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Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (II parte)
Pubblichiamo i brani conclusivi dell’Introduzione alla Messapographia sive Historia Messapiae
  di Domenico Urgesi
Le fonti di Diego
[…]
Le fonti basilari di Diego sono anzitutto quelle classiche: gli storici greci, Erodoto, Strabone, Pausania, da lui citati sia direttamente che attraverso le riletture umanistiche; allo stesso modo si avvale di Plinio, Virgilio e Festo. Copiosi sono i richiami da autori umanistici; Leandro Alberti e Gabriele Barrio sono suoi punti di riferimento, specialmente nel libro I della Historia Messapiae, come anche Lamberto Ortensio e Biondo Flavio. Non mancano Pontano, Facio, Sabellico, D’Alessandro, anche se in maniera un po’ defilata.
Le fonti della classicità greca e latina ricorrono specialmente nei primi due Libri. Notevole, per la trattazione dell’epoca romana, sembra anche il ricorso alla Historia Augusta, altra opera enciclopedica i cui estensori sono citati e/o parafrasati.
Il Galateo
  Continui e insistenti i riferimenti agli umanisti salentini, soprattutto Antonio De Ferrariis detto il Galateo il cui Liber de Situ Iapygiae (1558) viene citato molto spesso oltre che parafrasato; nei suoi confronti, il nostro riconosce continuamente un’autorevolezza indiscussa, attestata anche dal corografo Abrahamus Ortelius, che ne stampa un brano nella carta geografica della Apulia quae olim Iapygia inserita nel supplemento (1573) all’atlante Theatrum Orbis Terrarum, pubblicato più volte ad Anversa a partire dal 1570; è lo stesso brano che Diego commenta nella parte iniziale del suo ms., quella dedicata alla descrizione naturalistica della Iapygia. All’autorevolezza corografica dello stesso Ortelius, Diego si richiama più volte.
Un posto speciale occupa Virgilio[1], sulla scia della lettura fattane da umanisti quali Biondo Flavio e Lamberto Ortensio, ma soprattutto da Auctores di età romana imperiale come Servio Mario Onorato, privilegiato mentore di Diego, di Giunio Valerio Probo, e di Ambrogio Teodosio Macrobio (il quale aveva contribuito a rendere l’opera virgiliana enciclopedica e a diffonderla enormemente). Molto verosimilmente, questi autori che avevano fatto di Virgilio uno dei massimi “sapienti” dello scibile umano mitologico, storico, religioso e filosofico, agli occhi di Diego legittimano la validità storica della mitologia classica. Accanto ad essi, però, non è da sottovalutare l’influenza dell’umanista Natale Conti, la cui Mythologiae sive explicationes fabularum libri X ebbe numerose edizioni tra la fine del ‘500 e la prima metà del ‘600[2]. Sembra mutuata proprio dal Conti, ampiamente citato da Diego, il suo forte richiamo alla mitologia; come per l’umanista, i miti pagani sono completamente assorbiti da Diego all’interno della sua assoluta fede cristiana, alla quale sono ricondotti.
Epifanio Ferdinando
  Tra i Salentini, oltre al De Ferrariis, molto citato è l’amico e collega del padre Epifanio, Girolamo Marciano (1571-1628); sono anche conosciuti e citati, elencandoli qui in ordine cronologico, Antonello Coniger (XV-XVI sec.), Quinto Mario Corrado (1508-1575) e Iacopo Antonio Ferrari (1507-1588), come pure Giovan Battista Casmirio (XVI sec.) e Giulio Cesare Infantino (1581-1636), la cui opera (a noi nota come Lecce sacra) è citata come “Sacrarum Lupiarum”. Varie volte Diego attesta le sue affermazioni con l’autorevolezza del padre Epifanio.
Ad eccezione della Lecce sacra, pubblicata nel 1634, le opere di Marciano, Coniger, Casmirio e Ferrari, rimasero inedite per lungo tempo; ma, evidentemente, Diego ne possedeva (o, almeno, ne aveva letto) i manoscritti circolanti al suo tempo. L’elenco in ordine cronologico può essere utile: la cronaca del Coniger (Recoglimento de più scartafi de certe cronache moderne, et antiche de più cose, et rinuate le cose socesse in questa Provincia de Terra d’Otranto), databile al 1512, circolò manoscritta fino al 1700; la lettera del Corrado (Ad Cives Uritanos Oratio) è datata al 1561; la Epistola apologetica del Casmirio[3], databile al 1567, è stata pubblicata solo recentemente[4], ma circolava ms. ai tempi dell’autore; l’Apologia paradossica della città di Lecce del Ferrari (opera ultimata nel 1586[5] ma, benché pubblicata soltanto nel 1707 in Lecce, anch’essa era nota ai contemporanei essendo circolata ms.); la già citata opera (s.d., ma ante 1628) del Moricino (1558-1628), ms. ben noto ai tempi dei Ferdinando e che troverà solo nel 1674 la necessità di essere pubblicata (ma plagiata) dal Della Monaca; la Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto[6] (s.d., ma ante 1628) del Marciano, anch’essa circolata ms. ai suoi tempi. Sul Marciano, in particolare, bisogna rilevare che questo autore è continuamente citato e parafrasato da Diego, a volte esplicitamente, ma più spesso implicitamente.
Innumerevoli i richiami, quasi sempre espliciti, a Giovanni Giovine, Giovanni Antonio Summonte, Marino Freccia, Pandolfo Collenuccio, dalle cui opere Diego attinge notizie e considerazioni in continuazione; meno citati Tommaso Costo e Angelo Di Costanzo. In un’ottica comparativa, alla luce delle notevoli differenze ideologiche e di impostazione storiografica, nonché della loro differente dipendenza dal loro specifico contesto politico, sarebbe da approfondire quanto di codesti Auctores Diego condividesse, e fino a qual punto. Anche perché Collenuccio, Di Costanzo, Costo, Summonte, Freccia, ecc., sono i capostipiti di varie tendenze (filo-angioina, filo-aragonese, antispagnola) che saranno proposte tra XV e XVIII secolo, sulla cui fortuna utilissime sono le considerazioni di autorevoli studiosi quali Aurelio Musi[7] e Antonio Lerra[8] (che qui accenniamo solamente).
