Tumgik
#carol però non esiste
sortilegio · 6 years
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BULLTRUE
Finito di guardare l'ultima stagione della mia serie preferita, mi perdo fissando lo schermo nero senza ormai più titoli di coda. Lo guardo e penso, ridipingendo le immagini appena viste, passate sugli occhi negli ultimi minuti. Uno stato di perdizione, un petit stato di shock molto comune per chi finisce l'ultima stagione della propria serie preferita.
Orange Is The New Black quest'anno è tutto nuovo: nuova prigione, nuove detenute, nuove storie. L'ambiente poco familiare non mi ha annoiato (molti dicono di aver sofferto la noia guardando queste puntate) e non mi hanno annoiato i nuovi personaggi: la nuova bitch di turno, la nuova butch di turno (d'altra parte Big Boo se n'è andata), persino le guardie sono soggetti di rilievo e non unicamente volti a seminare minacce ed ingiustizie.
Non ho fallito, ma non avevo alcun dubbio, nel rilevare la figura che più ha spiccato, ben piazzata tra le mie preferenze, insomma, il mio personaggio preferito. Non è stato difficile, non è mai difficile: ti piacciono tutte le sue scene e ne vorresti di più, anche quando fa una mossa stronza è figa uguale e speri segretamente che si immischi in qualche inciucio lesbo. Funziona così un po' per tutti, no?
Sí, Carol Denning è decisamente il personaggio più intrigante della stagione in confronto ad una Alex Vause (solitamente una garanzia molto sexy) moscia ed insipida. Questa Carol mi ha incantata a partire dalla sua backstory, Ashley Jordyn nella parte della "young Carol" mi è rimasta cucita in mente per i suoi denti perfetti, la sigaretta sempre fumante (alternata alle caramelle) e i suoi occhialoni modello anni '80. Non ci sono poi da immaginare, perché inspiegabili, i meccanismi che ha messo in moto il mio cervello (la parte sinistra perché la destra tenta un appiglio ad una razionalità inesistente in certi casi) appena ho rivisto gli occhialoni ben sistemati sul naso della "present Carol", una bella signorona che già mostra avere più palle di tutte le belle signorone viste finora. Gli scrittori di Orange, infatti, colpiti da una mega epifania, hanno mostrato prima la backstory, poi il personaggio al presente.
In pratica, sono stata catturata fin dalla prima scena. Nel corso degli episodi, Henny Russell, interprete di Carol Denning del presente, dà vita ad una figura imponente ed austera, i piccoli occhi azzurri attraverso le lenti spesse dominano il blocco C e, possiamo dirlo, tutta la prigione di massima sicurezza. È fredda, gelata, lo stesso taglio di capelli da una vita, il capo delle stronze, "fuck unconditional love, hate is what keeps me warm at night" è la sua frase-manifesto, pronunciata nel mezzo di una sua partita a Bridge in uno dei pochi attimi in cui non stringe un lecca lecca tra le labbra. È una bastarda tremenda, ma è figa, signori.
La giovane Carol, evocata in qualche flashback ha lo stesso charm: esuberante, impulsiva, ambiziosa e con un anello al pollice che non mente mai.
Sono imbambolata, catturata. Dall'una e d'altra. Dalla giovane e dalla vecchia. Da Carol. Ma non lo scopro fino a quando non si chiude il sipario e mi trovo a riflettere davanti allo schermo nero, mi accorgo che la mia testa parla solo di Carol, vuole sapere solo di Carol. "Che personaggio!", penso. Più che colpita, sono rimasta tranciata.
Frastornata da questa donna fittizia e da questa mia pseudo-innocua-ossessione (non che non mi sia mai capitato, intendiamoci, ma è sempre una botta all'anima), mi sono catapultata a digitare il suo nome sulla saggia piattaforma di Tumblr (perché nella Tumblr community c'è sempre quello che cerchi, domande e risposte) per apprezzare infine, una dolce sorpresa:
Sembra che questa figura abbia dato da pensare a tante, moltissime ragazze come me, direttamente da lesbolandia e dintorni. Sembra che lei eserciti su di noi una particolare fascinazione, le quali origini non sono ben identificate. Esattamente come detto prima, sia il personaggio delle backstories che quello del presente sembra mandare tutti in fiamme, non c'è distinzione perché si tratta di Carol. Tutta Carol.
Insomma, tutte impazziscono per lei, elaborano teorie complottistiche per smascherare anche solo uno sputacchio di omosessualità (che nella stagione non ha per niente), si mettono all'opera sfornando fanfiction porno delle più sublimi (carine) e, come da copione, si lanciano sulle due attrici che hanno incarnato Carol, osannandole. Niente, io mi ci ritrovo, è assurdo come da subito abbia percepito certe cose senza sapere di quest'altra gente, per questo devo essere una lella con i fiocchi e sono contenta.
Come dulcis in fundo, Henny Russell e Ashley Jordyn, le attrici, sono in buonissimi rapporti, spammano Instagram di foto e video insieme con l'hashtag #twocarolsarebetterthanone. In più, le lesbiche le hanno decretate, insieme al loro personaggio, tre lesbian icon™ (o bicon): "Henny how do you feel knowing you're now a lesbian icon?" "Super flattered!". Henny Russell (Carol vecchia, del presente), super attiva sui social perché ha messo mi piace a ben due miei commenti, ha confessato di essere bisessuale, accennando anche alla possibile bisessualità di Carol e dando così da mangiare carne fresca ai gay. Una magia.
Concludendo, l'amara bellezza di perdermi ancora in un personaggio inesistente mi avvolge con dolcezza, come una fiamma svelta (perché è quello che chiamo "fuoco fatuo"). Pensavo che questo personaggio fosse così imprevedibile, non certo quello per cui perderesti la testa, così mi sarei riconfermata interamente per quella che sono. Il mio stupore, perciò, rimane inchiodato nel momento in cui la mia cotta ha perso tutta la sua imprevedibilità scontrandosi con un mucchio di persone ammaliate (e lelle) quanto me.
Orange Is The New Black mi lascia ogni anno un nuovo sapore in bocca, è vario, è assurdo, per questo non mi stanca mai. Aspetto con ansia news sulla settima stagione.
Nel frattempo penserò ancora per un po' a Carol Denning.
Bullshit? BULLTRUE.
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josephinelynncooper · 4 years
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Purtroppo la convivenza con Amerlee non procedeva come Joey aveva previsto.
La nuova ragazza è introversa, scorbutica e decisamente poco loquace. 
Tutto l’opposto della Cooper e della sua parlantina. Josephine è stata adottata da poco meno di un’anno, mentre Amerlee è ancora in “prova”. Si dice così quando la tua famiglia affidataria ti ha accolto in casa da meno di una settimana. C’è un periodo di tempo come per i capi di abbigliamento, periodo entro il quale è possibile restituire il capo acquistato senza passare troppe rogne. Assurdo il fatto che questo principio venga applicato anche con le famiglie affidatarie. Amerlee ne ha cambiate parecchie di famiglie affidatarie, o almeno questo è ciò che l’assistente sociale ha riferito ai Johnson. Amerlee, d’altro canto, non ne ha mai fatto parola.
Forse è per questo che è così silenziosa, non deve essere stato facile per lei. Josephine può comprendere solo in parte il dolore che ha provato la sua nuova “sorella”, dato che ha perso la sua mamma in tenera età. I Johnson l’hanno presa con loro quasi subito perciò si può dire che sia sempre vissuta circondata dall'amore dei suoi cari, nonostante il padre assente.
Amerlee non può di certo dire lo stesso, considerando che entrambi i suoi genitori avevano problemi con alcol e droga e l’hanno lasciata in un orfanotrofio ancora prima che fosse in grado di aprir bocca.
[…]
Quel pomeriggio, approfittando di quella bella giornata di sole, i Johnson avevano proposto a Aimee e Joey di passare il pomeriggio al parco. Niente genitori, soltanto le ragazze e il loro gruppo di amiche per un paio d’ore. Sarebbero tornare a prenderle dopo aver fatto un paio di commissioni.
“Può essere un’ottima occasione per legare con lei e farle conoscere le tue compagne di scuola. Senza noi adulti in mezzo ai piedi!”
Le aveva suggerito Carol. Ed era una buona idea, se non fosse per le compagne di classe di Josephine. Dopo meno di cinque minuti in loro compagnia, Amerlee se l’era data a gambe. Come biasimarla? Chi dice che i bambini siano le anime più pure al mondo, non ha mai conosciuto le ragazzine della seconda media. Joey non le ha mai considerate davvero sue amiche, ma spesso uscire con loro si rivelava una piacevole alternativa allo stare chiusa in camera ad ascoltare vecchia musica e a scrivere nel suo diario. Si sono sempre prese gioco di lei per la sua parlantina e le sue stramberie, ma Josephine ha sempre finto di non esserne a conoscenza. 
«Avete visto Amerlee? Era qui fino ad un minuto fa!»
«La tua nuova amica?»
Domanda Lydia, una delle compagne di Joey.
«La mia nuova sorella.»
Precisa Joey correggendo la ragazzina. 
«Già… Ho visto passare di là una signora anziana con una collana di perle. Sarà andata a sfilargliela dal collo.»
«Cosa? Di che parli?»
«Mamma mi ha detto di starle alla larga, è stata fermata dalla polizia per piccoli furtarelli prima di essere rispedita in comunità.»
Interviene un’altra delle amiche spiegando alla Cooper il commento di Lydia.
«Si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio.»
Aggiunge Lydia scrollando le spalle, seguita poi dalle risatine dell’amica. Josephine alza gli occhi al cielo e volta le spalle alle ragazze, pensando a dove possa essere finita la Stevens. 
«Dove vai? Stavamo per iniziare a giocare ad obbligo o verità! Josephine?»
Joey ignora le domande delle ragazze e prosegue a passo svelto verso l’altro capo del parco, decidendo saggiamente di ignorare i commenti delle due pettegole in lontananza. Era accanto a loro fino a qualche minuto fa, non deve essere andata troppo lontano.
[…]
«Hey, tu! Ti ho cercata dappertutto!»
Dopo dieci minuti buoni di ricerche eccola lì, Amerlee Stevens, con le gambe a penzoloni sul bordo di una piscina abbandonata alta almeno un paio di metri. Josephine frequenta spesso quel parco, eppure non aveva mai osato spingersi tanto in là, sull'orlo di quel “fossato”. 
«Avevo bisogno di staccare un po’.»
Si limita a commentare Amerlee, senza nemmeno distogliere lo sguardo dall’albero che osserva da oltre un quarto d’ora. Sa bene che è Josephine, riconoscerebbe quella sua vocina squillante ovunque. La Cooper si avvicina lentamente al bordo della vecchia piscina, procedendo cautamente fino a sedersi accanto a lei.
«Posso?»
«Lo hai già fatto.»
Ribatte Aimee scollando le spalle, lasciando trapelare qualcosa di simile ad un sorriso. 
«Scherzavo… Fa pure, è un paese libero.»
Josephine sorride nervosa grattandosi la nuca, maledicendosi per aver guardato in basso per qualche secondo di troppo. 
«Era una piscina parecchi anni fa. Vedi la scaletta laggiù? Adesso è un ottimo posto per sbucciarsi le ginocchia. Sono caduta là sotto almeno un miliardo di volte!»
«Sul serio? E perché diavolo continui ad andarci? È pericoloso!»
«È un bel posto per pensare. E poi… Quando cadi un miliardo di volte sullo stesso ginocchio, alla fine impari a rialzarti più in fretta. Adesso non mi spaventa più.» 
Ammette Amerlee con tutta la calma e risolutezza del mondo, per poi gettarsi senza pensarci due volte all'interno della piscina. Josephine strabuzza gli occhi ed assiste alla scena senza parole, lasciandosi sfuggire un piccolo urletto di terrore.
«Visto? Ora cado sempre in piedi. Negli anni l’ho imparato, è solo un fottuto salto. Non dire ai Johnson che ho detto “fottuto”.»
«Oh… Okay. Acqua in bocca.» 
Risponde Josephine ancora scossa dal salto di poco prima. Amerlee, che nel frattempo ha raggiunto la scaletta con una breve corsetta, impiega alcuni secondi prima di tornare a sedere accanto a lei.
«È per questo che mi hai lasciato sola con quelle? Per tuffarti all'interno di una piscina vuota e fissare un vecchio albero ingiallito?»
«Quelle? Pensavo fossero tue amiche.»
«Pensano che io sia una svitata e che tu sia una ladra. No, non sono mie amiche.»
«E allora perché ci esci?» 
«Perché a volte è meglio di stare da sola con i miei pensieri, a fissare vecchi alberi ingialliti.»
Amerlee coglie la citazione di Joey e si lascia sfuggire un sorriso, continuando a fissare la grande quercia di fronte alla piscina.
«Touchè.»
Josephine rimane qualche secondo in silenzio a valutare cosa sia più giusto dire in queste circostanze. Non capita spesso di interagire con Amerlee per più di due minuti e non vorrebbe dire nulla in grado di smorzare quella bella atmosfera. Eppure, ancora una volta, è la sua curiosità e la voglia di “esplorare i sentimenti altrui” ad avere la meglio.
«È difficile, vero? Ricominciare da zero. Nuovi amici, nuova famiglia, nuovo tutto…» 
«A dire il vero… Questa è la parte più semplice. La peggiore è quando te ne vai. Dici a te stessa “Sono abituata a sbucciarmi le ginocchia, questa volta non farà male quanto le prime”. Ma è inevitabile. Ci rimani male ogni singola volta.» 
«Sai bene che questa volta non sarà così, non è vero? Tu hai noi. Hai i Johnson, hai me…»
«Non puoi capire, Jo, la tua vita è perfetta. Hai visto dove vivi? È praticamente una reggia!» 
«È dove vivi anche tu, Amerlee. È casa tua. Perché non provi a credere che questa volta sarà diverso?» 
«Sono un caso perso. Lo capiranno anche i Johnson.» 
«Non dire così, sono sicura che—»
«E le tue amiche hanno ragione. Io sono una ladra. E tu sei stramba. Eccome se lo sei, a volte sembri uscita da un cartone animato. Il modo in cui riesci sempre a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno è a dir poco fastidioso. E sì, io rubo. Ho rubato per sopravvivere, ho rubato al fruttivendolo quando non avevo niente da mangiare, ho rubato nei negozi quando non avevo una giacca con cui scaldarmi la notte… Non sono una santa, Jo. Non sono un personaggio della tua stupida serie animata. Per questo non esagero quando dico che prima o poi se ne accorgeranno anche i tuoi genitori.» 
