Tumgik
#che è comprensibile se si considera il contesto
useless-rambling · 9 months
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personalissima classifica dei carcerati di mare fuori dal più tollerabile al più frangicazzi ora che ho finalmente finito la prima stagione (carmine non incluso perché è stato l'unico che non mi ha fatto dannare, sant'uomo)
9. gemma > storia, purtroppo, incredibilmente attuale, inutile spiegare il perché. peccato solo che quel malessere del fidanzato non sia schiattato.
8. naditza > si meriterebbe il posto di gemma se non avesse l'imperdonabile difetto di essersi innamorata di un pirla (chiattillo, nadì? seriamente?)
7. cardiotrap > non è un criminale, è solo uno scemo (semicit.); perde qualche punto per la semi-affiliazione ai minion di ciro, ma sembra un cuoricino di panna piccolo così 🤏🏻
6. silvia e serena > meh. they were there i guess.
5. viola > personaggio interessante ma estremamente frustrante; curiosa di sapere quale sarà la sua storia nelle stagioni a venire (resto convinta del fatto che ciro, se non si fosse beccato un cacciavite in un rene, sarebbe comunque schiattato o finito in ambulanza a causa sua - ché alla fine viola ci stava giocando come il gatto col topo, e chissà cosa gli avrebbe fatto fare).
4. pino > proud owner of a half a braincell; l'unico a non meritarsi l'epiteto di minion. anche lui personaggio interessante, ma con cui non sono riuscita ad empatizzare di più a causa degli abusi sessuali al chiattillo.
3. i minion di ciro > l'anello di congiunzione tra l'uomo e la scimmia. non un singolo pensiero autonomo è stato partorito da quelle scatole craniche vuote.
2. ciro > l'ho detestato sin dal primo momento; tutto sommato, ottimo antagonista.
1. chiattillo > carmine has 100 problems and chiattillo is 99 of them. sia mai dare ragione a ciro, ma un po' infame lo è stato eh
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fridagentileschi · 8 months
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I dieci danni che ci lasciò il '68
Mezzo secolo fa l'arroganza del (presunto) contropotere generò la dittatura chiamata "politicamente corretto"
Sono passati cinquant'anni dal '68 ma gli effetti di quella nube tossica così mitizzata si vedono ancora. Li riassumo in dieci eredità che sono poi il referto del nostro oggi.
SFASCISTA Per cominciare, il '68 lasciò una formidabile carica distruttiva: l'ebbrezza di demolire o cupio dissolvi, il pensiero negativo, il desiderio di decostruire, il Gran Rifiuto.
Basta, No, fuori, via, anti, rabbia, contro, furono le parole chiave, esclamative dell'epoca. Il potere destituente. Non a caso si chiamò Contestazione globale perché fu la globalizzazione destruens, l'affermazione di sé tramite la negazione del contesto, del sistema, delle istituzioni, dell'arte e della storia. Lo sfascismo diventò poi il nuovo collante sociale in forma di protesta, imprecazione, invettiva, e infine di antipolitica. Viviamo tra le macerie dello sfascismo.
PARRICIDA La rivolta del '68 ebbe un Nemico Assoluto, il Padre. Inteso come pater familias, come patriarcato, come patria, come Santo Padre, come Padrone, come docente, come autorità. Il '68 fu il movimento del parricidio gioioso, la festa per l'uccisione simbolica del padre e di chi ne fa le veci. Ogni autorità perse autorevolezza e credibilità, l'educazione fu rigettata come costrizione, la tradizione fu respinta come mistificazione, la vecchiaia fu ridicolizzata come rancida e retrò, il vecchio perse aura e rispetto e si fece ingombro, intralcio, ramo secco. Grottesca eredità se si considera che oggi viviamo in una società di vecchi. Il giovanilismo di allora era comprensibile, il giovanilismo in una società anziana è ridicolo e penoso nel suo autolesionismo e nei suoi camuffamenti.