Peraltro, un altro illustre studioso, Angelantonio Spagnoletti, sottolinea che «… la ricostruzione della memoria municipale nel Regno di Napoli è organizzata su elementi facilmente riconducibili ad un unico modello: la fondazione eroica e leggendaria della città, la vita del santo protettore, il rinvenimento miracoloso del suo corpo, la costellazione di chiese e di edifici sacri, la cronotassi episcopale…»[9].
Questi autorevoli studiosi hanno, dunque, messo in evidenza il trasferimento agli storici-cronisti-storiografi locali di temi e modelli afferenti ai capostipiti napoletani, quali l’insistenza sui miti di fondazione di origine greco-romana, il tema della fedeltà, la dinamica del potere locale, il peso dell’agiografia, l’emergenza dell’antispagnolismo[10].
Troviamo questi temi in Diego Ferdinando, ma in una miscela del tutto particolare, in cui non sembra prevalere nessuna delle tendenze citate; insistente è, invece, il tema delle origini (incentrato sui Messapi) insieme a quello agiografico (incentrato su S. Eleuterio). La dinamica del potere è accennata nel ricordo della vicenda del pallio, ma soprattutto nel richiamo meticoloso ai privilegi[11] che Mesagne aveva ereditato dai sovrani angioino-durazzeschi, puntualmente elencati da Diego, teso a rivendicare alla propria patria l’antico status di città demaniale.
Ricorre spesso l’utilizzo di fonti ecclesiastiche come Eusebio di Cesarea e Lattanzio, il Venerabile Beda, S. Epifanio, Henschenius, ma soprattutto S. Agostino (il Doctor Gratiae), un epigono del quale, il monaco agostiniano Jacopo Filippo Foresti alias Eremitano, occupa un posto privilegiato nella narrazione del Ferdinando. Ma occorre aggiungere anche un’altra considerazione, più generale e complessiva: dalla narrazione di Diego emerge una Puglia incessantemente battuta da eserciti stranieri e da sciagure naturali; una narrazione che sembra ricalcare l’impianto degli Annales Ecclesiastici di Cesare Baronio, altro suo Auctor prediletto; considerazione che emerge da un sommario confronto tra l’intitolazione di alcuni capitoli del Baronio e di Diego e che meriterebbe, forse, un maggiore approfondimento. Il Martirologio del Baronio (presumibilmente nell’edizione del 1620), in particolare, fu la sua fonte privilegiata per attestare il martirio di S. Eleuterio a Mesagne; e Diego gli rimase fedele anche dopo la revisione fattane nel 1630 da Urbano VIII. Bisogna, però, notare che il Martirologio Urbaniano non chiuse definitivamente la questione del martirio di S. Eleuterio; tant’è che, ancora nel 1660, troviamo affermata, sebbene in maniera critica, la versione del martirio mesagnese in un Martirologio Agostiniano[12].
[…]
Altro autore utilizzato da Diego fu Cieco da Forlì, alias Cristoforo Scanello, autore di una Chronicha universale della fidelissima, et antiqua regione di Magna Grecia, overo Iapigia divisa in tre parti, cioè di Terra di Otranto, Terra di Bari et Puglia Piana, stampata a Venezia nel 1575. La cronaca pugliese dello Scanello ebbe notevole successo, ma fu ritenuta poco autorevole già dagli studiosi dei secoli seguenti; la sua credibilità fu definitivamente demolita nel 1892 da Ludovico Pepe[13].
[…]
Per il periodo angioino-aragonese e quello del Viceregno, Diego si avvale del Summonte, del Giovine, di Paolo di Tarsia, di Paolo Giovio ed altri (compreso il Mannarino), ma soprattutto dei protocolli notarili, dei Tavolari, del “libro dei privilegi[14], conservato in Archivio” come dice lo stesso Diego (ossia il cosidetto “Libro Rosso”), dai quali trae e mette in risalto i numerosi e preziosi diritti concessi specialmente dagli Angioini, dai Durazzeschi e poi da Ferrante e suoi successori.
Nei due capitoli finora ignoti (Sepulchra ed Inscriptiones), i riferimenti sono soprattutto a Luciano di Samosata e ai Manuzio, Paolo e Aldo il Giovane. Nel capitolo sulle epigrafi mesagnesi, Diego espone quelle tramandate sia dal padre Epifanio che da lui viste, e si cimenta nella interpretazione del loro significato, anche per spiegare le incongruenze tra alcune versioni. In verità, alcune epigrafi erano state già pubblicate da Aldo il giovane, sulla base di comunicazioni inviate ai Manuzio da Quinto Mario Corrado (e da Giovanni Antonio Paglia), molto prima che se ne occupassero sia Epifanio che Diego Ferdinando. La vicenda ingenerò un po’ di confusione, poi perpetuata fino a Diego; un nostro supplemento di indagine[15] ha consentito di ricostruirne in parte i contorni (ma ne diamo un accenno nel relativo commento a pié di pagina, nella traduzione).
Uno sguardo particolare merita la polemica insistente (ma espressa cortesemente) che Diego propone nei confronti di Giovanni Maria Moricino[16], l’autore dell’opera Dell’Antichità e vicissitudine della città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino, filosofo e medico dell’istessa città, descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604. Una copia di tale opera, di cui l’originale fu disperso, è custodita in Biblioteca Arcivescovile “A. De Leo” di Brindisi: ms. D/12, trascrizione datata al 1761. Essa fu pubblicata nel 1674 dal plagiario Andrea Della Monaca col titolo Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi.