«Sono stata adottata anche io, te lo ricordi questo?» 
«Già, perché tua madre è morta tragicamente in un incidente stradale, non di certo perché i tuoi erano così strafatti da non riuscire più ad occuparsi di te.»
Josephine rimane per qualche secondo in silenzio, non sapendo come reagire. Sentire parlare della morte di sua madre è un ricordo decisamente troppo doloroso per lei ed Amerlee se ne è immediatamente resa conto.
«Scusami, non volevo essere senza cuore. Mi dispiace per tua madre.»
«Già, e a me dispiace per la tua. Però fidati di me quando ti dico che Henry e Carol sono la cosa migliore che ti sarebbe mai potuta capitare. Ti adorano e non si libererebbero di te neanche per tutto l’oro del mondo.»
«Adorano te. A me nemmeno conoscono.»
«Ti conosceranno.» 
Aimee scrolla le spalle per l’ennesima volta, mentre Josephine si appresta a trovare le parole giuste… Quel consiglio che scombussola tutte le carte in tavola, quella frase che rende tutto improvvisamente più semplice.. 
«Okay. Mettiamo che hai ragione e che il lieto fine esiste soltanto nelle favole. Perché non rincorrerlo, invece che stare su questo muretto a piangersi addosso? Non ti serve una vita da cartone animato per essere felice, devi solo crederci un po’ di più.»
«Joey, sono stanca di correre.»
«Devi solo fidarti di me. Sei mia sorella ormai, non abbandonerei mai una sorella.»
Conclude la Cooper, rivolgendo il più raggiante dei suoi sorrisi a quella che ben presto diventerà parte integrante della sua famiglia. Amerlee ricambia il suo sguardo sforzandosi di abbozzare un sorriso, ma il suo sguardo cala ben presto in corrispondenza della sua coscia nel momento in cui Josephine decide di poggiare la mano sulla sua, per poi stringerla energicamente.
«Che diavolo stai facendo?»
«Ti sto stringendo la mano. Ti conviene abituarti, è così che fanno le amiche.» 
«Grazie allora, credo.» 
«Oh… Non c’è di che.»
«Senti, Jo… Se vuoi andare dalle altre va pure, io ti raggiungo tra poco.» 
«Mi piace qui… Non c’è alcuna fretta.»
«Ti rendi conto che potresti cadere in piscina da un momento all'altro, non è vero?» 
«Non se continuo a tenerti la mano.»
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giancarlonicoli · 6 years
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3 gen 2019 17:36 1. SANDOKAN, IL SUICIDIO DEL FIGLIO, 007 E LINO BANFI: KABIR BEDI NO LIMITS 2. NEL 1976 L'ATTORE INDIANO EBBE UN SUCCESSONE IN TV CON SANDOKAN: “FACEVO IL PUBBLICITARIO. MI HANNO RECLUTATO A BOLLYWOOD. DOPO 50 ANNI MI RICONOSCONO ANCORA" 3. "CAROL ANDRÉ-LA PERLA DI LABUAN? È UNA DONNA MOLTO BELLA MA IO HO ALTRE RELAZIONI – IN 007 HO FATTO A BOTTE CON ROGER MOORE E HO PERSO. BANFI? NON CAPISCO NIENTE DELLA SUA PARLATA. MA ABBIAMO FATTO UN PATTO. ECCO QUALE - E SULLE TENSIONI ITALIA-INDIA... 
Stefano Giani per “il Giornale”
Formidabili quei mesi. Il Concorde decollava per la prima volta. Il tribunale condannava Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, vietandone le proiezioni e bruciandone le copie. Radio Popolare iniziava le trasmissioni. Usciva il primo numero di Repubblica. I brigatisti Renato Curcio e Nadia Mantovani venivano catturati a Milano dopo uno scontro a fuoco. Cadeva il quarto governo Moro.
Scoppiava lo scandalo Lockheed, inquisiti i ministri Gui e Tanassi e l' ex premier Rumor. Gustavo Thoeni vinceva l' argento dello slalom speciale nella sua ultima Olimpiade. E sul primo - allora si diceva così - la sera della Befana uscì ancora in bianco e nero il volto di un attore indiano sconosciuto, dal volto magnetico e gli occhi penetranti.
Gennaio-febbraio 1976. Ultimo prima dell' era della tv a colori. Ma lui, Kabir Bedi, non ne aveva bisogno. Turbante. Capelli lunghi. Trucco pesante. Era la tigre della Malesia. Quaranta e rotti anni dopo, lo è ancora. Kabir chi... rispondono all' hotel che lo ospita. Scusi, ma lei non ha mai visto Sandokan? Ah, Sandokan, glielo chiamo subito.
È passato molto tempo, ma la ricordano sempre così.
«È un onore. Molti film hanno avuto successo, ma essere riconosciuto ancora dopo quasi mezzo secolo... Questo è un miracolo».
Ha fatto innamorare tre generazioni. Nonne. Madri. Figlie.
«Secondo miracolo. Non è stato merito mio».
E di chi, allora.
«Fortuna, solo fortuna. Internet e le nuove tecnologie hanno mostrato Sandokan anche a chi allora non c' era».
Come convive con l' ombra della Tigre.
«Ne sono felice e orgoglioso. Rimane sempre con me. E sono grato all' universo per aver ricevuto in dono questo ruolo».
Come si diventa Sandokan.
«Per quanto mi riguarda, mi hanno reclutato a Bollywood».
E lì come ci è arrivato.
«Da ragazzo ho fatto teatro. Era un hobby. E ho continuato per passione quando ho cominciato a lavorare».
Di che cosa si occupava.
«Facevo il pubblicitario».
E intanto l' attore.
«Esatto. Un giorno avvenne che una commedia ebbe un tale successo che molti produttori mi inseguirono per scritturarmi a Bollywood».
E lì come è andata.
«Ho girato vari film. Uno di questi è diventato talmente popolare che un giorno si presentarono a Bombay il regista Sergio Sollima, il produttore Elio Scardamaglia e lo scenografo Nino Novarese. Cercavano Sandokan».
L' hanno trovato subito, allora.
«Il costumista ha scommesso su di me».
E gli altri?
«Erano meno convinti. Hanno girato dieci città in Asia poi, tornati a Roma, mi hanno chiamato per i provini».
Che cosa le hanno fatto fare.
«Sono andato a cavallo. Ho nuotato. Abbiamo simulato scene di azione. Dramma. Amore».
Ahi (sorride). Risultato?
«Mi hanno detto: Tu sei Sandokan. Ma nessuno poteva immaginare quello che poi è accaduto».
Lo racconti.
«Alla fine delle riprese sono tornato in India e non ho più sentito nessuno. La mia agente ha lasciato l' incarico e mi ha piantato in asso. Sollima sparito. Internet non esisteva, telefonare era difficile. Temevo fosse andata malissimo».
Invece...
«Dopo tre settimane mi chiama un amico dall' Italia. È un successone. Devi venire mi ha detto».
E lei ha preso l' aereo.
«A Fiumicino ho trovato una folla in delirio. Impazzita. Mai più pensavo che fossero lì per me. Giornalisti. Macchine fotografiche. Urla. Braccia che salutavano. Ma chi salutavano, mi dicevo. Mi sono perfino girato indietro, convinto di trovare qualche volto noto».
E chi c' era alle sue spalle?
«Nessuno. In quel momento ho capito che erano lì per me. O meglio, per la Tigre della Malesia».
Di che cosa ha paura Sandokan?
«È un uomo. Ha grande coraggio ma teme di fallire. Si è preso la responsabilità di regalare al popolo l' indipendenza dagli inglesi. Non facile».
E Kabir Bedi.
«Ho il terrore di perdere la capacità di creare. Recitare. Vivere una vita vibrante, positiva».
Diffida della vecchiaia, insomma.
«Più che altro delle sue conseguenze. Le malattie. L' incapacità di saper affrontare i giorni. Grazie a Dio sto bene ma sono sicuro che se dovesse accadere qualcosa di brutto, troverò la forza di sopravvivere».
Sveli un segreto. Come si fa a non innamorarsi della perla di Labuan.
«Ma Sandokan aveva perso la testa per lei».
Solo lui o anche Kabir Bedi?
«Carol André è una donna molto bella e interessante, ma non abbiamo un rapporto così intimo. Io ho altre relazioni».
Vi siete rivisti dopo lo sceneggiato?
«Varie volte. L' ultima, due anni fa al festival di Roma. Lei era di casa, avendo lavorato spesso a Cinecittà. Si celebravano i 40 anni del film ed eravamo di nuovo tutti insieme. Suggestivo».
Come l'ha trovata?
«Affascinante come sempre. Ma ho rispetto per lei».
Che cos' è l' amore?
«Una parola pericolosa».
Perché?
«È tante cose insieme. Forse troppe».
Proviamo a spiegarle.
«Da ragazzi c' è infatuazione, non amore. È attrazione. Dura pochi mesi, è uno stato d' animo. Una sensazione».
Però l' amore è qualcosa di più profondo.
«E impegnativo. Dell' altro bisogna accettare tutto e non è facile. Amarsi e vivere insieme non sono la stessa cosa anche se molti le confondono. Ma se lo si trova è meraviglioso. Diventa l' intera esistenza».
Ha mai provato questo sentimento totale?
«Più volte, fortunatamente. Ho avuto tre matrimoni. Uno è durato sei anni, un altro quattordici e adesso lo vivo ancora con la mia attuale moglie che mi segue ovunque io vada. Siamo nati nella stessa regione, il Punjab, ma lei è cresciuta in Inghilterra e lì vorrebbe restare».
Invece lei si muove tra India e Italia.
«Due case più simili di quanto possa sembrare».
In che cosa si assomigliano.
«La religione - cattolica in Italia, induista e musulmana in India - ha influenzato l' architettura, la cultura e la vita in generale».
E dal lato umano.
«Italiani e indiani gesticolano quando parlano, hanno una ricca tradizione gastronomica in ogni regione, venerano la mamma più di altre nazioni e sono molto ospitali».
Però qualche anno fa una grave crisi internazionale li ha divisi.
«Credo che avesse ragione Roma. Sono cose che succedono, ora lo strappo si è ricomposto».
È vero che Sandokan è cittadino italiano?
«No, ma è cavaliere della Repubblica».
Prego.
«Sono stato nominato da Napolitano per meriti cinematografici e ho l' onore di promuovere i rapporti fra i due Paesi».
Altre onorificenze.
«Le chiavi di Firenze».
E che cosa ha risposto la Tigre della Malesia quando gliele hanno consegnate?
«Ho chiesto se aprivano qualche appartamento ma mi hanno sorriso ironicamente. Era una battuta, la mia».
Tutti la ricordano come l' eroe di Salgari, eppure lei ha avuto a che fare anche con 007. Chi è più popolare?
«Forse vince Sandokan, ma James Bond è più familiare al pubblico. I suoi film escono puntuali ogni due anni. Ciclici e ricorrenti».
In «Octopussy - Operazione piovra» lei era Gobinda, un vero perfido.
«Ho fatto a botte con Roger Moore e ho perso».
Mai mettersi contro l' agente segreto più amato della letteratura.
«Però ho capito perché continua il filone di 007 anche se sono finiti i libri di Ian Fleming. Prendono un' avventura collaterale e la trasformano in una grande storia».
Si chiama spin off.
«Una produzione mastodontica. La zuffa tra Bond e Gobinda - ovvero tra me e Roger Moore - è stata girata in mezzo mondo. Quando 007 saltava sull' aereo eravamo in India, il nostro scontro è avvenuto nei Pinewood studios in Inghilterra, le riprese del volo sono state fatte in Europa e la mia caduta dal velivolo in America. Tre continenti per una sola scena».
Lei è mai stato cattivo?
«Al cinema ho fatto il crudele e l' eroe. Ho cercato di entrare in entrambe le psicologie e devo dire che tutti avevano buone ragioni».
E nella vita?
«Non credo di essere mai stato cattivo».
Nemmeno quando ha divorziato?
«Ho lasciato donne che ho amato ma i nostri rapporti sono sempre continuati in modo piacevole. Mi sono preso le mie responsabilità e ho dato loro quello che chiedevano».
Perché si è separato?
«Nella vita molte cose cambiano e, quando accade, cambiano anche le persone. Purtroppo».
Qualcuno è mai stato cattivo con lei?
«Molti. Ho incontrato tante persone crudeli, ma non ho mai voluto essere uno di loro».
Li ricorda?
«Preferisco dimenticare i volti negativi».
Che cos' è la cattiveria?
«Il tradimento. Rompere la fiducia di qualcuno che ti ha fatto del bene».
Mancata gratitudine, quindi.
«Quella non me la aspetto mai. È merce rara. Non da uomini. Più facile trovarla negli animali».
Le piacciono?
«Adoro cani e gatti. Ne ho sempre avuti tanti ma ora, trovandomi lontano da casa per molti mesi, non mi è più possibile tenerli perché non potrei portarli con me».
Che cos' è il viaggio per Sandokan?
«Tutta la vita è un viaggio. Speriamo sia il più lungo possibile. Scoprire altri Paesi e altri mondi è la scuola più importante che si possa fare. Io non mi sposto mai solo per lavoro. Ritaglio sempre un periodo per conoscere le culture degli altri. Voglio sentire profumi. Suoni. Luci. Molti miei colleghi non lo fanno. E sbagliano».
Lei ha viaggiato anche nell' antichità indiana con un film - «Mohenjo Daro» - mai arrivato in Italia, nel quale era ancora un cattivo.
«Ero un re che aveva sofferto umiliazioni e cercava rivincite, ma quando ha dovuto abdicare è scoppiato in lacrime. In un sovrano potente si nasconde sempre un bambino che piange».
Oggi esiste uno statista che si commuove?
«Siamo esseri umani, non supereroi. Anche i politici provano il dolore. L' idea del machismo è irreale».
Detto dalla Tigre della Malesia...
«Non bisogna vergognarsi di piangere».
Lei ha mai pianto.
«Molte volte».
Ad esempio?
