Tumgik
#SAsso di Fata
wine-porn · 4 months
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Di Facto
Finally got into the middle child of a care package from Tuscany, and like the (new) winemaker said, it is truly cut from a bit different cloth than the newer release. This was made by his grandfather, who kept things at a much riper, more new-world-friendly super-Tuscan style. It lacks the vibrancy of the 2021, relying instead on classical–nyet: *safe*–nuances of heady black fruit and extended…
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jamesthewineguy · 7 months
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Tenuta Licinia Toscana IGT Sasso di Fata and Montepolli Review #toscana ...
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popolodipekino · 1 year
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che circonda la capitale
c'è questo sito preistorico in bretagna o giù di lì, probabilmente osservatorio lunare, centrato sul grand menhir brisé (il grande menhir spezzato): un sassone (ma non eravamo in bretagna? forse fu assimilato) originariamente alto quasi 21 metri, che attualmente giace a terra spezzato in quattro parti. il sasso viene anche chiamato - così leggo dalla mia fonte (G. Cossard, Cieli perduti. Archeoastronomia: le stelle dei popoli antichi) - men er hrooeg (la pietra della fata), la grande pierre e er grah.
l'ultima denominazione deve essere di epoca romana, databile attorno all'epoca del famoso villaggio degli iriducibbili (sono pazzi questi romani)
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radiofrank · 6 years
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Le manine
C’è chi fa la mano morta chi una mano lava l’altra C’è chi dà man forte e chi fa man bassa Chi ha le mani in tasca chi ha le mani in pasta e chi è di mano lesta la sinistra non sa che fa la destra
C’è chi alza la mano a scuola e fa la V di vittoria C’è chi fa gol de Dios alla Maradona C’è chi ha la mano leggera come la musica
C’è chi dà una mano e gli prendono il braccio chi è colto con le mani nel sacco e chi tira il sasso ma poi…
C’è chi ha mani di fata chi rapina a mano armata e chi ha la mano bucata
Sulle manine vorrei dire di più ma ho le mani legate vi lascio a mani vuote Datemi voi una mano se volete e aggiungete qui parole a mano a mano…
(Testo letto oggi nelle "Buone nuove" di Savi & Montieri)
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winteralease · 4 years
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[Long Night]
#RavenfireRpg
- Manda giù al volo! Ma non sarà troppo per te Winny?-
Scherzava, eppure Damon si preoccupava sempre per la collega, dopo una settimana intera che era rimasto in turno con una tipa che di simpatico aveva solo il nastro per capelli, ormai il Dood e Winter erano una squadra a lavoro, perfino i clienti venivano più spesso quando c'erano loro.
SI erano promessi di festeggiare la fine della sessione e lui aveva mantenuto la promessa, si erano recati al Long Night per brindare e avevano già iniziato, sebbene nessuno dei due volesse eccedere, una serata diversa era dovuta. La vita del Fright in quel periodo era piuttosto strana, ma non strana in senso negativo, solo diversa dal solito. Non lo avrebbe ammesso a voce alta, ma anche in quel preciso momento, stava pensando al Rosso.
La musica, il sottofondo delle persone che parlavano, il rumore dei bicchieri, la moltitudine di profumi che i sensi sviluppati del Dooddrear captavano al meglio, eppure, aveva ancora davanti agli occhi Austin.
Mandò giù la tequila e scoppiò a ridere mentre la sua espressione stizzita dall'alcool era divertentissima.
- Allora, cosa mi racconti? La tua settimana come è andata?-
Winter Alease N. Lindholm
Rimanere ferma per un tipo come Winter era pressoché impossibile, ecco perché si divideva il più delle volte tra il college e i turni all'Aquarium che ultimamente erano diventati fin troppo noiosi. Sapeva perfettamente il motivo di tale noia, e derivava dal fatto che dividesse quei turni non con l'unica persona che ultimamente era stata in grado di farla divertire, Damon. Quella sera, infatti, avevano promesso di incontrarsi e poter trascorrere una di quelle serate dove i guai sarebbero senz'altro stati dietro l'angolo. Teneva il bicchierino in mano come se fosse stato il santo Graal e solo dopo un lungo respiro la fata buttò giù in un sol sorso lo shottino di rum puro rivolgendo all'amico l'espressione più stizzita che poté far in quel momento. « Ehi, ehi... Per chi mi hai preso, Tigro? Forse è troppo per te... Non vorrai mica tirarti indietro proprio adesso! » Domandò la Lindholm con un sopracciglio alzato. Era sempre pronta a sfidarsi con l'amico di sempre, i loro guai sembravano seguirli come un'ombra ma ultimamente i loro turni erano stati a loro sfavore. Sentiva vibrare ogni cellula del proprio corpo mentre la musica si espandeva in quel locale che ormai era diventato un vero e proprio punto di ritrovo. « Settimana pesante a dire il vero, i turni all'Aquarium sono noiosi senza di te, ma a parte questo sono contenta di godermi un po' di relax. E tu, piuttosto? Sei sparito dalla circolazione... Qualche nuova fiamma? »
Damon Samael Fright
Un grido euforico uscì quasi come un ululato dalle labbra di Damon, in realtà era vero, quella roba era forte , ma in qualche modo dovevano pur festeggiare. Erano abituati a parlare tra loro senza troppi problemi, certo Damon teneva per sé i pensieri legati alla sua famiglia, ma il resto Winter lo conosceva. - Hai davanti a te un biologo marino, ovviamente ho studiato così tanto che ora voglio solo dedicarmi per un po' alla cura del reparto rettili che dovremmo ampliare e alle piccole nuove meduse. - Sembrava una sorta di Dottor Dolittle marino, era felice come un bambino il giorno di Natale, non poteva fare a meno di esserlo, quel suo carattere istintivo, lo rendeva anche estremamente sensibile a certe cose. - Fiamma?- Prese un profondo sospiro e scoppiò a ridere un minuto dopo, non stava prendendo tempo? - Tu sei una furbetta! E non reggeresti altri due bicchieri.- Prese il ritmo iniziando a muoversi , ballando sul posto. - Vedo qualcuno, vero.-
Winter Alease N. Lindholm
L'urlo che aveva emesso l'amico qualche istante prima aveva fatto scoppiare a ridere la fata che ora era costretta a tenere il dorso della mano davanti alla bocca per evitare di fare scene che sarebbero stato senz'altro delle figuracce. Non sarebbe stato di certo un problema, in fondo i due amici avevano combinato anche di peggio ed era anche questo uno dei motivi per cui si trovavano così bene. Osservò poi Damon mentre parlava prima di fare cenno al barista di portare loro un secondo giro. « A cosa pensavi? E comunque, continuo a pensare che l'idea di portare gli squali non sia poi così male, sai? » Replicò prima di continuare a ridere per quell'espressione che s'era dipinta sul volto del doodrear. Fate e doodrear potevano essere nemici mortali, o semplicemente due buoni amici come lo erano loro senza dover considerare implicazioni che potevano essere facilmente bypassate. « Hai capito benissimo... E se vuoi scommettere, possiamo farlo anche ora. Che ne dici, secondo e terzo giro e dopodiché confessi chi è questo qualcuno? Non puoi lanciare il sasso e tirare indietro la mano... E sai che sono curiosa! »