Il Moricino era un medico e filosofo discendente da famiglia veneta, nato nel 1558, morto nel 1628; nel periodo 1604-1605 ricoprì la carica di Sindaco a Brindisi, mentre nel 1613 vi risultava Auditore[17]. Oltre che a Brindisi, visse anche in Mesagne, dove insegnò retorica, logica e geometria a Epifanio Ferdinando; molto probabile, quindi, che una copia del ms. del Moricino fosse stata nelle disponibilità della famiglia Ferdinando. Evidentemente, per poterlo contestare, Diego ne leggeva il manoscritto; e, ad onor del vero, in molti casi ne riconosceva la piena validità. Perché, allora, questa polemica? Quasi certamente, la possiamo capire leggendo ciò che Moricino scrive a carta 16v del suo citato ms.:
[…] Nel che non posso fare di non ridere la vana pretendenza di coloro che pretendono Misagne, picciola Terricciola distante da Brindisi otto miglia, esser Messapia Regia de’ Re Messeni e Capo de Salentini…
[…]
Il contenuto dell’opera
Anzitutto, il confronto storiografico di Diego con la bibliografia e gli studi storici di oggi sarebbe impari; pertanto, nell’edizione critica ci siamo limitati a segnalare gli studi e le ricerche storiche ed archeologiche più autorevoli. Risulta molto più proficuo, invece, metterlo a confronto con la bibliografia dei suoi tempi, sia per capire quali, e di quale tipo, fossero le sue fonti, sia per mettersi in sintonia col suo modo di pensare.
Un breve accenno (ma l’argomento meriterebbe un discorso a parte) alla forma linguistica del codice 1655: il latino di Diego è fatto di lunghissimi periodi, spesso scoordinati, circonvoluti, “torrenziali”, colmi di termini abbreviati; si ha l’impressione di leggere un “racconto orale”; e, forse, l’uso sfrenato delle abbreviazioni, alcune delle quali sembrano inventate proprio da lui, tanto sono inusuali e ardite, è funzionale all’incalzare del racconto. La traduzione ha cercato di essere fedele non solo nella lettera, ma anche nello stile, al testo dell’autore; ma, soprattutto, ha cercato di rendere pienamente il significato di ciò che Diego intendeva esprimere. Compiti non semplici, tant’è che soltanto dopo essere entrati in sintonia con il suo pensiero, è stato possibile individuare i sinonimi più adatti a rispecchiarlo. È utile, mi pare, segnalare l’utilizzo (non eccessivo, tutto sommato) di termini ed espressioni dialettali e pure in volgare, quali “vuttisciana”, “girator di paese”, “porta picciola”, “de corpo a corpo”, “adaquatione”, “porta nova”, “porta di Rusci”, etc., che è oggetto di uno studio in corso di stampa[18]. Interessanti, anche, le numerose varianti latine e vernacole del nome di Mesagne.
Ciò premesso, riassumere quest’opera in poche frasi è impresa titanica, se non risibile. A mio modesto parere, tuttavia, qualche breve considerazione sul suo contenuto è necessaria, per potercisi orientare. Se quello che abbiamo prima appena accennato è l’orizzonte culturale nel quale si muove Diego, sembra di poter affermare che il suo è un terreno piuttosto campanilistico, benché supportato da una vastissima erudizione. Ma, d’altronde, il campanilismo del Ferdinando non è poi tanto esagerato, se solo si mette la sua opera a confronto con quelle (del ‘500 e ‘600) di altre città meridionali, in particolar modo quelle calabresi ricordate da Francesco Campennì[19], in cui sembrano persistere le antiche contrapposizioni tra le varie colonie magnogreche, che riemergono più o meno consapevolmente addirittura in epoca seicentesca: si vedano, in particolare, le contrapposte storie municipali di Cosenza, Crotone e Vibo Valentia[20]. Nel nostro caso, la contrapposizione è quasi a tutto campo, pur in forme erudite, tra la (presunta) centralità mitologica e religiosa di Mesagne e le circostanti città.
In realtà, quello che Diego esplora e approfondisce è un terreno che in area salentina era stato già solcato dal Casmirio, dal Ferrari, dal Moricino, dal Marciano.
Come per costoro, anche il Ferdinando si ispira sostanzialmente ad una linea storiografica che, nel Mezzogiorno, parte dal Galateo e fa il paio con il De antiquitate et situ Calabriae (1571) di Gabriele Barrio. Le vicende dei popoli italici precedenti la civiltà romana sono lette dagli studiosi ed eruditi locali vissuti tra umanesimo ed età moderna, come il fenomeno culturale che fornisce gli specifici caratteri identitari costitutivi di una “nazione”. Così, Diego fonda l’identità della sua città, Mesagne, sulle memorie della “nazione messapica”, che tenta di definire, descrivere ed illustrare sulla base delle fonti di cui poteva disporre, quelle letterarie innanzitutto; a queste aggiunge, poi, le scarne fonti archeologiche che andavano emergendo nel periodo burrascoso del primo ‘600.
[…]
Diversamente dal Mannarino, è del tutto assente, in Diego, qualsiasi intento encomiastico di signori o feudatari coevi o passati; e, mentre Mannarino esalta la Misagne felix, in Diego risulta vano cercare un minimo accenno alla Mesagne reale dei suoi tempi, fatta eccezione per i ritrovamenti archeologici. La celebrazione di Mesagne era, per il primo, funzionale alla benevolenza (per sé e per la città) del feudatario Giovanni Antonio Albricci; mentre per Diego sembra fine a sé stessa, funzionale alla dimostrazione della magnificenza di Mesagne nei confronti di chicchessia.
[…]
Tuttavia, benché scarna, l’attenzione di Diego ai suddetti temi indica (e conferma) la consapevolezza, negli osservatori seicenteschi, dell’autonomia riconosciuta alle autorità comunali di Terra d’Otranto dai sovrani angioini e aragonesi e non da quelli spagnoli (nel sistema neo-feudale), come è stato messo in evidenza da vari recenti studi[21]. Probabilmente, non è senza motivo la puntualità archivistica che a tratti ritroviamo in questa Messapographia: sarà da illuminare nel quadro delle dispute e delle alleanze che sorsero tra l’Università di Mesagne, il potere baronale, quello ecclesiastico e quello Vicereale, un campo di ricerca che merita di essere ulteriormente e sistematicamente solcato[22].