«Quando è morto mio figlio Siddarth. Quando ho divorziato, anche se c' erano buone ragioni. Ma mi ritengo fortunato, le occasioni di ridere sono state molte di più».
Ironizzando, posso dirle che vedere Sandokan sulla panchina con nonno Libero fa «piangere»...
«La verità è che sono innamorato dell' Italia e cerco pretesti per venire qui. Mi è capitata l' opportunità di Sport movies & Tv e anche Un medico in famiglia».
Una Tigre con Lino Banfi, mi capisce...
«Ero curioso di lavorare con lui, ha uno stile opposto al mio. Poi forse non tutti sanno che Lino improvvisa e io non capisco niente di quella sua parlata».
E come se la cava?
«Gli ho imposto un patto. Lui può dire quello che vuole ma non deve cambiare le ultime parole. Così posso proseguire la conversazione».
La giri come vuole, ma Kabir Bedi è l' ultimo al mondo che possa fare il nonno.
«Ma io sono nonno».
Ma resta Sandokan.
«La tranquillizzo, tornerò presto con un film che ho scritto e prodotto in cui recito una piccola parte. Giriamo in Basilicata. È una commedia. Quel giorno rideremo, vedrà...».
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pangeanews · 4 years
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Don DeLillo è il più importante scrittore americano di ogni tempo. Quattro ragioni per promuovere la sua causa al Nobel (ma sappiamo come vanno le cose a Stoccolma…)
Siete d’accordo con me sul fatto che Don DeLillo meriti pienamente il premio Nobel per la letteratura? E subito. Quest’anno, per esempio?
I meccanismi interni dell’Accademia svedese sono opachi, ma l’unica cosa certa è che le loro scelte dei vincitori del premio per la letteratura sono atipiche, nel migliore dei casi, mentre in altri, ottuse e scandalose (vedi Peter Handke). I loro peccati di commissione (quando è stata l’ultima volta che qualcuno ha scritto qualcosa sugli autorevoli Rudolf Christoph Eucken, Carl Spitteler, Frans Eemil Sillanpää, Pearl S. Buck, Nelly Sachs, o Dario Fo?) sono meno gravi solo dei loro peccati di omissione. Alcuni degli autori sui cui l’Accademia ha sorvolato includono: Lev Tolstoj, Henry James, Edith Wharton, Henrik Ibsen, Virginia Woolf, James Joyce, Jorge Luis Borges, Graham Greene, Vladimir Nabokov e, più recentemente e clamorosamente, Philip Roth.
Eppure il premio Nobel continua a superare il Booker, il Pulitzer e ogni altro riconoscimento letterario, in prestigio, impatto globale e spinta verso l’immortalità. Mentre il fatto che, anno dopo anno, Roth continui a essere ignorato è diventato un mesto tormentone per la stampa, io non smetto di mormorare tra me e me “e Don Delillo allora? Non è un’ingiustizia ancora maggiore?”. Anche quando Roth era in vita, ritenevo DeLillo il più grande scrittore americano vivente, e ora la questione non è minimamente discutibile. Roth era senza dubbio un personaggio pubblico di risalto e ha mantenuto un accorto controllo sulla propria carriera e la propria reputazione, mentre DeLillo, sebbene non fosse affatto l’eremita pynchoniano per cui fu un tempo scambiato, si tiene alla larga dai riflettori e gli stipendi da star non lo attirano. Nella misura in cui il Nobel a DeLillo venga discusso, l’opinione diffusa è che sì, forse dovrebbe vincerlo, ma non succederà perché beh… è troppo cerebrale, rimane nell’ombra… un tempo, questo tiepido consenso verso di lui e la sua opera mi deprimeva. Ultimamente però mi sta facendo infuriare. Non solo è un ozioso insulto a DeLillo, ma anche un rifiuto di tutto ciò che la letteratura americana ha raggiunto e ha detto sul proprio popolo e sul mondo, negli anni del dopoguerra.
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Qualsiasi siano i metodi di misura che possiamo usare per determinare la grandezza letteraria, compresi risultato complessivo, varietà e portata degli argomenti, stile compiuto e d’impatto, lunghezza della carriera, originalità e innovazione formale, influenza in patria e all’estero, realizzazione di capolavori, costanza nell’eccellenza, pertinenza dei temi, consistenza del commento critico e dignità nello svolgimento della carriera letteraria, Don DeLillo, ora ottantatreenne, raggiunge il più alto punteggio possibile. Alla sua prima pubblicazione del 1971, Americana, un romanzo fervido e intriso di cinema (provate a immaginare se Mad Men le avesse effettivamente realizzate, le sue pretese letterarie, invece di rappresentarle e basta), sono seguiti sedici romanzi e una raccolta di racconti, nessuno dei quali privo di grande valore e interesse, e molti dei quali annoverati tra i monumenti supremi della narrativa americana del dopoguerra. Una critica ricorrente alla letteratura americana vede una certa arretratezza dei suoi scrittori, per quanto riguarda sviluppo complessivo e realizzazione della carriera, a causa dell’aridità del suolo culturale, contrapposto al più fertile e maestoso modello europeo. Grazie a una carriera così feconda e abbagliante (da qualsiasi parte vogliate esaminarla), marcata da una crescita così evidente: dalla promessa degli esordi alla maestria sbalorditiva della maturità, fino alla fase finale, una varietà crepuscolare e personale, DeLillo mette a tacere tale critica. Oserei affermare che nessun altro scrittore della storia letteraria americana riesca a eguagliarlo per coerenza abbinata a produttività. Persino Roth, nonostante il notevole scatto finale, ha prodotto un discreto numero di fiaschi.
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Se avessi tempo e spazio, riempirei un numero intero con canti di lode a DeLillo e ai suoi romanzi. È dai primi anni ’70 che leggo le sue opere, dedicandogli la massima attenzione e ammirazione e penso dobbiate sapere che ho curato il suo capolavoro supremo Libra, un’esperienza esaltante, il sogno di un editore. Ma per ora concentriamoci sulle motivazioni principali per il Nobel a DeLillo. A mio parere la tesi si basa su quattro argomentazioni.
DeLillo ha sempre negato di aver scritto con l’intento di costituire una sorta di epopea americana enciclopedica alla Dos Passos; tra tutti gli scrittori più rilevanti del nostro tempo, è il meno programmatico e il più intuitivo e guidato dalla parola. Eppure, il risultato finale è enciclopedico ed epico. Tali intuizioni e parole lo hanno condotto nelle regioni chiave e inesplorate della nostra psiche più a fondo di qualsiasi altro scrittore contemporaneo e ad argomenti che, sommati insieme, hanno dato origine a una rassegna completa dell’esperienza americana. Una lista parziale dei suoi temi e delle sue inquietudini include: il cinema e il potere dell’immagine sulla parola, la Guerra Fredda e l’ansia nucleare, l’ossessione americana per lo sport, la tecnologia e la sua spesso sinistra ubiquità (vedi “l’evento tossico aereo”), le conseguenze devastanti dell’assassinio di Kennedy e le domande rimaste senza risposta, le conseguenze, misteriosamente simili, degli attacchi dell’11 settembre, gli squilibri mentali di chi ha celebrità e fama, le sottocorrenti comiche e inquietanti della “vita ordinaria” della classe media, la brama di capitale finanziario, la delirante ricerca plutocratica di una soluzione tecnologica al problema della mortalità e, prolettica e persistente, la centralità indissolubile del terrorismo nella visione che gli americani hanno di sé stessi e del mondo in generale. Come scrisse nella nota riflessione in Mao II, adesso sono gli uomini armati e i bombardieri, non gli scrittori, che danno forma ai nostri racconti e “fanno irruzioni nella coscienza umana”. L’intuizione più sconcertante e indiscutibile che ci abbia offerto uno scrittore del nostro tempo.
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La seconda motivazione per cui DeLillo merita il Nobel risiede nell’incredibile e ineguagliabile sequenza di quattro capolavori compiuti a metà carriera: Rumore bianco (1985), Libra (1988), Mao II (1991) e Underworld (1997). Romanzi per sempre incastonati nella storia dell’eccellenza letteraria americana. I tropi, le frasi, il ritmo di queste opere si sono irradiati in una cultura più ampia, hanno assunto forme diverse e in modalità che l’alta letteratura raramente sfiora. Pafko at the wall. Gli Hitler studies. Gli uomini in mylex. Sette secondi che hanno fatto il Secolo Americano. Tutte le trame tendono ad andare verso la morte. Uomini in piccole stanze. Il futuro è delle folle. Strage della follia. Mi sono messo a rileggere Rumore bianco per la prima volta dalla pubblicazione ed è talmente geniale, cosciente, e terribile e originale e infestato dalla morte e così tanto divertente da aver riconfermato la mia convinzione del fatto che è questo il romanzo chiave della storia post anni ’60, ancor più de L’arcobaleno della gravità. Il pensiero e la parola americani non sono mai stati resi con registri così ironici e autoriflessivi, il monologo interiore del nostro tempo. Ogni frase è marchiata dall’inconfondibile timbro del suo autore. Rappresenta meglio di qualsiasi altro testo letterario la misura in cui il terrore dell’apocalisse sia adesso l’inevitabile nota di fondo della vita quotidiana.
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La terza argomentazione si basa sull’effettiva, sebbene difficile da misurare, estensione dell’influenza dei suoi lavori. Stando al suo agente letterario, le opere di DeLillo sono attualmente disponibili in quarantatré lingue e/o stati. Un vero e proprio fenomeno globale. Azzarderei col dire che il devoto lettore di Bucarest, di Montevideo, di Riyad o di Seul, davanti ai testi di DeLillo, avrebbe una comprensione degli sconvolgimenti, delle contraddizioni e delle follie degli Stati Uniti uguale a quella dello studioso medio con un dottorato in American studies. E tali intuizioni sono state diramate per gentile concessione di un grande artista integralmente radicato in America. La consegna di un inestimabile messaggio contrastante. Per quanto incasinato, questo paese ha comunque creato un DeLillo in grado di comprenderlo e spiegarcelo.
Negli ambiti anglofono e americano, non esiste scrittore più illustre di DeLillo. L’elenco dei suoi ammiratori scomparsi annovera: Nelson Algren, John Updike, Norman Mailer, Gilbert Sorrentino, Harold Bloom, William Gaddis e Philip Roth, mentre tra quelli in vita appaiono personalità quali Paul Auster, Salman Rushdie, Joy Williams, Martin Amis, David Remnick e Joyce Carol Oates, ed è una lista più che parziale. Tra gli autori più giovani, che da lui hanno imparato importanti lezioni ci sono: Marlon James, Rachel Kushner, Dana Spiotta, Jonathan Franzen, Jennifer Egan, Richard Powers, William Vollmann, Joshua Ferris, Benjamin Kunkel, Rick Moody, Jonathan Lethem, e Garth Risk Hallberg. C’è poi il caso speciale del compianto David Foster Wallace, la cui lettura di Rumore bianco quando studiava all’Amherst College, gli scatenò dentro un miscuglio molto particolare di ammirazione e invidia che, probabilmente, innescò la sua ambizione di grandezza. Nel corso dei decenni, lui e DeLillo hanno portato avanti una corrispondenza contrassegnata da reverenza da parte di Wallace e saggia gentilezza e pazienza da parte di DeLillo. Il lavoro di Wallace è sostanzialmente impensabile senza l’esempio di DeLillo, a guidarlo e ispirarlo.
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E questo mi conduce al quarto e ultimo motivo per cui DeLillo dovrebbe vincere il Nobel: la dignità e la nobiltà che ha apportato alla sua vocazione di scrittore. Potrebbe essere rimasto l’ultimo uomo del tutto libero della letteratura americana. Cerca di evitare il più possibile i fardelli e le strategie della carriera letteraria postmoderna. Le sue apparenze pubbliche a letture e incontri sono rade e rare e, in genere, coincidono con le necessità e i desideri dei suoi editori, all’uscita di un nuovo libro. Protegge con zelo la sua vita privata dall’indiscreta stampa letteraria, ma i suoi conoscenti, agenti ed editori lo definiscono un uomo modesto e affabile, che per caso è anche un genio assoluto. Infatti, nel corso degli anni, ha concesso abbastanza interviste da poterne riempire un libro intero, e in queste interviste racconta la sua storia, le sue intenzioni e ossessioni di scrittore, le sue abitudini lavorative e, soprattutto, tratta del ruolo più ampio che ricopre lo scrittore nella nostra cultura, con spirito epigrammatico e dimessa eloquenza. Se il suo mantra ricorrente è il motto di Joyce “silenzio, esilio e astuzia”, Don DeLillo ha avuto cura di essere perfettamente compreso.
Per combinazione, nel 1997 ho condotto io una di quelle interviste per la Hungry Mind Review, in occasione della pubblicazione di Underworld. Ho scritto di come, nella sua opera, DeLillo abbia “costruito geografie sempre più conturbanti delle stranezze dell’America, catturando, grazie alla sua intelligenza inquieta, sottile e instancabile, le fluttuanti atmosfere di uno stato insicuro, a quanto pare, di ogni cosa, eccetto della sua stessa paura e incertezza”. Alla fine dell’intervista gli ho chiesto perché, paradossalmente, nelle sue stesse opere, la figura dello scrittore è spesso presentata come afflitta da una futilità e un’impotenza quasi comiche. Che è, secondo me, lontano dal modo in cui è considerato o dal modo in cui lui stesso si considera. La risposta di DeLillo è indimenticabile e vale la pena che la riporti: “Lo scrittore ha perso molta della sua influenza e adesso è situato, casomai, ai margini della cultura. Ma non è questo il posto che gli appartiene? Come potrebbe essere altrimenti? E, a mio personal parere, da qui si osserva perfettamente cosa succede nel punto morto delle cose… Non sono particolarmente turbato dallo stato della narrativa e dal ruolo dello scrittore. Più è marginale e forse più diventerà incisivo e attento, tanto che, alla fine, necessario lo diventerà davvero”.
Ventitré anni dopo, Don DeLillo è il più necessario degli autori americani e l’assegnazione del premio Nobel, a giusto riconoscimento di ciò, purtroppo si fa ancora attendere. Si suonino i clacson, rullino i tamburi, si dia inizio subito a questo dibattito. E non ci si fermi fino a quando la giustizia non sarà servita.