INFANTILE Di contro, il '68 scatenò la sindrome del Bambino Perenne, giocoso e irresponsabile. Che nel nome della sua creatività e del suo genio, decretato per autoacclamazione, rifiuta le responsabilità del futuro, oltre che quelle del passato. La società senza padre diventò società senza figli; ecco la generazione dei figli permanenti, autocreati e autogestiti che non abdicano alla loro adolescenza per far spazio ai bambini veri. Peter Pan si fa egocentrico e narcisista. Il collettivismo originario del '68 diventò soggettivismo puerile, emozionale con relativo culto dell'Io. La denatalità, l'aborto e l'oltraggio alla vecchiaia trovano qui il loro alibi.
ARROGANTE che fa rima con ignorante. Ognuno in virtù della sua età e del suo ruolo di Contestatore si sentiva in diritto di giudicare il mondo e il sapere, nel nome di un'ignoranza costituente, rivoluzionaria. Il '68 sciolse il nesso tra diritti e doveri, tra desideri e sacrifici, tra libertà e limiti, tra meriti e risultati, tra responsabilità e potere, oltre che tra giovani e vecchi, tra sesso e procreazione, tra storia e natura, tra l'ebbrezza effimera della rottura e la gioia delle cose durevoli.
ESTREMISTA Dopo il '68 vennero gli anni di piombo, le violenze, il terrorismo. Non fu uno sbocco automatico e globale del '68 ma uno dei suoi esiti più significativi. L'arroganza di quel clima si cristallizzò in prevaricazione e aggressione verso chi non si conformava al nuovo conformismo radicale. Dal '68 derivò l'onda estremista che si abbeverò di modelli esotici: la Cina di Mao, il Vietnam di Ho-Chi-Minh, la Cuba di Castro e Che Guevara, l'Africa e il Black power. Il '68 fu la scuola dell'obbligo della rivolta; poi i più decisi scelsero i licei della violenza, fino al master in terrorismo. Il '68 non lasciò eventi memorabili ma avvelenò il clima, non produsse rivoluzioni politiche o economiche ma mutazioni di costume e di mentalità.
TOSSICO Un altro versante del '68 preferì alle canne fumanti delle P38 le canne fumate e anche peggio. Ai carnivori della violenza politica si affiancarono così gli erbivori della droga. Il filone hippy e la cultura radical, preesistenti al '68, si incontrarono con l'onda permissiva e trasgressiva del Movimento e prese fuoco con l'hashish, l'lsd e altri allucinogeni. Lasciò una lunga scia di disadattati, dipendenti, disperati. L'ideologia notturna del '68 fu dionisiaca, fondata sulla libertà sfrenata, sulla trasgressione illimitata, sul bere, fumare, bucarsi, far notte e sesso libero. Anche questo non fu l'esito principale del '68 ma una diramazione minore o uscita laterale.
CONFORMISTA L'esito principale del '68, la sua eredità maggiore, fu l'affermazione dello spirito radical, cinico e neoborghese. Il '68 si era presentato come rivoluzione antiborghese e anticapitalista ma alla fine lavorò al servizio della nuova borghesia, non più familista, cristiana e patriottica, e del nuovo capitale globale, finanziario. Attaccarono la tradizione che non era alleata del potere capitalistico ma era l'ultimo argine al suo dilagare. Così i credenti, i connazionali, i cittadini furono ridotti a consumatori, gaudenti e single. Il '68 spostò la rivoluzione sul privato, nella sfera sessuale e famigliare, nei rapporti tra le generazioni, nel lessico e nei costumi.
RIDUTTIVO Il '68 trascinò ogni storia, religione, scienza e pensiero nel tribunale del presente. Tutto venne ridotto all'attualità, perfino i classici venivano rigettati o accettati se attualizzabili, se parlavano al presente in modo adeguato. Era l'unico criterio di valore. Questa gigantesca riduzione all'attualità, alterata dalle lenti ideologiche, ha generato il presentismo, la rimozione della storia, la dimenticanza del passato; e poi la perdita del futuro, nel culto immediato dell'odierno, tribunale supremo per giudicare ogni tempo, ogni evento e ogni storia.
NEOBIGOTTO Conseguenza diretta fu la nascita e lo sviluppo del Politically correct, il bigottismo radical e progressista a tutela dei nuovi totem e dei nuovi tabù. Antifascismo, antirazzismo, antisessismo, tutela di gay, neri, svantaggiati. Il '68 era nato come rivolta contro l'ipocrisia parruccona dei benpensanti per un linguaggio franco e sboccato; ma col lessico politicamente corretto trionfò la nuova ipocrisia. Fallita la rivoluzione sociale, il '68 ripiegò sulla rivoluzione lessicale: non potendo cambiare la realtà e la natura ne cambiò i nomi, occultò la realtà o la vide sotto un altro punto di vista. Fallita l'etica si rivalsero sull'etichetta. Il p.c. è il rococò del '68.