L’intento programmatico, che oggi definiremmo ideologico, di Diego non è dichiarato (ma ce n’era bisogno?); tuttavia, rifulgono chiaramente due obiettivi: ─dimostrare che Mesagne fosse stata Messapia capitale dei Messapi; ─dimostrare altresì una forte preminenza cristiana di Messapia-Mesagne, in quanto sede del martirio di S. Eleuterio, posto cronologicamente nell’anno 121 d.C., secondo i ragionamenti logici di Diego. Da ciò derivano le due caratteristiche fondamentali di quest’opera: la valorizzazione della “nazione messapica” e l’apologia di S. Eleuterio, confluenti entrambe nella grandezza di Mesagne. Mentre rispetto al secondo punto, l’accostamento della storia cittadina a quella del santo patrono non è una caratteristica rara né in Terra d’Otranto, né in tutto il Mezzogiorno, riguardo al primo punto, invece, Diego è l’unico scrittore di storia municipale, nel Seicento salentino, ad illuminare la propria città sulla base di una storiografia messapica.
  Diego Ferdinando e il Patronato di S. Eleuterio
Tali impostazioni risultano oggi plasticamente erronee; ma non erano assolutamente errate per Diego, e neanche per i suoi contemporanei, se è vero che nei documenti notarili ed ecclesiastici del suo tempo, Mesagne veniva indicata come Messapia (e ciò, in verità, fin dalla metà circa del ‘500). E Messapia veniva, pure, indicata la città nella epigrafe[23] incisa sul frontone del primo ordine della Chiesa Matrice riedificata, che reca la data del 1653. E le statue di S. Eleuterio, con Anzia e Corebo, erano e sono scolpite sul portale maggiore di detta chiesa (ma con un S. Eleuterio stranamente simile alla classica iconografia di S. Oronzo). Se, oggi, l’apologia di S. Eleuterio non ha più alcun senso, non era così nella mentalità (1655) dell’autore mesagnese; ma non era così, evidentemente, anche per i fedeli mesagnesi. Messapia e S. Eleuterio erano strettamente vincolati a costituire la base identitaria dei mesagnesi, come avvenuto in molte altre città salentine[24]. Erano così vincolati, che le statue dei tre Santi furono poste sul portale maggiore, affianco alla epigrafe inneggiante a Messapia, col Santo Eleuterio centrale e imponente, nonostante che la nuova chiesa, appena riedificata, fosse stata intitolata ad Ognissanti, mentre prima era intitolata ai tre Santi, come dice lo stesso Diego in questo ms., e come sarà poi ricordato (nel 1744) dall’Arciprete Moranza (vedi appresso).
Sul culto mesagnese di S. Eleuterio vi sono precedenti studi, ai quali rinviamo[25]. Ma questa, finora ignorata, insistenza di Diego sul presunto martirio mesagnese di S. Eleuterio apre nuovi squarci. Il legame che Diego stabilisce tra la Città ed il “suo” martire sembra ricondurre all’importanza della “parentela” col santo martire, dalla quale deriverebbe una concittadinanza (ossia parentela col sacro)[26] che da sola sarebbe bastata a dare sicurezza e preminenza alla città di Mesagne.
[…]
Da alcune carte nell’Archivio Capitolare di Mesagne, anzi, possiamo forse capire le motivazioni più profonde alla base della lunga dissertazione su S. Eleuterio. Sappiamo che Diego, divenuto sacerdote dopo la morte della consorte, fu accolto nel Capitolo nel 1648[27]. Mentre la nuova chiesa era in costruzione (essendo crollata il 31 gennaio 1649), fu perorata – su iniziativa della Civica Università – l’attribuzione effettiva del patronato alla Madonna del Carmine. Cosicché il 30 aprile 1651, il Capitolo della Chiesa Collegiata, «come in virtù del decreto et Bolla di Papa Urbano di felice memoria», preso atto che la Civica Università di Mesagne aveva «pigliato ed accettato ad Avvocata et Protettrice la gloriosa Vergine Santa Maria del Carmine acciò a suo tempo se ne celebri et solennizzi la festa in conformità di quello che s’ordina nelli detti Decreti pontifici», diede il proprio «consenso a quanto da detta Università era stato conchiuso […] nemine discrepante [corsivo nostro]»[28]. […]
Peraltro, rispetto ad altre Conclusioni Capitolari, questa sembra piuttosto sbrigativa, e il Capitolo, dal numero dei partecipanti – per essere un evento eccezionale – non sembra neanche molto affollato: solo una trentina sui circa 50 titolari. Sembrerebbe quasi che i religiosi capitolari non fossero molto entusiasti. Comunque, tra i Preti, Canonici e Presbiteri partecipanti a detta riunione del Capitolo mancava proprio Diego Ferdinando. Sorge il dubbio che la sua assenza non fosse casuale; che, cioè, Diego non condividesse l’operazione e non avesse partecipato per “motivi di opportunità”.
[…]
Tale dubbio è corroborato da un’altra Conclusione capitolare[29], in cui risulta che, nel mese di aprile del 1660, nel Capitolo (presenti, questa volta, oltre 50 religiosi) si discusse, fra l’altro, una precedente proposta di Diego, che fu accolta:
[il R.do Bartolomeo Leonardo Sasso…] Inoltre propone che il Dr. Fisico D. Diego Ferdinando per rinovare la venerazione de’ Nostri S(an)ti Eleuterio, Corebbo et Antea ne havea fatto fare un Quadro Grande, e desiderava che detto R.do capitolo gli concedesse una cappella per collocarlo, offerendo ducati 100 di capitale a detto Capitolo con obligo di messe e desiderava ancora che l’istesso R.do Capitolo insieme con l’Univ.(ersi)tà comparissero nella Sagra Congregazione in Roma per ottenere che detti s(an)ti ci siano concessi per Compadroni con la Beatissima vergine del Carmine e da tutti parimente fu concluso che citra preiudicium dell’altre concessioni di cappelle che si faranno per essere detto Sig. D. Diego benemerito di Capitali si concedesse detta Cappella [— —] se gli darà l’assenzo di Mons. Ill.mo Arcivescovo e che per l’avvenire non s’intenda con ciò fatto pregiudizio nelle concessioni che si faranno con sì poca somma e gli fu concessa la Cappella all’incontro di quella dov’è collocato il Quadro del S.(acro) Monte che è la 3a à man dritta in ord(in)e nell’entrare dalla Porta Magg(io)re della Chiesa et andare al Presbiterio e che si supplicasse in Roma per ottenere la d(ett)a Compadronanza a spese del med(esi)mo Sig. D. Diego.