Gerald Howard
*Questo articolo è stato pubblicato in origine su “Bookforum”; la traduzione è di Valentina Gambino
L'articolo Don DeLillo è il più importante scrittore americano di ogni tempo. Quattro ragioni per promuovere la sua causa al Nobel (ma sappiamo come vanno le cose a Stoccolma…) proviene da Pangea.
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italianaradio · 5 years
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Le 10 domande alle quali la Fase 4 del MCU dovrà rispondere
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Le 10 domande alle quali la Fase 4 del MCU dovrà rispondere
Le 10 domande alle quali la Fase 4 del MCU dovrà rispondere
Le 10 domande alle quali la Fase 4 del MCU dovrà rispondere
Per quanto possa essere stata esaustiva, soddisfacente ed epica, la conclusione della Fase 3 del MCU non ha certo chiuso tutte le porte dell’universo condiviso, portando a compimento l’Infinity Saga ma lasciando da parte qualche strada aperta da ampliare ed approfondire, una strada che potrebbe portare alla risoluzione di alcuni dei quesiti lasciati in sospeso da questa prima, grande avventura nell’Universo Marvel al cinema. Di seguito ecco le 10 domande alle quali la Fase 4 del MCU dovrà rispondere.
Ci sono stati altri pianeti “affetti” dalla Decimazione?
Le azioni verificatesi in Infinity War e Endgame hanno avuto ramificazioni in tutto il mondo, ma dal momento che i Vendicatori sono i più potenti eroi della Terra, abbiamo visto cosa è accaduto in particolare sulla Terra, in seguito allo schiocco di Thanos.
L’unico altro pianeta su cui abbiamo visto le persone trasformarsi in polvere è stato Titano, e solo perché Iron Man e compagni erano lì, alla ricerca di Thanos. Spider-Man: Far From Home, ora al cinema, fornisce ulteriori dettagli su come le persone sulla Terra hanno affrontato i cinque anni durante i quali le persone sono rimaste polverizzate. E adesso, in vista dell’uscita di Guardiani della Galassia Vol. 3, possiamo sperare che ci vengano mostrati gli effetti della Decimazione nel resto dell’universo. In pratica potremmo avere dei chiarimenti, o anche solo sbirciare nelle altre popolazioni della galassia e capire come la Decimazione ha avuto effetto sulla loro vita.
Cosa hanno fatto i Sovereign di Adam Warlock?
Guardiani della Galassia Vol. 2 è stato ambientato nel 2014, solo un paio di mesi dopo il primo film, mentre gli eventi di Avengers: Infinity War hanno investito i Guardiani qualche anno dopo, nel 2018 (circa- la timeline del MCU è molto confusa).
Nella scena post-crediti del Vol. 2, abbiamo visto Ayesha creare un potente essere artificiale in grado di distruggere i Guardiani, essere che lei stessa ha battezzato “Adam”, come il primo uomo. I fan della Marvel si sono entusiasmati perché hanno subito pensato all’introduzione di Adam Warlock, ma sono passati ormai nove anni (circa) nella timeline della storia e di Adam ancora nessuna traccia. Forse apparirà nel Vol. 3 spiegando dove sia finito per tutto questo tempo.
Esiste davvero il Multiverso?
Sebbene tutti i trailer di Spider-Man: Far From Home abbiano messo sul piatto l’esistenza del multiverso, elemento che molti fan pensavano avrebbero introdotto gli X-Men e i Fantastici Quattro, il film ci svela che Mysterio ha in realtà inventato tutto, annullando quindi l’esistenza stessa del multiverso. Tuttavia, come confermato dal dottor Strange e dall’Antico, il multiverso esiste eccome nel MCU.
La domanda però è valida: riusciremmo mai a vedere realmente queste realtà alternative? Con la ricerca di Gamora e l’introduzione di Adam Warlock, Guardiani della Galassia Vol. 3 potrebbe essere già troppo affollato per entrare nei dettagli di quest’altro grande nodo narrativo della Fase 4, ma forse potrebbe essere l’argomento di una eventuale scena post-credits.
Qual è stato l’impatto dell’attacco di Ego su altri pianeti?
Nella battaglia finale dei Guardiani della Galassia Vol. 2, Ego dà il via al suo piano per ricreare l’universo a sua immagine. Fortunatamente, Peter Quill riesce a fermarlo prima che qualcuno venga ucciso. Ma prima di allora, vediamo una serie di scene in un montaggio veloce in cui una sorta di fango nero incandescente inghiotte vari pianeti, inclusa la Terra.
Vediamo decine di umani che fuggono da questa sostanza apparentemente letale, mentre questa distrugge un’intera strada piena di automobili. Quando Quill uccide Ego, fermando la sua conquista e acquisizione dell’universo, il fango si ferma e si raffredda. Eppure, nessuno sulla Terra o sugli altri pianeti interessati ha più nominato questo attacco. Quali conseguenze ha avuto?
Dov’è stata Captain Marvel per oltre 20 anni?
Avengers: Endgame ha accennato al motivo per cui Carol Danvers non si è presentata per aiutare i Vendicatori prima dei fatti del film (durante le battaglie di Infinity War, ad esempio). Carol ha infatti detto ai suoi compagni Vendicatori che è rimasta nello spazio ad aiutare gli altri pianeti che non hanno la fortuna di essere protetti dai Vendicatori. Mentre ci aspettiamo tutti di vedere prima o poi cosa, nello specifico, ha fatto Carol, soprattutto alla luce della seconda scena post credits di Far From Home, possiamo sperare che già in Guardiani della Galassia Vol. 3 si possa dare una sbirciata a questi altri pianeti senza protezione.
Forse i Guardiani potrebbero fermarsi in un pianeta dove c’è un santuario dedicato a Captian Marvel, per commemorare il suo intervento in difesa di quel pianeta, nello specifico!
La distruzione di Xandar porterà al debutto di Nova?
I fan della Marvel erano più che entusiasti e pronti ad accogliere Nova nel MCU, non appena sono stati introdotti i Nova Corps nel primo Guardiani della Galassia. Per molto tempo si è ipotizzato che il personaggio potesse debuttare in Avengers: Endgame, ma non è accaduto, forse per tenere concentrata l’attenzione dei fan sui “vecchi” personaggi e concludere il loro viaggio.
Nei fumetti, Richard Rider assume l’identità del supereroe Nova, quando diventa l’ultimo membro superstite dei Nova Corps. Sembra ragionevole supporre che i Nova Corps siano stati distrutti durante l’attacco di Thanos a Xandar, per impossessarsi della Gemma del Potere da loro custodita (scena off-screen di Avengers: Infinity War). Questo potrebbe rendere molto plausibile la comparsa di Nova nel prossimo Guardiani.
Dov’è Teschio Rosso?
I fratelli Russo hanno detto che una volta che la Gemma dell’Anima è stata presa, Teschio Rosso è libero di lasciare Vormir. Tuttavia, stando a quanto visto sullo schermo, Teschio Rosso ha ceduto due volte la Gemma, a Thanos e a Occhio di Falco, eppure non ha mai lasciato il pianeta, anzi, potrebbe aver incontrato la sua Nemesi, Captain America, quando l’eroe è andato su Vormir a restituire la Gemma dell’Anima!
Sarebbe ora interessante scoprire dov’è finito. La risposta a questo quesito potrebbe essere offerta da una scena post-credits di uno dei prossimi film del MCU della Fase 4, visto che non sappiamo se il personaggio avrà ancora un posto importante nell’Universo Condiviso. Dopotutto il suo nemico era Steve Rogers, e non sappiamo cosa è accaduto durante il loro ultimo incontro…
Che sta accadendo agli Osservatori?
Il cameo di Stan Lee in Guardiani della Galassia Vol. 2 ha offerto una divertente conferma di una famosa teoria dei fan, ovvero che Lee riesce a trovarsi in così tanti posti in diversi corpi nel MCU perché è un Osservatore che tiene d’occhio i Vendicatori.
Tuttavia, questa scena divertente ha anche introdotto l’esistenza degli Osservatori nel MCU. Nei fumetti, gli Osservatori sono una razza aliena onnisciente, guidata da Uatu, il cui compito è sorvegliare il multiverso. Se gli Osservatori dovessero ritornare, significherebbe che il multiverso, anticipato dall’Antico, potrebbe effettivamente essere messo in gioco, ma solo nella Fase 4, confermando le menzogne di Mysterio nell’ultimo film della Fase 3.
Esisteva una squadra di Guardiani prima che Peter Quill facesse la sua comparsa?
In Guardiani della Galassia Vol. 2, Sylvester Stallone ha interpretato Stakar Ogord, che era in una squadra con Yondu e lo ha ostracizzato a causa del traffico di bambini per Ego. In seguito ha perdonato Yondu e ha partecipato al suo funerale. In una scena a metà film, Stakar raduna il resto della sua vecchia squadra, della quale faceva parte anche Yondu: Ving Rhames nei panni di Charlie-27, una non accreditata Miley Cyrus che dà la voce a Mainframe, Michael Rosenbaum nei panni di Martinex T’Naga, Michelle Yeoh nei panni di Aleta Ogord, e Krugarr.
Nei fumetti, questa è la squadra dei Guardiani della Galassia originali che hanno debuttato nel 1969. James Gunn ha già detto che Stakar è “molto importante per l’universo Marvel” e ha promesso che nei suoi piani vedremo di nuovo Stallone. Vorrà quindi dire che, dopo aver visto in azione i “nuovi” Guardiani, vedremo all’opera anche gli originali?
I morti per recuperare la Gemma dell’Anima sono morti davvero?
Quando Thanos arriva per la prima volta su Vormir per raccogliere la Gemma dell’Anima, Teschio Rosso gli dice: “Un’anima per un’anima“. In altre parole, devi sacrificare la persona a cui tieni di più per ottenere la Gemma lì custodita. Thanos decide di sacrificare Gamora che, nonostante sia effettivamente morta, è tornata in Endgame per via dei viaggi nel tempo, pur essendo ancora la spietata assassina che era la prima volta che l’abbiamo incontrata. Insomma, il suo ritorno ne ha annullato lo sviluppo psicologico che abbiamo visto nei film dei Guardiani. Alla fine del film, però, non la vediamo da nessuna parte, tanto che Star Lord e compagnia (più Thor), partono alla sua ricerca.
Non ha partecipato al funerale di Tony Stark e non è salita sul Benatar con gli altri Guardiani. Ma i fan continuano a sperare che tornerà, e forse, sempre con un espediente simile al viaggio nel tempo, anche per Vedova Nera potrebbe esserci una possibilità di ritornare!