Damon Samael Fright
Sapeva cosa pensavano di lui in molti, eppure, l'amica non si era mai fatta influenzare da quelle stupide voci, questo era stato il primo importante passo verso un amicizia alla quale il Dooddrear teneva davvero moltissimo. Euforico per quella serata ma anche per aver finito il college, voleva solo festeggiare e non pensare ad altro. - Ma quale secondo e terzo giro? Winny , non voglio farti ubriacare! E non ti dirò chi è. Oh no no no.. É un segreto. - Annuì e appena arrivò il secondo giro, sollevò il bicchiere verso l'alto. - Al terzo, inizierai a cantare canzoni da taverna.. - Ovvio che stava scherzando, voleva che fosse una risata tranquilla e rilassante. - E tu? Mh? Dimmi un po' quanti cuori hai infranto.- Chiese, mandando giù l'intero contenuto del bicchiere. - Dovrà fare i conti con me.-
Winter Alease N. Lindholm
Tante persone avevano provato ad avvicinarsi alla fata, spesso anche per i motivi sbagliati, ma mai una volta Winter aveva sentito il legame che correva tra lei e il dooddrear. Non importava che appartenessero a razze diverse anzi, ma l'amicizia sincera che li legava andava ben oltre e il fatto che si trovasse l'uno di fronte all'altra per festeggiare era solamente uno dei tanti motivi per cui si trovavano bene. Tuttavia la Lindholm era più che curiosa di scoprire chi fosse la persona del mistero. « Ehi, ehi... Da quando abbiamo segreti io e te? » Domandò mostrandosi apparentemente offesa da quel comportamento senza nascondere un sorriso più che divertito sulle proprie labbra. Si ritrovò così a ridacchiare la giovane che, senza nemmeno attendere un secondo, prese il secondo bicchiere e lo alzò pronta a brindare. Scosse poi il capo Winter quando buttò giù il liquido ambrato che sembrava bruciarle la gola. « A dire il vero nessuno, e forse è proprio questo il problema... E poi sarai tu a cedere mio caro, e mi racconterai ogni singolo dettaglio sconcio di questa persona... Quindi vuota il sacco, Fright! »
Damon Samael Fright
Damon si sentiva strano, non perché fosse in giro a bere con la sua amica, ma perché contrariamente a ciò che aveva sempre fatto, provava verso ciò che aveva con Austin, una sorta di gelosia, sentiva di non poter condividere con nessuno quello che stava accadendo. Teneva molto all'amicizia con Winter ma non era pronto per mettersi così a nudo. - Non è che voglio tenerti segreti, è che stò uscendo con un ragazzo.- Forse avrebbe avuto remore a dirlo a chiunque, ma non a lei, a Winter quella cosa poteva dirla, non se ne vergognava, ma non avrebbe neppure voluto dirla a chiunque perché nonostante tutto, erano affari suoi. - Ti ho già detto abbastanza!- Rise e prese il secondo Shot di Tequila, mandandolo giù con un solo movimento. - Winny, Hey winny! ci scateniamo? - Si strofinò le mani e senza attendere oltre iniziò a ballare sul posto, ridendo come se non aspettasse altro, forse era davvero così.
Winter Alease N. Lindholm
Più osservava l'amico, più la fata sentiva che Damon non avrebbe detto nulla di più di quanto accennato. Non sapeva il motivo per cui volesse essere così riservato, ma non avrebbe forzato la mano per alcun motivo al mondo. Per quanto ci fosse rimasta male dal fatto che non volesse confessarsi con lei, non poteva dire di non comprendere le sue motivazioni, perché in fondo la fata avrebbe agito allo stesso modo. « Diciamo che per ora mi basta... » Replicò la fata prima di buttare giù l'ennesimo shottino. Non avrebbe messo pressioni all'amico, voleva solamente che fosse felice, e se aveva trovato la felicità con un ragazzo beh, era contenta per lui. « Ehi, spero solamente che ti tratti come si deve, perché uomo o donna che sia, deve vedersela con me... Non permetto a nessuno di far male al mio tigro! » Commentò ridendo e ascoltando poi l'inizio di una canzone che spingeva la fata a dimenarsi perfino lì seduta. « Adoro questa canzone! Dai vieni, voglio scatenarmi! » Alzandosi in piedi e trascinando l'amico a ballare, non riuscì più a trattenersi e diede così il via alle danze.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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genevieveamelie · 6 years
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      Gifrole Ector & Genevieve            #ravenfirerpg   Lago|24/01|08:35 ⋰ ▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬▬ ☠
[Dopo quella sera al lago, vi si era recato altre volte, come nella speranza di rivederla lì e passare altro tempo con la propria sorella. Ma ben sapendo che non avrebbe riavuto nuovamente quella stessa fortuna, gli bastava il ricordo che quel luogo gli trasmetteva, non ancora pronto ad accettare tutto quello che era successo. Da quel momento forse, passava più tempo seduto su quelle pietre che a casa propria, lasciandosi andare a tutti quei pensieri e finendo pacchetti su pacchetti di sigarette. Aveva iniziato ad adorare il suono che i propri pensieri gli trasmettevano, quando li dedicava a Louisa, per quanto fosse un piacere doloroso al tempo stesso, ma impossibile da allontanare
Genevieve Amélie S. Hale
Il silenzio della mattina, la quiete di quel luogo e quella sintonia con la natura che sembrava emanare quel lago dava quel senso di tranquillità alla fata. Correva le faceva bene all'umore e non si trattava di una semplice fissa per tenersi in forma, il corpo di Genevieve non ne aveva alcun bisogno, ma quel rilascio di endorfine sembrava la cura ad ogni problema per la bella mora. Arrivò in quel luogo silenzioso fino a giungere la sponda est del lago, quando un rumore la fece voltare di scatto. Il cuore sembrò impazzire, portò una mano all'altezza del petto come a volerlo calmare, e solo quando vide un giovane apparentemente appartato, Genevieve riuscì a tirare un mezzo sospiro. Sul suo volto comparve un accesso di sorriso, un sorriso nervoso. « Nessuno ti ha mai detto che non è carino comparire alle spalle di qualcuno? »
Ector Kelley
[Come stesse gettando via i pensieri, tirò un sasso tra le acque cristalline del lago, portando un'altra sigaretta alle labbra. Portò le mani in tasca dopo averla accesa, continuando ad osservare la superficie dell'acqua, finché una voce lo fece trasalire] C—come? Potrei dirti esattamente lo stesso, sai? [Tenne la sigaretta tra le dita per poterle rispondere e nel tono, ricambiare quel velato ma pur sempre presente nervosismo per essere stato sorpreso alle spalle in quel modo] E poi ero qui da più tempo di te, mi pare che sia stata proprio tu a comparire dal nulla
Genevieve Amélie S. Hale
La fata si ritrovò a tenere il palmo della mano sul petto, accarezzando il tessuto termico della maglia che indossava in quella giornata invernale, ma quel sorriso appena accennato sulle di lei labbra, tradiva una certa tensione. Era nervosa, come se potesse aspettarsi chissà cosa dal ragazzo sconosciuto, eppure, quando vide la testata di ricci ne rimase quasi affascinata. Solo quando tornò in sé, inarcò un sopracciglio assumendo una posa più rilassata, abbassando appena la guardia. « Io... Stavo facendo jogging ed è impossibile che tu non mi abbia udito. Tu... —— Tu, a quanto pare, ti stavi divertendo a tirare sassi in acqua, ecco perché. Ti stavi allenando per il nuovo guinness dei primati? » Ammiccò divertita, inclinò appena il capo verso destra con un sorriso furbo sulle labbra.
