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#fascismo eterno
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Umberto Eco: Věčný fašismus (Il fascismo eterno)
„Ur-fašista“ – věčný fašista, člověk se sklony k fašismu či člověk ve fašistickém státě, jehož příznaky Eco v citované části popisuje.
„Machismus“ – [mačizmus], vysvětleno v citaci, mužský šovinismus
„Ersatz“ – německy náhrada, odškodnění
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abr · 4 months
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Travestite da questione ambientale, palestinese, sociale, pacifista, e chi più ne ha più ne metta, tutte le “battaglie” di una parte della società occidentale contro se stessa non sembrano altro che il rancoroso tentativo di prendersi la rivincita per la disfatta ideologica dell’89.
È la trappola dell’antifascismo eterno – il più delle volte eterodiretto e invariabilmente illiberale – che giustifica qualunque deriva, per surreale o grottesca che sia (come definire altrimenti, un esempio tra i tanti, il supporto di ampi settori del movimento femminista e Lgtbiqa all’islamocrazia omofoba e maschilista di Hamas?).
Un antifascismo che non si propone come obiettivo combattere il fascismo (...) ma piuttosto segnalare tutto ciò che a suo insindacabile giudizio identifica come tale, vale a dire praticamente qualunque cosa non si muova al ritmo imposto dal progressismo militante.
A partire da queste premesse è breve il passo che porta alla fascistizzazione dei punti di vista che non rispondono ai dettami del “totalitarismo angelico”, per dirla con Richard Millet, ovvero l’odio (verso) se stessi in nome di un terzomondismo di maniera (...), alimentato dalla retorica benevolente di una sinistra elitaria disposta a far saltare il banco pur di mantenere la propria egemonia (...).
La società, se non si può conquistare per assalto, dev’essere presa per sfinimento. (Mentre) si nutrono le frange estremiste delle università che servono a mantenere in costante tensione la società civile e a provocare una risposta “repressiva” (cioè “fascista”, facile no?).
Enzo Reale sempre ficcante e au point, via https://opinione.it/editoriali/2024/05/15/enzo-reale-linguaggio-antifascismo-comunismo-revisionismo-antiliberale/
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onenakedfarmer · 24 days
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UMBERTO ECO "Eternal Fascism - Fourteen Ways of Looking at a Blackshirt" ["Il fascismo eterno"]
It would be so much easier for us, if there appeared on the world scene somebody saying "I want to reopen Auschwitz, I want the Black Shirts to parade again in the Italian squares". Life is not that simple. Ur-Fascism can come back under the most innocent of disguises. Our duty is to uncover it and point our finger at any of its new instances - every day, in every part of the world.
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Ci fu un solo Nazismo, e non possiamo chiamare Nazismo il Falangismo iper-cattolico di Franco, dal momento che il Nazismo è fondamentalmente pagano, politeistico e anti-cristiano, o non è Nazismo. Al contrario, si può giocare al Fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia. Succede alla nozione di Fascismo quel che, secondo Wittgenstein, accade alla nozione di gioco. Un gioco può essere o non essere competitivo, può interessare una o più persone, può richiedere qualche particolare abilità o nessuna, può mettere in palio del danaro, o no. I giochi sono una serie di attività diverse che mostrano solo una qualche somiglianza di famiglia. (...)
Il Fascismo è diventato un termine che si adatta a tutto perché è possibile eliminare da un regime fascista uno o più aspetti, e lo si potrà sempre riconoscere per fascista.
Togliete al Fascismo l'imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il Fascismo balcanico. Aggiungete al Fascismo italiano un anti-capitalismo radicale (che non affascinò mai Mussolini) e avrete Ezra Pound. Aggiungete il culto della mitologia celtica e il misticismo del Graal (completamente estraneo al Fascismo ufficiale) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola. A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l' Ur-Fascismo, o il Fascismo Eterno. Tali caratteristiche non possono venire irreggimentate in un sistema; molte si contraddicono reciprocamente, e sono tipiche di altre forme di dispotismo o di fanatismo. Ma è sufficiente che una di loro sia presente per far coagulare una nebulosa fascista.
Uno. La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Il tradizionalismo è più vecchio del Fascismo. Non fu solo tipico del pensiero controrivoluzionario cattolico dopo la Rivoluzione francese, ma nacque nella tarda età ellenistica, come una reazione al razionalismo greco classico. Nel bacino del Mediterraneo, i popoli di religioni diverse (tutte accettate con indulgenza dal Pantheon romano) cominciarono a sognare una rivelazione ricevuta all'alba della storia umana. Questa rivelazione era rimasta a lungo nascosta sotto il velo di lingue ormai dimenticate. Era affidata ai geroglifici egiziani, alle rune dei celti, ai testi sacri, ancora sconosciuti, delle religioni asiatiche. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. Sincretismo non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio. E' sufficiente guardare il sillabo di ogni movimento fascista per trovare i principali pensatori tradizionalisti. La gnosi nazista si nutriva di elementi tradizionalisti, sincretistici, occulti. La più importante fonte teoretica della nuova destra italiana, Julius Evola, mescolava il Graal con i Protocolli dei Savi di Sion, l'alchimia con il Sacro Romano Impero. Il fatto stesso che per mostrare la sua apertura mentale una parte della destra italiana abbia recentemente ampliato il suo sillabo mettendo insieme De Maistre, Guenon e Gramsci, è una prova lampante di sincretismo. Se curiosate tra gli scaffali che nelle librerie americane portano l'indicazione "New Age", troverete persino Sant'Agostino, il quale, per quanto ne sappia, non era fascista. Ma il fatto stesso di mettere insieme Sant'Agostino e Stonehenge, questo è un sintomo di Ur-Fascismo.
Due. Il tradizionalismo implica il rifiuto del Modernismo. Sia i Fascisti sia i Nazisti adoravano la tecnologia, mentre i pensatori tradizionalisti di solito rifiutano la tecnologia come negazione dei valori spirituali tradizionali. Tuttavia, sebbene il Nazismo fosse fiero dei suoi successi industriali, la sua lode della modernità era solo l'aspetto superficiale di una ideologia basata sul Sangue e la Terra (Blut und Boden). Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico, ma riguardava principalmente il rigetto dello Spirito del 1789 (o del 1776, ovviamente). L'Illuminismo, l'Età della Ragione, vengono visti come l'inizio della depravazione moderna. In questo senso, l'Ur-Fascismo può venire definito come irrazionalismo.
Tre. L' irrazionalismo dipende anche dal culto dell'azione per l'azione. L'azione è bella di per sé, e dunque deve essere attuata prima di, e senza una qualunque riflessione. Pensare è una forma di evirazione. Perciò, la cultura è sospetta, nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Dalla dichiarazione attribuita a Goebbels ("quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola") all'uso frequente di espressioni quali porci intellettuali, teste d'uovo, snob radicali, le università sono un covo di comunisti, il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell'accusare l'intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali.
Quattro. Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Lo spirito critico opera distinzioni e distinguere è un segno di modernità. Nella cultura moderna, la comunità scientifica intende il disaccordo come strumento di avanzamento delle conoscenze. Per l'Ur-Fascismo il disaccordo è tradimento.
Cinque. Il disaccordo è inoltre un segno di diversità. L'Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza. Il primo appello di un movimento fascista o prematuramente fascista è contro gli intrusi. L'Ur-Fascismo è dunque razzista per definizione.
Sei. L'Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. Il che spiega perché una delle caratteristiche tipiche dei fascismi storici è stato l'appello alle classi medie frustrate, a disagio per qualche crisi economica o umiliazione politica, spaventate dalla pressione dei gruppi sociali subalterni. Nel nostro tempo in cui i vecchi "proletari" stanno diventando piccola borghesia (e i Lumpen si autoescludono dalla scena politica), il Fascismo troverà in questa nuova maggioranza il suo uditorio.
Sette. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l'Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese. E' questa l'origine del nazionalismo. Inoltre, gli unici che possono fornire una identità alla nazione sono i nemici. Così, alla radice della psicologia Ur-Fascista vi è l'ossessione del complotto, possibilmente internazionale. I seguaci debbono sentirsi assediati. Il modo più facile per far emergere un complotto è quello di fare appello alla xenofobia. Ma il complotto deve venire anche dall'interno: gli ebrei sono di solito l'obiettivo migliore in quanto presentano il vantaggio di essere al tempo stesso dentro e fuori. (...)
Otto. I seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Quando ero bambino mi insegnavano che gli inglesi erano 'il popolo dei cinque pasti' : mangiavano più spesso del povero ma sobrio italiano. Gli ebrei sono ricchi e si aiutano l'un l'altro grazie a una rete segreta di mutua assistenza. I seguaci debbono tuttavia essere convinti di poter sconfiggere i nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli. I fascismi sono condannati a perdere le loro guerre, perché sono costituzionalmente incapaci di valutare obiettivamente la forza del nemico.
Nove. Per l'Ur-Fascismo non c'è lotta per la vita, ma piuttosto vita per la lotta. Il pacifismo è allora collusione col nemico; il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente. Questo tuttavia porta con sé un complesso di Armageddon: dal momento che i nemici possono essere sconfitti, ci dovrà essere una battaglia finale, a seguito della quale il movimento avrà il controllo del mondo. Una simile soluzione finale implica una successiva era di pace, un'Età dell'oro che contraddice il principio della guerra permanente.
Nessun leader fascista è mai riuscito a risolvere questa contraddizione.
Dieci. L'elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, in quanto fondamentalmente aristocratico. Nel corso della storia, tutti gli elitismi aristocratici e militaristici hanno implicato il disprezzo per i deboli. L'Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un elitismo popolare. Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori, ogni cittadino può (o dovrebbe) diventare un membro del partito. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Il leader, che sa bene come il suo potere non sia stato ottenuto per delega, ma conquistato con la forza, sa anche che la sua forza si basa sulla debolezza delle masse, così deboli da aver bisogno e da meritare un Dominatore. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente (secondo un modello militare), ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni, e ognuno di loro disprezza i suoi sottoposti. Tutto ciò rinforza il senso di un elitismo di massa.
Undici. In questa prospettiva, ciascuno è educato per diventare un Eroe. In ogni mitologia l'Eroe è un essere eccezionale, ma nell'ideologia Ur-Fascista l'eroismo è la norma. Questo culto dell'eroismo è strettamente legato al culto della morte: non a caso il motto dei falangisti era viva la muerte (...). L'eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri.
Dodici. Dal momento che sia la guerra permanente sia l'eroismo sono giochi difficili da giocare, l'Ur-Fascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. E' questa l'origine del machismo (che implica disdegno per le donne e una condanna intollerante per abitudini sessuali non conformiste, dalla castità all'omosessualità). Dal momento che anche il sesso è un gioco difficile da giocare, l'eroe Ur-Fascista gioca con le armi, che sono il suo Ersaltz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una Invidia Penis permanente.
Tredici. L'Ur-Fascismo si basa su di un populismo qualitativo. In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, ma l'insieme dei cittadini è dotato di un impatto politico solo dal punto di vista quantitativo (si seguono le decisioni della maggioranza). Per l'Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il Popolo è concepito come una qualità, un'entità monolitica che esprime la Volontà Comune. Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati, pars pro toto, a giocare il ruolo del Popolo. Il Popolo è così solo una finzione teatrale. Per aver un buon esempio di populismo qualitativo, non abbiamo più bisogno di Piazza Venezia o dello Stadio di Norimberga. Nel nostro futuro si profila un populismo qualitativo Tv o Internet, in cui la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentato e accettato come la Voce del Popolo. A ragione del suo populismo qualitativo, l' Ur-Fascismo deve opporsi ai 'putridi' governi parlamentari. Una delle prime frasi pronunciate da Mussolini nel Parlamento italiano fu: "Avrei potuto trasformare quest'aula sorda e grigia in un bivacco per i miei manipoli". Di fatto, trovò immediatamente un alloggio migliore per i suoi manipoli, ma poco dopo liquidò il Parlamento. Ogni qualvolta un politico getta dubbi sulla legittimità del Parlamento perché non rappresenta più la Voce del Popolo, possiamo sentir l'odore di Ur-Fascismo.
