, di informazioni distorte e, addirittura, di vere e proprie bufale (o, dette con linguaggio moderno, fake news) che, per evitare giudizi frettolosi, verranno distribuiti in più interventi.
In questo primo incontro esamineremo la scheda dedicata da Wikipedia a Marco Valerio Levino1, un personaggio storico talmente legato alla colonia latina di Brindisi da meritare la dedica di una via cittadina.
In generale essa appare formalmente ben costruita, in quanto fornisce per tutti gli avvenimenti – elencati però senza curare i necessari collegamenti – gli appropriati riferimenti alle fonti letterarie antiche. Le carenze non riguardano però i fatti, quanto i contesti in cui essi vengono situati.
Siamo negli anni in cui Annibale ha invaso l’Italia ed ha inferto dure sconfitte ai romani. Una soprattutto, quella di Canne (216 a.C.), ha fatto vacillare l’Urbe la cui disfatta per alcuni mesi è sembrata prossima. Passato il primo momento di sconcerto, Roma si sta riorganizzando, ed è proprio qui che Valerio Levino entra in scena.
L’autore della scheda ce lo presenta come «un politico e generale romano», il che è vero però, forse, meritevole della precisazione che in quel periodo le due carriere non erano distinte, com’è attualmente, ma al contrario un tutt’uno. Chi voleva infatti aspirare alle cariche pubbliche, doveva prima fare un determinato numero di campagne militari o di anni di servizio militare, e chi accedeva alle più alte magistrature diveniva di conseguenza titolare anche dell’imperium militiae, vale a dire del comando supremo dell’esercito in tempo di guerra. Di fatto, se non si faceva politica, non si poteva diventare generali; se si era generali, lo si era perché contestualmente statisti di alto rango. Basta scorrere le diverse schede di Wikipedia stessa riguardanti i principali personaggi romani dell’epoca per ricavare che praticamente tutti, avendo rivestito le magistrature maggiori, erano al tempo stesso politici e capi militari.
Ritroviamo poi che Levino «era praetor peregrinorum (si occupava, cioè, degli affari riguardanti gli stranieri presenti a Roma)» e, detto in questo modo, sembra che il pretore peregrino fosse una specie di dottore commercialista che aiutava gli stranieri nei loro affari a Roma. Nulla di tutto ciò.
Occorre premettere che la pretura, istituita nel 367 a.C., era una magistratura a cui venne principalmente affidato il potere, che i romani denominavano iurisdictio, con cui dirimere i contenzioni che sorgevano tra cittadini romani Il pretore, chiamato urbanus perché amministrava la giustizia a Roma, aveva infatti l’incarico, quando si verificava una lite, di appurare che la pretesa del denunciante meritasse tutela giuridica, di individuare conseguentemente il principio di diritto applicabile alla specifica controversia (ius dicere2) ed infine, al termine di questa fase (in iure), di nominare con il consenso delle parti un giudice (iudicem dicebat). Il giudice, che era un privato cittadino, verificava a questo punto i fatti dichiarati dalle parti, raccoglieva le prove e pronunciava la sentenza sulla base dei termini giuridici fissati dal pretore.
In seguito, divenuta Roma una città in cui confluivano genti di diversa nazionalità e non essendo quell’unico pretore più sufficiente ad occuparsi di tutte le vertenze («non sufficiente eo praetore»3), fu creato nel 242 a.C. un altro pretore, chiamato peregrino per il fatto che amministrava per lo più il diritto tra gli stranieri («creatus est et alius praetor, qui peregrinus appellatus est ab eo, quod plerumque inter peregrinos ius dicebat»4). Dal pronome indefinito utilizzato (plerumque), discende che il pretore peregrino, oltre ad impostare i termini delle controversie tra stranieri (inter peregrinos), amministrava anche quelli tra stranieri e cittadini romani (inter peregrinos et cives), vale a dire, in definitiva, quelli in cui fosse coinvolto almeno uno straniero. Non gli era in aggiunta neppure preclusa la competenza sui contenziosi tra romani (inter cives) e, quindi, agiva in analogia e con gli stessi poteri del pretore urbano.