Ector Kelley
[La guardò in un moto di nervosismo proveniente ancora dai recenti attimi ormai passati, in un'espressione interrogativa, nonché scettica col proprio sopracciglio inarcato sempre presente] Ma cosa— [Esattamente in quel momento, alle ultime parole della ragazza, si rese conto dell'assurdità di quella situazione e scosse la testa emettendo uno sbuffo divertito, contagiato dopotutto dal sorriso della sua stessa interlocutrice] Forse. Esiste un record? Perché potrei farci un pensierino. [Rispose a tono, non volendosi mai far trovare spiazzato e privo di risposte come poco prima] Mi dispiace, ero sovrappensiero e non ti ho proprio sentita [Per quanto Ector fosse un dooddrear, non è che provasse poi tanto piacere nello spaventare qualcuno—non intenzionalmente, almeno—proprio per questo si scusò infine, assumendo un atteggiamento più calmo e consono al suo portamento di sempre, riprendendo a fumare la sigaretta con calma]
Genevieve Amélie S. Hale
Come suo solito, Genevieve aveva cercato di smorzare quel nervosismo che s'avvertiva nell'aria con una semplice battuta, e sperava che lo sconosciuto capisse. Era solita dire la cosa più folle anche nel momento meno opportuno, e il fatto di essere spesso allegra, faceva sì che la considerassero superficiale, ma se solo si fossero fermati a vedere per davvero la fata, avrebbero visto che vi era molto di più. Ridacchiò divertita ritrovandosi a scuotere appena il capo. « Beh, puoi sempre cimentarti, no? » Replicò divertita lasciando andare del sorriso che ormai era inutile trattenere. Inspirò assaporando l'aria fresca invernale, aggrottando appena la fronte sulla sigaretta del ragazzo ma senza dire alcunché. Distolse poi lo sguardo, e si presentò infine. « Sono Genevieve. E ora, perché non mi dici che cosa ci facevi qui oltre che spaventare tutti i pesci? »
Ector Kelley
Non male come idea [Continuò con quell'aria divertita, senza un apparente perché. Dopotutto per il dooddrear era anche strano quel comportamento: tutto per lui si basava su motivazioni ben precise, ma in effetti una lieta chiacchierata non necessitava realmente di un perché] Piacere Genevieve, io sono Ector. Beh, credo che chiunque venga qui lo faccia per pensare. La quiete di questo luogo—quando nessuno ti assalta alle spalle—è veramente utile per fare un po' d'ordine, non credi? {https://media.tenor.com/.../c3151e6a62607f980bc.../tenor.gif} [E quanto disordine si ritrovava per la testa il giovane meccanico ultimamente? Però non poteva neanche trattenere quello stacco da un discorso quasi serio, con annesso il lieve sbuffo divertito di prima]
Genevieve Amélie S. Hale
Genevieve si ritrovò ad ampliare maggiormente il sorriso che stava spuntando sulle labbra. Era contenta che il ragazzo avesse colto la sua battuta, eppure, oltre a quel divertimento apparentemente, vi era una tensione che faceva drizzare la schiena della fata. Ella perse un poco il sorriso, probabilmente a seguito delle sue parole, ma non perché avesse detto chissà che cosa, ma perché in quelle affermazioni vi era parecchia verità: era lei la prima a dover fare ordine nella sua mente. « Credo... Credo che tu abbia ragione. E a parte gli scherzi, questo posto ha qualcosa che ti spinge a riflettere. » Confessò prima di stringersi nelle spalle ed accennare un sorriso sincero. C'era qualcosa negli occhi di Ector, non sapeva definire cosa, ma vi era comunque qualcosa. « E... —— Mi dispiace, non volevo spaventarti. »
Ector Kelley
[Notò il suo umore variare da momento a momento, ma soprattutto lo avvertì da dooddrear qual era. Ancor più facilmente, ne ebbe la definitiva conferma osservandola e notando che si era persa chissà dove nei meandri della sua mente, seppur per breve tempo, terminando l'esatto attimo in cui egli rilasciò un'altra nuvola di fumo verso l'alto, per veder risorgere nuovamente il suo sorriso] Non è stato un reale problema, Genevieve, non preoccuparti [A quel punto però pensò a quanto tempo fosse passato, alzandosi e dando un'occhiata al proprio orologio prima di rivolgersi ancora a lei. Sicuramente aveva intuito che si fosse fatto un po' tardi, ma il sorriso che le rivolse, era di un rassicurante poco usato da Ector, quasi fosse nuovo in quel momento] Credo dovrei riprendere degli allenamenti in palestra, sai? [A quel punto, il sorriso rassicurante, diventò più complice e una propria mano andò a prendere quella di lei alzandola di poco in un saluto un po' antico, come a volerle dire semplicemente “ci vediamo lì”] È stato un divertente piacere conoscerti
Genevieve Amélie S. Hale
In quel momento, nel silenzio del lago, sentì un brivido ma qualcosa che non era dovuto al freddo o a chissà a quale altra sensazione: non si trattava di paura, bensì qualcosa di diverso. La fata si ritrovò a essere stranita, come se il giovane volesse scappare da lei ad ogni costo. Il sorriso sulle di lei labbra sembrò diventare più amaro, meno contagioso, e senza accorgersene Genevieve annuì con un lieve cenno del capo. Che diavolo stava succedendo? « Credo... Credo che sia anche per me ora di andare. » Mormorò senza neanche troppa convinzione. Con la fronte aggrottata, e quella piccola V che le si formava in mezzo alle sopracciglia, ogni volta che assumeva un certo sconcerto, mostrò un debole sorriso. Solo quando il ragazzo prese la sua mano, ella alzò lo sguardo nel vedere il suo sguardo che sembrava voler di più di quello che facessero le semplici parole. Osservò la sua mano nella sua, un gesto antico, quasi regale, e quella sensazione sembrò acuirsi. Seguì i movimenti, spinta quasi a fare un debole inchino, e un angolo delle labbra si alzò. « Ci vediamo... —— Ector. »
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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pangeanews · 4 years
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“Perché lasciarti solo per ferirmi sulle lame affilate della notte?”. Amy Lowell, l’ammaliante fata morgana della poesia. Un ritratto e alcune poesie tradotte da Silvio Raffo
Il nome di Amy Lowell è legato al movimento dell’Imagismo, la corrente poetica che nel secondo decennio del Novecento volle prendere le distanze da ogni eredità postromantica flettendo la lirica alla cosiddetta prosa polifonica, sostituendo alla musicalità melodica modi vivacemente dissonanti e vicini al parlato. L’adesione di Miss Lowell all’Imagismo è caratterizzata primariamente da una forte tendenza alla ‘teatralizzazione della poesia’, a originali forme di ‘drammi in versi’ sulla scia delle raffinate e bizzarre performance in voga nei “Little Theatres” di cui Amy era appassionata spettatrice: brevi atti unici, quasi sempre monologhi, che anticipando il teatro dell’assurdo mettevano in scena drammi della solitudine (one man show) comici e graffianti.
*
L’iniziale sintonia con Ezra Pound, che Amy incontra in Inghilterra nel 1913, si tramuta assai presto in rivalità portando a un feroce discidium, dovuto principalmente al carattere tirannico del “miglior fabbro”, che non sopporta l’eccessiva intraprendenza della discepola e non esita a ridicolizzarla ribattezzando il movimento col nomignolo “amygismo”, disapprovando fra l’altro come ‘rétro’ certe scelte stilistiche di lei, vagamente “sentimentali” (Pound si volge al “Vorticismo” e la lascia perdere). Senza porsi troppi problemi per l’ostilità di colui che del resto non ha mai considerato suo maestro (“Mi sento debitrice piuttosto ai francesi, soprattutto ai parnassiani”), Amy continuerà per la propria strada pubblicando libri che le assicureranno un notevole credito ( da A Dome of Many-Coloured Glass a Sword Blades and Poppy Seeds fino a Pictures of the Floating World) e diffondendo il suo verbo (imagista o amygista) in veste di conferenziera itinerante fino al suo ultimo giorno, rivelando un’energia e una capacità di interazione con i giochi editoriali e redazionali da indurre il suo contemporaneo Waldo Frank a definirla una manager d’eccezione, “l’unico vero ‘uomo di lettere’ che l’America abbia mai avuto”. In effetti, Miss Lowell può permettersi di andare dovunque voglia, disponendo, oltre che di un entusiasmo immarcescibile, di un patrimonio da ereditiera e di un fedelissimo autista personale
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Ma chi è biograficamente parlando Amy Lowell? Il suo luogo di nascita è Brookline, nel cuore di Boston, e appartiene a una delle famiglie più facoltose del Massachusetts (il paese di Lowell, luogo natale del pittore Whistler e di Jack Kerouac, è praticamente di proprietà dei suoi nonni); il padre la conduce con sé in Europa e in Egitto, in lunghi estenuanti viaggi che le minano la salute, suo fratello Percival, astronomo di fama alla perenne ricerca di comete e pianeti inesistenti, nonché fine studioso di cultura giapponese, le comunica l’amore per l’Oriente.