Quattordici. L' Ur-Fascismo parla la Neolingua. La Neolingua venne inventata da Orwell in 1984, come la lingua ufficiale dell' Ingsoc, il Socialismo inglese, ma elementi di Ur-Fascismo sono comuni a forme diverse di dittatura. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su di un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. Ma dobbiamo essere pronti a identificare altre forme di Nuovalingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talk-show.
Dopo aver indicato i possibili archetipi dell'Ur-Fascismo, mi sia concesso di concludere. Il mattino del 27 luglio del 1943 mi fu detto che, secondo delle informazioni lette alla radio, il Fascismo era crollato e che Mussolini era stato arrestato. Mia madre mi mandò a comprare il giornale. Andai al chiosco più vicino e vidi che i giornali c'erano, ma i nomi erano diversi. Inoltre dopo una breve occhiata ai titoli, mi resi conto che ogni giornale diceva cose diverse. Ne comperai uno, a caso, e lessi un messaggio stampato in prima pagina, firmato da cinque o sei partiti politici, come Democrazia Cristiana, Partito comunista, Partito socialista, Partito d'Azione, Partito liberale.
Fino a quel momento avevo creduto che vi fosse un solo partito in ogni paese, e che in Italia ci fosse solo il Partito nazionale fascista. Stavo scoprendo che nel mio paese ci potevano essere diversi partiti allo stesso tempo. Non solo: dal momento che ero un ragazzo vispo, mi resi subito conto che era impossibile che tanti partiti fossero sorti da un giorno all'altro.
Capii così che esistevano già come organizzazioni clandestine. Il messaggio celebrava la fine della dittatura e il ritorno della libertà: libertà di parola, di stampa, di associazione politica.
Queste parole, libertà, dittatura - Dio mio - era la prima volta in vita mia che le leggevo. In virtù di queste nuove parole, ero rinato uomo libero occidentale. Dobbiamo stare attenti che il senso di queste parole non si dimentichi ancora. L'Ur-Fascismo è ancora intorno a noi, talvolta in abiti civili. Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: "Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane". Ahimè, la vita non è così facile.
L'Ur-Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l'indice su ognuna delle sue nuove forme - ogni giorno, in ogni parte del mondo. Do la parola a Roosevelt: "Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte, con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del Fascismo crescerà nel nostro paese" (4 novembre 1938).
Libertà e Liberazione sono un compito che non finisce mai.
Che sia questo il nostro motto: non dimenticate."
di UMBERTO ECO, “Il fascismo eterno”
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ilfascinodelvago · 1 year
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Il fascismo eterno
A dispetto di questa confusione, ritengo sia possibile indicare una lista di caratteristiche tipiche di quello che vorrei chiamare l’"Ur-Fascismo‬ o il fascismo eterno"
-La prima caratteristica di un Ur-Fascismo è il culto della tradizione. Questa nuova cultura doveva essere sincretistica. (... )deve tollerare le contraddizioni. Tutti i messaggi originali contengono un germe di saggezza e quando sembrano dire cose diverse o incompatibili è solo perché tutti alludono, allegoricamente, a qualche verità primitiva. Come conseguenza, non ci può essere avanzamento del sapere. La verità è stata già annunciata una volta per tutte, e noi possiamo solo continuare a interpretare il suo oscuro messaggio.
-Il tradizionalismo implica il rifiuto del modernismo.(...) Il rifiuto del mondo moderno era camuffato come condanna del modo di vita capitalistico
-L’irrazionalismo dipende anche dal culto dell’azione per l’azione. Perciò la cultura è sospetta nella misura in cui viene identificata con atteggiamenti critici. Göbbels: “Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola
"
-Nessuna forma di sincretismo può accettare la critica. Disaccordo è inoltre un segno di diversità. L’Ur-Fascismo cresce e cerca il consenso sfruttando ed esacerbando la naturale paura della differenza.
-L’Ur-Fascismo scaturisce dalla frustrazione individuale o sociale. A coloro che sono privi di una qualunque identità sociale, l’Ur-Fascismo dice che il loro unico privilegio è il più comune di tutti, quello di essere nati nello stesso paese.
-Seguaci debbono sentirsi umiliati dalla ricchezza ostentata e dalla forza dei nemici. Così, grazie a un continuo spostamento di registro retorico, i nemici sono al tempo stesso troppo forti e troppo deboli.
-Non c’è lotta per la vita, ma piuttosto “vita per la lotta" Il pacifismo è allora collusione col nemico, il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente.
-L’elitismo è un aspetto tipico di ogni ideologia reazionaria, L’Ur-Fascismo non può fare a meno di predicare un “elitismo popolare.Ogni cittadino appartiene al popolo migliore del mondo, i membri del partito sono i cittadini migliori. Ma non possono esserci patrizi senza plebei. Dal momento che il gruppo è organizzato gerarchicamente ogni leader subordinato disprezza i suoi subalterni.
-In ogni mitologia l’“eroe" è un essere eccezionale, ma nell’ideologia Ur-Fascista l’eroismo è la norma -strettamente legato al culto della morte-. L’eroe Ur-Fascista è impaziente di morire. Nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente far morire gli altri.
-Dal momento che sia la guerra permanente sia l’eroismo sono giochi difficili da giocare, l’Ur-Fascista trasferisce la sua volontà di potenza su questioni sessuali. È questa l’origine del machismo. Dal momento che anche il sesso è un gioco difficile da giocare, l’eroe Ur-Fascista gioca con le armi, che sono il suo Ersatz fallico: i suoi giochi di guerra sono dovuti a una invidia penis permanente.
-In una democrazia i cittadini godono di diritti individuali, Per l’Ur-Fascismo gli individui in quanto individui non hanno diritti, e il “popolo" è concepito come una qualità, un’entità monolitica che esprime la “volontà comune - il leader pretende di essere il loro interprete-. A ragione del suo populismo qualitativo, l’Ur-Fascismo deve opporsi ai “putridi" governi parlamentari.
-L’Ur-Fascismo parla la “neolingua”
 Umberto Eco, Il Fascismo Eterno (1995)
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crazy-so-na-sega · 8 months
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l'insostenibile bellezza di Acca Larenzia
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Sì, certo, le accuse di apologia di Fascismo, i richiami alle sentenze, il Fascismo eterno, il suo ritorno, il suo pericolo, il suo spettro e così via. Il circo mediatico progressista è tutto una canea di urli e urletti, indignazioni e smorfie di cera che sfidano i lifting. Ieri, oggi, domani, il registro pare essere sempre lo stesso ma in occasione di quanto accaduto per la commemorazione di Acca Larenzia c’è qualcos’altro. 
È noto il detto “un’immagine vale più di mille parole” e da giorni un’immagine è impressa nella mente di tutti coloro che non vivono su Marte: l’istantanea di Acca Larenzia, il raccoglimento, il saluto ai caduti.
Cosa si cela, dunque, dietro la levata di scudi progressista? Pensateci bene, in quella commemorazione commossa va puntualmente in scena tutto quello che li nega.
La solennità di chi ricorda, concretizzando il significato di questa parola, ossia riportare al cuore, non può che risultare inaccettabile in coloro che hanno come unico obiettivo l’irrefrenabile impulso della cancellazione. 
L’imperitura fedeltà rispetto a un richiamo radicale che identifica è irricevibile per chi persegue la fluidità della società liquida, per chi si adopera alacremente a smontare civiltà millenarie e destrutturare tradizioni eterne, per chi ha ucciso i padri e le Patrie, per chi continua a occhieggiare, dal bordo dorato di un’isola privata, al sacrificio dell’innocenza dell’uomo.
L’irrinunciabilità di ciò che saldamente si è non può essere compresa da chi vuole spiritualmente negare. Della chiamata interiore del dover-essere si può solo esser consapevoli, la risposta di ognuno decreterà il senso ultimo di questa esistenza.
Ristabilire e puntellare l’onore della memoria richiamando al presente, per tre volte, per tre urli, scuote il profondo turbando ogni categoria d’inconsistenza propagandata dall’infinito assortimento di tutti quei (dis)valori perennemente in saldo, perché l’impegno a non tradire la parola data alla sorte è un patto con quell’onore che altro non è che l’ultima vera parola-destino da cancellare.
La compostezza siderale della commemorazione è incorniciata da un testimone discreto: il silenzio. Presente negli interstizi dell’urlo al cielo, presente nell’ordine marziale dei corpi, presente oltre questo, maledetto, tempo.
Il viatico inciso sulla carne viva di quelle immagini gridanti traccia un solco invalicabile, deflagra fiera bellezza, il cui richiamo è inconfessabilmente irresistibile per ogni essere vivente degno di tal nome e, al tempo stesso, non può che scaturire negli antri degli abietti la rabbia cieca e sbavante della frustrazione omicida, accompagnata da quella servile dei vili, la cui ignavia putrefazione non sarà nemmeno degna della putrescenza fluida sognata dai loro padroni.
Valerio Savioli
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iphisesque · 11 months
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four-hour crash course on the history of ancient sparta got a bitch laid up like damn so that's il fascismo eterno
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doitinanotherlanguage · 8 months
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Reading Around the World: Italy
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Viola Ardone: Oliva Denaro (2021; The Unbreakable Heart of Oliva Denaro)
Original language: Italian
Translation read: Finnish translation Nimeni on Oliva Denaro (2023) by Laura Lahdensuu
Genre: Historical fiction
Summary: In a Sicilian small-town in the 1960s, a 16-year-old Oliva refuses the advances of a man, who consequently kidnaps and rapes her in order to force her to marry him out of shame (i.e. trying to bully her into a "rehabilitating marriage"). The novel is loosely based on the kidnapping and rape of Franca Viola.
Review: 4/5. Small towns and women-centric storylines with feminist themes? Say no more, I'm in! This was a powerful novel about girlhood and growing up as a woman, and of standing up against unjust traditions. The aftermath of the real-life Franca Viola's trial ruled that rapists were no longer able to avoid punishment through marriage to their victims, eventually leading to the law about "rehabilitating marriage" finally being repealed in 1981.
Stefano Benni: Baol: Una tranquilla notte di regime (1990; "Baol: A Quiet Night Under the Regime")
Original language: Italian
Translation read: Finnish translation Baol: eräänä rauhallisena yönä valtakunnassa (1998) by Laura Lahdensuu
Genre: Satirical dystopia
Summary: In 1991, the citizens of City T. live under a totalitarian regime in a society that is ruled by cruel hierarchs who monitor their subjects and where reality is being shaped by government officials in secret underground studios. In this brutal world, the last baol wizard is trying to understand a secret about his life, and in the process gets drawn into a plot to save the reputation of a past-his-prime comedian.
Review: 3/5. Funny, exciting, weird. A fabulous satire of the modern world that also slightly scares me with its focus on control through distorted media presentations of reality. This would make an absolutely thrilling movie! Minus points for some casual sexism.
Umberto Eco: Il fascismo eterno (1995; Ur-Fascism)
Original language: Italian
Translation read: English translation Ur-Fascism (1995)
Genre: Essay
Summary: A short and intelligent essay on the fascist movement and ideology, written by a man who grew up in Italy under Mussolini's fascist rule. The essay gives a definition of fascism and lists its fourteen typical features.
Review: 3/5. A very important and necessary read now as neo-fascist movements and parties are on the rise again. Unfortunately, there's a lot I recognise from modern politics.