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Le 10 domande alle quali la Fase 4 del MCU dovrà rispondere
Per quanto possa essere stata esaustiva, soddisfacente ed epica, la conclusione della Fase 3 del MCU non ha certo chiuso tutte le porte dell’universo condiviso, portando a compimento l’Infinity Saga ma lasciando da parte qualche strada aperta da ampliare ed approfondire, una strada che potrebbe portare alla risoluzione di alcuni dei quesiti lasciati in sospeso […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Chiara Guida
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girlfromtube · 6 years
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Lui disse "No, sono i miei denti da adulto." e i vampiri capirono che lui non sarebbe stato mai più un vampiro e lo abbandonarono. Fine. Maestro: E' chiaro che il Sole non sarà sempre qui a tenerci caldi, come tutte le cose, morirà. Si, e quando sarà, prima si espanderà avvolgendo tutti i suoi pianeti. Compresa la Terra! Prima di consumarli, rapidamente. Il Sole infondo è solo carburante che brucia selvaggiamente. E quando il carburante finirà, finirà anche lui e quando sarà il Sistema Solare si oscurerà per sempre. Ma penso che per quell'epoca la razza umana avrà ceduto a ogni tipo di calamità: guerra, inquinamento, riscaldamento globale, tsunami, terremoti, meteore. Mamma: Max!!! Si puo' sapere che hai??? Tu non ti controlli!!! Judith: Ah che pazzia!!! Carol: No no, la pazzia è un'altra. Io la sto eliminando la pazzia. Alexander: Io non credo che sia stata eliminata la pazzia. Carol: Ma dalla mia parte non c'è più nessuno??? Ira: Si, beh... Credo di no. Carol: Bene. Ci sto io dalla mia parte. Da solo. Carol: Hey strano affarino, mi piace come distruggi, grande tecnica! Hai quella scintilla che non si puo' insegnare! Max: Grazie! Douglas: Hey!!! Che stai facendo? Max: Io... Io, sto dando una mano. Douglas: Sfasciando le nostre case? Max: Sono le vostre case? Carol: Si. Douglas: Perché cos'hanno? Judith: Le tue case come sono? Ira: Scommetto che sono strane. Douglas: Senti, ci abbiamo lavorato sodo, poi tu signorino sei arrivato a dare "una mano". Judith: Sai come dico io? Se è un problema, mangiatelo! Max: Non ho le ossa da uccello. Judith: Sarà meglio! Altrimenti come ti mangiamo, ci hai mai pensato?! Ah che egoista!!! Spero che tu non sappia di egoista quanto sembri!!! Max: I miei poteri sono capaci di arrivare dritti al cuore. Ira: Oh! Judith: E se il cuore è chiuso che fai? Max: Ho un apricuore che non si puo' fermare! Judith: E se hanno qualche materiale che il tuo apricuore non puo' bucare? Max: Allora ho un doppio apricuore che puo' bucare tutto in tutto l'Universo! Fine della storia. E non ci sarà mai niente di più potente. Niente. Punto. Alexander: Oh, ha un doppio apricuore! Ira: Dal nome sembra potente. Judith: Si, si, ma dev'esserci un materiale resistente. Magari al centro della Terra che combinato con... Carol: Sh! Zitta. Judith: ...qualcosa... Carol: Sta zitta! Carol: Chiedo scusa, quindi tu eri loro Re e hai sistemato tutto quanto. Max: Si. Carol: E cos'hai fatto per la solitudine? Douglas: In altre parole, terrai lontana la tristezza? Alexander: Io non vi capisco. Non ha l'aspetto di un Re. Se lui è Re, posso esserlo anch'io. Judith: Sh! Ira: Oh guarda, lui ci renderà felici, Judi. Judith: Si. Non sempre la felicità è un modo per essere felici. Douglas: Judi, piantala! Judith: E' piccolo per un Re. Sono scema? E' piccolo! Douglas: Mi piace di più ora che abbiamo un Re. Carol mi piace di più ora che abbiamo un Re. Carol: Sono strani. Insomma, a volte feriscono i sentimenti. Carol: Quello è Alexander. Vuole solo attenzione, non dargli soddisfazione. Carol: Questo è Douglas. Su lui posso contare sempre. Se naufragassi su un'isola deserta e potessi portare solo una cosa, porterei Douglas. Judith: Dah, non ti conviene conoscermi. Sono una pesante. Max: Pensi di restare? KW: Beh... Max: Lo vogliono tutti. KW: E' complicato. Non so perché, ma qui era sempre peggio. Ora sembra vada meglio però. Max: Si beh, direi! KW: Ok, Re. Max: Hey chi sono Bob e Terry? KW: Oh. Sono dei miei cari amici. Nemmeno saprei come descriverli, sono diversi da tutti qui. E' una cosa diversa. Max: Ma a te piacciono più loro di... KW: Fai un sacco di domande! Max: Mi trattano come se fossi cattivo. KW: E lo sei? Max: Non lo so. Non lo so. Carol: Qui è tutto tuo. Sei il padrone di questo mondo. Tutto quello che vedi è tuo! A parte quel buco. Quel buco è di Ira. Diciamo che l'albero è tuo, ma il buco è di Ira. Carol: Voglio che tu sia Re per sempre, Max. Max: Sì. Per sempre. Carol: Vedi qui? Qui era tutta roccia e ora è sabbia. E poi un giorno diventerà polvere. Tutta l'isola diventerà polvere e... E poi non lo so che altro viene dopo la polvere. Max: Carol, tu lo sapevi che il Sole morirà? Carol: Cosa?! Questa non la sapevo. Oh, avanti! Non succederà mai! Beh tu sei Re e guarda me, sono grosso! Come fanno due come noi a preoccuparsi di una cosina come il Sole?! Mh?! Carol: Hai presente la sensazione dei denti che ti cadono tanto lentamente che non te ne rendi conto? E poi ti accorgi che ti sono caduti davvero. E poi un bel giorno, ti ritrovi senza denti del tutto. Max: Sì. Carol: Beh è stato così. Carol: Hai sorriso! Non puoi negare che sia stata una buona idea. Judith: E chi l'ha negato! Poi parte dell'idea è stata mia. Carol: Quale parte? Judith: Quando ho detto "Sì, buona idea!" Judith: Hai un colore preferito? Hey, sarò il tuo colore preferito! Max: Conoscete un modo per accontentare tutti? KW: E' Carol. Puo' piacermi anche se sono amica di Bob e Terry. Carol: Max, il forte è rotto! Hai detto che era automatico. Max: Cosa? Carol: Beh, hai detto che se per caso entrava qualcuno che non volevamo, il forte in automatico gli spappolava il cervello. Max: Oh beh, l'ho detto è vero ma, poi ho deciso che se li conosciamo non gli spappoliamo niente. Anche se non li conosciamo molto bene. Alexander: Sei il miglior Re di tutti i tempi... Hai cambiato tutto. Carol: Non capisco perché le piacciono tanto. E poi non capisco mai quello che dicono, sento solo stridii. Max: Neanche io capisco quello che dicono, sai?! Carol: Davvero? Max: Sì. Max: Uscite!!! Judith: No!!! Max: Perché no??? Judith: Perché voi ci tirate in testa le zolle. Max: Uscite!!! Judith: No!!! Max: Perché no??? Judith: Perché quando ho detto ci tirate le zolle, tu non hai detto niente!!! Questo dimostra che ci tirereste in testa le zolle! Judith: Su, Re. Che succede? E' così che governi un regno, litigando? I cattivi stanno male. Anzi, tutti qui stanno male. Max: Non ti sta a sentire nessuno eh? Alexander: Oh, te ne sei accorto. Si, non ci sarai abituato. Tu sei un Re, no?! Max: Guarda come vi ho scombinato. Alexander: Tu non sei un Re, eh? Sei uno qualunque. Lo sapevo. Io neanche lo so se esiste una cosa come un Re che puo' fare tutto quello che hai detto. Max: Pensavo che ci vorrebbe un posto dove il Re sta in segreto. Tipo una camera segreta per il Re. Carol: Beh io non capisco. Cosa... Max: Beh, sai tipo un piccolo appartamento? Con una porta non troppo grande? Carol: Non lo so. Io non prevedevo porte segrete. Se invece fosse un posto grande con grandi porte segrete? Max: Non è quello che stavo pensando. E' più tipo... Carol: Non doveva andare così! Dicevi che avremmo dormito insieme tutti ammucchiati e ora vuoi una stanza segreta e KW se n'è andata per sempre e mi devo preoccupare che il Sole morirà!!! Max: Carol basta! Carol: E' morto, è morto. Max: Stai spaventando tutti! Carol: E' mattina. Max: Il Sole non è morto è che è ancora notte! Carol: Come lo sai? Non posso fidarmi di te. Cambia tutto continuamente! Carol: Avanti Douglas, fa come ti dico. Max: No! Viviamo tutti qui, non solo tu! E' anche degli altri. Judith, Ira, è anche degli altri. Judith: Oh, finalmente! Carol: Avresti dovuto proteggerci, prenderti cura di noi. E non l'hai fatto! Douglas: Carol... Max: Scusami!!! Carol: Scusarti non basta!!! Douglas: Carol... Carol: Sei un Re orribile! Douglas: Carol!!! Carol: Che vuoi??? Douglas: Non è il nostro Re. Carol: Cosa? Che stai dicendo? Come ti permetti! Non lo dire neanche! Douglas: I Re sono una cosa che non esiste. Carol: Non lo dire neanche!!! Douglas: E' solo un bambino che finge di essere un lupo, che finge di essere un Re. Carol: Non è vero!!! Carol: Non è vero!!! Douglas: Senti, se ti ho dato corda è solo perché sapevo che ci tenevi tanto. Carol: Non dirlo neanche!!! Max: Carol fermati!!! Carol: Hai mentito. Max: Tu non ti controlli!!! Carol: Ah non mi controllo! Dovevi prenderti cura di noi, l'avevi promesso!!! Carol: Voglio solo parlargli. KW: Tu non ti controlli!!! Carol: Non è vero che non mi controllo!!! KW: Tu lo vuoi mangiare! Carol: No, no. Io voglio... Io non lo voglio... L'ho detto solo per dire! Oh. Sono davvero cattivo come dici? KW: Su, vattene via. Carol: Volevo solo stare tutti insieme. KW: Non è insopportabile? Max: Lui comunque non lo fa apposta, KW. Ha solo paura. KW: Così rende tutto più difficile. Come se non lo fosse già abbastanza. Max: E ti vuole bene. Sei la sua famiglia. KW: Già. E' difficile essere una famiglia. Max: Vorrei che aveste una mamma. KW: Mh. Max: Io me ne torno a casa. Max: Alla fine sono dovuto partire. Carol: Perché? Max: Non sono un Vichingo né un Re né niente di che. Carol: Cosa sei, allora? Max: Sono Max. Carol: Beh, non è niente di che in effetti. Bull: Hey Max. Max: Sì? Bull: Quando sarai a casa pensi che parlerai bene di noi? Max: Si, promesso. Bull: Grazie, Max. Judith: Sei il primo Re che non mangiamo. Alexander: Si è vero. Judith: Ci vediamo! Alexander: Ciao Max. Max: Ciao. KW: Non andare. Ti mangerei da quanto ti amo.
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ginevra-malcolm · 8 years
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Chapter 15 - Pub, Frenchmen Street
Malcolm
Se ne sta seduto ad un tavolo del pub, non distante dall’ingresso, intento a non fare nulla di preciso se non avere aperta davanti la propria moleskina tentando di dare a se stesso l’illusione di poter lavorare ancora per oggi. Ha anche indossato i suoi di occhiali, per rendere l’intenzione più concreta e la realizzazione più vana, visto che ora ha la nausea di parole e di carta, dopo aver preso mezzo esaurimento nervoso a scrivere quella lettera di risposta per tutto il giorno. Contemporaneamente, come totale antitesi a questa illusione, sorseggia l’inizio di quattro dita di scotch in un bicchiere, che lo distendano un po’. Sa che non dovrà aspettare molto per sapere qualcosa, buono o cattivo che sia, o almeno lo spera. Essendo all’interno si è tolto il cappotto che ha piegato accuratamente accanto a sé sulla panca imbottita che funge da seduta. Ha un aspetto tutt’altro che riposato, non sereno, stropicciato. Indossa come sempre un completo, giacca e pantaloni scuri, una camicia bianca con una cravatta verde scuro con puntini bianchi. Una postura rigida e composta, ma da cui trapela stanchezza, una sorta di peso invisibile che grava sull’anima, fosse anche quello dell’attesa estenuante, eterna, che Ginevra entri dalla porta che ora tiene d’occhio ogni volta che la sente aprirsi. E tra uno sguardo impotente alla moleskina e un sorso di scotch, picchietta due dita unite sul tavolo, lento e ripetitivo.
Ginevra
Raggiunge il pub e vi entra senza alcun indugio, ha tolto gli occhiali lungo quel breve tragitto e li ha appoggiati alla scollatura del vestito. Quando entra lo sguardo che rivolge ai tavoli è veloce, tanto che è ancor sulla porta mentre dai tavoli posta lo sguardo verso il bancone verso il quale alza anche il braccio «Ciao!» dice con il suo solito sorriso spontaneo al personale al lavoro. Il pub è troppo vicino casa perché lei non lo frequenti spesso. Si sposta quindi verso il tavolo dove siede Malcolm, lo aveva individuato in quella veloce prima osservazione. Sta per sedersi quando si gira verso il bancone per rispondere ad uno dei barman «si, si ... per me il solito» si siede quindi di fronte Malcolm e «Ha fame? La cucina qui è niente male, cucina da pub, ma niente male» resta quindi con lo sguardo sul suo viso.
Malcolm
Osserva la porta ma quando vede la sua figura entrare, oltre ad un moto di sollievo esternato solo in un respiro più profondo nella continuità del volto teso, abbassa lo sguardo e si dedica a chiudere la moleskina, poggiandola sopra il cappotto, oltre che a togliere gli occhiali proprio mentre Ginevra si avvicina al tavolo. Un modo come un altro per tenersi impegnato e non dover necessariamente guardarla. Piega le stanghette degli occhiali e li fa sparire dentro la tasca interna della giacca, tornando subito dopo a scandire il tempo con quel tamburellare leggero delle dita sul tavolo. Solo fugaci occhiate a Ginevra che si accomoda, niente saluti – è come se si fossero già salutati e introdotti con quella lettera a suo parere – ma un sorso di scotch a condire quel misto di imbarazzo e vergogna che prova. Va cauto, molto cauto, più cauto di così – come dice Ginevra – si può solo star seduti in pantofole. La domanda sulla fame viene un po’ a sproposito quasi, davanti a quell’alcolico mandato giù a stomaco vuoto che può già dare a vedere le possibili intenzioni del giornalista, ma la risposta accompagnata dal moto perpetuo e incredibilmente preciso di quella mano, è un pacato e apparentemente algido: «Non molta, ma mi sforzerò, visto che sono stato fortunato ad entrare in un buon pub.» diplomatico ed elegante, come sempre, ma veritiero. Sarebbe ipocrita negare che in questo momento la fame non è esattamente un bisogno urgente. Fa silenzio ma sente lo sguardo su di sé e questo lo porta a cercare di frenare quella leggera compulsione, stringendo la mano lentamente e poi unendola all’altra, sul tavolo, in posizione centrale. Non sa cosa dire, è chiaro.
Ginevra
«Bene!» Ovviamente si riferisce al mangiare e si volta per guardare verso il bancone, fa un cenno e sorride e una delle ragazze si avvicina portando anche l'ordinazione di Ginevra. Un bicchiere di Rum e un piattino con della cioccolata fondente a pezzi. «Ciao Carol, ci porti il piatto del giorno?» la ringrazia e torna a guardare Malcolm. Entrambe le mano vanno a circondare il bicchiere di Rum, che però non solleva dal tavolo. Resta qualche istante in silenzio, giusto per capire se Malcolm intenda dire qualcosa. Al suo silenzio «ho investito quasi tutti miei soldi per aprire una libreria di libri antichi» solleva il bicchiere e lo avvicina alle labbra, poco prima di bere «attendo che le questioni burocratiche» beve un piccolo sorso «si disinceppino» solleva le sopracciglia nel terminare con una parola che non sa se esiste e che pronuncia col tono di chi non ci spera affatto.
Malcolm
Assente col capo e sbircia poco dopo quel piattino di cioccolata e il bicchiere di Rum, aggrotta leggermente la fronte per l’inusuale ordinazione che per Ginevra pare essere addirittura il solito. L’istante di perplessità e curiosità viene interrotto dall’ordinazione del “piatto del giorno”. «Grazie» risponde lui stesso a questa Carol, voltandosi per un momento ad individuarne la fisionomia, per poi tornare silenzioso al suo scotch. Lo solleva come per un breve brindisi e manda giù un altro sorso. Incassato il pugno caldo nello stomaco, resta a sentire Ginevra, che solo ora guarda meglio, con occhi stanchi per lo sforzo abnorme di oggi. Riflette su quello che ha sentito, piega leggermente il capo di lato, prima di annuire e commentare: «Ma certo, è così attinente a lei. Un’attività tranquilla e proficua.» tono comprensivo quanto distaccato, è in qualche modo contento per la sua sistemazione eppure nei suoi occhi che cercano di tornare, come nulla fosse, sulla donna, c’è una certa disillusione nell’avere la conferma che non resterà a fare la… assistente giornalista. Non c’era da aspettarselo, forse Malcolm l’aveva già capito ieri. Soffoca il pensiero e le compulsioni che nascono praticamente in automatico, nell’ennesimo dito di alcolico che beve, svuotando il bicchiere.
Ginevra
Si stringe appena nelle spalle mentre posa il bicchiere «è quello che so fare» abbassa lo sguardo sul piattino con la cioccolata e ne prende un pezzettino «ma potrei solo aver buttato i miei soldi e...» porta alle labbra la cioccolata e resta in silenzio il tempo di mangiarla, il seguito della frase sembra ragionarlo nel frattempo. Espira dal naso a conclusione di quei ragionamenti non espressi e riprende il bicchiere. Coglie qualcosa nello sguardo di Malcolm, ma non è assolutamente in grado di identificare quella disillusione per cui corruga appena la fronte «tutto bene?» non stacca lo sguardo da lui.