*
Di fondamentale importanza per la sua formazione, ancor più che il contrastato sodalizio con Pound, è l’incontro in età giovanile con Eleonora Duse. Il ‘violon d’Ingres’ di Amy è la recitazione, ma non può realizzare questo desiderio a causa dell’imbarazzante involucro corporeo di cui una Natura matrigna ha voluto dotarla: Miss Lowell costituisce il caso più eclatante di obesità femminile del fulgido gotha della poesia nordamericana. Costretta da rigidi bustini e stecche metalliche che stritolano il suo corpo imprigionandolo come una gabbia, a trent’anni coprirà tutti gli specchi di casa per non correre il rischio di guardarsi (proprio come la nostra mitica Contessa Castiglioni) e passerà l’intera vita in un buio rischiarato solo da luci artificiali, dormendo di giorno e lavorando di notte. La sua pelle è di candida porcellana, lo sguardo da eterna bambina. La sua fortuna è la presenza di un’ancella discreta e devota come Ada Russell, non a caso un’attrice, una sorta di controfigura di ciò che fu per Gertrude Stein l’ectoplasmatica Alice Toklas, l’ombra silenziosa di un altro genio inconiugabile.
*
La figura femminile è al centro di alcuni testi prodigiosi antesignani del delirio beckettiano, come Men, Women and Ghosts, monologo esistenzialista in cui si propone la stralunata cronaca in diretta di un uxoricidio commesso ovviamente da una donna completamente pazza, o The Day that was that Day, in cui una zitella pietosa salva l’amica dal suicidio per avvelenamento convincendola a sopravvivere, benché si senta awful tired come lei, e così “that day that was that day/vanished in the darkness”. Amy coltiva con pari entusiasmo e perizia il territorio onirico, come negli squisiti Dreams of War Time, e quello paesaggistico-orientale, sbizzarrendosi nella tecnica degli hokku e del verso cadenzato, che si alterna a quello metrico nello stesso componimento senza che si avverta alcuna incongruenza.
*
Dalla prefazione a Sword Blades and Poppy Seed: “Molte delle mie poesie sono scritte in quello che i francesi chiamano vers libre: un termine più adatto all’uso e alla versificazione francese che non alla nostra; io preferisco chiamarla poesia ‘in cadenza non ritmata’… Tali componimenti si basano su un ‘ritmo organico’, cioè sul ritmo della voce che parla con la sua necessità di respirazione più che secondo un rigido schema metrico, ma si differenziano dai ritmi della prosa normale perché sono più curvi e contengono più accenti… È una forma fluida e cangiante, a volte prosa, a volte verso, che consente una grande varietà di trattamento”. Come non pensare alla capricciosa forma espressiva del ‘frammento lirico’, già corteggiata dal divino fanciullo Arthur Rimbaud e coltivata quasi sistematicamente dai nostri Vociani, quella che Papini definì “un’avventura colorita della frase, fra prosa e poesia”? Quasi sicuramente Amy Lowell non ne sapeva nulla, ma si tratta di convergenze psicoastrali.
*
Oltre alla musica, ad attrarre continuamente l’inquieto spirito di questa strana ammaliante fata morgana, è il disegno pittorico e in generale la dimensione iconica. A proposito di certi suoi scritti Amy parla di written pictures, quadri scritti: i disegni orditi dalla parola, immuni da qualunque sbavatura di colore o di linea (negli stessi anni o poco dopo si sarebbe affermato in America il Movimento Precisionista) si stagliano sulla pagina gelidi e sensuali, come certi paesaggi di Hopper o di Georgia O’Keeffe. A tratti, senza nulla togliere a tanto austero nitore,  affiora la soavità miniaturistica cinese e giapponese: Barbara Lanati, nella sua esaustiva introduzione all’unica edizione italiana della poesia lowelliana nella ‘Bianca’ Einaudi del 1990, conclude come segue: “Blu, grigio, porpora, bianco latte (la base cromatica delle stampe cinesi, la carta di riso) e chiazze rosse, come chiazze di sangue, ancora e sempre a ricordare, sinistra, rovesciata sineddoche, la lontananza, l’estraneità, la sensuale materialità della vita che la pagina volutamente esclude… Vita indissolubilmente annodata nella realtà alla morte, alla separazione, alla lacerazione e allo strappo. Che una ‘imagery’ agghiacciante ‘rappresenta’ quale senso ultimo della vita, e che – con determinazione – la parola poetica si assume il compito di esorcizzare”.
Silvio Raffo
**
da Dreams in War Time:
I
I wandered through a house of many rooms. It grew darker and darker, until, at last, I could only find my way by passing my fingers along the wall. Suddenly my hand shot through an open window, and the thorn of a rose I could not see pricked it so sharply that I cried aloud.
Vagavo in una casa di molte stanze. Il buio s’infittiva, ed alla fine riuscivo ad orientarmi a malapena tastando la parete con le dita. Ma d’un tratto incontrava la mia mano una finestra aperta, ed ecco che la spina di una rosa invisibile acuta mi feriva ed io piangevo forte.
  II
I dug a grave under an oak-tree. With infinite care, I stamped my spade into the heavy grass. The sod sucked it, and I drew it out with effort, watching the steel run liquid in the moonlight as it came clear. I stooped, and dug, and never turned, for behind me, on the dried leaves, my own face lay like a white pebble, waiting.
Sotto una quercia scavavo una fossa. Nell’erba pregna di fango affondavo con cura infinita la vanga, la risucchiava la zolla, a fatica di nuovo la estraevo, osservando il metallo liquefarsi, riemergere alla luce al chiar di luna. Scavavo china senza mai voltarmi. Alle mie spalle, sulle foglie secche, il mio viso giaceva – un sasso bianco in attesa.
*
da Picture of the Floating World:
OMBRE CHINOISE
Red foxgloves against a yellow wall stricked with plum-coloured shadows; a lady with a blue and red sunshade; the slow dash of wawes upon a parapet. That is all. Non-existent – immortal – as solid as the centre of a ring of fine gold.
Digitali purpuree contro una gialla parete striata d’ombre color prugna; una dama con un parasole rosso e blu. Lento frangersi d’onde a un parapetto. E questo è tutto. Inesistente – immortale – solido come il cuore di un anello d’oro fino.
*
The Taxi
When I go away from you The world beats dead Like a slackened drum. I call out for you against the jutted stars And shout into the ridges of the wind. Streets coming fast, One after the other, Wedge you away from me, And the lamps of the city prick my eyes So that I can no longer see your face. Why should I leave you, To wound myself upon the sharp edges of the night?
E quando me ne vado via da te il mondo batte sordo come tamburo il cui suono si ottunde. Lancio il tuo nome contro stelle aguzze fende il mio grido i marosi del vento. Rapide si rincorrono le strade e l’una l’altra incalza, ti respinge via lontano da me. Tutte le luci della città trafiggono i miei occhi e il tuo volto scompare alla mia vista. Perché lasciarti, solo per ferirmi sulle lame affilate della notte?
Amy Lowell
*la traduzione delle poesie è di Silvio Raffo
L'articolo “Perché lasciarti solo per ferirmi sulle lame affilate della notte?”. Amy Lowell, l’ammaliante fata morgana della poesia. Un ritratto e alcune poesie tradotte da Silvio Raffo proviene da Pangea.