Lorenza Mazzetti: Il cielo cade (1961; The Sky Is Falling)
Original language: Italian
Translation read: Finnish translation Taivas sortuu (1965) by Pirkko Wass-Colussi
Genre: Autobiographical psychological fiction
Summary: 10-year-old Penny has been orphaned together with her little sister Baby. They now live with their rich, Jewish uncle and his family in a large manor in the Italian countryside. It is 1943, and there is a war raging somewhere in the distance, but the children play and go to school in the village, learning to sing fascist songs and write essays about Il Duce. Then, the war creeps closer and eventually brings along chaos, blood, and destruction.
Review: 3/5. I saw a reviewer describe this novel as "perversely naive", and I couldn't put it any better. The novel cleverly describes the world of children and the world as experienced by children, particularly war as seen through the eyes of a child. Penny idolises Mussolini and is proudly a little fascist, having very little understanding of what is actually going on in the world of adults, until it all tragically blows up in her face. The events portrayed in the novel parallel those that happened to the author's real-life uncle, the cousin of Albert Einstein. This novel seems to have some sequels, so I'm planning to pick those up in the future.
Goliarda Sapienza: L'arte della gioia (1976/1994/1998; The Art of Joy)
Original language: Italian
Translation read: Finnish translation Elämän ilo (2014) by Laura Lahdensuu
Genre: Historical fiction
Summary: Written between 1967-1976, this novel was published in full only in 1998, after the author's death, because the novel was initially rejected due to its length and its portrayal of a woman unrestrained by conventional morality and traditional feminine roles. The novel follows a woman, Modesta, who is born on 1 January 1900, through her life in twentieth century Sicily as she pursues cultural, financial and sexual independence.
Review: 3/5. This door-stopper of a novel was a gripping, thought-provoking, sightly disturbing reading experience. With around 700 pages, this novel of growth and development packs in free-love and queerness, social climbing, strong-willed women, murder, and (sort-of) incestual relationships. At the centre is a woman's pursuit of independence. I was left wanting a bit more of the political and historical stuff regarding Mussolini, fascism, socialism, and the world wars, since the novel was quite indrawn. As a sidenote: I heard that there's an Italian TV adaptation coming out this year, which I'm very much looking forward to!
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reportsofawartime · 8 months
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「あたしをおいてきぼりにして独りで済ましちゃいや」 (バタイユ『眼球譚』1928年、生田耕作訳 Bataille , Histoire de l'œil  Simone)
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rosateparole · 1 year
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Il potere popolare ci ha fatto cambiar scuola. Sempre bene intenzionato, il potere popolare, toglierci la scuola e farci andare nell’edificio della scuola croata per aumentare la dose di bratstvo i jedinstvo, unità e fratellanza.
Da via Castropola nella Città vecchia, siamo scesi in via San Martino, in un casermone rettangolare e grigio che non assomigliava a niente se non a una caserma, perché appunto tale era stato. Circolavano voci che lì i fascisti avessero torturato i bevitori di olio di ricino, sempre questi benedetti fascisti italiani che mi perseguitano, sempre loro, dove ti giri, dove ti volti, han combinato guai per i quali noi dobbiamo subir le conseguenze, noi che siamo nati in questo luogo, teatro di un eterno regolamento di conti, con questo nostro mestiere di capro espiatorio. Quotidianamente ci propinano racconti che, con tutto l’orrore dell’autenticità, parlano di ogni sorta di nefandezze subite sotto il fascismo, che sputava perfino in bocca allo slavo che parlava slavo.
E noi dovevamo pagare per quelle nefandezze. Perciò dall’oggi al domani, tutti fuori dalla scuola. Andate nella scuola croata, nel rispetto del principio di unità e fratellanza. Ci andammo, anche se questo rispetto assomigliava più a uno sfratto e a un abbraccio soffocante. E, per l’occasione, i banchi della classe sbatacchiati nel trasloco sotto il sole e la noia cittadina colpita dalla peste politica, i nostri libri, Manzoni e Foscolo, buttati sul camion e squinternati, il timbro Gimnazija battuta con forte inchiostratura sul frontespizio di ogni libro a sovrapporsi e ad annullare il vecchio timbro «liceo Carducci».
La scuola, in due giorni resterà vuota. Esattamente come un uomo al quale si sia improvvisamente cancellata la memoria. Il professur Pouli, rigido e impalato come il manico di uno scopettone, i knickerbockers da ragazzino, la cravatta alla lavallière, tutto bardato Old England, felice di assomigliare agli inglesi che si aggiravano per la città, con un’aria da poeta tenne stretta un momento contro il petto la Divina Commedia – stretta come lui, antifascista, aveva tenuto la speranza e una limpida e cieca fede nel fronte popolare –, poi la lasciò cadere tra un Ariosto e un Melzi, all’improvviso, come la speranza e la fede. Improvvisamente conscio di aver scambiato troppo mulini per giganti, prima che ce ne rendessimo conto era uscito dalla biblioteca scolastica e dalla scuola per abbracciare, in Italia, un impensato migliore destino. Nei tanti anni che gli rimasero fu felice a Parma. Come il pittore Golia, che lo seguì dopo poco perché non ce la faceva più, l’espressione di chi non capisce nulla di quello che succede, il pittore dava l’impressione di essere inciampato nella Storia per puro caso.
C’è chi non sopravvive a un’esperienza devastante, e chi invece ne viene fuori. C’è chi si rialza in piedi e c’è chi viene distrutto, la gente reagisce in modo diverso. Non so da cosa dipenda, se dall’incidente in sé o dal carattere delle persone. Anche dall’età, credo.
Anna Maria Mori & Nelida Milani, Bora. Istria, il vento dell’esilio
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Entrevista al historiador italiano Emilio Gentile ¿Quiénes son los fascistas?
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Por Mariano Schuster
Fuentes: Nueva Sociedad
El debate sobre el fascismo está cada vez más presente en la arena pública. ¿Ha vuelto el fascismo? ¿Nunca se fue y existe un fascismo eterno? En esta entrevista, Emilio Gentile, una referencia en los estudios del fascismo italiano, vuelve sobre ese régimen y sobre el papel que tuvo en él el propio Benito Mussolini.
En un contexto político internacional en el que emergen extremas derechas, regímenes iliberales y gobiernos autoritarios, la palabra «fascismo» ha vuelto a estar a la orden del día. Hay quienes definen como «fascistas» a Donald Trump, Víktor Orbán, Marine Le Pen, Giorgia Meloni y Santiago Abascal, y quienes se refieren a un «retorno del fascismo» para explicar las oposiciones conservadoras a las agendas feministas y de los colectivos de diversidad sexual. La situación va incluso más allá: la palabra es utilizada también para acusar a izquierdas autoritarias, a movimientos y grupos religiosos y hasta para definir actitudes genéricamente «antiliberales». El concepto se ha transformado, en definitiva, en un arma arrojadiza que adversarios políticos e ideológicos se endilgan entre sí. Pero ¿qué fue realmente el fascismo? ¿Cuáles fueron sus características? ¿Qué diferencia a las extremas derechas actuales de esa experiencia?
Profesor titular de Historia Contemporánea en la Universidad La Sapienza de Roma hasta 2012 –y hoy profesor emérito en la misma casa de estudios–, Emilio Gentile ha historizado, a partir de documentos y de un laborioso trabajo de archivo y de interpretación de fuentes históricas, el fascismo italiano. En su extensa trayectoria historiográfica, Gentile ha escrito numerosos libros, muchos de los cuales han sido traducidos al español. Entre ellos se destacan Fascismo: historia e interpretación (Alianza, 2004); La vía italiana al totalitarismo. Partido y Estado en el régimen fascista (Siglo XXI, 2005); El culto del Littorio. La sacralización de la política en la Italia fascista (Siglo XXI, 2007); El fascismo y la marcha sobre Roma (Edhasa, 2014); Mussolini contra Lenin (Alianza, 2019) y ¿Quién es fascista? (Alianza, 2019). En 2022 publicó, por el sello Laterza, Storia del fascismo, un volumen de 1.376 páginas en el que explica minuciosamente, sobre la base de una vasta documentación de archivo, el nacimiento y el desarrollo del fascismo en Italia. Su último trabajo es Totalitarismo 100. Ritorno alla storia (Editrice Salerno, 2023).
En esta extensa entrevista, Emilio Gentile dialoga con Nueva Sociedad sobre el nacimiento y el desarrollo del régimen fascista y profundiza en las características particulares de ese movimiento y de ese régimen político a poco más de un siglo de la Marcha sobre Roma.
Profesor Gentile, todavía hoy, cuando nos remontamos al tiempo en que nació el fenómeno fascista, nos encontramos con un contexto particular y específico que, por su diversidad de aristas, no siempre somos capaces de comprender por completo. Pensamos en los escuadristas, en el bienio rosso, en las consecuencias humanas y políticas de la Gran Guerra, en la fragilidad del régimen liberal-democrático. ¿Cómo era realmente el clima en Italia en la época del ascenso del fascismo?
Desde el final de la guerra hasta el advenimiento del fascismo, el clima en Italia fue muy agitado. Entre 1919 y 1920, ese clima se caracterizó por una serie de violentos enfrentamientos de clase que fueron seguidos, en los dos años posteriores, por una reacción escuadrista que desató una verdadera guerra civil contra las organizaciones del proletariado. Esas acciones violentas del escuadrismo fascista se dirigieron principalmente contra el Partido Socialista, pero también contra el Partido Popular, el partido aconfesional de los católicos, y el Partido Republicano. Se trató, en definitiva, de un periodo muy crítico para una Italia que, si bien había resultado victoriosa en la Primera Guerra Mundial –con el sacrificio de más de medio millón de hombres y la movilización de todo el país–, tendió a vivir los años posteriores a la contienda como si hubiese sido derrotada y como si se encontrara a las puertas de una revolución bolchevique.
En aquel marco posbélico, buena parte de la clase obrera –que había sido militarizada durante la guerra, pero que, a diferencia de los campesinos, había estado mayoritariamente en las oficinas y no en el campo de batalla– se sintió atraída por aquellos que habían condenado la participación italiana en la contienda: es decir, el Partido Socialista. Esa organización experimentó, en consecuencia, un fuerte crecimiento, a tal punto que resultó la fuerza más votada en las elecciones de noviembre de 1919 y consiguió 150 bancas en el Parlamento italiano. Un mes antes, el Partido Socialista había adoptado una línea revolucionaria que quedó fijada en sus estatutos partidarios, según la cual su objetivo era lograr la dictadura del proletariado mediante la conquista violenta del poder. El problema, sin embargo, era que la dirigencia de la Confederación General del Trabajo –la organización sindical más importante del país, que alcanzaba casi dos millones de miembros y era una de las que sostenían al Partido Socialista– era reformista y contraria a la revolución. Todo esto provocó una política esquizofrénica entre la voluntad de una revolución bolchevique que no podía hacerse –y ni siquiera se intentaba– y una posible revolución democrática, que habría podido producirse si el Partido Socialista hubiera apoyado a los partidos laicos y reformadores dentro del Parlamento, como los republicanos, los radicales y los socialistas reformistas. El Partido Socialista, que había condenado totalmente la guerra, y de hecho había atacado con violencia e incluso con algunos asesinatos a quienes la reivindicaban, recibió pronto la reacción de todos aquellos que creían que la guerra había sido una necesidad para que Italia se convirtiera en una gran potencia, pero que, estando dominada por las masas socialistas, el país había ganado en el campo de batalla pero había perdido en el campo de la paz. Es en ese sentido en el que hablaban de una «victoria mutilada», lo que constituía un mito sin fundamento alguno porque, con el tratado de paz con Austria, Italia obtuvo las que eran sus principales aspiraciones. No solo consiguió las tierras que se encontraban bajo el dominio del Imperio austríaco –y que eran habitadas mayoritariamente por italianos–, sino también tierras habitadas mayoritariamente por alemanes o eslavos, quienes, sin embargo, debían garantizar fronteras seguras para Italia. La idea de la victoria mutilada fue una reacción, un mito de la reacción a la condena de la guerra por parte de las masas socialistas. Y fue, además, el comienzo de un choque violento contra los socialistas por parte de los nacionalistas, a los que se sumó luego el movimiento fascista, con la fundación de los Fascios de Combate. En este sentido, suelo ser muy cauto a la hora de hablar de un biennio rosso. Lo cierto es que se produjeron agitaciones cotidianas y ataques a oficiales y generales, pero sin que nunca se desarrollara un verdadero intento de golpe revolucionario como el que Lenin había dado en Rusia, porque incluso mientras el Partido Socialista sostenía una línea revolucionaria o bolchevique, mantenía una práctica política parlamentaria y reformista. Que el país sintiera, por tanto, que la posibilidad de una revolución bolchevique era cercana no quiere decir que efectivamente lo fuera. Cuando se habla de biennio rosso, debe recordarse eso.
