Tumgik
#Piegay
detournementsmineurs · 9 months
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"La Princesse de Clèves" de Jean Delannoy (1961) - adapté du roman éponyme de Madame de La Fayette qui se situe à la cour des Valois dans les dernières années du règne du Roi Henri II (1678) - avec Marina Vlady, Jean Marais, Jean-François Poron, Henri Piégay, Renée-Marie Potet, Lea Padovani, Raymond Gérôme et Annie Ducaux, décembre 2023.
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aetnart · 1 year
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The illustrations made for UAU (An Ambiguous Utopia) Issue 13, respectively, for the story by Roberto Del Piano and Laura Coci. You can take a look and purchase the magazine here 🌻 https://www.unambiguautopia.it/ Redbubble | Deviantart  
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isolaideale · 23 days
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parmenida · 11 months
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L'ESORCISTA... di Alessandro Casalini
Fu la mia migliore amica a liberarmi, prendendo in mano la situazione come un esorcista navigato, capace di prendere a pugni il demonio in persona senza alcuna esitazione.
Incredibile!
Io, il film, l'avevo visto una sola volta, evitando di concedermi il bis, nemmeno quando era stata riproposta nelle sale la versione integrale, ancora più paurosa, dicevano.
No grazie.
A me quelle "cose lì" facevano perdere il sonno, perché se credi in Dio, allora per par condicio devi credere anche nel Diavolo.
Ma torniamo alla mia possessione: gli uomini.
Ero succube del loro volere, una bambola di pezza alla loro mercé.
Mi facevo pena, ma non potevo fare altrimenti.
E così collezionavo uomini come francobolli, anche se in realtà erano loro a prendersi gioco di me.
Un trofeo scadente da mettere in bacheca per riempire uno spazio vuoto, in attesa di riconoscimenti più prestigiosi, ecco tutto ciò che rimaneva di me.
Ero solo un oggetto del piacere, ma non riuscivo a scrollarmi di dosso il personaggio che mi era stato cucito su misura da chissà chi, probabilmente da me stessa.
Poi arrivò lei, l'amica dimenticata e poi ritrovata, l'esorcista.
Mi urlò contro di tutto, arrivò persino a prendermi a schiaffi.
Lo fece per il mio bene, anche se in principio non fui affatto entusiasta dei suoi modi violenti.
Ma in qualche modo funzionò.
Ricordo che il giorno in cui tornai a essere una vera donna, mi piegai in due e cominciai a vomitare, come mi era capitato altre volte quando avevo alzato troppo il gomito.
Anche se questa volta fu diverso.
Ciò che risalì il mio esofago e fuoriuscì dalla bocca, ma anche e soprattutto dalla mente e dal cuore, furono gli uomini con i quali ero stata a letto, piccoli piccoli come omini in miniatura, anche se con fattezze riprodotte alla perfezione.
Biondi, mori, magri e grassi.
Con la barba e senza capelli.
Tutto il campionario.
Li vedevo protestare e gridare sproloqui contro di me, mentre finivano spiaccicati sul marciapiede, uno sull'altro come merce avariata.
E lei, la mia migliore amica, non smise di sostenermi e di spronarmi a rigettare quel maledetto bolo indigesto nemmeno per un attimo, fino all'ultima goccia.
E io lo feci, con le lacrime agli occhi e in preda ai conati più violenti che avessi mai sperimentato, fino a quando non tornai a essere libera.
- Mi hai esorcizzata - borbottai, cercando di tirarmi su.
La mia amica sorrise e, senza distogliere lo sguardo dagli omini agonizzanti ai nostri piedi, disse: - Che ne facciamo di questi qua?
Già, che fare di questa spazz...
Improvvisamente ebbi un'idea che mi parve la migliore di sempre. - Organico o indifferenziata? - azzardai.
Non ci fu bisogno di aggiungere altro.
(Illustrazione by Yuval Robichek)
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maxball · 5 months
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i have took piegays (priv blog) and hayseedgays url u know what am i gonna do
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esseridisumani · 5 months
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Ero vissuto sospeso nel tempo. Sfogliavo il passato.
Piegai le labbra in un sorriso ironico, quando mi resi conto che mi erano stati strappati dei fogli dai capitoli vissuti in quei mesi o forse si, forse non erano mai stati scritti.