L’istituzione di questa carica conseguì anche dal fatto che al diritto romano era estraneo il principio della territorialità della legge, per cui non poteva applicarsi agli stranieri l’ordinamento riservato ai romani (ius civile) e, di conseguenza, dovevano elaborarsi norme specifiche5 per risolvere eventuali conflitti sorti con i peregrini basandosi per lo più sul complesso delle norme giuridiche comuni a tutti i popoli (ius gentium). Tranne questa possibilità concessa al pretore peregrino di avvalersi di una procedura più snella – che con il passare del tempo finì per essere sostanzialmente adottata anche dal pretore urbano – non c’era altra differenza sostanziale, tant’è che era il sorteggio a stabilire quale dei pretori eletti dovesse esercitare il potere di “esporre il diritto” inter cives e chi inter peregrinos et cives.
Qualche anno dopo, nel 227 a.C., si decise di creare due nuovi pretori con il compito di governare le due prime province istituite, vale a dire la Sicilia e la Sardegna. Ai tempi di Levino venivano pertanto eletti quattro pretori che per il 215 a.C. furono appunto il nostro Marco Valerio Levino, Appio Claudio Pulcro, Quinto Fulvio Flacco e Quinto Mucio Scevola («praetores inde creati M. Valerius Laevinus iterum, Ap. Claudius Pulcher, Q. Fulvius Flaccus, Q. Mucius Scaevola»6). Alle idi di marzo, quando essi entrarono in carica, a Valerio Levino toccò in sorte la giurisdizione peregrina; a Fulvio Flacco quella urbana; a Claudio Pulcro andò la pretura della Sicilia e a Mucio Scevola quella della Sardegna («Praetores Q. Fulvius Flaccus… urbanam, M. Valerius Laevinus peregrinam sortem in iuris dictione habuit; Ap. Claudius Pulcher Siciliam, Q. Mucius Scaevola Sardiniam sortiti sunt»7).
Ma in quel particolare momento risultava preminente contrastare lo strapotere cartaginese nella penisola e, quindi, impiegare le principali risorse nella guerra in atto. Levino non poté così esercitare la pretura peregrina perché destinato in Apulia per presidiarla con milizie provenienti dalla Sicilia («Valerium praetorem in Apuliam ire placuit… cum ex Sicilia legiones venissent, iis potissimum uti ad regionis eius presidium… »8)
Anche Wikipedia annota l’utilizzo di Levino in attività militari motivandolo con il «periodo di grande crisi per la Repubblica» e facendoci però in aggiunta sapere che «tutti i magistrati civili ricevettero comandi militari». Quest’ultima affermazione denota indubbie lacune nelle conoscenze dell’impianto costituzionale romano ed è alquanto sorprendente.
A rigor di termini, la pretura non può infatti dirsi una magistratura civile – e basterebbe considerare i pretori, mandati, come già riportato, a governare le province ed a guidare le legioni lì destinate, per rendersene conto. Il pretore aveva sì, come nei casi di quello urbano e peregrino, prevalenti funzioni giusdicenti ma risultava anche collega, benché dotato di minore autorità, dei consoli (conlega minor) e, di conseguenza, quando costoro erano lontani da Roma, era incaricato della loro sostituzione (imperium domi). In aggiunta era anche titolare dell’imperium militiae e quindi legittimato a comandare l’esercito ed ad assumere tutte le competenze derivanti da questo potere.
Il coinvolgimento nelle attività militare rientrava in conclusione nelle specifiche prerogative della carica, e non era certo conseguente ad un fatto estemporaneo come la semplicistica conclusione a cui perviene l’enciclopedia libera lascerebbe far credere. Sintomatico in tal senso il passo di Livio che, nel narrare il fatto, afferma che neppure ai pretori eletti per esporre il diritto fu concessa l’esenzione del governo militare («ne praetoribus quidem qui ad ius dicendum creati erant vacatio a belli administratione data est»9). Chiarendo così in maniera inequivocabile che alla carica spettavano compiti di carattere militare, dai quali i pretori urbano e peregrino erano comunemente esentati.