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mattyslittleworld · 6 years
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party in the bush
I’m sitting in the 9th street path station. I walked around the city, as I tend to do, listening to mixes and masters and writing. I get so inspired seeing groups of friends running around the village with excitement. I really get a kick out of seeing people get caught up in their little moments and their path. Even like arguments and frustration. It really reminds you of empathy and that all the people around you have lives with a lot of emotional shit going on. Tonight it feels like Autumn and that’s a really weird feeling for me. Growing up there was a 2-3 year time period where every autumn I lost a close friend due to some reckless stupid shit, most of them died from car accidents and over doses, some I lost through incarceration. But my point is that it was always in October. As soon as the air starts to get cold I immediately get brought back to those times of just adapting to how brutal the world can be. I also have fond beautiful memories of my friend group coming together to heal each other’s wounds over our constant losses and grow as a community. We would all just camp out for years on end at Kait McCarthy’s house in EK by Mcmahon Park and never sleep or eat or have any idea what the future held. I remember I was in love with this girl who id do anything for. I wrote about her a lot on the Jailbirds album that’s about to come out. I wrote about her on the songs “Navesink River Road”, and “Meet Me In December”. I would just sit in Kaits house with my friends and dream about getting out of this shitty town and making dreams come true. Fast forward Danny Clinch actually sings “from Kaits house of abandoned romantics we slept like the dead lord we dearly missed” - on a song called Jeralyn that I wrote about that era of my life. Pure reckless abandoned love and beauty and pain. How ironic that ended up being. To have that man all these years later sing those words about Kaits house and the death of our best friend Dana Centanni. Damn I remember that like it was yesterday. I miss her so much. I wonder who she’d be now. So successful and beautiful and I’d still be chasing her. I sometimes wonder what would have happened if she came home from the mall that day. Would we have started dating? She said we’d hangout that night and the next time I saw her was in a casket on 115. That’s where most people I love ended up. I must have written 8 million songs about her and that tragedy. As soon as the leaves fall I feel that shit in my soul. I also remember our friend Pat died. I was always scared of Pat. He had long hair and was super badass. One night at the st Leo’s fair in Lincroft, a mob of no less than 50 of us left the fair and were walking down the street to go have a brawl behind the elementary school. There were so many of us. I was walking with him and 3 grown men from Asbury walked up to him and asked his name and the second it was given one uppercutted him to the ground in front of me and 3 other friends and they stomped him out in front of us and we were so young and just frozen. It was just so far beyond the scrapping we were used to. Pat got up like a champ, the men walked away, apparently it was for beating up their friend in RB a week prior, and like nothing happened he wiped blood off his face and we went behind the school and everybody went wild. Well weeks later at Kunkel Park in Leonardo, NJ (the hockey rink) we’d all hangout I’d watch everyone do drugs and we’d skate and fight and meet up with girls...me and Pat tried to burn the hockey rink to the ground starting with the wooden penalty box. It was so funny. The hole is still there to this day amongst all the horrible memories of sex drugs and whatever else happens in that movie KIDS. Not long after Pat ended up getting into a car accident. I heard his ribs pierced his lung. He died and it shook the town, and you can still feel it. You can STILLLL feel the legend in the wind in the fall. Amongst Dana. I remember my cousin and our friend Zack got drunk before school in honor of him and came in hearing about some senior saying he was glad Pat died so my cousin drunkenly tried to square up with him. I walked over in a 2xl parka with the hood up and got him out of there, chipped the senior up, turned myself in and that was the end of Highschool North (weeks prior I pulled a box cutter on a kid at Tindall Park and he snitched and somehow Tom Sasso got in trouble?). Onto South Visions where the fun began with all my new friends. I specifically remember being really into bands like Thursday, FATA, Underoath, and all that vibe. I had long emotional hair, kinda like I do now, but for some reason the wave was looking like a girl. Tight jeans, bracelets, the whole thing. So everyone would like blow dry their hair and shit and rock circa survive Merch (when they were a small band) and it was cool I promise. So one morning, I wake up, I pick out an outfit that I think is CUTE and I blow dry my hair and do the thing....go to visions and BOOM its a class trip day. AND THE CLASS TRIP IS TO THE FREEHOLD COUNTY JAIL. Because we were the bad kids. So we get boarded onto this bus, and off to jail we go. I literally got dressed up, blow dried my fucking hair, wore my best shit....to go to county. The inmates were fucking with me so much but for some fucked up reason the way I am I was ready, I wasn't scared, I was like yo fuck this let me at em!!!! which isn't cool. My best friend standing next to me the whole time while we navigated through the system for the day told me “Yeah I just did a week here last month, I don't know why im on this trip. im actually in the system” - he's still a close friend of mine and went on to do time there again for assault with a deadly weapon and somehow my name was in the middle of it and im glad I wasn't there. I remember when Dana died I felt crippled. I couldn’t get out of bed and my teacher Dallessio noticed I wasn’t in class and came to my house and personally woke me up and drove me to school. He cared that much. That changed my life. He was already at school saw me NOT THERE, LEFT THE CLASS, drove all the way to Middletown knocked on my door walked up my stairs and got me into his car drove back like nothing happened. If you’re out there, thank you man. Eternally. That put me on the right path. Damn the cold weather brings so much back. Like my whole class erupting in a brawl and a desk flying through the dry wall into another class room. Or having to have security bring you to the bathroom because you’re a threat to mainstream students. Came along way. From that to Sold out shows all across the world with my hero’s and being able to make records and tour and to take my terrible decisions and Fucked up past and dress it up as wisdom to guide the youth the best I can. Now that I’m in this weirdo folk rock Americana world, I don’t think a lot of these people understand where I come from or who I am. I stay low. But like YG says - STAY DANGEROUS!
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fi80m-blog · 7 years
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EDOARDO BENNATO - IN FILA PER TRE (1974-1980) di Marco Mazzoldi Mi son detto, facciamo una compila defatigante. Che cce vò a mettere insieme una roba per Bennato? Eh. E invece guarda te, ho fatto una fatica del demonio, ho dovuto operare scelte radicali, e tutto quel genere di cose che di solito vengono riservate agli strafighi. Il buon Bennato ha scritto un sacco di roba buona. Magari non dei capolavori epocali, magari non il disco da isola deserta, però aveva una convinzione ed una consapevolezza che, a vederlo adesso a fare il truzzo alternativamente alla festa di AN o a quella dei cinquestelle, non ci si crederebbe. Riconoscibilissimo il suo stile, sia come musicista, che come cantante, che come autore. "Strumming" chitarristico velocissimo, armonica e cassa dritta, falsetto nasale molto rocchenroll, testi intrisi di ironia, denuncia sociale e, soprattutto, un pesante sarcasmo. E' capace di reggere uno show da solo come un one-man band, ma preferisce la sua banda di amici, che include Bardi, Toni Esposito e Roberto Ciotti, e non disdegna arrangiamenti orchestrali, presenti qua e là in quasi tutti i suoi dischi dell'epoca "d'oro". Bennato si caratterizza per essere protagonista di uno dei più vertiginosi