En definitiva, la situación italiana en vísperas de la Marcha sobre Roma, y sobre todo en los tres años anteriores, era más confusa que revolucionaria. Es una situación marcada por desórdenes muy violentos pero sin la posibilidad de que en Italia pudiera producirse realmente una revolución bolchevique, por la simple razón de que Italia había ganado la guerra, su Ejército era todavía poderoso para poder reprimir una revolución interna y no disponía de todos aquellos recursos naturales que permitieron a la Rusia bolchevique, después de 1921, iniciar su propia industrialización. Era posible, en cambio, una revolución democrática, porque después de 1919 los dos partidos más importantes en el Parlamento eran el Partido Socialista y el Partido Popular, este último fundado por el sacerdote Luigi Sturzo, de inspiración católica pero con una política democrática. Si esas dos fuerzas políticas se hubieran entendido en términos del posible desarrollo de una revolución democrática, se habría podido producir una profunda transformación capaz de impedir que fuera posible la victoria de los nacionalistas. Sin embargo, la división entre estos dos grandes partidos que podían controlar el Parlamento italiano, sumada a la división dentro del Partido Socialista entre reformistas y revolucionarios –estos últimos luego fueron expulsados y dieron nacimiento al Partido Comunista–, hicieron imposible ese proceso. La izquierda, en ese contexto, peleó más entre sí que contra el fascismo emergente: las disputas entre los socialistas maximalistas, el Partido Comunista y el Partido Socialista Unitario, que manifestaba una línea reformista, fueron constantes. Por otra parte, estaba el Partido Popular, que también tenía problemas para avanzar en la dirección de una unidad por una revolución democrática, ya que, como partido católico, no podía aliarse con un partido revolucionario y ateo, pero tampoco con los liberales dirigidos por Giovanni Giolitti, que rechazaban a un partido que era dirigido por un sacerdote. Todas estas divisiones favorecieron, a partir de 1921, el ascenso del fascismo hasta su conquista del poder.
A partir del análisis histórico, usted ha planteado que el fascismo de 1919 –el de los Fascios de Combate– no era necesariamente la semilla para la formación del fascismo de masas que nace en 1921. ¿Cuál es la diferencia entre ese primer fascismo y el de los escuadristas?
Efectivamente, yo sostengo que lo que llamamos fascismo nace en 1921 y no tiene su semilla ni su embrión en los Fascios de Combate creados por Mussolini en 1919. Al mismo tiempo, sostengo que el fascismo de 1919 no constituía un movimiento nuevo, sino que era, en rigor, una reconstitución de los Fascios de Acción Revolucionaria que Mussolini había creado en 1915 para apoyar la intervención italiana en la Gran Guerra. El fascismo diecinuevista era, de modo muy evidente, un movimiento reformista –y no revolucionario y anticapitalista como muchas veces se lo ha definido–, que no buscaba una conquista insurreccional del poder, pregonaba la colaboración de clases, hacía una fuerte defensa de la burguesía productiva, pretendía el sufragio universal masculino y femenino, esgrimía demandas como la jornada laboral de ocho horas y se manifestaba nacionalista, democrático y anticlerical. Ese fascismo, el de los Fascios de Combate, solo se refería al término «revolución» para hablar de modo genérico de una «revolución italiana», concepto que era utilizado para reivindicar a los ex-combatientes como los verdaderos representantes de la nación. Además de ser un movimiento reformista, el fascismo de 1919 estaba a favor de una mayor autonomía regional frente a la centralización estatal, hecho que también lo diferenciaba muy claramente de lo que luego sería el programa del fascismo como fuerza escuadrista y como partido político. Si quisiéramos ver en una imagen la diferencia clara entre el fascismo diecinuevista y el fascismo nacido en 1921, deberíamos acudir al símbolo de Il Fascio, el órgano oficial de los Fascios de Combate de 1919. La insignia, entonces, no era el fascio littorio –ni en su versión romana ni en su forma republicana francesa–, sino un puño cerrado sujetando un manojo de espigas.
Otro aspecto que debemos mencionar es que, en el fascismo diecinuevista, como luego sucedería también en el Partido Fascista, Mussolini no era el líder reconocido oficialmente como tal, sino solo la figura nacional más importante. Desde 1912, primero como líder socialista, después como líder intervencionista [en la guerra] y luego, sobre todo, como editor de un periódico político nacional, Il Popolo d’Italia, Mussolini estaba en escena y era conocido, mientras que el resto de los líderes eran personalidades que habían desarrollado su actividad política en la izquierda socialista o sindicalista, pero que no tenían fama nacional. A pesar de ello, Mussolini no se erigió, como lo hicieron Lenin y Hitler, como líder oficial y absoluto de su propio movimiento. Mussolini solo fue miembro del Comité Central de la Junta Ejecutiva y, siendo un gran orador, no hizo casi nada por recorrer Italia y multiplicar las inscripciones en el Fascio. Permaneció en Milán y, a diferencia de Hitler, hizo muy poca propaganda política en la península, hasta 1921.
Excepto por unos pocos hombres y por el apoyo de las organizaciones paramilitares de los Arditi (los soldados de asalto de elite del Ejército italiano en la Primera Guerra Mundial), el fascismo de 1919 no tiene nada que ver con lo que sería luego el fascismo escuadrista de 1921. Hay mucha documentación al respecto y, por ello, mi posición es muy clara en este sentido. Y es que en el fascismo de 1919 no se encontraba el germen de lo que llamamos «fascismo histórico», aunque ya en julio de 1920 una organización armada de escuadras fascistas establecida en Trieste atacó e incendió la Narodni Dom, la sede de las organizaciones de la minoría eslava. Sin embargo, este «fascismo fronterizo» no constituyó un movimiento de masas.
Ese fascismo de masas nace en 1921, se organiza de modo militar en el escuadrismo, luego toma la estructura de partido milicia [el Partido Nacional Fascista], se dedica a destruir las organizaciones del proletariado y se propone y logra la conquista del poder con la Marcha sobre Roma. En cambio, el fascismo diecinuevista no buscaba instaurar una dictadura; usaba la violencia, pero no con el objetivo de destruir sistemáticamente las organizaciones proletarias; no planeaba, como el fascismo escuadrista nacido en 1921, una insurrección revolucionaria para conquistar el poder, y tampoco quería convertirse en un partido político (a punto tal que se declaraba apartidario).
Según su perspectiva, Mussolini no creó el fascismo, sino que el fascismo creó a Mussolini. ¿Cómo consiguió hacerse con el liderazgo de ese movimiento y qué tensiones vivió en ese proceso?
Primero debemos puntualizar que Mussolini llegó a ser reconocido como el líder del fascismo, pero nunca oficialmente, en tanto no fue jamás el secretario general de los Fascios de Combate, ni el secretario general del Partido Nacional Fascista que nació en noviembre de 1921. En agosto de 1921, tras el crecimiento del escuadrismo como movimiento de masas, Mussolini pensó que reivindicando la paternidad del fascismo podría imponer su voluntad, llegando incluso a promover un pacto de pacificación con el Partido Socialista y con la Confederación General del Trabajo. Es decir que, después de que el escuadrismo destruyera el control y la hegemonía del Partido Socialista sobre las masas, Mussolini pensó en transformar a esa masa de escuadristas en un partido laborista para las clases medias. Hizo incluso un programa para hacer las paces con los socialistas y para desarmar a los escuadristas armados y, finalmente, lanzó una propuesta a los socialistas reformistas para que se desvincularan del Partido Socialista –que aún seguía inspirado en Lenin– y formaran una coalición con los fascistas y con el Partido Popular. Pero los escuadristas, que eran en su gran mayoría jóvenes de alrededor de 25 años y que se habían unido al fascismo en 1920, querían algo muy diferente.
Para ver la diferencia entre los Fascios de Combate, creados por Mussolini en 1919, y el fascismo como escuadrismo, conviene repasar los números. Los Fascios de Combate eran un movimiento marginal que en su primer año contaba apenas con unos 800 miembros. El número ascendió a unos 10.000 a finales de 1920, pero solo con el surgimiento y la explosión del escuadrismo los inscriptos pasaron a ser casi 200.000. En definitiva, Mussolini vio crecer de forma repentina y vertiginosa un movimiento que llevaba un nombre como el que él había creado, pero qué él no había inventado ni propuesto. En ese marco lanza la idea del pacto de pacificación, pero no toma en cuenta que los escuadristas no apoyan ese pacto, porque aspiraban a seguir conquistando el poder local. Es así que, en agosto de 1921, los escuadristas se rebelan contra Mussolini y lo llaman «traidor». Dicen: «El que ha traicionado al socialismo ahora traiciona al fascismo»[1]. Los escuadristas del Valle del Po marchaban cantando «Quien ha traicionado traicionará», dirigiendo ese dardo contra Mussolini. Al final de esa rebelión, los escuadristas le ofrecieron a Gabriele D’Annunzio el liderazgo del movimiento fascista, que ya se había convertido en un movimiento de masas. Pero D’Annunzio no aceptó hacerse cargo de la situación. Ese es el momento en que Mussolini renunció a su programa de transformar al escuadrismo en un partido parlamentario y aceptó seguir a los escuadristas. Y fueron los propios escuadristas quienes decidieron crear el Partido Nacional Fascista como partido armado. Por eso digo que no era Mussolini quien dirigía el fascismo, sino que Mussolini era quien seguía al fascismo. Y esto sucedió hasta la Marcha sobre Roma. Quien decidió atreverse con una insurrección armada no fue Mussolini, sino el secretario del Partido Fascista Michele Bianchi. Mussolini todavía estaba negociando en secreto con ex-líderes liberales como Giovanni Giolitti, Antonio Salandra y Francesco Saverio Nitti la posibilidad de formar un gobierno en el que el fascismo tuviera cuatro o cinco ministerios, pero que estuviera presidido por uno de esos viejos líderes liberales, cuando el 26 de octubre Bianchi lanzó la idea de un gobierno liderado por Mussolini como forma de chantaje al rey y a la dirigencia liberal. Hay una llamada telefónica del 27 de octubre a las 2:40 de la madrugada en la que Bianchi le advierte a Mussolini que la insurrección ya había comenzado y en la que Mussolini le responde: «Espera un poco».
Otra confirmación de esta situación se produce el 10 de junio de 1924, el día del asesinato del líder socialista reformista Giacomo Matteotti. En esa fecha, en la que el fascismo parecía colapsar, Bianchi le escribe una carta a Mussolini en la que lo acusa de haber obstaculizado siempre el programa revolucionario y le recuerda que fue él, y no Mussolini, quien desató la destrucción de las últimas organizaciones proletarias en agosto de 1922. Allí le dice: «Fui yo quien lanzó la Marcha sobre Roma, mientras tú me acusabas de ser un loco salvaje». En ese mismo documento Bianchi asegura que fue él, un sindicalista revolucionario calabrés, el verdadero creador de la organización político-militar fascista y el que luego se atrevió a chantajear al gobierno y al rey imponiendo el nombre de Mussolini.