Con questa decisione, dunque, fu accolta l’istanza di Diego di dedicare un altare a S. Eleuterio, come anche quella di chiedere alla sacra Congregazione dei Riti che Eleuterio, Antea e Corebo fossero elevati a Compatroni della Città, insieme con la Madonna del Carmine. Curiosamente, però, – sia detto per inciso – una precedente Conclusione Capitolare del 1658 ci informa che il Capitolo aveva accettato anche la nuova proposta dell’Università di proporre S. Oronzo quale protettore di Mesagne[30]. […]
Quanto all’istanza di Diego, non sappiamo se, e come, si sviluppò la perorazione della Compadronanza, ma l’altare di S. Eleuterio fu effettivamente realizzato, come risulta dalla Santa Visita svolta dall’Arcivescovo di Brindisi Francesco d’Estrada[31], che lo ispezionò il 18 ottobre 1660. Esso risulta pure nell’elenco degli altari dichiarati dall’Arciprete Antonio Moranza nel 1744, nella sua relazione consegnata all’Arcivescovo Antonino Sersale durante la Santa Visita[32]:
[…] L’altare di S. Eleuterio martire è della famiglia Ferdinandi, oggi ne tiene possesso il di loro erede il reverendo D. Diego cantore Baccone che ha il pensiero di provederlo di sacre suppellettili.
[…]
Tirando le somme, possiamo affermare che, per Diego Ferdinando, la magnificenza di Mesagne è soprattutto fondata sia sulle antiche (ma pretese) glorie messapiche che su quelle, religiose, dei proto-martiri Eleuterio, Antia e Corebo. Diego ritrova tali glorie nelle fonti letterarie, nei monumenti, nei documenti; i quali tutti attestano, nella sua concezione, che la magnificenza di Mesagne risaliva a ben prima della vendita della Terra di Misagne ai baroni (Beltrano nel 1522, Albricci nel 1591, De Angelis nel 1646). Sembra proprio questo il filo conduttore di tutta l’opera, sebbene non esplicitamente dichiarato.
[…] In conclusione, questa Historia Messapiae è una vera e propria miniera; scavandola ne possono venir fuori sassi, scorie, ma anche molti gioielli (e sono tanti). A tal proposito, segnalo soltanto alcuni brani interessanti:
Un gioco dei fanciulli con le monete
[carta 23r] «… Da ciò l’antica usanza dei fanciulli, ed il gioco di lanciare in alto i denari, e di presagire la sorte scegliendo o “testa” o “Nave”, genera in noi non poca fiducia nell’antichità. La moneta così contrassegnata, [come dice] Macrobio nel primo libro, capitolo 7 dei Saturnali, anche oggi è avvertita nel gioco dei dadi, quando i fanciulli, gettando in alto i denari, esclamano “Testa” o “Nave” in un gioco [che è] testimone dell’antichità».
L’Artopticus: La “frisa” ai tempi di Diego
[95v] «… quello che noi [chiamiamo] Arton, gli stessi Romani lo denominano Pane. Da ciò Artopta in Plinio nel libro 18, cap. 11, o Artopta in Plauto, [vocabolo] con cui chiamavano la donna fornaia, o il vasellame in cui veniva cotto il pane abbrustolito detto Artopticus».
La Vuttisciana
[carta 135v] «Da ciò [gli eruditi] sembrano spiegare la ragione di quella parola [vedi in appresso Vuttisciana], di cui ci serviamo non solo in Messapia, ma in tutta la Regione; vale a dire il giorno in cui non ci asteniamo per nulla dalle attività, poiché Giano, sia che fosse istruito da Saturno che accolse come ospite, oppure che fosse animato dal suo stesso genio e dalla [sua] saggezza, fu promotore dell’[attività] di piantare e seminare, e coltivare i campi la ragione, ed insegnò gli altri lavori per il vantaggio degli uomini, e per la coltivazione della terra. Perciò il giorno, in cui si fanno tutte queste cose, veniva chiamato Vuttisciana, vale a dire, “giorno di Giano”, o “ritratto [la personificazione] di Giano”.»
Il primo stemma di Mesagne
[carta 136v] «Inoltre, si vedrà l’effigie del Sole posta tra le spighe di frumento e scolpita su una pietra quadrata in una delle torri che, dal lato Meridionale, racchiudono le mura della nostra Città; e le spighe, poste sotto il Sole da entrambe le parti, che – si pensa – [siano] tra gli antichi simboli di Messapia [Mesagne], vogliono significare che anticamente i Messapi adoravano il Sole.»
Il castello Orsiniano di Mesagne
[205v] «Giovanni Antonio del Balzo Orsini […] A Mesagne, in verità, presso cui era solito recarsi spesso per via dell’aria più salubre e per diletto, costruì una Fortezza o grande Torre nei pressi del Castello vecchio [Castrum vetus] …».
[167v] «E, da una cerchia più grande, forse di tre miglia (da cui prima era recinta) fu ristretta ad una di un miglio, trincerata da fossati, mura, torri e munita di una Fortezza nel lato Boreale ed occidentale. Di questa Fortezza (che era chiamata Castello Vecchio [vetus Castrum]), la parte boreale, subìta la forza del tempo, crollò, ed il Principe dell’Avetrana volle abbattere negli anni passati <1630> la parte occidentale, in verità provvista di archi e fornici…».
Le distruzioni di Mesagne
[117r] «Soprattutto le Città di Messapia [Mesagne] e di Oria, che [si trovano] in mezzo all’Istmo tra Brindisi e Taranto, furono prese con la forza da Annibale e nel contempo date alle fiamme» [nel 212-211 a.C.];
[152v] Totila nel 547;
[166r] I Saraceni nel 914;
[239r-240r] I Francesi nel 1528-29.
Il contributo dei Mesagnesi alla difesa di Otranto dai Turchi, nel 1480
[222v] «Durante questa guerra, inoltre, che fu combattutta da parte loro contro i Turchi per riconquistare Otranto, i Cittadini di Mesagne pagarono cento fanti col pubblico denaro; e per i Viveri dell’Esercito inviarono molti moggi di farina, botti di vino e moltissimi animali, come leggiamo in alcune lettere Regie, che i Mesagnesi conservano. In esse, come dicono, il Re ordinò che i Cittadini di Mesagne non venissero afflitti da pagamenti straordinari, poiché [avevano dato] tutte queste cose di cui sopra …. [4 puntini di sospensione] <si vedano le lettere Regie in Archivio e se ne riportino esempi>».