Come poteva finire un qualcosa se niente era cominciato, come potevo perderlo se non lo avevo mai avuto?
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Cara, vecchia, amica mia,
per certi versi mi sei mancata.
La notte piangevo da sola dentro casa con le luci spente aspettando che ritorni.
Vomitavo lacrime dagli occhi mentre il buio mi nascondeva alla vista dei miei mostri.
Ti attendevo stesa sulle fredde piastrelle della cucina mentre tossivo sputando sangue intorno a me.
Ti attendevo con le mani aperte, come a fare l'elemosina, ci pensi?
Il dolore nella pancia non smetteva e gli occhi mi si chiudevano un po' alla volta.
Volevo lasciarmi inghiottire dall'oscurità.
Volevo diventare tua fedele compagna.
Non sapevo come reagire.
Non sapevo come fare a rialzarmi.
Stavo distesa guardando il soffitto che man mano si allontanava sempre di più da me.
Stavo crollando.
Mi stavo lasciando trasportare verso il nulla, verso il sollievo, verso la pace.
Sentivo le budella contorcersi ad ogni movimento.
Il senso di nausea sempre più pungente prendeva forma e sedeva accanto a me.
Mi teneva la testa sulle ginocchia e mi cullava mentre cercavo di buttare fuori quel poco che rimaneva nel mio stomaco.
I suoi occhi verdi si fissavano dentro ai miei scuri, bagnati di lacrime, dolore, spavento.
Per una frazione di secondo mi vidi attraverso quel verde brillante.
Rannicchiata in posizione fetale, mani strette a pugni che premevano sullo sterno convulso da tremiti.
Amara.
Che fine amara, no?
A piedi nudi cercavo di raggiungere la prima bottiglia d'acqua che i miei occhi scorsero dietro al mobile ad angolo.
Non mi reggevano, le gambe molli.
Continuavo a cadere ed a rialzarmi.
Il sapore di sangue nella mia bocca mi riportava alla realtà ogni volta che mandavo giù la saliva.
Sentivo il mio corpo bruciare.
Nemmeno all'inferno fa così caldo, cara.
Mentre avanzavo toglievo a fatica ogni indumento che avevo indosso.
Strappavo pezzi di stoffa rompendomi le unghie, facendole sanguinare.
Annaspavo mentre vedevo il sangue scorrermi lungo le gambe.
Guardavo in basso, spaventata, confusa.
Mi toccavo il viso.
Lacrime mischiate a sangue.
Mi piegai in due e vomitai.
Il rosso copriva le piastrelle bianche su cui fino a poco prima stavo sdraiata.
Le mie gambe tremavano.
Le mie mani divennero di un colore quasi grigio.
Lasciai perdere.
Ormai era finita.
Mi accasciai nuda sul pavimento freddo che mi concedeva sollievo.
Rimasi stesa li.
Per ore infinite.
Vidi l'alba illuminare il buio che mi fu coperta per la notte.
Vidi luce.
Sentivo il mio corpo irrigidirsi per il freddo.
Provando a rialzarmi dall'orrore scivolavo e ricadevo a terra.
Cara, amica mia.
Tu sei arrivata proprio lì.
Nell'incertezza, nella paura, nella mia eterna solitudine.
Sei arrivata silenziosa.
Ti sei chinata su di me.
Mi hai guardata, patetica, inutile, rotta.
Hai sorriso dinanzi la mia pena.
Mi hai concesso altro tempo.
Ho stretto la tua mano fumante.
Ho guardato nell'oblio dei tuoi occhi.
Ho pregato che tu ponessi fine a tutto.
Ho urlato disperatamente di volermene andare.
Non è forse sufficiente?
Non ho forse finito qua?
Un'unica flebile risposta affiorò nella mia mente persa chissà dove.
Non è ancora arrivato il momento.
Non è ancora finita questa tortura.
Non ho ancora scontato le pene del tuo inferno personale.
Amen.