crolli nell'abisso della Merda con la emme maiuscola, da Kaiwanna a OK Italia a una Notte Italiana, già negli anni '80 ma poi sempre più in basso fino al sostanziale oblio e alla sua triste apparizione in concerti pessimi accompagnato da truzzi muscolati. Ma fino al 1980, anno del suo più grande successo, nonchè uno dei dischi tuttora più celebri della musica italiana, "Sono solo Canzonette", non sbaglia praticamente nulla. Nella compilation, partiamo dal secondo album, perchè il primo ("Non farti cadere le braccia") non presenta per me tracce degne dell'onore della compila. E' un disco immaturo con testi vorrei-ma-non-posso, che ha un paio di "cime" in Campi Flegrei e soprattutto in Rinnegato, scartato in quanto troppo lungo. Mai sopportati invece brani melensi come Un Giorno Credi, Detto tra noi, Una Settimana un Giorno, o la stessa titletrack. Il successivo "I buoni e i cattivi" è un balzo in avanti. E' quasi un concept, quasi tutti i brani contrappongono il bene e il male nella società moderna. Chi è buono e chi è cattivo, fra i militari, fra i governanti, fra i patrioti, fra i qualunquisti. Un disco impegnato "alla Bennato", cioè senza mai schierarsi apertamente con una linea politica. E' in questo disco che si palesa finalmente l'ironia di Bennato, ma soprattutto la teatralità della sua interpretazione vocale, aiutata anche dal suo prezioso kazoo. Ho scelto tre pezzi, forse avrei potuto fare qualcosa di più! "Io che non sono l'imperatore" continua in parte il discorso dell'album precedente, con brani come Affacciati affacciati e Signor Censore, che sono proprio quelli che scelgo per la compila. Nel resto del disco si distingue Feste di Piazza, ma si distingue anche per lunghezza, costringendomi ad abbandonarla. La "titletrack" in versione tarantella la trovate a mo' di ghost track alla fine della compila. Nel 1976 esce quello che potrebbe essere considerato il capolavoro di Bennato, "La Torre di Babele". Sono ben cinque su nove i pezzi che recupero da questa perla di disco, e mi spiace lasciare giù Fandango, ma non si può esagerare. Gli altri meritano tutti. La pacifista "Viva la Guerra", l'amara "Franz è il mio nome" sulla Berlino divisa in due, il pezzo del fratello Eugenio "Venderò", le ironiche "Cantautore" e "EAA". Il quinto album è il primo grande successo di Bennato, con pezzi come Il Gatto e la Volpe o il Grillo Parlante. Parlo ovviamente di "Burattino senza fili", il concept su Pinocchio, corredato da una copertina superlusso fatta a libro. I brani sono quasi tutti ispirati alla storia e ai personaggi di Pinocchio, che sono un pretesto per parlare di vari argomenti che evidentemente stanno a cuore all'autore, dalla maturità allo show-biz, ma anche alla condizione femminile, con una ballata delicatamente femminista come la Fata. Scelgo quattro pezzi su otto dall'ultimo vero e proprio capolavoro del cantautore napoletano. Seguono tre anni di silenzio, poi due dischi in quindici giorni! Uno completamente diverso dall'altro, e ovviamente contro qualunque sensata strategia di marketing dell'epoca... "Uffà Uffà" è un disco buffo, una raccolta di frattaglie per lo più scanzonate che evidentemente Bennato non poteva inserire nell'altro disco, quello "serio" che sarebbe uscito due settimane dopo. Non ci sono capolavori, però è un disco divertente da ascoltare, e sono tutto sommato contento che Bennato abbia fatto questa folle mossa e non abbia lasciato nel cassetto l'intero progetto, come spesso accade. Il disco "serio" è quello che consacrerà definitivamente il cantautore, facendogli riempire gli stadi per una stagione buona. Dopo Pinocchio, Bennato ci prova con Peter Pan, e fa uscire "Sono Solo Canzonette", un concept ottimo e ben focalizzato dal punto di vista tematico, ma penalizzato da arrangiamenti un po' troppo elaborati, poco spontanei rispetto ai lavori precedenti. Diversamente da Burattino Senza Fili, qui i personaggi di Peter Pan vengono utilizzati per una ben precisa allegoria. Bennato si toglie qualche sasso dalla scarpa nei confronti dell'estabilishment estremamente politicizzato dei circuiti live italiani. E se da una parte canta la contrapposizione fra fantasia e ragione, dando a Peter Pan il ruolo del battitore libero, in grado di volare grazie alla sua musica sopra a tutti coloro che tentano di incastrarlo in etichette e categorie, dall'altra c'è il mondo falsamente rivoluzionario del capopopolo Capitan Uncino, il cui seguace Spugna è un universitario fuori corso che si aggrega alla rivoluzione per noia, e dà la caccia con scarsissima convinzione ma tantissima obbedienza allo spirito libero Peter Pan che tanto dà fastidio al Capitano, già sconfitto dal rocchenroll a cui ha già dovuto sacrificare una mano. La celeberrima titletrack va giù dura sugli "impresari di partito" e sulla "mafia" delle feste dell'Unità che risultano essere un passaggio obbligato per avere dignità di cantautore agli occhi del popolo. Che sia vero o no, la metafora è efficace, i testi sono ottimi, i miei dubbi restano sugli arrangiamenti, e quindi scelgo solo i due pezzi liricamente più significativi del disco. Qui si chiude sostanzialmente la parte interessante della vita artistica di Bennato. Inutile spendere una sola parola sul seguito, di fatto non c'è nulla. Quindi, procedo col consueto listone. (1) I BUONI E I CATTIVI (1974) (2) IO CHE NON SONO L'IMPERATORE (1975) (3) LA TORRE DI BABELE (1976) (4) BURATTINO SENZA FILI (1977) (5) UFFA'! UFFA'! (1980) (6) SONO SOLO CANZONETTE (1980) 1. Li belli gladioli (5) 2.04 2. Ma che bella città (1) 2.45 3. E' stata tua la colpa (4) 5.15 4. Venderò (3) 4.04 5. EAA (3) 3.18 6. Franz è il mio nome (3) 6.07 7. Restituiscimi i miei sandali (5) 4.02 8. La fata (4) 4.08 9. In prigione, in prigione (4) 4.42 10. Dotti, medici e sapienti (4) 3.23 11. Signor Censore (2) 5.04 12. In fila per tre (1) 3.52 13. Uno buono (1) 5.57 14. Dopo il liceo che potevo far (6) 2.52 15. Viva la guerra (3) 4.52 16. Cantautore (3) 5.17 17. Sono solo canzonette (6) 5.14 18. Affacciati affacciati (2) 3.57 19. Io che non sono l'imperatore - ghost track (2) 1.45 Tot.: 78.39 Playlist Youtube: https://www.youtube.com/playlist?list=PLulW32wqh1rWzINF8gk9lwG_j2XkEKiTg
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wine-porn · 8 months
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Super Fresh Air
“Forced acidity” “Harvesting fruit al dente.” “Subsoil ideology.” “Half the vineyard is very excellent; the other half: not so much…” “Not my favorite oak regime.” “Wine quality is not subjective. That’s unpopular, I know.” “Making wines like this makes no sense simply because of Bordeaux’s appeal.” “Oak is an *ok* flavor.” “Let’s heap vanilla on a myriad of problems.” “Grapes are so-so,…
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winteralease · 4 years
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         ᴇxᴛʀᴀᴄᴛ  ⋰  🔥🌊    ━━  winter alease + joseph ━━      ravenfire, virginia ↻ 24.04.2020
Quiete apparente, magnetismo folle e un'intensità impossibile da definire: erano quelli i tratti che Winter aveva intravisto in quei pochi, minuscoli secondi, in cui l'uomo aveva posato lo sguardo sulla fata. Secondi che avrebbero potuti essere minuti interi ma che agli occhi della donna erano decisamente troppo brevi. Potere, fascino peccaminoso, tutti elementi che avrebbe farla allontanare ed invece eccola lì, ad osservare quel sorriso circospetto che scatenò un brivido nella fata. Ogni istante della giornata della Lindholm era dedito alla ricerca dell'inaspettato, del brivido che l'avesse fatto drizzare la schiena e mai avrebbe pensato che un semplice sconosciuto potesse darle tanto.
« Non tutti i vagabondi osservano con gli occhi di un'esteta... »
Un semplice ammiccamento, uno sguardo languido prima di distoglierlo ed osservare come i tecnici avessero pressoché terminato il loro lavoro. Era la sua arte personale, quella di lanciare il sasso e tirare indietro la mano, che lo facesse con qualcuno di conosciuto oppure no. Eppure, in un momento del tutto inaspettato, eccola lì Winter, a flirtare con un qualcuno che era dannatamente tenebroso e oscuro. Quelle sensazioni di appagamento, di semplice curiosità erano lì, pulsavano sotto la pelle perfetta della Lindholm ed accarezzavano il suo lato sovrannaturale, ma v'era qualcos'altro che non riusciva a definire. Le di lei labbra formarono un sorriso quando alzò l'angolo sinistro di esse, mentre ogni sua terminazione nervosa sembrava sull'attenti.