Da rilevare, infine, il ricorso frequente all’etimologia (latina e greca), tanto per rafforzare i concetti espressi e/o argomentarli più compiutamente (emblematico il caso testé accennato di vuttisciana), quanto – invece – per escludere o confutare ipotesi e interpretazioni ritenute erronee. Ancora una volta, il nostro si avvale, per quelle che considera vere e proprie dimostrazioni, della letteratura specifica accreditata ai suoi tempi, tra cui Isidoro di Siviglia e Aldo Manuzio il Giovane (oltre che della propria vastissima erudizione). Sono spunti suggestivi, ovviamente; ma anche su questo specifico aspetto dell’opera di Diego Ferdinando, non c’è che da auspicare l’attenzione e il giudizio degli specialisti.
[…]
  Note
[1] Sulla ricezione di Virgilio in ambito meridionale, cfr. almeno F. Tateo, Virgilio nella cultura umanistica del Mezzogiorno d’Italia, in Atti del Convegno Virgiliano di Brindisi nel bimillenario della morte (Brindisi 15-18 ottobre 1981), Università di Perugia 1983.
[2] Cfr. almeno, V. Costa, Natale Conti e la divulgazione della mitologia classica in Europa tra Cinquecento e Seicento, in Ricerche di antichità e tradizione classica (a c. di E. Lanzillotta), Tored 2004, pp. 257sgg.
[3] Ms. D/8 in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[4] Iohannis Baptistae Casmirii, Epistola apologetica ad Quintum Marium Corradum, (a cura di R. Sernicola), edizioni Edisai, 2017.
[5] A. Laporta, Introduzione, in I. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce, Cavallino, Capone 1977, p. XIV.
[6] Ms. D/3, in Bib. “A. De Leo” (Brindisi).
[7] A. Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza. Le storie locali dei Regni di Napoli e di Sicilia in età moderna, Manduria, Lacaita, 2004, pp. 13 sgg.
[8] A. Lerra, Un genere di lunga durata. Le descrizioni del Regno di Napoli, ivi, pp. 27 sgg.
[9] A. Spagnoletti, Ceti dirigenti e costruzione dell’identità urbana nelle città pugliesi tra XVI e XVII secolo, in A. Musi, Le città del Mezzogiorno nell’età moderna, Napoli 2001, p. 37.
[10] Vedi soprattutto Musi, Storie “nazionali” e storie locali, in Il libro e la piazza…, cit., p. 20.
[11] Alcuni si sono fortunatamente salvati e si possono apprezzare in Storia e fonti scritte: Mesagne tra i secoli XV e XVIII: Documenti della Biblioteca Comunale «Ugo Granafei» (a c. di F. Magistrale, M. Cannataro, P. Cordasco, C. Drago, C. Gattagrisi, S. Magistrale), Fasano, Schena Editore, 2001.
[12] Vedi Martyrologium Romanum Illustratum Sive Tabulae Ecclesiasticae Geographicis tabulis et notis historicis explicatae…, Authore RP Augustino Lubin Augustiniano…, Lutetiae Parisiorum…, 1660, p. 180.
[13] L. Pepe, Il Cieco da Forli, cronista e poeta del secolo XVI, Napoli, Tip. dell’Accademia reale delle scienze, 1892.
[14] Il rif. è alla raccolta dei documenti, ovvero Libro Rosso, in cui erano trascritte le concessioni, esenzioni, etc., statuite dai Regnanti in favore delle città demaniali. Quello di Lecce, ad esempio, fu pubblicato da Pier Fausto Palumbo in due volumi, nel 1997 e ‘98. Quello di Mesagne, invece, fu disperso, o distrutto, e non ha avuto la fortuna di essere tramandato.
[15] D. Urgesi, Epigrafi latine da Mesagne nelle opere di Aldo Manuzio il giovane, in corso di stampa.
[16] Il medico-filosofo G. M. Moricino (1560-1628) era stato, per tre anni, insegnante di Epifanio Ferdinando per le materie di Retorica, Logica e Geometria. Vedi Profilo, Vie, piazze, vichi e corti…, cit., p. 243; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Rist. An. Bologna, Forni, 1972 dell’ed. Lecce, Pietro Micheli, 1674.
Per la sua bio-bibliografia, cfr. anzitutto Biblioteca Napoletana, et apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli, e del Regno, delle famiglie, terre, città, e religioni, che sono nello stesso Regno. Dalle loro origini per tutto l’anno 1678. Opera del Dottor Nicolo Toppi Patritio di Chieti, in Napoli, appresso Antonio Bulifon All’insegna della Sirena, 1678, p. 349. Inoltre, cfr. almeno E. Pedio, Il manoscritto di Giovanni Maria Moricino e la Storia di Brindisi del P. della Monaca, in «Rivista Storica Salentina», VI, 1904, pp. 364-74; Dizionario biografico degli uomini illustri [ma chiari] di Terra d’Otranto, cit., pp. 375-76; R. Jurlaro, Prefazione, in Andrea della Monaca, Memoria historica dell’antichissima …, cit; G. Jacovelli, Medici letterati brindisini tra 1500 e 1600, in «Brundisii Res», XV (1983), pp. 40-42.
[17] P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei Sindaci di Brindisi, 1529-1787 (a cura di R. Jurlaro), Brindisi, Ed. Amici della «A. De Leo», 1978, p. 75 e p. 87.
[18] F. Scalera, Dialettismi e volgarismi nella Messapographia di Diego Ferdinando.
[19] F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, in Il libro e la piazza…, cit., pp. 69 sgg.
[20] Ivi, pp. 87-93.
[21] Sull’argomento, vedi anzitutto M. A. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età moderna, Napoli 1988, pp. 199 sgg., con la sua ampia bibliografia.
[22] Segnaliamo che una prima, fertile, incursione in codesto campo fu compiuta da Luigi greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. I: I sindaci, l’università, i feudatari, Fasano 2000.