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getparticulr · 6 years
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Humanise Something Free of Error by Sara Piegay Espenon
sarahpespenon.com
via GUP Magazine
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ilmerlomaschio · 3 years
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Seducimi....ma,Fottimi la mente
3endyandy/Wattpad
Domata
Non era una ragazza semplice era tenace e difficilmente si lasciava dominare o sottomettere.Dopo un week end molto "stancante" ci fermammo in un agriturismo. Nel ispezionare il luogo trovammo un rudere, dove una lastra di legno piantata nella terra faceva da base a un altra perpendicolare a essa!Subito nella testa un  pensiero fisso,volevo sottometterla ai miei voleri! Volevo scoparla come desideravo!E finalmente ci riuscii! La piegai di fronte a me è mi constatai che non aveva l intimo,la cosa mi piacque molto.Con delicatezza entrai in lei con un dito e sentii che era già bagnata. Cominciai a schiaffeggiarle il sedere prima piano poi sempre più forte.Godeva e  le piaceva..!.fino a quando  mi  gridò: basta!In preda all eccitazione. La spogliai, e la spinsi contro la colonna di legno e con una corda le legai i polsi. Non le diedi subito ciò che desiderava la torturavo , era il mio giocattolo e più rantolava dal desiderio e dalla voglia più  mi eccitava ,più mi ,veniva duro.La presi per  le cosce e  iniziai a scoparla con foga ,forza gliela volevo spaccare, lei urlava e affondava le sue unghie nella mia pelle,mi resi conto in quel momento che l'avevo finalmente sottomessa.
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less-ismore · 4 years
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“Ma io osservo che questa tendenza al dilatamento nell’allegrezza, e al ristringimento nella tristezza, si trova anche negli atti dell’uomo occupato dall’uno di questi affetti, e come nell’allegrezza egli passegia muove e allarga le braccia le gambe, dimena la vita, e in certo modo si dilata col trasportarsi velocemente qua e là, come cercando una certa ampiezza; così nella tristezza si rannicchia, piega la testa, serra le braccia incrociate contro il petto, cammina lento, e schiva ogni moto vivace e per così dire, largo. Ed io mi ricordo, (e l’osservai in quell’istesso momento) che stando in alcuni pensieri o lieti o indifferenti, mentre sedeva, al sopravvenirmi di un pensier tristo, immediatamente strinsi l’una contro l’altra le ginocchia che erano abbandonate e in distanza, e piegai sul petto il mento ch’era elevato.”
Giacomo Leopardi , Zibaldone di pensieri, 1817-1832.
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yelenabworld · 4 years
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Racconto erotico
– Alessandra… –
E il mondo era sparito. Lo aveva detto con quella voce suadente, lenta, cupa e per me era diventato l’unico suono udibile fra tutto quello che c’era intorno a noi.
Non so spiegare quel calore: ad ogni lettera del mio nome che usciva dalle sue labbra lo sentivo salire quasi insopportabile fino allo stomaco e mi ritrovavo con i sensi totalmente impazziti, totalmente bagnata.
– Hai le guance rosse… Alessandra. –
“ho te dentro che mi stai scopando piano…” avrei voluto rispondergli, mi salvava la distanza, il fatto che fosse di fronte a me invece che accanto, in quella tavola, in mezzo agli altri.
– Fa caldo, non ti pare? – mi limitai a rispondere sfoderando un sorriso, quasi distratta.
Non ero una cacciatrice di uomini e non mi piaceva esserlo, preferivo essere sorpresa e presa, perché mi lasciavo prendere solo da chi avevo scelto io, senza sgomitare, senza attirare attenzione. L’idea di essere scelta io stessa, fra tante, mi lusingava. Non mi sarei mai dichiarata, a nessuno, in nessuna circostanza. Volere me, così riservata e in disparte, mi faceva sentire notata: anche anonima, spiccavo ugualmente. Non che fossi brutta, anzi. Tutti cercavano la mia compagnia, le mie risate, le mie battute senza mai tralasciare uno sguardo al fondoschiena e al seno, entrambi decisamente di proporzioni gradevoli e sempre messi in risalto, senza esagerare.
Uno sguardo al culo un uomo te lo concede sempre, vuoi o non vuoi, amico o conoscente…
E io, da buona giocatrice, mi tenevo sempre un passo indietro a tutti. Ma non oggi. Non con lui, così magnetico…
Come mi era difficile frenare gli istinti quando mi capitava un uomo così, quando sentivo il desiderio scalpitare dentro: tanto quanto era difficile trovare un uomo che mi facesse quell’effetto.
Un uomo e i suoi brividi. Per una come me era letale.
Tenere a bada i maschietti anonimi non era difficile, bastava far loro credere che ero frigida, totalmente disinteressata al loro sesso.