« Ci sono altri modelli e modelle, altri artisti che magari cercano quello stavo cercando io poco fa... Qualcuno che cercasse di interpretarmi. »
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pangeanews · 7 years
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Faccia da fata turchina e ferocia da sirena: dialogo con Isabella Leardini
Intanto: scandagliare i luoghi comuni, i dati di fatto, e sconvolgerli. Isabella Leardini (in copertina nella fotografia di Valentina Solfrini) ha la faccia da fata turchina, abita a Riccione e tutti la conoscono perché nel 2003 – dopo l’edizione ‘zero’ del 2002 – si è inventata Parco Poesia, il festival in cui ogni anno, sulla Riviera romagnola, convergono falangi di poeti ‘laureati’ e splendidamente ignoti, vecchi di gloria e poppanti, una specie di rave della mirabilia lirica. Isabella accoglie tutti con un sorriso, è gentile, garbata, ogni tanto vamp ogni tanto svampita. In realtà, Isabella Leardini è una sirena. La sirena, secondo Omero, ammalia con il canto e azzanna. Isabella, al di là dei luoghi comuni del quotidiano e quieto vivere, è così. Letale. Figura notturna – eppure ha la pelle chiara dell’alba, del frinire dei giorni – emblema della contraddizione, Isabella è una stella della poesia contemporanea con poco più di cento poesie, seminate dal 2002 (quando vince il Premio Montale per l’inedito) in qua, tradotte in varie lingue nel resto del pianeta, raccolte in due ‘romanzi in versi’, La coinquilina scalza (La Vita Felice, 2004) e ora in Una stagione d’aria (Donzelli, 2017). Poetessa che appare ‘scanzonata’, ha invece scelto, da subito, la “Condizione Scalza” di cui scrive Emily Dickinson, cioè l’incondizionata adesione alla poesia, il bunker della Musa-sirena. Da sempre, la voce della Leardini – di allucinata nitidezza – osa la cosa più difficile: risillabare il lessico d’amore, rimodulare il canto. Un canto che per me – follia dello sguardo mio – pare sempre pieno di zanne. Esempio. La sezione più bella dell’ultima raccolta di Isabella – esito di una intuizione che ha saputo attendere e fermentare – si chiama L’anello. Lì ci sono versi che, slacciati dal ritmo melodico ‘narrativo’, hanno la potenza di un abbaglio, il fragore della sirena che dilania il petto. Esempio: “Noi non siamo come tutte quelle/ cose che nascono già doppie”; “La perfezione non è mai perdonata/ nella contraddizione di impazzire”; “L’ho studiato come una scienza/ il codice dell’ora in cui sei nato”. Sono versi in tutto sapienziali, che potrebbero essere stati scritti sull’isola di Lesbo, sulle ginocchia di Saffo, o sul divano su cui si accasciava, sfatta di vita, Anna Achmatova, o incisi sulla scrivania di famiglia, da regalare per la maggiore età dei nipoti, fra qualche decennio. Molti versi, poi, hanno la precisione dell’icona (“Tu sai restare immobile/ preistorico come l’airone”: che ingresso straordinario), di qualcosa di sacro che il lettore solletica per dissanguarne le ambiguità. Amore presente, conturbante, inafferrabile anche quando si fa slitta con il torso dell’amato: è bello morire nel morso di cristallo della sirena.
Intanto: 13 anni. Tanto è il tempo tra “La coinquilina scalza” e “Una stagione d’aria”. Di stagioni ne sono passate tante. Cosa è cambiato? Quale qualità nell’ispirazione?
“Anche La coinquilina scalza era un libro fondato sul tempo, scritto dall’interno della giovinezza, ma una giovinezza che camminava guardandosi indietro, fissando l’adolescenza per decifrarla. Eppure aveva preso forma con la regolarità della voce che si accorda, in una precisione stagionale: quattro sezioni di 12 poesie scritte dal 1999 al 2003, un breve silenzio le divideva, come un passaggio. Poi non ho scritto per due anni, non volevo continuare a scrivere un libro che avevo già scritto; il titolo stesso alludeva alla poesia come a qualcuno che può anche voltarsi altrove, anche andarsene e farsi la sua vita con altri. Scrivo fin da bambina e la poesia molte volte ha deciso di stare in silenzio anche a lungo, il nostro rapporto è sempre stato così, provare a scrivere quando lei non c’è lo sentirei innaturale e ridicolo, perciò semplicemente non ho scritto. È successo più volte negli 11 anni in cui ha preso forma Una stagione d’aria: le prime poesie sono del 2006 e tutto il libro è costellato di questi silenzi. Il silenzio della scrittura non è solo un intervallo, può essere un istinto di autoconservazione ma quando sta per finire diventa una specie di apnea, un confine in cui la poesia deve essere chiamata, riavvicinata un po’ come una belva. In queste fasi non sai mai qual è il confine tra il rigore e la pigrizia, mi sento in colpa per le poesie che non ho scritto ma so che fa parte della mia natura. Una stagione d’aria è un libro costruito tra i vuoti, quasi tutti i testi sono stati scritti a due a due, le sezioni centrali hanno questo contrappunto febbrile, i testi arrivavano a piccoli gruppi ravvicinati, in mezzo ad anni interi di silenzio. L’ultima sezione contiene dodici poesie scritte in 6 anni. Spesso ho pensato che scrivere poesia sia un po’ come quando da bambini cercavamo l’acqua scavando una buca profonda vicino alla riva. Agli studenti che frequentano i miei laboratori dico sempre che le immagini sono come un sasso, lo si può rigirare in tasca anche per anni e va guardato solo al momento giusto: l’immagine del toccare l’anello l’ho avuta fissa in mente per quattro anni, non avevo idea che avrei raccontato la storia del diamante di mia madre, poi una notte quella poesia è fiorita perfetta. Credo che ognuno abbia la sua belva e la sua regola, capace anche di cambiare negli anni, perché ogni opera detta la sua”.
Il tuo esordio poetico ha coinciso, pressappoco, con la nascita di Parco Poesia, il primo festival della ‘poesia giovane’ in Italia. Dalla tua peculiare prospettiva, che clima si respira nella poesia italiana, oggi?
“Credo che il livello medio della scrittura dei giovani si sia alzato, ma che più che mai sia importante il banco di prova del primo libro per riconoscere quelli che continueranno. È diventato più facile pubblicare una raccolta, ci sono tante piccole e serie collane e lo stesso Parco Poesia con il premio incentiva occasioni di pubblicazione anche per raccolte brevi, eppure questo sistema di possibilità è anche un’arma a doppio taglio: tra i tanti che hanno talento e hanno trovato più facilmente di noi occasioni di ascolto e di crescita, diventerà determinante vedere chi riesce a costruire un esordio vero e proprio, in grado di segnare una durata e di influenzare anche i giovani che verranno immediatamente dopo. Cedere alla tentazione di pubblicare qualcosa ogni due anni, rischia di calare l’opera in un presente continuo e frammentato, rimandando eternamente la struttura che la terrebbe insieme. Riguardo al clima della poesia più in generale, ho paura soprattutto di due cose: la prima è che nella trama del mondo della poesia contemporanea, in cui tutti si conoscono e seguono le trame di tutti, rinunciamo a leggere i libri tanto abbiamo già letto tutti i post. La seconda invece riguarda il piccolo scaffale di poesia nelle librerie… lì sopra qualcosa è cambiato, e se i poeti ogni tanto andassero a guardarlo si accorgerebbero di alcune evidenze che sembra non li riguardino”.
In questa raccolta specifica: quali i maestri, i riferimenti culturali o extraculturali. Vedo che ogni sezione è introdotta da un verso a mo’ di pietra miliare. C’è Dante, l’onnipresenza, e tante poetesse. Spiegati, squadernati.