[23] Emendata dagli errori del lapicida, così recita: IN HONOREM SANCTORUM OMNIUM COLLAPSUM MESSAPIA RESTITUIT MDCLIII.
[24] Cfr., in proposito, M. Spedicato, L’identità plurima: i santi patroni nel Salento moderno e contemporaneo, in «L’Idomeneo» n. 10 (2008), pp. 145 sgg.; Id., Santi patroni e identità civiche nel Salento moderno e contemporaneo, Galatina 2009, pp. 9-18.
[25] F. Lanzoni, Le diocesi d’Italia al principio del secolo VII (an. 604), vol. I, Faenza 1927; G. Antonucci, Il martirio di S. Eleuterio, in Curiosità storiche mesagnesi, Bergamo 1929; L. Scoditti, S. Eleuterio e Mesagne (datt.), 1957; D. Urgesi, Una correzione all’iconografia mesagnese: Eleuterio, Anzia e Corebo non furono martirizzati a Mesagne, in Studi Salentini, LXX (1993).
[26] Interessanti, in merito, le considerazioni di F. Campennì, Le storie di città: lignaggio e territorio, cit., p. 102.
[27] Cfr., per tutti, Profilo, Vie, Piazze…, cit., p. 95.
[28] Archivio Capitolare di Mesagne, Conclusioni Capitolari, Cartella R/2, anno 1651, 30 aprile; v. anche A. C. Leopardi, Il Carmine nella realtà mesagnese, Bari 1979, pp. 70-71; e T. Cavallo, Il Santuario della Vergine SS. del Carmelo e i Padri Carmelitani nella storia di Mesagne, Fasano 1992, p. 74.
[29] A. C. M., Conclusioni Capitolari, ivi, anno 1660, 10 aprile.
[30] Ivi, anno 1658, 6 ottobre.
[31] L. Greco, in Storia di Mesagne in età barocca, vol. III: L’architettura sacra nella storia e nell’arte, Fasano 2001, p. 273.
[32] Ivi, p. 296.
  Per la prima parte leggi qui:
Libri| Mesagne e la sua storia di Diego Ferdinando (I parte)
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ultimenotiziepuglia · 5 years
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pangeanews · 6 years
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Storia fiera e triste di Filippo II, che si sposò quattro volte (e fu quattro volte vedovo) diventando il più potente sovrano del mondo
Piacerà ai cultori delle biografie di impronta tradizionale, quelle che dedicano ampio spazio alle genealogie dei regnanti e alla loro vita familiare, nei suoi riflessi politici, il Filippo II di Angelantonio Spagnoletti (Salerno editrice, 373 p., 24 euro).
Personalmente, ho una certa propensione per i personaggi che godono di una fama un po’ fosca, specialmente se eredi di un colosso che la Storia ha collocato in primissimo piano: non mi incuriosisce Augusto – personaggio comunque tutt’altro che apollineo – ma Tiberio, ombroso e tetro, forse mai pienamente amato dal suo patrigno, arrivato al trono dopo la morte di tutta una serie di eredi designati prima di lui. E così non suscita il mio interesse Carlo V, ma il figlio Filippo II, che per tanti motivi è accompagnato in Italia da una fosca fama: per prima cosa, è ancora vivo il topos del “malgoverno spagnolo”; e poi, non dimentichiamo l’immagine, romanzesca e immaginosa, ma di facile presa e difficilmente eradicabile, che del sovrano ci ha dato il Don Carlos verdiano.
Salazar de Mendoza celebrò in Filippo il più potente principe del mondo; e Campanella scrisse che nessuno avrebbe mai potuto calcolare l’estensione della monarchia ispanica ai suoi tempi. Eppure, nel sentire comune, Filippo II è stato oscurato dalla grandezza del padre, Carlo V, e anche dal fratellastro, Don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto.
Che cos’è la verità?, chiedeva Ponzio Pilato a Gesù, ma soprattutto a se stesso (Gv 18, 38), e che cos’era si chiedeva anche Antonio de Herrera y Tordesillas nella seconda parte della sua Historia general del mundo (p. 152). Se il prefetto della Giudea esprimeva un dubbio, de Herrera si sente di dare una risposta a questa domanda affermando: “La verità è una conferma di ciò che è certo e il rifiuto di ciò che non lo è, ordinata per mostrare la cosa come avviene, e chi si serve di essa e la mantiene è chiamato veritiero e il suo abito è la verità”. È difficile trovare la verità sul regno e sulla vita di Filippo II, o meglio, è difficile trovare una verità condivisa.
La solida biografia di Spagnoletti ripercorre la vita del re, uno dei più longevi del suo tempo, che arrivò ai 71 anni (nato nel 1527, morì nel 1598): un autentico primato nella casa degli Absburgo, che raramente arrivavano ai 70 anni. Filippo vide la morte di figli, nipoti, parenti, amici e di ben quattro mogli (tra le quali vi fu Mary Tudor, ‘Maria la Sanguinaria’: e chi sa che piega avrebbe preso la storia se dalla loro unione fosse nato un erede!), e solo dalla quarta consorte ebbe il figlio maschio che sarebbe stato destinato a succedergli.
Gregorio Leti, nella Vita del Cattolico Re Filippo II (1678) lo definì politico con tutti, amico della pace, pio verso la Chiesa, severo col suo sangue; ma anche invidioso, simulatore, incapace di dimenticare e propenso alla crudeltà, e ombroso. Uno dei pochi personaggi con cui entrò in vera sintonia era Vespasiano Gonzaga, il signore di Sabbioneta, ingegnere militare, insignito del Toson D’Oro che, come speciale concessione, Vespasiano, caso unico, poté conservare dopo la morte, venendo sepolto con l’ambita onoreficenza.
Chi fu il vero Filippo? La risposta va cercata nelle pieghe di una vita condotta all’insegna della ragion di stato, ricca di fasto e ricchezze, ma anche di contraddizioni, dolori e solitudine. A partire dal fatto che Filippo era spagnolo fino al midollo, cosa che certamente non si poteva dire del padre Carlo V, culturalmente più legato alla Germania e, soprattutto, alla Borgogna, la terra di sua nonna, Maria, unica figlia di Carlo il Temerario e sposa di Massimiliano I d’Asburgo.