¿Esto significa que Mussolini fue forzado o empujado a hacer la Marcha sobre Roma?
Forzado no, pero digamos que se enfrentaba al riesgo de ser desautorizado por Michele Bianchi, Italo Balbo y Roberto Farinacci, los verdaderos lideres revolucionarios del escuadrismo fascista, que eran quienes controlaban efectivamente a la masa armada. Tenga presente que, en octubre de 1922, los escuadristas armados controlaban las principales ciudades, las capitales y todo el Valle del Po, desde Trentino hasta Bolonia, y luego la mayor parte de Italia central. Todas estas provincias estaban ya antes de la Marcha sobre Roma bajo un dominio dictatorial del Partido Fascista. El verdadero éxito de la Marcha sobre Roma como insurrección es que, entre el 27 y el 28 de octubre, les permitió a los escuadristas ocupar grandes ciudades, organismos gubernamentales e incluso cuarteles. A partir de allí, se produce el chantaje de Bianchi al rey y a los liberales para imponer a Mussolini como nuevo jefe de gobierno. Y allí es donde sí se expresa el genio político de Mussolini, que, sabiendo que se trataba de un movimiento arriesgado, ve que no hay ninguna resistencia por parte del gobierno ni de las Fuerzas Armadas, pero tampoco por parte de los trabajadores –millones de ellos aún organizados por los partidos antifascistas–. No hubo, fíjese, ni siquiera una huelga. Con esto quiero decir que los fascistas pudieron llegar a Roma teniendo ya el control de gran parte del norte y del centro de Italia con la fuerza armada del escuadrismo, sin encontrar ninguna resistencia por parte de las organizaciones obreras. Por tanto, en el libro El fascismo y la Marcha sobre Roma [2], sostengo que no hubo compromiso para que Mussolini y el fascismo llegaran al poder, sino que se produjo la victoria completa del chantaje.
Uno de los aspectos centrales de la mitología fascista es la de haber salvado al país del «peligro bolchevique». ¿Cómo se construyó esa mitología, sobre la que usted trabaja en su libro Mussolini contra Lenin, y por qué la considera históricamente falsa?
La idea de que Mussolini evitó una revolución bolchevique en Italia fue, en rigor, una invención de la prensa conservadora inglesa, y muy particularmente del periodista Percival Phillips, quien poco después de la Marcha sobre Roma escribió un libro titulado The «Red» Dragon and the Black Shirts: How Italy Found Her Soul: The True Story of the Fascisti Movement [El dragón «rojo» y los camisas negras. Cómo Italia encontró su alma: la verdadera historia del movimiento fascista][3]. La tesis de Philips, un periodista estadounidense con claras simpatías por el fascismo, falsificaba completamente los hechos históricos, a punto tal que llegaba a afirmar que, incluso durante el proceso de la Marcha sobre Roma, había en Italia un peligro revolucionario de tipo leninista. Esta tesis fue, lógicamente, usufructuada y utilizada por el propio régimen para crear el mito del fascismo como el salvador de la nación. La realidad, por supuesto, era muy distinta, y existen numerosas pruebas documentales que permiten demostrar la falsedad de esas afirmaciones. En primer término, el movimiento fascista no había conseguido monopolizar el consenso de las masas –recordemos que en las elecciones solo obtiene 35 diputados, que luego se convierten en 30–, pero sí el de las clases medias, es decir, de ese amplísimo sector de la población italiana que se había convertido en mayoritario en los años comprendidos entre 1911 y 1921 y que no tenía representación política propia y se identificaba con la nación, con el Estado y con los valores de la burguesía. En segundo lugar, la llamada izquierda revolucionaria estaba completamente dividida y desorganizada. El conflicto y la división en su seno eran de tal magnitud que, hacia 1921, el Partido Comunista estaba mucho más claramente decidido a destruir al Partido Socialista que a luchar contra el fascismo.
Observando la completa división entre socialistas y comunistas, pero también lo que estaba sucediendo en la Rusia Soviética –donde había terminado la guerra civil, la dictadura bolchevique se había asentado y se estaba adoptando una política neocapitalista como la Nueva Política Económica (NEP)–, es el propio Mussolini quien, en el verano de 1920, afirma que el intento de exportar el leninismo a Europa ya había fracasado. Y en julio de 1921, vuelve a declarar que hablar del peligro bolchevique en Italia es «una tontería». A tal punto la consideración de Mussolini es que el peligro bolchevique está muerto que, en ocasión de la Conferencia Internacional de Génova –que es convocada por las potencias vencedoras de la Primera Guerra Mundial para discutir los problemas económicos de la posguerra–, no se opone a la asistencia de Lenin. En aquel momento se llega a admitir la posibilidad de que Lenin viaje personalmente a Italia, y Mussolini, como si fuera el amo del país, escribe: «El señor Lenin puede venir, pero no debe hablar de política, de lo contrario nuestros escuadristas se encargarán de él».
Pero permítame agregar algo más. Que el peligro bolchevique no existía en Italia era también claro por el hecho de que, cuando se desarrolla la Marcha sobre Roma, los dirigentes maximalistas del Partido Socialista y los del Partido Comunista toman un tren y se van a Moscú para la Conferencia de la Internacional Comunista. Dicen que en Italia no pasa nada, que lo que está sucediendo es solo una disputa entre burgueses. Fíjese que el 27 de octubre de 1922, luego del gran mitin de los escuadristas fascistas en Nápoles, el periódico comunista L´Ordine Nuovo, dirigido por Antonio Gramsci, afirma que todo se trata de una farsa y sostiene que se está asistiendo a las «vísperas de la desintegración del fascismo». Frente a estos documentos, frente a estos datos, hablar todavía hoy de un peligro rojo revolucionario, de una amenaza comunista en Italia, es una de las mayores tonterías que se pueden decir. La idea del «peligro bolchevique» fue instalada y utilizada por el fascismo para construir su mito de salvación nacional, pero está completamente alejada de lo que fueron los hechos históricos.
En muchos de sus libros, pero en particular en El culto del Littorio. La sacralización de la política en la Italia fascista[4], usted definió el fascismo como una religión política y lo ubicó dentro del fenómeno más amplio de la «sacralización de la política». ¿Qué es lo que constituye una religión política y qué hizo que el fascismo se constituyera como tal?
Efectivamente, la religión política es un aspecto del totalitarismo fascista y los primeros en referirse al fascismo como una «religión política» fueron los católicos antifascistas y los liberales. Ellos alegaban que el fascismo pretendía imponer su ideología, es decir, la exaltación de la nación, la exaltación del Duce y la exaltación del propio fascismo como un dogma al que todo el mundo debía someterse, constituyéndose como una «religión política de la nación». Ese tipo de práctica de imposición se desplegó incluso antes de que el fascismo desarrollara su dictadura. Ya a fines de 1923, y a través de feroces palizas, los fascistas obligaban a la gente a quitarse el sombrero y a hacer reverencias a su paso. Los católicos antifascistas, como Luigi Sturzo, entendieron que el fascismo no podía ser de ninguna manera compatible con el catolicismo y que la Iglesia no podía apoyar el fascismo porque era un movimiento pagano que sacralizaba la nación y el Estado. El término de «religión política» se extendió luego entre otros antifascistas que observaban la forma en que el régimen imponía sus ritos, sus símbolos y sus mitos a toda la población italiana por medio de la violencia. Es este el sentido en que, en 1924, el periodista Igino Giordani, que adhería al Partido Popular de Luigi Sturzo, definía el fascismo como una «religión política pagana».
Debo aclarar, sin embargo, que la religión política no es exclusiva del fascismo, sino que pertenece a todos los totalitarismos. Fue, por ejemplo, un fenómeno visible en la Rusia bolchevique de 1918 y 1919, pero sobre todo tras la muerte de Lenin en 1924. En este sentido, y atento a su pregunta, me gustaría hacer algunas puntualizaciones. La primera es que la religión política forma parte de un movimiento más extenso que, como usted bien dice, he denominado «sacralización de la política» y que concierne a todos aquellos movimientos que sitúan la política en el centro de la vida humana y la convierten en una entidad suprema a la que incluso la religión debe someterse. En este marco, debemos diferenciar lo que constituye una religión política, que es típica de los regímenes totalitarios, de lo que constituye una religión civil, que caracteriza a los países democráticos. Tenemos, de hecho, el ejemplo de Estados Unidos, donde existe pluralismo religioso, pero cuando todos los creyentes, desde protestantes a católicos, pasando por judíos, musulmanes o sijs, se reúnen y cantan «God Bless America», reconocen a un dios que no es el dios de una religión concreta: es el dios de Estados Unidos. Estados Unidos es el primer ejemplo de una sacralización de la política en la que la política misma se convierte en el centro de una devoción. Esto se difunde y se extiende de manera más decisiva con la Revolución Francesa, con la dictadura jacobina, con Napoleón y luego, durante el siglo XIX, en los diferentes países y continentes, entre los que se incluye América Latina, donde distintos movimientos políticos pretenden definir el sentido último y la finalidad de la vida en esta tierra.
El hecho de que el fascismo pretendiera erigirse como una totalidad espiritual del Estado lo llevó a contradicciones con el campo religioso, tal como usted lo documenta en Contro Cesare[5]. En su libro usted muestra una relación pragmática entre el fascismo y la Iglesia católica, a la vez que puntualiza la complejidad que el fenómeno fascista suponía para muchos cristianos, en tanto se producía un conflicto entre el primado de Cristo y el del César (el Duce). ¿Cómo fue esa relación y qué influencia tuvieron los católicos antifascistas como Luigi Sturzo y Francesco Luigi Ferrari, a la hora de sentar las bases de una oposición cristiana al fascismo?