Spiegare cosa mi accendesse come un fuoco era difficile… era difficile spiegare che bastava una voce per arrivare all’orgasmo, spiegare che bastava il pensiero delle sue dita a farmi sciogliere come neve al sole.
Non era un pene, la sua durata o la sua velocità… era un dito. E quella voce… ossessivamente erotica.
– Ti accompagno io a casa stasera, Alessandra –
Sapevo già come sarebbe finita quella sera… mi aveva chiamato troppe volte, masticando lento il mio nome in bocca che se me lo fossi trovato addosso gli avrei fatto mangiare anche tutto il resto.
Man mano che tutti andavano via la constatazione di aver accettato un passaggio a casa da lui, mi rendeva sempre più nervosa.
Mi conoscevo troppo bene e sapevo che si sarebbe spinto oltre, lo avevo capito da come si comportava e da come mi guardava. Non solo, mi ero resa conto che aveva capito benissimo che quel suo modo di dire il mio nome era la mina delle mie emozioni.
Maledette guance, diventavano rosse.
Maledetti occhi, si dilatavano.
Quando mi porse il cappotto, mi venne quasi un infarto: la nostra distanza fino a quel momento gestibile, si sarebbe ridotta troppo e pericolosamente.
Ma il copione voleva che io facessi finta di niente, pure con le guance in fiamme e gli occhi dilatati.
Mi voltai e gli permisi di accompagnare il cappotto lungo le mie braccia.
Chinò la testa e mi sussurrò nelle orecchie “che buon profumo hai, Alessandra”
Non so come rimasi in piedi.
Come riuscii a mantenere le ginocchia tese, ma il respiro si spezzò e il cuore ebbe un sussulto.
Deglutii e cercando di evitare di respirare troppo forte, mi girai sfoderando ancora uno dei miei sorrisi più marcati aggiungendo un ‘grazie’.
Poi misi un piede avanti all’altro e cominciai a camminare verso l’uscita del ristorante.
Stavo per capitolare, ormai era palese, ormai ero sua.
Lo sentivo dietro di me, silenzioso.
Salutammo tutti nel parcheggio, tra risate e battute, rumori di portiere che si aprivano, bip di allarmi e motori accesi. Poi ci fu il silenzio.
Eravamo rimasti solo noi.
Lo vidi tirar fuori dalle tasche le chiavi della sua macchina “Vieni, ti accompagno a casa, Alessandra”
‘Oh ti prego non chiamarmi più!’ pensai, mentre lo seguivo come un automa.
Aprii lo sportello e salii, sistemando la borsa tra le gambe.
Fu in quel momento che sentii la sua mano sul ginocchio: si avvicinò velocemente e con l’altra mano raggiunse la borsa. Ora avevo il suo viso praticamente ad un soffio dal mio.
“Non stare scomoda, Alessandra… mettiamola nel sedile posteriore.”
Che avrei potuto rispondere? Niente… non potevo: avevo il cuore in gola e una voglia matta di baciarlo senza più fermarmi.
E lui, tranquillamente, mise la borsa sul sedile posteriore, mi sorrise e avviò il motore. L’autoradio si accese in automatico e le note di un pezzo soft jazz riempirono l’abitacolo.
Ero bagnata. Lo sentivo chiaramente, la sentivo pulsare, spasmodica.
Dovevo obbedire agli impulsi, mi soffocavano, ero single da troppo tempo, da troppo tempo in attesa di un Uomo che di maschi ne avevo abbastanza.
Con quei suoi riccioli brizzolati, i suoi occhi azzurri, il suo volto segnato dal tempo, era semplicemente quel lui, quel brivido che aspettavo.
“Vuoi venire a bere qualcosa su da me?”
“Perché no?” gli risposi lentamente guardandolo. Si voltò per un attimo, togliendo gli occhi dalla strada: sentii il suo sguardo percorrermi dolce. Le sue mani strinsero il volante e tornò a guidare. “Ne sono felice…” sussurrò La musica jazz continuava ad andare, dolce e sensuale, mi chiesi se l’avesse scelta apposta… dio, mi sentivo scoppiare. Imboccò una via e si parcheggiò. Mi prese la borsa e me la porse prima di scendere. “Vieni…” Attraversammo un vialetto, una piccola serie di scalini e un portone. “Abito a piano terra” mi disse mentre percorrevamo il corridoio “è un piccolo appartamento, ma è accogliente…” Aprì la porta e con un sorriso mi invitò ad entrare per prima. “E’ carino” dissi dando uno sguardo in giro Mi tolse il cappotto e lo mise sul divanetto del corridoio, insieme alla borsa. Lui annuì, ma stava guardando altro: stava guardando le mie curve morbide che il vestito aderente sottolineava. Lo avevo colto in flagrante e la cosa non faceva altro che farmi girare l’adrenalina più veloce… Non volevo bere… avevo fame.