Se poi, per semplificare, dovessimo considerare i pretori magistrati civili, dovremmo ritenere tali anche le altre magistrature dell’ordinamento romano, e, da quel tutti usato nella scheda, finiremmo per desumere che anche agli edili ed ai questori sia stato assegnato il comando militare. Cosa che, neppure in quel particolare frangente, è avvenuta.
Gli equivoci sulla figura del pretore peregrino si ampliano analizzando la scheda specifica che Wikipedia pubblica per il pretore romano. In questa10 è infatti possibile leggere che il pretore peregrino si occupava «di amministrare la giustizia nelle campagne». Come dire peregrinus contrapposto ad urbanus e, quindi, se questi stava in città, quello errava nelle campagne.
A parte il fatto che non si capisce perché il pretore peregrino dovesse amministrare la giustizia nelle campagne, quando la gran parte (se non la quasi totalità) degli affari svolti anche dagli stranieri avveniva nell’Urbe, questa visione sembra cozzare con le fonti che non hanno mai indicato differenze sui luoghi in cui i pretori svolgevano le loro funzioni. Al contrario, il pretore urbano e quello peregrino amministravano la giustizia a Roma. Lo riferisce a chiare lettere Livio quando ci riporta che i pretori stabilirono vicino alla pubblica piscina il luogo in cui fissare i tribunali dove, per quell’anno, avrebbero detto il diritto («Praetores quorum iuris dictio erat tribunalia ad Piscinam publicam posuerunt… ibique eo anno ius dictum est»11).
Come in altri casi analoghi, questa versione, proposta da Wikipedia sui presunti luoghi di campagna in cui il pretore peregrino amministrava la giustizia, riecheggia un’ipotesi superata, rinvenuta magari in uno dei tanti vecchi testi la cui copia digitale è disponibile in rete. Ed è un chiaro sintomo di come, con un copia e incolla acritico, si finisca per riportare in vita teorie poco attendibili che il mondo scientifico ha ormai abbandonato da tempo12.
Tornando al nostro Levino, Livio ci fa sapere che gli furono affidate anche 25 navi con le quali pattugliare il litorale tra Brindisi e Taranto («et viginti quinque naves datae quibus oram maritimam inter Brundisium ac Tarentum tutari posset»13. Infatti, temendo colpi di mano da parte di Filippo V di Macedonia che nel frattempo s’era alleato con Annibale, il console Tiberio Sempronio Gracco lo aveva mandato a Brindisi per difendere la costa salentina («Brundisium… misit tuerique oram agri Sallentini»14).
L’anno successivo, nel 214 a.C., Levino non poteva essere nuovamente eletto pretore tuttavia, poiché il suo apporto era necessario, gli fu prorogato l’imperium militiae. Era questa una procedura adottata per consentire a chi aveva incarichi militari di portare a termine le azioni belliche che superavano il limite annuale della carica. In questi casi, l’ordinamento romano prevedeva infatti la possibilità di ricorrere alle promagistrature con cui si prorogavano le funzioni militari ai magistrati in scadenza15. E quindi Levino, pur non rivestendo più la carica di magistrato, poté, in forza della prorogatio imperii, continuare le operazioni militari come propretore16.
In quell’anno talmente difficile per Roma la proroga riguardò tutti quelli che guidavano reparti militari, i quali rimasero così nelle rispettive zone d’influenza («Prorogatum deinde imperium omnibus qui ad exercitus erant iussique in provinciis manere»17). Lo stesso capitò a Levino che si vide rinnovato il comando della flotta di stanza a Brindisi, sempre con l’incarico di vigilare su ogni manovra del re macedone Filippo («M. Valerius ad Brundisium orae maritimae, intentus adversus omnes motus Philippi Macedonum regis»18).