Malcolm
Annuisce ancora alle sue prime parole, un po’ perché sono vere, un po’ per rassicurarsi da solo. Preferisce osservare quel bicchiere che si posa e Ginevra che va a prendere la cioccolata per mangiarla. Per un po’ si è chiesto se magari la inzuppasse o se il rum era solo d’accompagnamento. Poteva essere interessante nella prima ipotesi. Piuttosto che dare seguito alla mezza affermazione di Ginevra, le domanda: «Sarà sotto casa sua questa libreria?» pensando, anzi credendo con una ragionevole probabilità, che si tolgano quei pannelli dalle vetrine dell’attività chiusa. Dopo qualche secondo l’aver terminato il suo scotch, va a muovere più volte il bicchiere, avendo cura di allinearlo in corrispondenza dell’angolo del tavolo, mentre respira lentamente. Ginevra scova il suo malessere anche se lui nega: «Sì. Tutto bene.» sollevando per un momento lo sguardo su di lei e lasciando stare quel bicchiere vuoto su cui però lo sguardo viene calamitato. La mette sull’egoismo, un attimo dopo: «Spero non le dispiaccia se prenderò una persona al suo posto quando interromperà il lavoro attuale» cerca di essere credibile, sul far apparire Ginevra come una persona tutto sommato fungibile. Nonostante le parole scritte, non riesce ad affrontare, di persona, quello che lo turba, nascondersi è compulsivo quanto quei gesti, ora il posizionare il bicchiere, ora la sistemazione fulminea del nodo della cravatta.
Ginevra
Tiene il bicchiere sollevato, il gomito appoggiato al tavolo, risponde mentre la cameriera porta il piatto del giorno: in un tagliere stretto e lungo sono posati due hamburger con bacon croccante e patatine fritte tutto attorno «effettivamente...» sorride «a casa mia si accede da quell'attività. Ho sempre pensato che sarebbe stato meraviglioso avere una casa piena di libri, tipo... tipo avere il letto in una grande biblioteca» scuote appena il capo «beh non ho proprio il letto nella libreria, ma» si stringe di nuovo nelle spalle «per entrare ed uscire dovrò passare da lì» incrocia il suo sguardo quando lo solleva, ma è un attimo e Malcolm lo distoglie di nuovo, lo abbassa sul piatto a sua volta «Signor Barnes vorrei che...» si interrompe sentendo il resto e riporta sul viso dell'uomo l'attenzione «ah...» non può nascondere la delusione racchiusa in quella semplice espressione. Resta in silenzio qualche momento portando distrattamente il bicchiere alle labbra per bere un sorso di Rum, abbassa poi la mano e lo appoggia sul tavolo senza staccare il gomito e senza lasciarlo «io non ho mai detto di voler interrompere un bel niente» una leggera nota di protesta è percepibile, è un tasto su cui lei è sensibile, le è più semplice credere che Malcolm esprima qualcosa di vero «Non ha motivo di sentirsi inadeguato o mortificato e se io gliene ho dato qualcuno, beh... mi dispiace, ma» fa una pausa per prendere respiro «per piacere» calcando la richiesta «mi guardi. Lo faccia almeno per educazione» come ultimo appiglio
Malcolm
Quando vede arrivare quelle ordinazioni le osserva con aria persa e un “come farò a mangiare questa roba” gli si dipinge in faccia, faccia di uno che proprio non ha fame. Tuttavia la ascolta, senza dare segno di volere quel cibo per l’appunto. Mugugna un verso comprensivo alla spiegazione della libreria e commenta: «Be’, quando ho traslocato, è stato un incubo trasferire anche i libri. E ora a casa mia ci si può a malapena muovere.» giusto per restare in tema di case piene di libri. «Sarà graziosa una libreria lì, ne sono certo» aggiunge educatamente, nel solito modo indecifrabile ma non menzognero. Alza immediatamente gli occhi a quella frase lasciata a metà e rovinata dall’uscita di Malcolm stesso. Osserva la delusione restando apparentemente impassibile. E’ notevole però il sollievo quando Ginevra corregge quelle sue preoccupazioni ossessive per la sua dipartita da questa improbabile squadra. Un attimo di silenzio e: «Intende… intende rimanere?» chiede, come se non fosse ovvio, con una voce un poco più bassa e tremolante, una parte di quella tensione che svanisce in un respiro più sostanzioso. Da quel tocco di incredulità si tradisce la preoccupazione che covava prima sotto quel nascondersi egoistico. La ascolta ancora e annuisce nervosamente, prendendo coraggio e riportando lo sguardo su di lei, benché non riesca a sostenere troppo a lungo il contatto visivo diretto. «Cosa diceva di volere, prima?» la invita a proseguire quella frase che era stata lasciata in sospeso, sembrava importante.  
Ginevra
Lascia il bicchiere per prendere una patatina dal piatto «dovrebbe mangiare qualcosa, non ha una bella cera» mangia la patatina e, sorvolando sulla questione dell'andare o restare, «prima quando?» corruga la fronte, poi dopo un momento «ah!» prende uno dei tovaglioli di carta sul tavolo per pulire le dita «vorrei che lei non considerasse di continuo di avermi detto le cose che mi ha detto» fa una pausa «vuole bere altro?» prosegue poi come se fosse parte della richiesta sull'ordinazione «ha abbastanza esperienza per sapere che nulla deve essere mai, per forza, come è» abbassa lo sguardo «mi dispiace se pensa che, il mio ritenere che la vita è facile, sia un minimizzare certe esperienze.» fa una pausa prima di proseguire «non pensa che dopo i fatti al cafè du monde avrei voluto.. non dover più uscire di casa?» afferra l'interno della guancia sinistra tra i denti, in difficoltà, a nessuno ha detto queste cose «ci ho pensato durante la notte, che potevo starmene lì, Marie non mi lascerebbe morire di fame di certo» incide sollevando appena le sopracciglia, riprende poi con più serietà «ma la mattina dopo c'era il sole» sta parlando con lo sguardo basso sul bicchiere «e ho pensato che potevo andare a comprare il giornale, tanto era vicino, poi per leggerlo ho pensato che al parco in fondo potevo anche arrivarci, stando attenta» elenca i vari pensieri di quella mattina «e c'erano state giornate più fredde, sarebbe stato piacevole starsene seduti al sole» solleva il bicchiere di Rum e beve svuotandolo «E quella mattina al parco, un signore ben vestito, con il giornale piegato alla perfezione si è seduto sulla mia stessa panchina» lo guarda adesso «e mi ha parlato di geroglifici» dice seriamente, ma dopo qualche istante sorride «anzi no, quello era il "non punto"» da come lo dice rende palese che sa benissimo quale era il punto del discorso di Malcolm. Riabbassa lo sguardo «pensi se fossi rimasta a casa perché un pazzo con l'arco mi ha colpita solo per ammazzare un John Doe proprio davanti ai miei occhi» resta a guardare il bicchiere vuoto.
Malcolm
Fa un cenno con la mano: «Mi dispiace, questa sera non reggo una cena così» declina compostamente, per poi ascoltarla, tormentandosi un po’ le dita. «No, grazie» riguardo al bere, mentre al resto annuisce soltanto, per darle segno che la segue nel discorso. E la ascolta, osservandola silenzioso, fino a che fa menzione della sua stessa persona e il modo in cui giustamente lo descrive, gli strappa un rapido sorriso che mantiene finché Ginevra cita la polemica sorta quel giorno. «Pensavo lo facesse per irritarmi, continuava a girare attorno al discorso» ammette, stringendosi nelle spalle con un tono vagamente divertito, mentre il sorriso va a scomparire. Era solo un’ombra fugace, in effetti. Chiaramente, con le sue parole, intende dire che a suo tempo non sapeva bene se Ginevra lo facesse apposta o era solo il suo modo di pensare. Ormai ci ha fatto l’abitudine. «Ma non ha importanza, ero nervoso anche io.» dice fra sé e sé. Stavolta quello a non tenere il punto è proprio lui. «Lo comprendo Miss Durand.» sostiene alla fine, assentendo «Ma pur volendo non potrei rimanere a casa. Come ho detto, c’è a malapena lo spazio per muoversi.» tira in ballo quella come giustificazione, per dire che non ha intenzione di non reagire alla vita. Dopo una breve pausa, aggiunge: «Se permette Miss Durand, desidero tornare a casa, sono molto stanco» e non pare una scusa per evitare discorsi sgradevoli. «Buona serata» le augura «e.. grazie» più sentitamente, mentre si alza e si infila il cappotto, nella cui tasca fa sparire la moleskina. Andrà a pagare lui tutta la cena ovviamente per poi avviarsi verso la macchina.
Ginevra
Sorride appena quando Malcolm sorride, è un sorriso appena accennato il suo, annuisce poi alla sua intenzione di tornare a casa «ma certo, anzi mi perdoni se l'ho trattenuta» lo dice con leggerezza, corruga la fronte al suo grazie, l'espressione del viso interrogativa, ma non intende trattenerlo con ulteriori domande «A presto Signor Barnes». Lo segue con lo sguardo e solo quando lui esce dal pub scomparendo alla vista porta l'attenzione al piatto, prende un'altra patatina, svogliatamente. Assorta in sue riflessioni che la fanno stare con l'aria appena accigliata. Resterà qualche ora nel pub, per stare in compagnia.
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pangeanews · 5 years
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“Scrissi del mio amore per gli esseri umani e della mia solidarietà con il loro dolore”: Vasilij Grossman, uno scrittore contro il potere
Una scena mi è parsa emblematica. L’emblema, straordinario e straziante per esattezza, dei rapporti tra lo scrittore e la Storia, tra la scrittura e l’esercizio del potere. Il potere, esemplificato da una costruzione astratta – che sia lo Stato, il Tribunale, la Legge, la sopraffazione di un regime – che impedisca l’affronto frontale, non manda più al rogo l’eretico, non brucia più i libri del poeta, esaltandone la carica incendiaria. Confisca. Ruba. Custodisce in casse caine. Provai, tempo fa, a scrivere in modo ‘teatrale’ dell’episodio, per me una icona, accaduto a Vasilij Grossman. Lo ricalco.
*
“Immaginate. Chiudete gli occhi. Ampliateli, come candele. Immaginate. Immaginare che abbiano messo il vostro cuore in un cassetto.
Il palazzo è enorme. Una città. Anzi, no, un alveare. Un immenso alveare di cemento. In questo alveare gli uffici sono tantissimi. Infiniti. In alcuni uffici è accesa la luce. In altri no. Chi vi lavora? Che lavoro si svolge? Noi non lo sappiamo. Sappiamo che quello è il cuore dello Stato. Il cuore del potere. E che in uno di quegli uffici, ma non sappiamo quale, c’è una cassettiera. E che in un cassetto di quella cassettiera c’è il vostro cuore.
Come sonnambuli, ansimanti, vagate per la città oceanica, caracollate per Mosca. Come corpi senza un cuore. Guardate quel palazzo, che ha il ruolo di incutere terrore. Sembra un giaguaro di cemento, in effetti. Guardate quel palazzo e sapete che da qualche parte, lì c’è il vostro cuore. E che il vostro cuore vi è stato sottratto per sempre. Hanno messo il vostro cuore in un cassetto.
Siamo nella primavera del 1962. Lo scrittore Vasilij Grossman scrive a Nikita Chruščëv, Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica. “A metà febbraio 1961 ufficiali del KGB si presentarono a casa mia con un mandato di perquisizione e requisirono varie copie e abbozzi del manoscritto di Vita e destino. Simultaneamente, vennero sequestrate anche le copie consegnate a Znamja e Novyj Mir. Questo segnò la fine delle mie speranze di veder uscire un lavoro, che mi aveva richiesto dieci anni di sforzi”.
Il cuore di uno scrittore è la sua opera. Vasilij Grossman era ebreo, ma era un ebreo che non creava problemi. Intelligente, ateo, aderì all’ideologia comunista: durante la Seconda guerra è sul campo di battaglia, a Stalingrado. Scrive dei reportage di guerra straordinari; i suoi romanzi strappano gli applausi dei ‘compagni’: è uno scrittore allineato. Che presto diventa un alienato. Cosa accade? Accade che Grossman capì che i metodi dei nazisti non erano diversi da quelli proposti da Stalin. Capì che il ‘bene di Stato’ provoca stermini, che la ‘ragion di Stato’ crea i Gulag e i campi di concentramento. Così, Grossman si concentra, passa dieci anni a scrivere Vita e destino. E quel romanzo gli viene sequestrato. Non lo vedrà mai più. «Il Suo lavoro è pericoloso per il popolo sovietico. La sua pubblicazione sarebbe nociva non solo per il popolo sovietico e per lo Stato sovietico, ma anche per tutti coloro che stanno lottando per il comunismo al di là dei confini dell’Unione Sovietica, per tutti quei lavoratori progressisti nei paesi capitalisti, per tutti coloro che lottano per la pace. Il Suo romanzo farebbe il gioco del nemico»: così gli dice Michajl Suslov, burocrate di regime, censore stipendiato, il 23 luglio del 1962. Nel 1962 nascono i Beatles e muore Marilyn Monroe, esce il primo film della serie 007 e il Presidente Kennedy lancia la sua sfida per conquistare la Luna, ed è John Steinbeck a vincere il Nobel per la letteratura. Beh, in quello stesso 1962 un dirigente pubblico dice al più grande scrittore del suo paese che «I nostri scrittori sovietici devono solamente produrre ciò che serve ed è utile per la società». Dice che il romanzo di questo scrittore, Vita e destino, definito il più possente romanzo sul male del Novecento e sull’ostinazione al bene, sarà sequestrato. Non lo bruceranno. Badate. Non lo distruggono. Lo sequestrano. Solo così il regime può tenere in mano il cuore dello scrittore. Ma qual era la colpa di Grossman? “Facendo del mio meglio con le mie limitate capacità, scrissi sulle persone comuni, il loro dolore, le loro gioie, i loro errori e le loro morti. Scrissi del mio amore per gli esseri umani e della mia solidarietà con il loro dolore”, così dice lui. Questa, questa è la colpa. Cosa è successo? Succede che la scrittura è sempre, quando è autentica, ostile al potere”.