La distanza tra me e la parete era di pochi passi, mi ci trovai spinta dolcemente contro, con il suo corpo addosso, mani sulle mani e le sue labbra dietro le orecchie.
La guancia e seno premuti sul muro e il suo respiro caldo mi travolse
“Odori di sesso… e di lavanda, Alessandra.”
O cristo, pensai, mentre la marea calda mi invadeva: le mani scesero lungo i fianchi, sulle cosce e lentamente risalirono portando con loro il vestito.
Non ero tipo da slip o da perizoma, ero tipo da autoreggenti a balza alta e niente intimo, ma un uomo lo scopriva solo togliendomi i vestiti.
Sentii le sue dita indugiare sulla balza delle calze per poi risalire dolci verso il mio sesso…
Trattenne il fiato per un secondo, come capitava a tutti, quando si rendevano conto che non c’era altro a coprire quel tanto agognato paradiso dei sensi.
“Non avrei mai pensato di trovare tutto questo fuoco sotto il vestito…” mi sussurrò ancora con quella voce micidiale.
‘Oh c’è molto altro, pensai… c’è un mare che non sai…’ ma non riuscivo a dirlo, le sue dita stavano già entrando dentro i miei pensieri…
E gli istinti si sa, non possono essere controllati, soprattutto quando un uomo sa come fare…
Eccolo arrivare… piano… devastante quel calore che sommerge e che poi esplode!
A me bastava solo quello, era il mio piccolo segreto…
“oh…”
Quanto mi piaceva stupirli e squirtare tra le loro dita, mi faceva sentire così padrona, così unica e speciale!
Sentirli perdere il controllo e ansimarti addosso, stringerti i glutei o le cosce così avidamente, la loro eccitazione piantata sulla schiena… valeva la pena… valeva il rischio.
Presa, intrappolata, ma mai sedotta veramente…
Il vestito non serviva più e me lo sfilò quasi prepotente.
Con un sorriso languido gli presi la mano con cui mi aveva toccata e gli succhiai le due dita: sapevano di me, sapevano di sesso.
Era solo il preludio della mia bocca su di lui, delle mie fantasie e di tutto quello che avrei potuto fare.
Tolse le dita e mi baciò, esigente, premendomi ancora contro la parete. Lui era ancora vestito, io ormai avevo addosso solo calze, scarpe e reggiseno.
“Toglilo…” mormorò
Prima una spallina, poi l’altra… mi voltai di nuovo faccia al muro e armeggiai con i gancetti, liberandoli. Scivolò sul pavimento e io, perfida, con le mani al muro, mi piegai allargando le gambe.
Con la coda dell’occhio lo guardai: era il momento in cui un uomo si spoglia, di corsa di tutto quello che ha addosso. Era il momento in cui sapevo di avere il completo controllo su di lui, ero io a condurre quel benedetto piacevole gioco fatto di mute richieste e di reazioni…
Mi sfiorò i glutei e me li strinse “vestita sei bella… ma nuda… nuda sei stupenda”
Un brivido mi percorse la schiena, la sua lingua ora stava percorrendo dolcemente incavo delle natiche, avanti e indietro!
Di nuovo quelle dita dentro di me, piano, più veloci… stavolta non riuscii a stare zitta e quando la marea calda esplose ancora, sulle sue mani e sul pavimento, mi lasciai andare, gemendo forte.
So che non resistono mai la seconda volta… so che la voglia diventa cieca…
Sentii il suo pene strofinarsi e bagnarsi di me e subito dopo mi scivolò dentro, piano, in un singulto, fino in fondo.
Lo accolsi, inarcando la schiena, in punta di piedi.
“Sei bollente…” mormorò senza fiato iniziando a muoversi
Ma io non ero normale… ero speciale… se ne era accorto, ma non abbastanza.