Al aproximarnos a este tema siempre debemos hacer una distinción entre el Estado Vaticano –es decir, la Iglesia como Estado– de la Iglesia como expresión de una religión determinada. En las relaciones con el gobierno fascista –que no es lo mismo que con el fascismo–, Pío XI aceptó inmediatamente ir por el camino de un Concordato, en tanto había aspectos que el papa compartía. Estos eran el antimarxismo, el antiliberalismo, la crítica a la democracia y, sobre todo, la condena y el rechazo de la soberanía popular y del libre pensamiento. Estos aspectos del fascismo eran compartidos porque eran los mismos objetivos religiosos que tenía la Iglesia en ese momento desde el Concilio Vaticano I. En ese sentido, tenían enemigos comunes. Y ese es el motivo por el que Pío XI intenta y consigue un Concordato con el Estado italiano. Pero el mismo papa, como líder de una religión que predicaba la igualdad –aunque solo fuera en términos espirituales–, el amor entre los pueblos y la condena de la violencia, tenía enfrente un poderoso movimiento político que divinizaba a la nación, que exaltaba a Mussolini como una especie de ídolo y que, sobre todo, contaba con una organización militar armada que se lanzaba no solo contra las organizaciones socialistas, sino también contra las organizaciones católicas y los párrocos que no aceptaban los símbolos fascistas o se rehusaban a recibir a los escuadristas en la iglesia. En ese sentido, se produjo una doble situación. Por un lado, estaba el papa que, como jefe de la Iglesia, buscaba un Concordato para convivir con un Estado laico, pero, por el otro, estaba el mismo hombre que, como líder de una religión, veía ante sí un movimiento que pretendía, cada vez más explícitamente, ser él mismo una religión terrenal que quería para sí no solo la obediencia, sino también la entrega de los ciudadanos. En mi libro Contro Cesare he mostrado con documentos la falsedad de esas teorías –o más bien de esas fábulas– según las cuales el papa Pío XI era un hombre con una personalidad similar a la de Mussolini, por lo cual, supuestamente, era piadoso con él. He publicado documentos que demuestran que, desde 1925, mientras buscaba el camino para un acuerdo entre Estados, el papa manifestaba una marcada angustia por el paganismo fascista y por lo que él llamaba, en algunos de sus documentos, una «religión civil». Pero esto no sucede solo en 1925, sino que continúa en el tiempo. El papa estuvo incluso dispuesto a romper el Concordato antes de su firma, cuando Mussolini, en 1929, pronunció una frase herética, claramente blasfema, al afirmar que «sin la romanidad, sin ser trasplantado a Roma, el cristianismo seguiría siendo una pequeña secta judía en Palestina». Pese a que acabó prevaleciendo la diplomacia y el Concordato se firmó en 1929, en mayo de 1931 el Partido Fascista lanzó una guerra escuadrista contra las organizaciones católicas con la intención de destruir el intento de la Acción Católica de convertirse en una especie de refugio para el Partido Popular –que era católico y antifascista–. En ese contexto, el Papa publicó una encíclica en italiano en la que condenaba el paganismo y la estadolatría fascista. Es decir, utilizó en 1931 las mismas palabras que habían empleado Luigi Sturzo y Francesco Luigi Ferrari entre 1923 y 1925, y por las que se habían visto obligados a abandonar Italia y exiliarse. Eran estos católicos los que escribían desde 1923 contra el peligro que una religión neopagana como la fascista suponía para la fe cristiana. Aun así, a pesar de la posición del papa, el fascismo no dio marcha atrás, y fue el propio papa quien tuvo que retroceder pidiéndole a la Acción Católica que solo se ocupara de asuntos religiosos. Sin embargo, el mismo conflicto volvió a estallar en 1938 y, como demuestro en mi libro, las acusaciones de Pío XI contra el fascismo y su dimensión totalitaria volvieron a ser continuas. Cuando el papa muere, el 10 de febrero de 1939, en vísperas del décimo aniversario del Concordato, tenía ya preparada una encíclica, Humanis generis unitas, para romperlo. En esa encíclica condenaba como herejías el totalitarismo de la nación, de la raza y de la clase (es decir, el fascismo, el nazismo y el comunismo). El papa murió sin que la encíclica fuera publicada, y el nuevo pontífice, Pío XII, enfrentado a la amenaza de una guerra inminente, prefirió guardarla en un cajón. Esa encíclica fue finalmente descubierta y dada a conocer en 1995 por algunos estudiosos[7]. Por tanto, cuando nos enfrentamos a la historia de las relaciones entre el fascismo y la Iglesia, debemos siempre distinguir, por un lado, las relaciones entre un Estado y una institución que asume el carácter de Estado, y, por otro, la relación entre las dos religiones. Entre el Estado fascista y la Iglesia católica hay un Concordato, a la vez que un conflicto continuo, cada vez más grave y cada vez más aterrador para el papa. Los documentos demuestran que esos son, para el papa, diez años de sufrimiento continuo. Es absolutamente ridículo confundir un acuerdo de convivencia entre Estados –sobre todo, en un país en el que en los estatutos el catolicismo era la religión estatal– con una simpatía entre el movimiento fascista y la religión católica. No era posible una real convivencia entre una religión que quería a todo el mundo para sí y un movimiento, como el fascista, que también quería a todos los seres humanos para él en este mundo y que, por lo tanto, no aceptaba la competencia de la Iglesia.
Quisiera ir introduciendo la entrevista, si me permite, en el campo del análisis de la relación entre el fenómeno fascista y otros procesos que tienen lugar en nuestros tiempos. Actualmente se discute mucho sobre el crecimiento del apoyo de los trabajadores a las nuevas extremas derechas. Si volvemos atrás en la historia, ¿cuál era la composición de clase del movimiento fascista? ¿A qué sectores pertenecían aquellos primeros escuadristas armados?
Una pequeña porción del grupo dirigente fascista, tanto en los Fascios de Combate como luego en el escuadrismo, estaba constituida por hijos de la burguesía. Pero la mayor parte –entre la que se encontraban líderes como Italo Balbo, Dino Grandi y Roberto Farinacci– eran hijos de pequeños profesionales locales, abogados o incluso profesores de escuela secundaria. O, como en el caso de Renato Ricci, de un trabajador de las canteras de mármol de Carrara. Por su parte, la base social del movimiento fascista estuvo compuesta, desde el principio, por las nuevas clases medias. Nuevas en el sentido de que muchos de aquellos que militaban eran jóvenes, mayoritariamente del valle del Po, hijos de antiguos agricultores que habían logrado comprar tierras durante el periodo de la gran crisis –que se había extendido entre 1911 y 1921–. Esos hombres, que se habían convertido en propietarios, no querían, lógicamente, someterse a ningún sistema socialista que impusiera una socialización. Debemos tener en cuenta que, entre 1911 y 1921, a partir de la desintegración de la gran propiedad capitalista en el campo, se formó un millón de nuevos propietarios, es decir, personas que habían luchado como campesinos por tener la propiedad de la tierra y que no querían cederla para ninguna idea proletaria o socialista. Si hacemos un ejercicio y le atribuimos a cada una de esas personas un solo hijo varón, tenemos un millón de jóvenes que están en contra del socialismo y que, habiendo sido la mayoría de estos combatientes en la Gran Guerra y habiéndose identificado con la nación, se veían a sí mismos como la nueva clase dirigente. Son ellos quienes dan vida a las nuevas escuadras fascistas, a los líderes fascistas y a los que serán luego los líderes del régimen fascista durante los 20 años de gobierno.
El fascismo tuvo un componente de trabajadores, pero se trataba de trabajadores agrarios que, después de la destrucción de las organizaciones socialistas, habían sido obligados a unirse a los sindicatos fascistas con la promesa de acceder a la tierra –algo que finalmente la mayoría de ellos no obtendría–. Esto nos muestra que la composición de clase del fascismo fue muy diferente de la del nacionalsocialismo, en tanto nunca logró capturar un fuerte apoyo de la clase trabajadora. Mientras que el nazismo tenía un importante apoyo obrero, el fascismo no logró ganarse ese sostén de los trabajadores, exceptuando a los de segunda generación, es decir, a aquellos que no habían conocido la violencia escuadrista. Estos sí eran más favorables al fascismo, tal como lo reconocieron los propios dirigentes comunistas. En 1935, el líder comunista Palmiro Togliatti expresó en una conferencia en Moscú que, en ese punto histórico, ya no era necesario luchar con las armas contra los fascistas, sino entrar en el fascismo, usar los mitos fascistas como el de 1919, y finalmente así conquistar los sindicatos fascistas. Togliatti llamaba a esos obreros «hermanos con camisa negra». Lógicamente, el intento de Togliatti fracasó, porque los fascistas podían ser muy estúpidos en muchos aspectos, pero justamente no para reconocer a sus enemigos. En eso sí que eran muy inteligentes.
Por no remontarnos a muchas otras experiencias que han sido calificadas genéricamente como fascistas, le mencionaré solo algunos casos contemporáneos: un partido como Vox, en España, ha sido calificado como fascista; el gobierno de Jair Bolsonaro en Brasil ha sido calificado como fascista; Donald Trump ha sido calificado como fascista; Mateo Salvini ha sido calificado como fascista. Todo esto por no mencionar los casos en que la expresión se usa aún más indiscriminadamente, llegando a conceptos como «fascismo de izquierda» o «islamofascismo». Usted está manifiestamente en desacuerdo con el uso de ese apelativo. ¿Por qué en ningún caso es válido?
Porque todo lo que no hace crecer nuestro conocimiento de las nuevas realidades que produce la historia es inútil y nocivo. El conocimiento progresa a través de la distinción, no a través de la confusión ni de las analogías. El agua es un líquido, y el aceite y la gasolina también lo son. Si yo digo que todos esos líquidos son agua no avanzo en el conocimiento y puedo correr el riesgo de cocinar fideos con gasolina. Si yo digo que todos los regímenes o movimientos autoritarios son fascistas, corro el riesgo de equivocarme claramente y de no analizar y comprender, de modo concreto, un determinado fenómeno. Ahora bien, ¿por qué puede usarse de este modo extenso, confuso y equivocado el concepto de fascismo? Fundamentalmente porque en su etimología el concepto «fascismo» no significa nada precisamente político. Le daré un ejemplo. Si digo «comunismo», seguramente no apoyo la propiedad privada, sino la comunidad de bienes. Si digo «liberalismo», no apoyo la socialización de los bienes, sino la propiedad privada. Si digo «anarquismo», no apoyo el poder estatal, sino la anulación de cualquier poder. Pero si digo «fascismo» digo solo «fasci», «fascio», que significa literalmente «estar juntos». ¿Entonces todos los movimientos que proponen estar juntos son fascistas? Claramente no. Ahora bien, según el uso extenso de la palabra «fascismo», que es homologada casi a cualquier movimiento o régimen autoritario, podríamos decir, por ejemplo, que Dios es fascista. Fíjese que, si aplicamos ese criterio, el Dios de la Biblia, del Antiguo Testamento, cuando ordena exterminar a las mujeres, niños, hasta la última descendencia, debería ser considerado de ese modo. ¿Y qué diríamos de Caín? Este también podría ser considerado el primer fascista que, para colmo, ha desatado una guerra civil al matar a su hermano Abel.
Hago estas bromas, pero, como usted sabe, todo esto conforma una ironía verdaderamente trágica. Esta difusión del término fascismo ha creado una profunda incapacidad para entender nuevos fenómenos en los que, si bien hay elementos que estaban presentes en el fascismo, no está presente ninguno de los que verdaderamente lo definían, lo hacían particular. Esos elementos son el totalitarismo, el imperialismo, la religión política, la revolución antropológica y la guerra como fin principal de la vida humana. A los regímenes y expresiones políticas que usted planteó en tono jocoso, podríamos agregar los de [Silvio] Berlusconi, [Charles] De Gaulle o [Juan] Perón. ¿Encontramos en ellos algunos elementos similares a los que había en el fascismo? Sí, por supuesto, porque el fascismo siempre fue imitado, sobre todo a través del uso de símbolos, de rituales, de mitos. Pero ¿están los componentes fundamentales del fascismo, aquellos que permitían definirlo como tal? No, no están. ¿Cómo se puede calificar de fascista un movimiento como Vox, que quiere afirmar la primacía de la catolicidad sobre el Estado, sobre la nación, sobre la educación, cuando la primacía del fascismo era la de la política, la del Estado? Hemos llegado a tal punto de confusión, que hay quien no es capaz de distinguir un movimiento nacionalista de inspiración católica que sostiene posiciones de la extrema derecha católica en temas asociados a cuestiones como la familia –donde se opone decididamente al aborto y al feminismo– del propio fascismo. Lo mismo sucede con Salvini y La Liga. ¿Cómo puede ser fascista un movimiento como La Liga, que ha pregonado históricamente la secesión de una región de Italia, cuando uno de los puntos fundamentales del fascismo es el de la unidad de la nación, que fue siempre considerada de carácter sagrado?
Las cosas, como usted comentaba en su pregunta, van incluso más allá. El uso del término fascismo se ha vuelto tan simplista que se lo puede aplicar desde a Trump hasta a Putin. Cualquier régimen autoritario con culto a un líder es llamado fascismo. Corea del Norte entonces sería fascista, la misma China comunista sería fascista. Evidentemente, esto no ayuda a entender los fenómenos contemporáneos que enfrentamos. Este uso priva a la categoría «fascismo» de los componentes que realmente le son propios y que solo se encuentran si los analizamos en la historia.