SMISURATO Cosa lascia infine il '68? L'apologia dello sconfinamento in ogni campo. Sconfinano i popoli, i sessi, i luoghi. Si rompono gli argini, si perdono i limiti e le frontiere, il senso della misura e della norma, unica garanzia che la libertà non sconfini nel caos, la mia sfera invade la tua. Lo sconfinamento, che i greci temevano come hybris, la passione per l'illimitato, per la mutazione incessante; la natura soggiace ai desideri, la realtà stuprata dall'utopia, il sogno e la fantasia che pretendono di cancellare la vita vera e le sue imperfezioni... Questi sono i danni (e altri ce ne sarebbero), ma non ci sono pregi, eredità positive del '68? Certo, le conquiste femminili, i diritti civili e del lavoro, la sensibilità ambientale, l'effervescenza del clima e altro... Ma i pregi ve li diranno in tanti. Io vi ho raccontato l'altra faccia in ombra del '68. Noi, per dirla con un autore che piaceva ai sessantottini, Bertolt Brecht, ci sedemmo dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. Alla fine, i trasgressivi siamo noi.
Marcello Veneziani
Editorialista del Tempo, sul '68 ha scritto Rovesciare il '68 (Mondadori, anche in Oscar, 2008)
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andreapicciuolo · 7 years
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No words. Il discorso sull’immigrazione: due esempi
[…] il fotografo è essenzialmente testimone della propria soggettività, cioè del modo in cui si pone come soggetto di fronte a un oggetto. (cit.)
“Il dibattito sull'immigrazione è il paradiso dei retori e dei velleitari” si legge nella descrizione del volume di Sciortino, “Il rebus dell’immigrazione”. Nei giorni scorsi, in seguito alla polemica che è seguita alla pubblicazione di un estratto del libro in uscita di M. Renzi, ho già avuto modo di formulare qualche impressione (qui in maniera diretta, qui in maniera indiretta) su una parte della retorica e della poetica che reggono il discorso sull’immigrazione. In queste due righe, vorrei prolungare il gesto (anche qui si tratta di impressioni, nulla più, formulate in maniera non tecnica) e provare a prendere ad esempio due tipi di pratiche argomentative che, nel discorso sull’immigrazione, vertono sui temi del “soccorso” e dell’“accoglienza”. Un primo appunto concerne il rapporto tra testo e immagine dal punto di vista della loro efficacia persuasiva (vale a dire, in questo caso, del loro uso per modificare la competenza, cognitiva ed “emotiva”, del “lettore” affinché questi accetti il “frame” dell’enunciatore). A un primo sguardo, pare che quella mistica della necessità di cui parlavo nei due precedenti articoli, imperniata sulla modalità narrativa del “non si può fare altrimenti”, caratterizzi il discorso del “soccorso” e dell’“accoglienza” non solo quando questo viene traslato nel dominio economico, ma anche quando è collocato nel dominio etico e morale. Si prendano ad esempio le tre fotografie, di reportage si direbbe, che seguono:
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L’enunciazione appare trasparente, una mera ostensione. Uno “stato” (la cui dimensione figurativa è orribile, come, in modo obliquo, viene esplicitato in una delle “didascalie”), un dato da offrire, nella sua inclemenza, allo sguardo. Dal punto di vista dell’impressione referenziale il modo che le caratterizza è quello dell’evidenza. Se si eccede la dimensione figurativa e si considera la costruzione plastica dell’inquadratura (la messa in prospettiva), ci si trova di fronte a delle soggettive: dei corpi (in pericolo o privi di vita), in solitudine, nella mira di un osservatore esterno che non compare (in un caso “osservatore partecipante” in quanto interpellato dagli sguardi messi in scena, nell’altro “spettatore”). Dalla scena visibile sono assenti altri “attori”. L’effetto è un enunciato “trasparente”, che interpella lo sguardo del lettore e gli mostra un’evidenza piena. No words, dunque: si ritiene non ve ne sia bisogno. La “voce” dell’autore (quella “responsabilità” che, ad altro dominio