Levino diventò quindi di casa a Brindisi19 al punto da eccitare le fantasie dei più noti cronisti brindisini che confezionarono una vicenda epica di cui non si ha alcun riscontro nelle fonti narrative antiche.
Iniziò Giovanni Maria Moricino20 e, naturalmente, gli andò dietro Andrea Della Monaca21 che, com’è noto, ricopiò quasi fedelmente il suo manoscritto. Anche il canonico Pasquale Camassa (figura n. 1) — per il quale, serve ricordarlo, noi brindisini nutriamo una più che giustificata riconoscenza per quanto egli ha fatto per preservare dalla distruzione più d’un nostro monumento storico e per lo sviluppo culturale della nostra città — riprese, sia pure in maniera più succinta, lo stesso racconto. Papa Pascalinu, come affettuosamente viene ricordato in città, nutriva un amore incondizionato per Brindisi, e ciò lo portava già di per sé ad abbellire la ricca storia cittadina con qualche piccola creazione. Qui usò anche la fantasia altrui riportando l’episodio nel suo libro sulla storia di Brindisi22, il cui intento di sfruttare nel migliore dei modi la fortuna di cui godevano in quel particolare periodo le passate glorie dell’impero romano è del tutto evidente sin dal titolo e dal riferimento contenuto sulla copertina (figura n. 2).
Nel caso specifico il tutto prendeva spunto da un passo di Livio.
Lo storico patavino narra di come Annibale, sulla scia dei successi ottenuti, tenti di attirare nella propria orbita le città salentine. Quando non riesce a farlo con le blandizie o con la forza, lo stratega cartaginese utilizza sotterfugi contando sulla eventuale presenza di quinte colonne nelle comunità. L’espediente gli riesce, ma non del tutto, a Taranto dove, grazie all’aiuto di tredici cospiratori quasi tutti giovani nobili («tredecim fere nobiles iuvenes Tarentini coniuraverunt»23), prende la città, senza però essere in grado di espugnare la rocca, in cui si trincerano i resti del presidio romano ed i tarantini rimasti a loro fedeli. Per questo ripiega su Brindisi sperando di poterla avere per tradimento («ad Brundisium flexit iter, prodi id oppidum ratus»24).
Qui s’inserisce papa Pascalinu per narrare che il propretore Valerio Levino, saputo dell’approssimarsi dell’esercito punico, «raccolti i cittadini a parlamento, ricordò ad essi il grande valore, di cui diedero saggio nella sfortunata giornata di Canne»25 e, tanto per rincarare la dose, anche «l’intrepido coraggio dei brindisini sopravvissuti a quell’orrenda carneficina»26. Rincuorò i timorosi, caso mai ve ne fossero stati, e ricordò che Brindisi, diversamente da Taranto, «si era sempre e costantemente serbata fedele a Roma»27 tanto che «alcuni dei suoi concittadini erano stati dalla Repubblica chiamati ad alte ed onorifiche cariche e magistrature»28. Naturalmente le parole di Levino non potevano che fare breccia nei saldi cuori dei brindisini i quali si prepararono alla difesa con simile ardore che Annibale «desisté dall’impresa»29.
Nella realtà, Brindisi non aveva nessuna necessità di essere stimolata a resistere, vivendo una situazione completamente diversa da quella della città ionica. La politica romana ne favoriva in tutti i modi il porto, il che incrementava in maniera considerevole le attività economiche facendola divenire ricca e rinomata. La condizione di colonia latina le consentiva inoltre di fruire, oltre alla più ampia autonomia interna, anche dei privilegi che il diritto latino comportava. Alla fin fine, i Brindisini avevano tutto l’interesse a stare con l’Urbe lasciando cadere ogni tentativo di Annibale che, peraltro, era uno stratega troppo navigato per sperare, anche lontanamente, di poterla prendere con la forza. Si può pertanto ritenere che i Romani contassero sulla fedeltà di Brindisi, mentre dei Tarantini diffidavano, sospettando da tempo che potessero ribellarsi da un momento all’altro («Cum Tarentinorum defectio iam diu… in suspicione Romanis esset»30).