En resumen, lo que intento transmitir es que muchas veces se sostiene que tal o cual movimiento es fascista porque entre sus ideas figuran posiciones racistas, o apelaciones a la pureza de la nación, o porque desprecia la democracia representativa. Pero todas esas ideas preceden al fascismo. Que haya racismo o que haya autoritarismo no quiere decir que haya fascismo. Esas no son cualidades específicas del fascismo, sino que aparecieron incluso en otras latitudes y todavía perduran. El fascismo no existía durante el tiempo del primer racismo en Francia, o en el siglo XIX cuando había racismo en Inglaterra y en Estados Unidos, país en el cual todavía desgraciadamente sobrevive en muchos estados. Mucho antes del fascismo hubo sociedades, y no solo de Occidente, que afirmaron una identidad nacional que excluyó, por ejemplo, a grupos étnicos de diverso tipo. Con esto quiero decirle, aunque usted lo sabe, que no es posible atribuir a cualquier movimiento, construyendo analogías generales, el carácter de fascista.
Le aseguro que yo me esfuerzo mucho por entender estas analogías, pero las analogías no sirven para comprender la historia, sino para hacerla más confusa. Eso es lo que yo denomino «ahistoriología», es decir, una historia hecha como la astrología, que, en lugar de estudiar científicamente los hechos, se limita a interpretarlos según los propios deseos, esperanzas y temores.
Es completamente cierto que todos esos movimientos o regímenes son nítidamente distintos del fascismo o tienen características que no pueden ser circunscriptas a él. Pero ¿qué sucede con la primera ministra italiana Giorgia Meloni, de Fratelli d’Italia, que proviene de una fuerza política que sí se ha reivindicado como neofascista, como el Movimiento Social Italiano? De hecho, en su propio símbolo, Hermanos de Italia lleva la vieja insignia del Movimiento Social Italiano, la llama encendida…
Efectivamente, entre 1946 y 1994, hubo en Italia un partido neofascista con representación parlamentaria y que llegó a ser el cuarto partido a escala nacional. Hablamos, como usted bien dice, del Movimiento Social Italiano (MSI), una organización política que fue fundada por funcionarios, jerarcas y adherentes al régimen fascista que, aunque nunca llegó a 10% de los votos, rozó esa cifra en las elecciones de 1972. Ese partido participó en la elección de al menos un par de presidentes de la República, y compitió democrática y pacíficamente en las elecciones generales y locales. Como usted sabe, el MSI se disolvió en 1994, transformándose, con el liderazgo de Gianfranco Fini, en el partido Alianza Nacional. Ese partido repudió el fascismo –aunque Fini en los años 2000 seguía diciendo que Mussolini había sido el mayor estadista de toda la historia de Italia– y formó parte de todos los gobiernos de Berlusconi. En tal sentido, desde 1994, Alianza Nacional se despegó de su matriz original de neofascismo y se encaminó a un proceso de transformación hacia una derecha nacional conservadora, posición que ahora es recogida por el partido de Giorgia Meloni.
El partido de Meloni bebe de esa experiencia y, en tal sentido, no tengo inconveniente alguno en considerarlos como posfascistas que han aceptado las reglas del Estado democrático y de la República y que han jurado sobre la Constitución, y que se inscriben en esa derecha nacional conservadora. Por supuesto, la herencia del MSI es visible en el modo de concebir la política y en la relación con los adversarios. Pondré un ejemplo. Por estos días, se habla en Italia de la reforma constitucional. Meloni quiere el presidencialismo y se dirige a la oposición diciéndole: «Si no están de acuerdo con lo que yo digo, avanzaré igual». Evidentemente, no es una actitud democrática dialogar con la oposición bajo esta premisa. Recuerda a aquello que hiciera Mussolini en 1923, cuando siendo líder de un gobierno de coalición, se dirigió a sus opositores parlamentarios –los socialistas y los liberales antifascistas– diciéndoles: «¿Pero ustedes que quieren? Pongámonos de acuerdo». Y ellos respondían: «No queremos escuadristas armados, no queremos violencia». Y Mussolini terminaba diciendo: «Si ustedes no quieren lo que yo impongo, yo seguiré mi propio camino». En esto, digamos, hay un tipo de actitud similar. A esto se suma la perspectiva mitológica que expresan algunos de los que forman parte del gobierno de Meloni, según la cual el fascista fue el mejor gobierno que Italia jamás haya tenido, «excluyendo» las leyes racistas. Esto no implica, sin embargo, que siete millones de italianos que han votado a ese partido y a ese gobierno sean fascistas. De hecho, tampoco se trata en sí de un gobierno fascista –ya hemos dicho que no hay escuadristas armados, no se propicia una revolución antropológica de la sociedad, no instala una religión política, no construye un régimen totalitario–. Es un gobierno que tiene a un partido como Fratelli d’Italia, que convive con otros muy distintos. Fíjese, sin ir más lejos, que en este gobierno convive el partido de Meloni, que reivindica el «orgullo nacional», pero aliado a un partido como La Liga, que ha negado históricamente la propia existencia de la nación italiana y buscaba la secesión de una parte del país –aunque hoy la llamen «autonomía diferenciada»–. Y participa también una fuerza como la de Berlusconi, que exalta el liberalismo y el hedonismo.
Profesor, creo que ya la respuesta surge de sus propias respuestas previas, pero de todos modos le haré la pregunta. Como usted sabe muy bien, en 1995 el ensayista Umberto Eco utilizó la categoría «fascismo eterno» en una conferencia pronunciada en la Universidad de Columbia, que sería publicada algunos años más tarde. Eco no solo apuntaba 14 rasgos que él definía como «fascistas», sino que además asumía que el fascismo era casi una identidad política móvil, que ya no usaba solo uniformes militares sino también «trajes civiles» y que volvía en «nuevos ropajes más inocentes». Su conclusión lógica era que el deber de los demócratas era «desenmascararlo». ¿Cuáles son los inconvenientes que, según su parecer, tienen esta definición y esta idea? ¿Qué problemas puede traer aparejados la idea de una «eternidad» en la política?
Permítame responderle comenzando por el final de su pregunta. Debo decirle que, en comparación con Eco, yo soy un poco avaro, porque he definido al fascismo no en 14 sino en 10 puntos, pero podría reducirlos incluso a tres. El problema con los 14 puntos de Eco es que pueden ser aplicados también a la Iglesia católica o a la Falange española. Y si se pueden aplicar de ese modo, entonces no definen algo particular del fascismo. A eso agregaría otra cuestión de igual importancia. Si los fascistas aparecen, como dice Eco, disfrazados de demócratas, ¿cómo distinguimos a los demócratas antifascistas de los demócratas fascistas? Es decir, ¿quién tiene derecho a definirse como un demócrata antifascista si, por ejemplo, como hizo Gramsci, llamamos semifascistas a socialistas como Filippo Turati, a liberales como Giovanni Amendola, a católicos democráticos como Luigi Sturzo? ¿Y cómo hacemos para decir que el verdadero antifascista fue Gramsci, que fue encarcelado en 1926, mientras que Matteotti fue asesinado en 1924, Amendola fue atacado en 1923 y 1925, y Sturzo se vio obligado a exiliarse en 1924, y Turati en 1926? Lo mismo ocurre con el concepto según el cual el fascismo puede repetirse en otras formas y depende de los demócratas desenmascararlo. Una posición de ese tipo les otorga una suerte de poder totalitario a los llamados demócratas para decidir cómo, cuándo y quién es un fascista disfrazado. Con ese criterio, todo el mundo podría decir «tú eres el fascista, yo soy el verdadero antifascista».
Yo siempre tuve una gran admiración por Umberto Eco, un semiólogo con un enorme conocimiento de la retórica y también de la historia. Pero no podía ni puedo estar de acuerdo con él cuando afirma su tesis del «fascismo eterno». ¿Cómo se puede sostener la idea de algo eterno en la historia, cuando ni siquiera las divinidades se revelan eternas? ¿Dónde están hoy Júpiter y Apolo? ¿Dónde están los dioses de Persia? ¿Estamos seguros de que el cristianismo y el islam serán eternos? Hasta ahora, de hecho, han vivido menos que la religión egipcia. En la historia nada es eterno. Es un absurdo hablar de eternidad en la historia. Y, por otro lado, ¿solo el fascismo sería eterno? No veo que nadie hable de un «liberalismo eterno» o de un «bolchevismo eterno», de un «jacobinismo eterno» o, para referirme a su país, de un «peronismo eterno». Pareciera que solo el fascismo estuviera dotado de eternidad. Pero si el fascismo es eterno, entonces todo antifascista está derrotado de antemano. Nunca ganará porque, al parecer, su adversario es poseedor de un don único que no tiene ninguna otra ideología y ningún otro régimen: la eternidad. Ese supuesto carácter de la «eternidad» se basa, tal como le decía, en la práctica de las analogías. Se basa en atribuirles a movimientos o regímenes no fascistas la categoría de fascistas.
Al mismo tiempo que se ha producido toda esta banalización con la tesis del fascismo eterno, también se ha producido el fenómeno que usted ha denominado como «desfascistización del fascismo». ¿Podría explicar en qué consiste ese proceso?
Por supuesto. Mi concepto de «desfascistización del fascismo» se refiere, sobre todo, a lo que sucedió en Italia inmediatamente después de la Segunda Guerra Mundial, cuando distintos grupos ideológicos se enfrentaron al problema de pensar el fascismo tras el propio fin del régimen. Lo que había sido, a todas luces, un régimen de 20 años que había tenido características opresivas y excitantes para toda la sociedad italiana, se transformó, en algunas conceptualizaciones de los propios hombres de la izquierda que lo habían derrotado, en un fenómeno que básicamente consistía en una banda de criminales que se habían quedado con el poder frente a unas masas siempre hostiles al régimen y sometidas a la miseria. Entre los mismos antifascistas que habían derrotado al fascismo se evidenció un fenómeno de falta de rigor a la hora de definir ese régimen. Lo mismo sucedió, claro, desde el lado neofascista, que definía el fascismo como un régimen que había hecho mucho bien al país pero que, desgraciadamente, se había convertido en una dictadura porque el comunismo amenazaba a Italia. Esa derecha neofascista intentaba decir que el fascismo no era totalitario, que recién se había vuelto racista en 1938, que se había convertido en un régimen de partido único solo porque Matteotti había sido asesinado y porque la izquierda y los antifascistas querían derrocarlo. En definitiva, desde la izquierda y desde la derecha se produjo una banalización del régimen que impedía ver su especificidad. Se «desfascistizaba» el fascismo. En la izquierda se llegaba incluso a afirmar que el fascismo no tenía ideología, no tenía una visión de la economía, y hasta que ni siquiera había existido un régimen fascista: solo había mussolinismo.
En torno de este tema conviene mencionar la influencia que tuvo un libro que seguramente usted conoce y ha leído. Me refiero a Los orígenes del totalitarismo de Hannah Arendt, en el que la autora, sin saber nada del fascismo, afirmaba que el fascismo no era totalitario. En su libro, en el que el único régimen que aparece como totalitario es el estalinismo –ni siquiera considera totalitarios a Lenin y a Mao–, tampoco consideraba totalitario el nazismo: solo le atribuye esa cualidad desde el inicio de la guerra. La tesis de Arendt fue utilizada durante la Guerra Fría como un manifiesto propagandístico para ubicar en el mismo lugar la Rusia de Stalin y la Alemania de Hitler, pero sobre todo, para justificar que Estados Unidos y distintos países de la Alianza Atlántica estuvieran aliados a regímenes como el de la España de[Francisco] Franco y el Portugal de [António] Salazar, que tenían aspectos comunes con el fascismo. El concepto de Arendt según el cual el fascismo no era totalitario sino autoritario les servía a los países aliados a regímenes que tenían algunos aspectos del fascismo para afirmar que, si era autoritario, era «menos malo» –e incluso en ocasiones podría ser bueno– que el totalitarismo, es decir, que la Alemania de Hitler y la Rusia de Stalin. Este tipo de posiciones contribuyeron a la desfascistización del fascismo. A ese proceso de desfascistización del fascismo también contribuyó el hecho de que muchos fascistas reales de los tiempos de Mussolini se hicieran luego democristianos, comunistas o socialistas, por lo que los partidos debían decir que el fascismo no había tenido ninguna influencia y solo se dedicaban a ridiculizarlo.