riferita, appare sulla prima pagina di Libération) non si “sente”, si lasciano parlare i “fatti”. Negare la dimensione del discorso (i “segni” dell’autore”) per dare la parola ai fatti, all’evidenza della storia, ha però un prezzo, quello di “naturalizzare” quello “stato di cose”, di reificarlo e negare lo spazio (tutto culturale) delle “ragioni”: quel processo (complesso) che quello “stato di cose” appunto presuppone. La negazione della dimensione cognitiva a tutto vantaggio di una pratica argomentativa fondata sull’“oggettività” del dato produce, nel racconto, delle pagine bianche che l’“a casa loro” (tra gli altri) contribuisce a riempire. Cosa accade, invece, quando si tenta di dare voce direttamente ai protagonisti (gli immigrati o i migranti) e di passare dalla (presunta) storia al discorso (effettivo)? In quel caso, pare, si passa, almeno dal punto di vista della “narrazione”, dalla negazione della dimensione “cognitiva” alla sua affermazione e addirittura magnificazione. Pare. Un esempio ci è offerto da un caso di cronaca che ha fatto clamore qualche mese fa. Le proteste di alcuni cittadini di Goro e Gorino per impedire l’arrivo di alcuni profughi (donne, alcune incinte) destinate a trovare lì rifugio in un “centro di accoglienza”. Alcuni organi di stampa intervistarono, nei giorni immediatamente successivi ai fatti, alcune delle donne (due esempi: 1 e 2). In quel caso, l’efficacia persuasiva del discorso dell’“accoglienza” poggiava, diversamente dal primo esempio, sulla presa di parola, seppur mediata (in maniera comprensibilmente frammentaria e in alcuni casi platealmente contraddittoria), degli “attori” del racconto, nella convinzione, espressa in una delle interviste, che “ci hanno mandate via solo perché non conoscono, non capiscono le nostre storie”. Anche in quel caso, però, lo spazio, propriamente cognitivo (e culturale su un piano più generale), delle ragioni (e del “possibile”) è negato a favore della dimensione della necessità: si elencano al più “moventi”. Anche qui, per altre vie, si afferma la pagina bianca delle non-ragioni, con un esito paradossale: l’effetto che si ottiene è infatti l’opposto di quello che, sul piano argomentativo, ci si era posti. Il modo della necessità, se giustificato e comprensibile sul piano individuale, diviene facilmente aggredibile dal punto di vista argomentativo se traslato sul piano collettivo della genesi e del governo dei fenomeni. E la somma delle storie individuali non può fungere, in quel contesto, come metonimia della Storia collettiva. Si leggano pochi passaggi tratti da quelle interviste (che raccontano “storie” terribili, ma è il modo che qui interessa in virtù della loro valenza argomentativa): “Ho viaggiato per sei mesi e due settimane e sono arrivata in Italia.” “[…] io sono scappata, alcuni uomini mi hanno presa e mi hanno portata in Libia, è stato tremendo”. “Sono fuggita perché mio marito voleva uccidermi ma purtroppo sono finita in Libia”. “Ho viaggiato per una settimana e sono arrivata in Libia”. “Sono scappata dalla Nigeria dove non potevo più stare perché rischiavo la vita. Anche io non so per quale motivo sono arrivata in Libia e quando sono sbarcata non sapevo nemmeno dove fossi”. La dimensione processuale del racconto è pressoché negata, ci si trova proiettati nella dimensione dell’“istantaneo”: è accaduto (a essere espresso è un repentino cambiamento di stato, senza dire nulla o quasi nulla del “processo” che lo presuppone, ovvero sulla sua genesi e sul suo sviluppo). Il piano cognitivo (propriamente umano) è espunto, a tutto vantaggio di una dimensione (banalmente) pragmatica o al più “sensibile”. Anche qui, no words. L’intreccio è negato, ci si trova di fronte a “stati di cose”. Anche per questo, forse, l’ “a casa loro” (da qualsiasi parte provenga e nei vari modi con cui è articolato) ha, nella disputa argomentativa, gioco facile nell’articolare, con un monologo a quel punto, i “come”, i “perché”, gli “altrimenti”.
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