Mi piaceva giocare con i muscoli… stringerli e poi lasciare… stringere poco per volta e poi via via sempre più forte: non mi importava se fosse venuto subito, come non mi importava di venire io: avevo bisogno di altro tempo per farmi scoprire. L’unica cosa che mi importava era essere “il suo piacere”, irresistibile, totale, puro orgasmo di mente e corpo. Era quello il mio godimento personale.
E vincevo sempre io.
[©Yelena b.]
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scampoliditesto · 5 years
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Pi-Gei-Gi
Ogni volta che ho caldo penso al mio professore di "Lavorazioni Meccaniche" delle superiori. Era del sud, emigrato al nord a seguito di una girandola di concorsi. Aveva gli occhi più neri che abbia mai visto. Erano una specie di vuoto cosmico capace di assorbire la luce e gli sguardi degli altri. Anche i capelli erano neri. Un po' radi, tirati all'indietro, lasciavano intravedere la fronte lucida e ampia. Da lontano sembrava un fotogramma sfuocato, un fermo immagine difettoso, una di quelle robe che il digitale ha ormai eliminato definitivamente. Io e il mio compagno di banco lo chiamavamo "PJG" (pi-gei-gi) perché la sua firma era uno sgorbio indecifrabile e ricordava quelle tre lettere.
PJG era piuttosto burbero e si incazzava abbastanza facilmente, soprattutto in laboratorio. Ricordo con sgomento quelle ore interminabili rinchiuso in una specie di parco a tema, dove il tema era una fabbrica metalmeccanica. Ricordo anche la tuta da lavoro blu e pesantissima, i capelli raccolti per evitare che il tornio o il trapano a colonna mi facessero lo scalpo, i pezzi sfregati sul piano di riscontro e i litri di lubrificante spruzzati sulle punte di acciaio super rapido per evitare che fondessero. PJG girava tra i macchinari, acchiappava un pezzo, lo misurava con il calibro e poi ti lanciava un quattro o un cinque come se fosse una specie di scappellotto didattico. Con me però abbastanza indulgente, forse perché anche io ero un estraneo in quella città, proprio come lui. Per gli altri era un trentenne abrasivo, come la pasta che si usava per lavarsi le mani a fine lezione, un mischione di sabbia e sapone addizionato di un aroma al limone disgustoso.
Comunque, non so se fosse una coincidenza, l'orario infelice delle sue lezioni, oppure un'alterazione genetica causata da un fusto di scorie nucleari sotterrato sotto la sua casa in Calabria ma, ogni volta che faceva lezione, in aula c'era un caldo insopportabile. Il sole filtrava dalla vetrata e si stampava sulla lavagna e sul lato sinistro dei volti. E se qualcuno si alzava per aggeggiare con le tapparelle, PJG partiva con una cantilena. Diceva una roba tipo "fermati, o sole". Ridevo solo io perché ero l'unico dei miei compagni ad aver avuto il privilegio di frequentare una scuola cattolica.
Una pomeriggio, mi sembra fosse già primavera inoltrata, la situazione divenne insostenibile. Continuavo ad asciugarmi il sudore dalla fronte con dei fazzoletti e a sbuffare insofferente. Ricordo che strappai due pagine dal quadernone e le piegai per dare rigidità alla carta. In pochi minuti, mi creai un ventaglio artigianale e iniziai ad agitarlo. PJG mi guardò dicendomi: «stai facendo caldo a tutti». Poi cancellò la lavagna e attaccò a scrivere della roba incomprensibile per degli studenti di prima superiore. Fu la mia prima vera lezione di termodinamica.
Per farla breve, con un spiccato accento calabrese addolcito dalla cantilena mantovana, spiegò a tutti che l'energia che impieghiamo per sventolare il foglio è maggiore del calore che riusciamo a sottrarre con l'aria prodotta. Morale: aumentiamo la nostra temperatura credendo di farci fresco. Da quel momento, considerò la nozione acquisita. E quindi, se vedeva qualcuno insofferente per il caldo diceva «pensa ad un posto fresco. Non ti agitare, pensa di stare al polo. Pensa alla neve. La vedi? Ecco, stai fermo e non rompere i coglioni».