“È un libro pieno di voci e di figure femminili, oltre a quelle che ho citato avrebbero potuto esserci Dickinson, Plath, Bishop, e altre. Ho voluto citare negli esergo Elizabeth Barrett Browning, la sua vicenda potrebbe essere tra le figure simbolo di questo libro: donne in cui la natura contemplativa tocca la vita, come Rachele o la Sirenetta di Andersen. Elizabeth Barrett come Anna Achmatova – che è stata la poetessa più determinante nella formazione della mia poesia – è una rivoluzionaria e scrive un canzoniere d’amore che ha anche un valore civile. E poi Edna St. Vincent Millay che forse è l’autrice che più ha influenzato alcuni toni di Una stagione d’aria, perché ha una cantabilità venata di durezza; Cristina Campo, che ha scritto pochissime poesie, eppure restano memorabili, e Marianne Moore che per me è un prisma. Ogni esergo non è solo un omaggio a un maestro, è una chiave simbolica che aggiunge qualcosa alla storia che sto raccontando, il pezzo di un mosaico che il lettore dovrebbe ricomporre cercando l’originale, come in una caccia. Non completano soltanto il canzoniere d’amore della trama principale, racchiudono anche un’intenzione di poetica precisa o un discorso implicito sulla poesia, che non serve al lettore che legge il libro su un piano lineare, ma dovrebbe essere colto dai poeti. I versi di Marianne Moore in esergo all’ultima sezione, che fuori contesto sembrano solo una sentenza o un richiamo ad amor ch’a nullo amato amar perdona, in realtà provengono da una poesia che si intitola Voracità e verità a volte sono interdipendenti e che ha più di un piano di lettura. I versi della Millay sull’allodola vengono da un testo che si intitola A un giovane poeta e l’allodola ha un valore simbolico preciso in poesia. Non è che nel 2017 io decida senza consapevolezza di tracciare questo sistema di simboli e riferimenti, di aprire il libro con l’immagine di uno stormo di storni nel cielo dell’inverno. Sono quelli che nel V canto passano nell’aria dell’inferno, tra loro c’è anche Francesca, in un libro che parla anche di Rimini, di amori che nascono nel perimetro sospeso della vacanza, che ha il mancare fin nell’etimologia ma che come l’aria è tutt’altro che una stagione vuota. Nel buio del mare ci sono le mille Proserpine e Sirenette di oggi, che riattivano il mito nella propria carne. E poi c’è Irene, la Stagione che incrocia la Storia e le opere degli uomini”.
Entriamo nella raccolta. Ci sono, tra le parole chiave, tanti pugni, fuochi, volti, vuoti, pietre, vento, uccelli. Una rassegna di cose che passano e il tentativo di non farle passare mai; l’alternanza (quasi una danza) tra elementi fermi e volatili. Come mai?
“Credo che sia una delle questioni centrali dell’uomo, il fatto che la natura sia fatta per non restare e che l’uomo però abbia dentro l’innato desiderio di restare per sempre. L’arte ha dentro questo puntiglio per esempio. Il libro racconta un passaggio, la fine della giovinezza – che potrebbe essere l’età dei fuochi – che non può ancora entrare in un’età nuova: quella della terra in cui le cose resistenti fioriscono. Prima di compiersi e diventare terrestre deve attraversare un’attesa necessaria, il fondale in cui si aspetta anche di nascere e una stagione d’aria, quella in cui si addestrano le ali e si scopre che i vuoti sono pieni di cose alate”.
Cito alcuni versi. ‘Mi muovo attorno a te come la polvere/ e non mi hai mai sentita camminare’, ‘Desiderare è una questione di distanze’. Viene da pensare che l’amore esiste finché è inconsumato, che l’amore è là dove vibra una assenza, l’amore non è bacio, ma vuoto: è così, cosa intendi cantando l’amore (che è poi il tuo canto totem)?
“Non è vuoto e non è inconsumato, ma è sempre e comunque imperfetto perché umano. L’amore tutto pieno e tutto presente per l’uomo è impossibile, è quello in cui Dante guarda Beatrice per l’ultima volta dentro un coro di beati. Senza contrasto non c’è proporzione, come tra suono e silenzio, il desiderio nasce in una dialettica con la mancanza, lo dice l’etimologia stessa, quel verso allude al latino de sidera: la distanza dalle stelle. Sono corpi freddi che brillano in differita, come capita spesso negli amori che in quella vibrazione di distanza hanno il diapason che ne fa risuonare la nota. Non sto parlando di una distanza fisica o della lontananza provenzale, e neanche del fatto che la passione abbia in sé la radice del soffrire, anche se anche questo etimologicamente è vero, ma di una cosa molto più semplice. Non solo l’amore più imperfetto e ostacolato vibra di un’assenza, anche l’amore che si compie ha dentro la violenza della gioia, che non è beatitudine. Quando ami sai che l’altro non è tuo, non hai garanzia né del fatto che l’amore dell’altro sia pari al tuo per intensità e resistenza, né del fatto che non ti sarà tolto. Baciare è tentare una fusione impossibile e ogni amore ha una parte di solitudine che non combacia, che però è anche lo spazio in cui risuona”.
Ci sono versi che hanno un sottile sapore sapienziale. Ne cito due. ‘L’amore è lo scempio più veloce’; ‘Nessuno guarda a lungo chi ha pianto’. Ce li spieghi? Come s’intersecano in una struttura formale assai dominata, intima, lirica? 
“Non so spiegarli, vengono puramente dall’esperienza. Se la poesia fosse un sasso che cade sarebbero il punto in cui tocca terra”.
Mi pare una fiammata questo verso, ‘Devo sapere che nessuno muore’. Cosa intendi? Che potere ha la poesia di fronte alla corruzione delle cose?
“Esattamente quello che intendevo riguardo all’amore. Non possiamo sapere che ciò che amiamo non muore, e così possiamo solo controllare, vegliarlo, e se ci riusciamo farlo durare nell’opera, come un’eredità”.
    Per gentile concessione pubblichiamo alcune poesia dall’ultima raccolta poetica di Isabella Leardini, “Una stagione d’aria” (Donzelli, 2017)
  Noi non siamo come tutte quelle cose
che nascono già doppie, a coppie, a paia
come le scarpe che non sono senza l’altra.
Noi due assomigliamo a tutto quello
che il tempo fa giocare col destino.
Quando l’ultima tazzina ancora sana
e il piattino comprato chissà dove
arrivano uno sull’altro
nell’inseparabile, perfetta
abitudine che li mette insieme,
tutti i cocci, le rotture mancate,
i traslochi, le mani dei bambini
alla fine non esistono più.
Stanno nel cuore di ogni giorno;
bellezza inimitabile e bizzarra
di tutte le famiglie imprevedibili
che non assomigliano a nessuna cosa
pensata semplicemente insieme.
Come si svela un giorno dopo l’altro
il senso di ogni cosa perduta
nel colpo da maestro che decide
la perfezione inaspettata che rimane.
*
Tu sai restare immobile
preistorico come l’airone.
Attraversiamo l’adunata degli uccelli
le picchiate dei gabbiani, quel lasciarsi
cadere delle rondini
la corsa perfetta degli storni.
Nel momento del giorno che cede
ogni specie sa mettere in scena
la festa della vita che si posa.
Solo noi contro natura abbiamo il ritmo
ferito di ogni inizio e di ogni fine
come tutti i predatori che non sanno
addormentarsi quando sono soli
o come gli animali prigionieri
che prima o poi non sanno più svegliarsi.
*
Desiderare è una questione di distanze,
di corpi freddi che riescono a brillare.
Cercavo la costellazione esatta
che riunisse i tuoi punti con i miei
la congiunzione fatale negli anni
lo squilibrio infallibile del cielo.
Il vero amore regge il capogiro
con la testa piantata nell’aria
di una logica che splende se si avvera.
Sovrappone come una mappa
il tuo buio di pianeti con il mio
la precisione muta delle stelle.
L’ho studiato come una scienza
il codice dell’ora in cui sei nato,
amare è un atto di interpretazione
che riempie il giorno dopo l’evidenza.
  Tags: Anna Achmatova, Browning, Donzelli, Emily Dickinson, Isabella Leardini, Letteratura, Marianne Moore, Parco Poesia, Poesia, Riccione, Rimini
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