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Vasilij Grossman muore quando gli sottraggono Vita e destino, perché il destino di uno scrittore è legato alla propria opera; poi muore, ancora, nel corpo, neanche sessantenne, nel 1964, 55 anni fa. In Italia, fino a poco fa, c’è stata una specie di ubriacatura per Grossman. I suoi libri sono editi da Adelphi – Vita e destino, il capolavoro immane, ma anche L’inferno di Treblinka, così necessario. Un bel libro per conoscere Grossman lo ha pubblicato Marietti dieci anni fa, si intitola Le ossa di Berdičev. La vita e il destino di Vasilij Grossman, ed è scritto da due studiosi americani, John e Carol Garrard. A Torino esiste anche uno Study Center Vasilij Grossman. Fatto è che l’ultimo libro di Grossman è stato pubblicato da Adelphi nel 2015, Uno scrittore in guerra, una raccolta di reportage dal cuore della Seconda guerra.
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Piuttosto, nel mondo anglofono si torna a parlare di Grossman con una certa effervescenza. I pretesti editoriali – connessi all’anniversario della morte – sono due. Da un lato la pubblicazione di una nuova biografia, Vasily Grossman and the Soviet Century, a cura di Alexandra Popoff per la Yale University Press (che ha offerto, in questi giorni, a Sheila Fitzpatrick il crisma per una articolessa, A Complex Fate. Vasily Grossman in war and peace pubblicata su “The Nation”). Dall’altro, soprattutto, è la pubblicazione di Stalingrad – cioè: “Per una giusta causa” – scritto nel 1952, che costituisce il prototipo e il precursore di Vita e destino, il romanzo che ne anticipa temi e personaggi, a galvanizzare la stampa anglofona. “Stalingrad è uno dei grandi romanzi del XX secolo, pubblicato per la prima volta in lingua inglese. In origine, Grossman immagina Stalingrad e Vita e destino, il suo capolavoro, come una singola opera organica. Stalingrad è un prequel di abbagliante splendore”, gorgheggia, dal Guardian, Luke Harding. “Stalingrad equivale a Vita e destino: è, indiscutibilmente, un libro più ricco, che si snoda attraverso le storie di uomini per concederci al senso della bellezza e della fragilità della vita”. Un paio di settimane fa – faccio del cerchiobottismo culturale – il Telegraph ha scritto di Stalingrad dicendolo “Un Guerra e pace del XX secolo”.
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Vasilij Grossman ha descritto con raffinatezza il pitone del potere. In Tutto scorre… (Adelphi, 1987) le pagine su Lenin sono di micidiale lucidità. “In un dibattito Lenin non cercava la verità, cercava la vittoria… Tutte le sue facoltà, la sua volontà, la sua passione erano subordinate a un solo scopo: prendere il potere… La capacità di calpestare nel fango l’avversario senza scomporsi, di tramortirlo in un dibattito, si associava in modo incomprensibile al gentile sorriso, alla timida delicatezza. La spietata crudeltà, il disprezzo per la cosa più sacra alla rivoluzione russa: la libertà, e lì accanto, dentro il petto dello stesso uomo, il puro entusiasmo giovanile per una buona musica, un bel libro”. L’anamnesi di Stalin è egualmente impeccabile: “Nel carattere di Stalin, in cui l’asiatico si fondeva con il marxista europeo, si esprimeva il sistema del carattere statale sovietico. Lenin incarnava il principio nazionale russo storico, Stalin il sistema statale russo sovietico. Il sistema statale russo – nato in Asia ma abbigliato all’europea – non è storico ma metastorico… Dalla sua fede negli incartamenti burocratici e nella forza della polizia quale forza principale di vita, dalla sua segreta passione per le uniformi e le decorazioni, dal suo inaudito disprezzo della dignità umana, della sua deificazione dell’assetto ministeriale e burocratico, dalla sua disponibilità a uccidere un essere umano per amore della sacrosanta lettera della legge, e in quel punto stesso a disprezzare la legge per amore di un mostruoso arbitrio – saltava fuori la gerarchia poliziesca, lo spirito del gendarme”.
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Si intitola La Madonna a Treblinka, però, alle mie orecchie, il testo miliare di Grossman (io lo leggo in una edizione fragile, che sta in una mano, stampata dalle Edizioni Medusa nel 2006; il testo è raccolto come La Madonna Sistina nel tomo Il bene sia con voi!, Adelphi, 2011). Qui Grossman racconta l’esposizione, a Mosca, del quadro di Raffaello, era il 1955, prima che lo stato sovietico lo restituisse alla Pinacoteca di Dresda. Quel quadro, di devastante dolcezza, dove la Madonna, una mamma, sembra vedere il volto, a falangi, di quelli che verranno a estirpargli il Figlio e a mangiarlo (“Madre e figlio sono come un unico essere, e tuttavia qualcosa li separa. Vedono insieme, hanno gli stessi pensieri, sono uniti – ma tutto induce a pensare che si separeranno, non può essere altrimenti, poiché l’essenza della loro unione consiste appunto nel fatto che dovranno separarsi”), diventa il centro del mondo, un’opera d’arte che custodisce l’uomo per varcarlo. “…e pur rimanendo intatta la mia enorme ammirazione per Rembrandt, Beethoven, Tolstoj, compresi che di tutto ciò che era stato creato da un pennello, da uno scalpello, da una penna – soltanto questo quadro di Raffaello non morirà finché sarà vivo l’uomo. Ma forse, se anche l’uomo morirà, altri esseri che resteranno sulla terra al suo posto – lupi, ratti, orsi, rondini – verranno, camminando o volando, ad ammirare la Madonna”. L’opera si incunea nella Storia, con nitore di stimmate: s’incarica di ogni essere, ha il dono di una commozione primordiale, prelogica. “Non c’è stato tempo più terribile del nostro – diremo – ma non abbiamo permesso che nel genere umano si estinguesse l’umanità. Contemplando la Madonna Sistina manteniamo la nostra fede nel fatto che vita e libertà siano inscindibili e non vi sia nulla di più alto dell’umanità dell’uomo. Questa umanità sopravvivrà in eterno, e vincerà”.  Di fronte all’opera non c’è riconoscimento, ma riconoscenza. Non c’è niente da conoscere in ciò che toglie il fiato. Resta quello. La riconoscenza. La capacità di inginocchiarsi davanti alla cosa grande. (Davide Brullo)
L'articolo “Scrissi del mio amore per gli esseri umani e della mia solidarietà con il loro dolore”: Vasilij Grossman, uno scrittore contro il potere proviene da Pangea.
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pangeanews · 5 years
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“Dicono che sono il Dostoevskij americano. Ma io Dostoevskij non l’ho mai letto”. Zitti, parla James Ellroy (con nuovo romanzo nello zaino)
Ricordo, una volta, in estro, lavoravo al Domenicale, titolai così: “James Ellroy, il Dostoevskij del nuovo millennio”. Di per sé, è una min**iata. Ogni accostamento tra scrittori dispari, di per sé, è un atto impuro. Era uscito Scasso con stupro, ma io mi riferivo a Tijuana, mon amour, pubblico nel 1999. Non è tra i ‘canonici’ di Ellroy – chessò, Dalia nera, American Tabloid, L.A. Confidential – ma aveva: lucidità, nerbo stilistico, afrore nichilista. Più che Dostoevskij, avrei potuto dire: ha scritto romanzi degni di Stavrogin. In Ellory, di solito, c’è una metropoli ustionata dalla corruzione, uomini annientati dal vizio, leccare il marcio, intridersi nella lordura, sottosuolo lisergico. Manca tutto il resto, cioè l’abbacinante, che è di Dostoevskij, la catabasi nell’insopportabile cristiano, il Dio che esiste perché non esita a voltare l’orrendo in profezia, lo schifo in bene.
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James Ellroy ha scritto una bella autobiografia – I miei luoghi oscuri – si dice cristiano, capitalista, estremista, un eremita della scrittura. Per lo più, è un bugiardo. Ad esempio, ha eretto una stele stilistica intorno al vero totem&tabù della storia americana – il ‘sogno americano’ è incubo stellato, l’epopea dell’Eden nel Nuovo Mondo è l’alcova di Satana – e della sua storia personale – madre assassinata, orfano a 17 anni, vita spericolata a L.A. – si fa vanto per gioco. In realtà, James Ellroy è un esteta. Uno che cura la scrittura – soprattutto quando appare così: sciupata, caina, cialtrona – fino all’ossessione. Non gl’importa altro. L’antica forzatura giornalistica di apparentarlo a Dostoevskij stava a dire: ne avessimo, qui, di scrittori così.
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A James Ellroy, ora, capitano due cose. Primo. La “Everyman’s Library”, cioè “la più raffinata edizione dei classici di tutto il mondo, da Omero a Chinua Achebe, da Lev Tolstoj a Kazuo Ishiguro e Marcel Proust”, ha accolto James Ellroy tra le sue auree stanze. In due tomi è raccolta la “Underworld Usa Trilogy”, in un altro il “The L.A. Quartet”. Griffe generica: “L’America non è mai stata innocente”. La seconda è l’uscita, a fine mese, dell’ultimo romanzo di James Ellroy, This Storm, che è il secondo volume del “The Second L.A. Quartet”, principiato con Perfidia (in Italia, edito da Einaudi nel 2014). La trama è questa: “Capodanno 1941, la guerra è in atto e la prigiona dei giapponesi anche. Los Angeles è febbricitante di guerra, di odio razziale. Il sergente Dudley Smith del Los Angeles Police Department è ora il capitano Smith dell’esercito americano, un profittatore di guerra”. In ballo, come sempre, ci sono investigatori corrotti, e una corrosiva voglia di oro, dopo che è scoperto il cadavere di un uomo ucciso dieci anni prima.
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Così si presenta James Ellroy: “Questo è James Ellroy – il Cane Demone della letteratura americana – in persona che abbandona il suo tavolo in un luogo remoto nel Midwest. Come saprai, sono un analfabeta digitale, quindi qui rompo la mia consuetudine… Il mio nuovo romanzo, The Storm, è pieno zeppo di merda criminale incessante, di merda politica, di merda razziale, di merda di sesso, di uomini e donne in quella merda che è l’amore! Sono stato inserito nella prestigiosa Everyman’s Library. In dolorosa compagnia con Albert Camus, John Updike, Katherine Mansfield, Saul Bellow, Joseph Heller, e con i raffinati contemporanei Joan Didion e Salman Rushdie – gente che non ho mai letto… libri troppo grossi, fantastici”. Poi s’è lanciato, Ellroy, a una intervista al pettinatissimo Andrew Anthony, sul Guardian. Si piglia in giro, Ellory, nel mondo cristallizzato di cravatte e di flûte della letteratura, in fondo, il maestro del ‘genere’ è uno scrittore di razza. (d.b.)
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“The Storm” è la seconda parte del secondo “L.A. Quartet”. Perché scrive per trilogie o ‘quartetti’?
Amo le cose in grande. Amo i grandi film. Amo i grandi pezzi di musica sinfonica. E amo i grandi romanzi. Fin dall’infanzia, ho vissuto nel passato. Spesso il passato dell’America, questo passato storico, è ciò che amo, è ciò che sono, è ciò che faccio. Il mio intento è sradicare il lettore dalla sua vita quotidiana e forzarlo dentro parti della storia americana, in modo particolare della storia di Los Angeles. Questo è un amore enorme, per dimensioni e portata, per emozioni e indagini e cospirazioni. Tutto grande, insomma.
Come pensa sia cambiato il suo stile da quel romanzo rivoluzionario, “Dalia nera”, del 1987?
Ora è più conciso. Dopo Dalia nera e L.A. Confidential ho sviluppato uno stile secco, spezzato, con una esposizione ridotta al minimo. Poi, quando mi sono imbarcato nella “Underworld USA Trilogy”, ho ampliato il testo, ho usato la terza persona con maggior forza, volevo esasperare il contenuto emotivo del libro. Poi sono tornato allo stile secco e spezzato in Sei pezzi da mille, ad estremità da urlo, tanto che per alcuni recensori fu incomprensibile. Insomma, trovo lo stile di cui ha bisogno ogni singolo libro.
I personaggi di “This Storm” sono luridi, sfacciati, volgari. Ora: mi pare che il tizio che occupa attualmente la Casa Bianca potrebbe adattarsi alla descrizione. Che opinione hai di lui?
Non parlo di politica, mai. Il presente non ha niente a che fare con i miei libri.
Ha molto successo, ma pensa di avere il conforto critico che merita?
Ciò che mi interessa è che il mio nuovo libro si integra con la pubblicazione dei tre volumi della “Everyman’s Library”. In effetti, sono stato canonizzato. Roba che ti gasa.
Ha mai problemi nel ricordare i diversi personaggi che ha creato mentre scrive?
Vede, io scrivo per enormi cornici. Lo schema di This Storm è di 450 pagine. Un diagramma fondamentale per scrivere questi romanzi, così densamente strutturati ed estremamente complessi. Gli archi drammatici sono stabiliti prima che inizi a scrivere, la storia c’è già tutta, nei minimi dettagli. Questo mi permette, così, di poterla vivere, da dentro, mentre scrivo le singole scene.
“Compulsion” di Meyer Levin, da cui Alfred Hitchcock ha tratto “Nodo alla gola”, è tra i libri di culto per Ellroy
Non è un fan di Raymond Chandler, il mitico fondatore dell’hard-boiled, perché?
Non mi piacciono i suoi libri e non credo che conoscesse l’uomo così bene. Non mi piace lo stile, le trame sono schifose.
Spesso si presenta come “il cavaliere bianco della destra estrema” [white knight of the far right]. Che cosa significa?
Fratello, è un gioco, è simpatico, è una rima che funziona. Fa parte dei miei allitteranti, pederasti, provocatori, pedanti, deliranti giochi.
Qual è stato l’ultimo libro che ha letto?
Ho riletto Compulsion di Meyer Levin, il romanzo sull’omicidio Leopold e Loeb avvenuto nel 1924 a Chicago. Pubblicato nel 1956, l’ho letto nei primi anni Settanta. L’ho letto altre sei o sette volte. Un romanzo molto bello, un romanzo molto astuto sulla ricca vita degli ebrei americani, un ritratto riuscito di due psicopatici.
Che tipo di lettore eri da bambino?