Filippo rimase orfano di madre a 12 anni e convolò a nozze a 16 anni, nel 1543, con la principessa portoghese Maria Manuela, sua coetanea, che, tuttavia, morì poco dopo, nel 1545: la giovane aveva appena dato alla luce a Valladolid il principe Carlos, quando le dame che l’avevano assistita la abbandonarono per presenziare ad un autodafeé (vuoi mettere la ghiotta occasione mondana?) in cui sarebbero stati messi al rogo alcuni eretici. Maria Manuela, dicono le fonti, rimasta sola, si alzò dal letto, e mangiò un melone, frutto che agli Absburgo, evidentemente, portava sfortuna, visto che anche il bisnonno di Filippo, Massimiliano I, morì, si dice, a causa di una indigestione di questo cibo; tempo quattro giorni, anche Maria Manuela morì, poco dopo il battesimo del figlio. A questo decesso seguì un periodo di vedovanza di 9 anni, che preoccupò non poco il padre di Filippo, Carlo V, il quale, sin dal 1548 esortava il figlio a risposarsi, in quanto riteneva che l’elemento più adatto a trattenere i vassalli nella fedeltà verso i loro signori era vedere che essi garantivano il perpetuarsi della dinastia generando numerosi figli.
Il desiderio dell’Imperatore si realizzò solo nel 1554, quando il ventisettenne Filippo si adattò, assai di malavoglia, a sposare la trentottenne Maria Tudor: ma il titolo di re consorte d’Inghilterra e la prospettiva di un figlio di sangue per metà asburgico che avrebbe un giorno occupato il trono inglese valeva il sacrificio, anche se Filippo si adattò, per i pochi anni in cui durò il matrimonio, a essere re in Inghilterra (Carlo V aveva rinunciato a Milano e al Regno di Napoli, perchéi il figlio, nel momento in cui sposava una regina, fosse anch’egli un sovrano), piuttosto che re d’Inghilterra. Purtroppo, sappiamo bene quale sia stata la fine di questo connubio.
A trentadue anni, quindi, nel 1559, Filippo prese in moglie Elisabetta, figlia dei re di Francia Enrico II di Valois e Caterina De Medici. La sposa aveva meno di 14 anni e alla sua mano aspirava anche il duca di Savoia Emanuele Filiberto, più o meno coetaneo di Filippo (era nato nel 1528), che però dovette accontentarsi della sorella trentaseienne del Valois, Margherita. Al quarto matrimonio, nel 1570, Filippo prese invece in moglie Anna d’Austria, ventunenne, nata in Spagna come il nonno imperatore Ferdinando, e prima arciduchessa a sedere sul trono spagnolo. Rimasto ancora vedovo, pare abbia sondato le vie diplomatiche nel tentativo di organizzare un quinto matrimonio, ma desistette presto dal tale intento.
La biografia di Spagnoletti apre squarci interessanti anche sulla sorte delle regine: che cosa significava essere consorti di monarchi nel XVI secolo e oltre? Le sovrane, sposate in giovanissima età, erano delle sradicate di lusso, che lasciavano, spesso ancora adolescenti, la loro patria e la loro nazione, con il solo fine di condurre in porto numerose gravidanze: esse avevano quindi, in prima battuta, il potere che derivava loro dall’essere madri, soprattutto dell’erede al trono, e dall’assicurare la continuità dinastica, soddisfacendo i desideri non soltanto del sovrano loro consorte, ma anche della corte, che le sottoponeva a inaudite pressioni perché procreassero prima possibile il tanto sospirato erede maschio. Inoltre, le regine, essendo spessissimo straniere (perché quasi mai un sovrano sposava una sua suddita, sia pure di alta condizione), costituivano un collegamento formale e informale tra le due dinastie, fungendo da mediatrici fra la politica del padre o del fratello e quella del marito, fra quella del Paese d’origine e quella della patria d’adozione, e dando luogo a una diplomazia parallela che spesso si sovrapponeva a quella curata dall’ambasciatore ufficiale. Questo avvenne negli anni di regno di Carlo V, che si servì spesso della moglie Isabella come reggente dei reami iberici durante le sue numerose assenze, e della terzogenita Giovanna (1535-1573), che, in un certo qual modo, supplì anche alle assenze di Filippo sia quando era l’erede designato sia quando era il sovrano effettivo.
Per quel che concerne il potere informale di cui erano titolari, le regine dispiegavano una attività fatta di consigli al marito, educazione dei figli, influenza e committenze artistiche, patronage religioso e partecipazione, infine, a tutti quelli che potremmo definire i “riti della regalità” che contribuivano ad accreditare la visione del potere sovrano.
La vita di Filippo II mostra non solo la gloria del potere, ma anche le restrizioni, le limitazioni, i compromessi, le contraddizioni dei tempi, e questo anche nella morte: Filippo, che amava scrivere, ebbe, negli ultimi tempi della sua vita, durante la sua interminabile agonia, le articolazioni bloccate dalla gotta, con il pollice della mano destra amputato per scongiurare la cancrena; era un maniaco della pulizia e morì tra i suoi escrementi, nella sporcizia, indossando abiti ormai lerci che non gli si riusciva a cambiare, e attaccato da una miriade di pidocchi. La sua morte, prevista, pubblica, annunciata e seguita da prodigi celesti, inquadrata nelle devozioni del Cattolicesimo tridentino, non ebbe le stimmate di un semplice trapasso, ma di un transito dalla vita terrena a quella celeste, dove avrebbe regnato nella gloria, ricevendo il meritato premio per le sue tante imprese e per le sue fatiche. Ovvero, per dirla diversamente, morir es ganar.
Silvia Stucchi
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giovdall · 6 years
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Regrann from @salernoeditrice - Su Avvenire un grande affresco di Franco Cardini ricostruisce la figura di Filippo II, il Rey prudente, attraverso la lettura della biografia di Angelantonio Spagnoletti, da domani in libreria e sul nostro sito #storia #storiamoderna #biografie #biografia #filipposecondo #novitainlibreria #novità - #regrann
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