Significativo infine che la manovra cartaginese per impossessarsi di Brindisi venga liquidata da Livio con poche ed essenziali parole: anche qui Annibale sprecò tempo inutilmente («Ibi quoque cum frustra tereret tempus»31). Lo storico patavino non fa invece alcun cenno all’accorato discorso fatto da Levino, per il semplice motivo che questi si trovava da tutt’altra parte, ed in tutt’altre faccende affaccendato. Annibale decide appunto di ripiegare su Brindisi, subito dopo la battaglia di Herdonea. Siamo di conseguenza nel 212 a.C., allorquando Valerio Levino, propretore in Grecia («imperium… Graecia M. Valerio»32), è già da tempo lontano da Brindisi e di fatto impossibilitato a pungolare lo spirito guerriero dei brindisini.
Come dire che ci troviamo di fronte ad una vera e propria fake news da cui anche i compilatori di Wikipedia, non tenendone conto, hanno preso giustamente le distanze.
Ma ci sono occasioni in cui le bufale storiche non risparmiano neppure l’enciclopedia più letta al mondo. Come vedremo nella prossima puntata.
  Note
1 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Valerio_Levino (13.11.2017).
2 Dire il diritto nel senso di esporre (o mostrare) il diritto.
3 Pomponio (… – II secolo d.C.), in Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, D.I.2.2.28.
4 Pomponio, Cit., D.I.2.2.28.
5 Il complesso di norme introdotte a seguito di questa attività del pretore peregrino composero lo ius honorarium.
6 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 24, 4.
7 Livio, Cit., XXIII 30, 18.
8 Livio, Cit., XXIII 32, 16.
9 Livio, Cit., XXIII 32, 15.
10 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Pretore_(storia_romana) (13.11.2017).
11Livio, Cit., XXIII 32, 4.
12 Sembrerà strano ma anche la più fantasiosa teoria trova i suoi adepti, a volte del tutto insospettabili.
13 Livio, Cit., XXIII 32, 17.
14 Livio, Cit., XXIII 48, 3.
15 Il ricorso alle promagistrature (propretore e proconsole) iniziò ad essere imponente proprio in occasione della seconda guerra punica; dal secolo successivo la prorogatio imperii fu utilizzata soprattutto per la prosecuzione di azioni militari nelle province. Ai tempi di Silla, quando il consolato e la pretura mantennero solo l’imperium domi, divenendo di fatto magistrature esclusivamente urbane, solo i promagistrati potevano essere a capo delle milizie e governare le province.
16 Il prefisso pro ritengo sia da intendersi nel senso di “a titolo di” o “in qualità di” e non in quello che comunemente diamo in lingua italiano di “al posto di” o “in sostituzione di”.
17Livio, Cit., XXIV 10, 3.
18 Livio, Cit., XXIII 10, 4.
19 Citata più volte da Livio come centro d’azione della flotta guidata dal propretore Levino (livio, Cit., XXIV11,3 e livio, Cit., XXIV 20, 12).
20 G. M. Moricino, Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/12, 1760-1761, 104r/107r.
21 A. della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Lecce 1674, Pietro Micheli, pp. 199/206.
22 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.
23 Livio, Cit., XXV 8, 3.
24 Livio, Cit., XXV 22, 14.
25 P. Camassa, Cit., p. 24.
26 P. Camassa, Cit., p. 24.
27 P. Camassa, Cit., p. 25.
28 P. Camassa, Cit., p. 25.
29 P. Camassa, Cit., p. 25.
30 Livio, Cit., XXV 7, 10.
31 Livio, Cit., XXV 22, 15.
32 Livio, Cit., XXV 3, 6.
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