Precoce. Mio padre mi ha insegnato a leggere prima di andare a scuola. Sono sempre stato un lettore lento, però. La mia prima lettura sono le pile di Life nell’armadio dei miei genitori. Dopo la morte di mia madre, nell’estate del 1958, ho cominciato con i libri sul crimine. Amavo il romanzo poliziesco, il romanzo di spionaggio, il romanzo con intrighi realistici. Lo amo ancora.
Che libri hai sul tuo comodino?
I romanzi sul baseball di Mark Harris. L’uomo di Kiev, di Bernard Malamud. I primi libri di Philip Roth, riposi in pace. L’autobiografia di Elia Kazan, che ho letto un paio di volte.
C’è un romanzo in particolare a cui ritorni costantemente?
I romanzi di Ed McBain, quelli dell’“87° Distretto”. Li ho letti tutti. I primi sono i migliori, quelli scritti tra 1956 e 1972. Scrittura rapida e riuscita.
Un libro che pensi di dover leggere, ma che non hai letto.
Dovrei leggere Delitto e castigo, almeno da quando Joyce Carol Oates mi ha definito “il Dostoevskij americano”. Russia. XIX secolo. Non è roba che scrivo. Ho il libro a casa, ma ogni volta che lo prendo mi dico, merda, questa roba non posso leggerla.
Devi leggerlo.
Lo so, lo so. Me lo dicono tutti. Un giorno farò questa dannata cosa.
L'articolo “Dicono che sono il Dostoevskij americano. Ma io Dostoevskij non l’ho mai letto”. Zitti, parla James Ellroy (con nuovo romanzo nello zaino) proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2YDkO3e
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italianaradio · 5 years
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Spider-Man: Far From Home, tutti i segreti del nuovo trailer
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Spider-Man: Far From Home, tutti i segreti del nuovo trailer
Spider-Man: Far From Home, tutti i segreti del nuovo trailer
Spider-Man: Far From Home, tutti i segreti del nuovo trailer
È arrivato ieri, come promesso, il secondo trailer ufficiale di Spider-Man: Far From Home, il film che chiuderà definitivamente la Fase 3 e riprenderà subito dopo gli eventi di Avengers: Endgame. Tanti i riferimenti (e gli spoiler) sul capitolo del MCU che ha visto morire Iron Man e Vedova Nera, in questa avventura in giro per il mondo che porterà a conoscere Mysterio e i minacciosi Elementali.
Ma procediamo con ordine e analizziamo tutti i segreti di questo trailer:
Il mondo piange la morte di Tony Stark
Sembra che la morte di Iron Man abbia scosso il mondo più di quanto immaginassimo: New York, la città dove vive Peter Parker, è tappezzata di murales che raffigurano l’armatura dell’eroe scomparso in Endgame per salvare il destino dell’umanità e sconfiggere Thanos, e andare avanti, almeno per chi lo conosceva bene, è davvero difficile.
Peter affronta il lutto a modo suo, facendo del bene e impedendo al crimine di serpeggiare, eppure sembra che quel vuoto lasciato dall’assenza del suo padre putativo sia incolmabile. Inoltre è interessante notare come questa dinamica della perdita e del lutto per Tony Stark abbia sostituito, nel MCU, quella che lo Spider-Man di Sam Raimi e Marc Webb aveva con lo zio Ben…
Il ruolo di Happy Hogan
Non era del tutto prevedibile, ma questo trailer conferma il ruolo ancora più centrale di Happy Hogan nel film, dopo che il personaggio era apparso in poche scene di Spider-Man: Homecoming come messaggero di Tony Stark. Anche qui si presenta in veste di sussidiario di Nick Fury, e segue i ragazzi durante la loro vacanza in Europa, ma sembra che il suo rapporto con Peter sia ancora “problematico”…
Di certo ci fa piacere rivedere Happy in azione dopo la trilogia di Iron Man e la scena del funerale di Tony in Endgame, e speriamo che il sequel ci riservi qualche bella sorpresa.
Peter e MJ
Scoppierà o no questa agognata love story tra Peter e MJ? È una delle domande poste dal trailer, e pare che il ragazzo sia disposto a tutto pur di mettere da parte i suoi impegni da supereroe e tornare dalla ragazza che gli piace (o almeno è ciò che dice a Mysterio).
D grandi poter derivano grandi responsabilità…ma cosa frulla nella testa di un adolescente innamorato alla sua prima vera cotta? Vedremo come evolverà la situazione.
Il multiverso
Come confermato dal secondo trailer, Nick Fury sta lavorando al fianco di “Mr. Beck” (così viene chiamato Mysterio) e rivela a Peter che lo schiocco ha creato una sorta di buco nella loro realtà portando questo personaggio sulla Terra. A quanto pare esiste un altro pianeta speculare al nostro da cui proviene Beck, ovvero un Multiverso, che è un concetto fin troppo familiare ai fan dei fumetti.
Bisogna considerare che Mysterio, anzi, la sua controparte originale, è un noto truffatore e illusionista, e potrebbe aver fabbricato questa versione degli eventi per ragioni che sono attualmente sconosciute. Dopotutto, fingere di essere venuto da un’altra Terra per inseguire gli Elementali lo mette in una posizione unica, fidata, tanto da ingannare Fury e la Maria Hill…
Gli Avengers non sono “disponibili”
Terminato l’impegno contro Thanos, i supereroi più potenti della Terra sono scomparsi dal radar: nel trailer sentiamo che Thor è fuori dal mondo e Captain Marvel è da qualche parte impegnata in altri compiti, ed è per questo che la scelta di Nick Fury è ricaduta su Spider-Man. Forse per una ragione ben precisa…
Piccola curiosità: Peter è il primo personaggio del MCU a chiamare Carol Danvers con il suo nome da eroina, perché sia nello standalone con Brie Larson che in Avengers: Endgame i colleghi si sono sempre riferiti a lei con il nome “civile”.
Elementali
Il secondo trailer ci offre uno sguardo ancora più ravvicinato a Molten Man, Hydro-Man e Sandman, i tre Elementali che stanno aggredendo le capitali europee, e conviene sottolineare come siano del tutto distanti nell’aspetto dalle loro versioni dei fumetti.
C’è da dire però che appaiono molto più spaventosi delle premesse e sembrano creazioni (o illusioni) di Mysterio che soltanto lui può controllare…
L’identità segreta di Peter
L’identità segreta di Peter Parker non è più tale, visto che già in Homecoming l’amico Ned e la zia May avevano scoperto che sotto la maschera di Spider-Man c’era lui. Forse dovrebbe iniziare a stare un po’ più attento perché sembra che anche MJ sia al corrente della realtà…
Se pensiamo che pure Mysterio sa tutto, è facile ipotizzare che il villain sfrutterà questa informazione per allearsi con nemici eventuali come i Sinistri Sei, Avvoltotio o Scorpion (come nei fumetti).
Gli occhiali di Tony
Questo è un dettaglio che non sarà sfuggito ai fan più accaniti di Tony Stark: Peter Parker indossa gli occhiali del supereroe, un vero e proprio marchio di fabbrica, oltre che gadget tecnologico super avanzato.
Non sappiamo a cosa serviranno e se si tratta di un regalo da parte di Tony al ragazzo (come una specie di testamento o un’eredità), ma la presenza di Robert Downey Jr. sembra ancora viva nel MCU anche grazie a questi piccoli easter egg.
CORRELATO – Spider-Man: Far From Home, gli indizi sul film che arrivano da Endgame
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Spider-Man: Far From Home, tutti i segreti del nuovo trailer
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Cecilia Strazza
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italianaradio · 5 years
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10 fumetti da leggere dopo aver visto Avengers: Endgame
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10 fumetti da leggere dopo aver visto Avengers: Endgame
10 fumetti da leggere dopo aver visto Avengers: Endgame
10 fumetti da leggere dopo aver visto Avengers: Endgame
Ora che la Infinity Saga si è conclusa, grazie ad Avengers: Endgame, e il percorso di alcuni eroi del MCU è giunto al termine, è tempo di concentrarsi sulla prossima ondata di film che arriveranno dai Marvel Studios.
Ma quali sono i fumetti a cui attingeranno? Quali storie dovremmo rileggere per arrivare preparati? Ecco 10 suggerimenti:
Eterni
Tra tutte le storie dei fumetti, quella sugli Eterni dovrebbe essere la più interessante da leggere in vista dell’imminente arrivo al cinema del film già in lavorazione.
Creati da Jack Kirby, nelle serie originali viene raccontato il percorso di Ikaris mentre tenta di risvegliare i suoi compagni Eterni dalle loro vite umane. Tra le pagine si parla anche di Sersi, figlia di Helios e Perse, che durante il periodo trascorso nell’antica Mesopotamia incontra per la prima volta Captain America, che aveva viaggiato indietro nel tempo.
Guardiani della Galassia
Ovviamente non si sta parlando della stessa squadra introdotta nel MCU con il film di James Gunn, ma di un altro gruppo già presentato in parte nel franchise grazie ai Ravagers, guidati al cinema da Stakar / Starhawk.
Nei fumetti vengono appunto chiamati Guardiani della Galassia, ed è qui che si rileva la prima apparizione di Yondu.
Sam Wilson: Captain America
Il finale di Avengers: Endgame ha visto l’emozionante passaggio d consegne tra Steve Rogers e Sam Wilson, con Falcon che diventa a tutti gli effetti il nuovo Captain America. Una trama che i lettori dei fumetti conosceranno bene…
Il tempo di Sam nei panni dell’eroe simbolo non è troppo lungo, almeno se paragonato ad altri personaggi che hanno brandito lo scudo, ma la sua serie è interessante perché racconta del modo in cui il vecchio Steve può ancora dimostrarsi utile per il bene comune.
Ironheart
Riri Williams è uno dei personaggi più controversi della storia recente della Marvel Comics, ora conosciuta come Ironheart, ma originariamente esordì nel ruolo di Iron Man nel 2014 tra l’amore e l’odio dei fan.
Di certo il successo di Captain Marvel al botteghino ci dimostra come le eroine femminili riescano a conquistare ugualmente il pubblico con risultati straordinari, dunque Riri potrebbe essere l’erede perfetta di Tony Stark nel MCU dopo l’addio di Robert Downey Jr.
Young Avengers
Lo scorso gennaio un rumor aveva reso noto che i Marvel Studios avrebbero iniziato a progettare un film interamente dedicato agli Young Avengers con personaggi mai visti prima nel MCU. E al contrario di quanto si possa immaginare, non si tratta della stessa formazione che conosciamo in versione “giovane” ma di una squadra completamente diversa composta da giovani supereroi.
Molti ipotizzavano una loro introduzione già a partire da Avengers: Endgame, con la comparsa della figlia di Occhio di Falco, Cassie Lang e, potenzialmente, Morgan Stark. A queste figure si aggiungerebbero poi Allan Heinberg e Jim Cheung, i primi membri della squadra.
Captain Marvel
Carol Danvers è la nuova arrivata nel MCU, quindi è evidente che il suo ruolo sarà sempre più importante nei prossimi film del franchise (come suggerito tra l’altro da Kevin Feige in diverse interviste). E considerando che il personaggio è saltato fuori dopo anni di assenza, nel tempo che passa dal suo standalone ad Endgame ci sono tante storie da raccontare e da attingere dai fumetti.
Il terzo volume della sua serie omonima potrebbe darci qualche suggerimento, come quando Carol viene nominata comandante del programma Alpha Flight Space. Vivendo e lavorando a bordo di un satellite in orbita, Captain Marvel lavora per proteggere la Terra dalle minacce galattiche,.
The Ultimates
Sempre per quanto riguarda Captain Marvel, l’eroina potrebbe svolgere – oltre al ruolo di leader dell’Alpha Flight – anche quello di membro dei The Ultimates, un gruppo di supereroi che nei fumetti include anche Black Panther, Monica Rambeau, America Chavez, Blue Marvel e Spectrum.
Sarebbe un’interessante direzione di trama per il futuro del MCU, con dinamiche del tutto inedite e una squadra completamente diversa da quella che abbiamo visto finora sul grande schermo.
Secret Invasion
Secret Invasion è un altro celebre crossover a fumetti pubblicato nel 2008 che racconta dell’invasione sulla Terra da parte degli Skrull, gli alieni mutaforma dell’universo Marvel visti di recente in Captain Marvel. E proprio come accaduto in Civil War e World War Hulk, gli eventi di questa miniserie vanno a collegarsi con altre storie (i cosiddetti tie-in).
Dopo la visita degli Illuminati all’Impero Skrull, dove sono stati imprigionati e studiati, gli scienziati Skrull scoprono il modo per mutarsi in forma umana senza essere scoperti, e soltanto negli anni seguenti sarà l’Imperatrice Veranke a decidere di far partire l’invasione al pianeta Terra, ritenuto dagli Skrull la loro Terra Promessa.
Nova
Prima di arrivare all’adattamento di Secret Invasion però, il MCU potrebbe aver bisogno di introdurre un nuovo personaggio. I Nova Corps di Xandar sono apparsi nel franchise di Guardiani della Galassia, e come rivelato in Avengers: Infinity War, il loro pianeta è stato distrutto da Thanos per ottenere la gemma del potere.
Ora, la distruzione di Xandar potrebbe collegarsi alla trama di Richard Rider, che nei fumetti prende il comando dei Nova Corps diventando l’ultimo del suo lignaggio, un adolescente con poteri di livello cosmico che potrebbe ricoprire un ruolo fondamentale nello sviluppo del lato cosmico dell’universo cinematografico.
Annihilation
Annihilation è la saga di fumetti pubblicata nel 2006 ideata da Keith Giffen sviluppando alcune idee dalla miniserie dedicata Drax il Distruttore del 2005.
La trama prende piede dopo un’evasione di massa alle Kyln, le prigioni intergalattiche più antiche del Big Bang, quando una flotta di astronavi a forma di insetti attacca le celle distruggendole. Xandar, il pianeta natale dei Nova Corps, non esiste più e l’universo è nel caos: l’unico sopravvissuto è Richard Rider, Nova Primo, che entra in possesso di tutta la forza Nova.
Dopo questi attacchi l’onda Annilathion colpirà l’impero Skrull, passando poi a quello dei Kree, con la scoperta che il vero comandante della flotta è Annihilus e che Thanos è il suo alleato.
Leggi anche – Avengers: Endgame, 10 differenze tra film e fumetti
Fonte: CBR
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