Durò un anno, poi fu assegnato ad un'altra sezione. Venne rimpiazzato da un cinquantenne bolso dal fiato pesantissimo. Ci spiegò la loppa, la ganga, la lavorazione della ghisa, e tutta una serie interminabile di reazioni chimiche che avvenivano nell'altoforno. Faceva il simpatico, parlava in dialetto, rideva da solo, ed era un po' testa di cazzo. In officina lavoravamo esclusivamente al tornio e in circa otto mesi riuscii a fare solo una specie di cilindro spastico.
Ogni tanto vedevo PJG girare nei corridoi. Era costantemente attorniato da donne: bidelle, professoresse e bariste che tentavano di incrociare i suoi occhi neri. Se si accorgeva di me, mi faceva l'occhiolino e poi si accendeva una sigaretta incurante di qualsiasi divieto e della temperatura.
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nevver · 6 years
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Everything is going just fine, Sarah Piegay Espenson
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fotomonday · 5 years
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Sophie Green - Congregation
Congregation by Sophie Green is a celebration of Southwark’s Aladura Spiritualist African churches and congregations. Often referred to as “white garment” churches, Green’s images engage with rarely-documented dynamic communities who unite each weekend for Sunday service. Aladura is a denomination of Christianity predominantly practised by Yoruba Nigerians, and in the last 40 years has become a ubiquitous part of London life – particularly in Southwark, which has the highest concentration of African churches outside the continent. Congregation  observes a rich tapestry of worshippers and Sunday services, which are spoken in Yoruba and form a key social meeting point and place of cultural solidarity between African Londoners.Congregation asks questions about how individuals find collective identity and power within subcultures, and how cultural practice is assimilated into modern global contexts: traditional dress, food and customs rub up against modern technology and fashion, while devotional interiors colourfully fill the hidden, often industrial spaces that churches inhabit. Green also engages directly with individuals through collaborative, posed portrait sessions and photographic workshops which serve to empower and engage with members of each congregation and their faith. Mixed in with naturalistic images of men, women and children, these stylised portraits highlight the performance of identity and communality that underpins religious practice.  - Text by Loose Joints Congregation is published and designed by Loose Joints, an artist-run publisher and design studio exploring progressive approaches to image making in book form. It was founded in London in 2015 by Sarah Piegay Espenon and Lewis Chaplin.
Source: http://www.sophiegreenphotography.com/congregation-1 © Images by Sophie Green Photobook published by Loose Joints
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b-sides-magazine · 3 years
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FANTAITALIA - 8 MARZO - dedica alle scrittrici italiane di fantascienza
FANTAITALIA – 8 MARZO – dedica alle scrittrici italiane di fantascienza
Quest’anno dedico l’8 marzo alle scrittrici di fantascienza italiane (che elenco in ordine casuale): Clelia Farris | Giulia Giubellini | Romina Braggion | Nicoletta Vallorani | Linda De Santi | Alexia Bianchini | Anna Feruglio Dal Dan | Daniela Piegai | Giovanna Repetto | Chiara Reali| Franci Conforti | Serena M. Barbacetto | Elisa Emiliani | Enrica Zunic’ | Francesca Cavallero | Emanuela…
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scatchan · 3 years
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Verso gennaio di 4 anni fa, dopo un mese dalla prima storia ripensando alla accaduto iniziai a pensare che quella sensazione non era poi così male, così un giorno in cui i miei non c erano decisi di andare nelle mie mutandine. dato che non volevo sporcarle di nuovo misi degli strati di carta igienica nelle mie mutandine, andai in bagno iniziando a spingere per fare uscire la cacca, ma non fu così facile dato che per il nervosismo della nuova situazione non usciva.
Allora aspettai una mezz'oretta per calmarmi e riprovai a spingere, questa volta mi ci volle solo qualche secondo perché la cacca iniziasse ad uscire, era più dura dell' ultima volta ma comunque uscì un bell ceppo di cacca della grandezza di una mela, dopo poco sentii uscire un altro ceppo anch'esso quanto una mela.
La sensazione era stranissima, perché pur sapendo di essermi cagata le mutande volontariamente i due ceppi caldi che premevano contro il mio culo mi facevano sentire bene, poi mi ricordai quello che mi disse la mia amica, così mi piegai verso terra e la cacca inizio leggermente a spalmati sul sedere ma mi fermai subito per paura di sporcare le mutandine, buttai la cacca insieme alla carta igienica nel water e mi feci una doccia per pulirmi prima che i miei tornassero a casa e tornai in camera per fare i compiti, super eccitata per quello che avevo fatto
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