Mire, cuando yo era niño no vi ni una sola película en la que no se ridiculizara el fascismo. Nunca tuve la sensación, de niño y de joven, de que el fascismo había sido algo trágico, que había allanado el camino para el nazismo y el totalitarismo en Europa. En lugar de hacernos entender cuál había sido la tragedia del fascismo, lo tomaban todo en broma, como algo gracioso. De las atrocidades del fascismo, solo se recordaba el crimen de Matteotti y la muerte de Gramsci. Si usted mira los primeros documentales sobre el fascismo, se dará cuenta rápidamente de que todo era una caricaturización, una serie de burlas y de chistes. Esto influyó mucho. Y el beneficio, por supuesto, se lo llevaron los neofascistas reales, que se presentaban como defensores de las «buenas políticas» del fascismo, de las grandes obras arquitectónicas, de las grandes fábricas, del bienestar de los trabajadores. Utilizaban toda esa palabrería amparados en ese proceso de desfascistización del fascismo. Decían, por ejemplo, que el fascismo había hecho buenas obras, para justificarlo. Usted sabe bien aquello que decía Cervantes: que no hay ningún libro malo que no contenga algo bueno.
Permítame que insista con las cuestiones relativas al uso de la palabra «fascismo» como arma arrojadiza para calificar a los adversarios políticos e ideológicos. Usted recordaba que en 1924 Gramsci llamó «semifascistas» a Amendola, Sturzo y Turati. Podríamos mencionar también que Palmiro Togliatti aplicó conceptos similares a Carlo Rosselli, el socialista liberal que murió luego a manos del fascismo. ¿Qué incidencia tuvo en el uso extenso y equívoco del término fascismo que vemos actualmente el hecho de que los comunistas siguieran la tesis del «socialfascismo» y aplicaran el concepto indiscriminadamente contra sus adversarios políticos, incluso contra aquellos que eran claramente antifascistas?
Tuvo un gran impacto, porque como usted dice, en el antifascismo italiano hasta 1935 e incluso en algunos casos hasta 1937, para los comunistas todos los izquierdistas no comunistas eran fascistas o semifascistas. Quien no se convertía a la interpretación comunista del fascismo era un fascista. Esta interpretación se suspendió durante la guerra y durante el periodo de la Resistencia, pero volvió a ganar lugar tras la Liberación. Después de 1947, los comunistas comenzaron a llamar fascista a Alcide de Gasperi, que era democristiano y antifascista, y ese proceso comenzó otra vez. Fíjese que Lelio Basso, militante marxista antifascista, en 1951 publicó un libro titulado Dos totalitarismos: fascismo y democracia cristiana. Una homologación realmente sin ningún sentido. Y debemos tener en cuenta que esto lo decía Lelio Basso que era quien, en un artículo publicado el 2 de enero de 1925 en La Rivoluzione Liberale, dirigida por el joven antifascista Piero Gobetti –víctima de los escuadristas, obligado al exilio y muerto en París en 1926, a los 25 años— había inventado el término «totalitarismo» para definir el régimen fascista.
El uso indiscriminado del término «fascismo« en Italia se relaciona directamente con esa acusación de fascistas contra todos los antifascistas no comunistas. En términos globales, la incidencia en ese uso indiscriminado la tuvo claramente la victoria de la Unión Soviética de Stalin en la Segunda Guerra Mundial, en tanto los comunistas extendieron la idea de que, como ellos habían vencido, eran los verdaderos opositores al fascismo. En consecuencia, podían marcar como fascista a cualquiera que se les opusiera. Y de ese uso extenso y confuso de la categoría derivó su pasaje a todos los ámbitos, a punto tal que los anticomunistas empezaron a llamar fascistas a los comunistas. Se transformó en una categoría para utilizar como arma contra cualquier opositor ideológico. Por eso vuelvo a mi razonamiento inicial: si el término «fascista» en sí mismo no contiene ninguna idea política clara, fascista puede ser cualquiera. ¡Incluso usted puede ser fascista porque me está haciendo preguntas para meterme en dificultades! Cuando reprobaba alumnos y debían repetir el examen, ¿qué decían?: «¡Este es un fascista!».
El hecho de que usted no utilice, por todas las razones que ha expresado, el concepto de «fascismo» para referirse a fenómenos políticos muy diversos, no implica que no observe los graves problemas de las democracias contemporáneas y sus derivas «iliberales». En tal sentido, usted ha acuñado el concepto de «democracia recitativa». Al mismo tiempo, ha advertido que el mayor peligro en la actualidad es la presencia de líderes elegidos democráticamente pero que carecen de ideales democráticos. ¿Qué significa el concepto de democracia recitativa y cuáles son, según su perspectiva, los dilemas que atraviesa la democracia hoy?
Si nosotros utilizamos el término «fascismo» para referirnos a lo que históricamente ha sido –es decir, que se ha expresado como organización, como cultura y como régimen en una cultura irracionalista y mítica fundada en la exaltación del Estado y de la nación, en una militarización de la política, en el totalitarismo y el imperialismo, en el racismo, en la revolución antropológica de la sociedad y en la guerra como fin último de la vida humana–, entonces debemos concluir que esto no está presente en los países democráticos. Sin embargo, en todos los países democráticos, incluso en los más antiguos, se están verificando una serie de procesos muy preocupantes. Uno es el creciente descontento de la ciudadanía, expresado en términos de desconfianza y, sobre todo, en una fuerte abstención electoral. Otro es la permanente y galopante intrusión de la corrupción. Y el que considero más importante es la renuncia al ideal democrático. El ideal democrático no es lo mismo que el método democrático, que consiste en el proceso de elecciones libres y pacíficas por el cual los ciudadanos eligen a sus gobernantes. Con el método democrático, lo sabemos muy bien, es posible elegir gobiernos racistas, antisemitas, machistas o antifeministas. Por eso el ideal democrático, por el cual durante 200 años muchos ciudadanos han sacrificado su vida en manifestaciones, en agitaciones, en revoluciones y en guerras, no consiste solamente en que los ciudadanos puedan elegir pacífica y periódicamente a sus gobernantes, sino en trabajar constantemente para eliminar todos los obstáculos y discriminaciones entre los gobernados.
Si la desigualdad de riqueza, y la pobreza y la precariedad son cada vez mayores, entonces tenemos un problema democrático –y en buena medida, parte del voto de los trabajadores a la extrema derecha se vincula a estas cuestiones–. Las estadísticas mundiales nos dicen que el 10% más rico del mundo posee hoy alrededor de 76% de la riqueza global. En Italia, durante la pandemia, el 5% más rico aumentó su riqueza, mientras que todas las demás clases perdieron poder adquisitivo salarial. Esa profunda desigualdad en la riqueza hace a un problema democrático muy serio: ¿quién, sino los ricos, puede acceder a propagandas electorales televisivas?
Al problema de la desigualdad, que impacta seriamente en la democracia, se agrega otro, y es el que usted menciona: el de la recitación. Una de las razones por las cuales se produce una fuerte abstención electoral se vincula a la consideración ciudadana de que la democracia se ha transformado en un espectáculo que tiene lugar solo en el periodo electoral. Los ciudadanos sienten que son convocados a votar y que, luego, los dirigentes políticos toman decisiones arbitrarias, de espaldas a la ciudadanía. En definitiva, toman las decisiones que quieren. En el sistema político italiano, los candidatos ni siquiera son elegidos por la ciudadanía, sino por sus compañeros de partido, y la ciudadanía es obligada a aceptar lo que los partidos han decidido. Todo esto hace a la calidad democrática. Es en este sentido en el que hablo de «democracia recitativa».
Ahora bien, es importante destacar que el método democrático prevalece, a diferencia de lo que sucedía hasta 1945, cuando movimientos fascistas y nacionalsocialistas negaban el principio mismo de soberanía popular. O a diferencia de los regímenes comunistas, que predicaban el principio de la soberanía del proletariado, pero que, finalmente, sostenían dictaduras de tipo totalitaria. Hoy todos los partidos, y también los llamados «populistas», reconocen ese principio y, de hecho, se refieren directamente a él. Evidentemente, este tipo de apelación al diálogo directo entre las masas y el pueblo puede constituir un desafío a la democracia liberal, como lo vemos en casos de Europa oriental, en la Rusia de Putin, en la Turquía de [Recep Tayyip] Erdoğan. Pero eso no los vuelve fascistas. No se puede ser fascista y apelar a la soberanía popular. Sería como ser bolchevique defendiendo la propiedad privada. Por lo tanto, los principales riesgos de la democracia emergen de la democracia misma. Repito: no debemos olvidar que la democracia como método basa su acción en el propósito y el objetivo de alcanzar algo más, el ideal democrático. Sin ese ideal, tenemos una democracia recitativa en la que, efectivamente, pueden producirse mayorías racistas, nacionalistas, iliberales. Si se abandona la realización del ideal democrático y la democracia es solo una recitación, el desarrollo del individuo se obstaculiza sin que exista ningún tipo de régimen fascista. Por lo tanto, para evitar la elección de gobiernos racistas, machistas, iliberales, de lo que se trata es de que la democracia no se limite al método democrático, sino que persiga el ideal democrático.
Permítame hacerle una última pregunta asociada a su propia trayectoria como historiador. Usted tuvo entre sus maestros a Renzo de Felice, un historiador de enorme relevancia, que desarrolló una de las más importantes biografías de Mussolini que se hayan escrito hasta la fecha. ¿Cómo conoció a De Felice y qué aprendió de él en términos del quehacer historiográfico?
Déjeme comentarle que, de niño, yo tenía dos grandes pasiones. Una era la pintura y la otra era la historia. Luego, por una serie de circunstancias, no me fue permitido seguir la vocación que más apreciaba que era la pintura, así que me dediqué a mi otro campo de interés. Mis primeros intentos fueron en historia medieval, y cuando tenía 18 años y estaba terminando el bachillerato, hice un ensayo  sobre la poesía de Dante. Sin embargo, el trabajo fue rechazado por el que entonces era mi profesor. Sinceramente, yo había puesto mucho empeño en ese texto, había dedicado mucho trabajo, y pensé que podía pedir otra opinión sobre aquel ensayo. Entonces se me ocurrió escribirle a Giuseppe Prezzolini, un escritor y periodista que escribía en Il Tempo, el periódico que leía mi padre. Prezzolini era un hombre muy famoso que, entre otras cosas, había sido el fundador de una revista La Voce en la que habían colaborado Giovanni Amendola, Benedetto Croce, Mussolini. Cuando le escribí yo desconocía por completo que él tenía 84 años y, en mi carta, lo traté de «tú», como si se tratara de un amigo. Él me respondió muy amablemente que, por la cultura que expresaba mi artículo, no creía que yo tuviese 18 años. Y así comenzó una relación. Luego, ya realizando mis estudios universitarios en Historia, conocí a un historiador antifascista que había sido amigo de Piero Gobetti y que tuvo una gran influencia para mí. Me refiero al gran historiador Nino Valeri, que fue el primero en estudiar el fascismo de manera científica. Yo quedé fascinado porque Valeri hablaba del periodo giolittiano y de los contestatarios de ese tiempo, entre los que se encontraba un joven intelectual que era el mismísimo Prezzolini. Lo cierto es que Valeri se convirtió en el director de mi tesis, pero se retiró de la academia antes de que yo la terminara. Mi director pasó a ser, entonces, Ruggero Moscati, pero necesitaba, sin embargo, un codirector. Y fue Prezzolini quien me dijo: «Fíjate que en Roma hay un historiador que yo admiro mucho. Se llama Renzo de Felice. Yo te daré una carta de presentación». Y así llegué a De Felice y se convirtió en mi codirector de tesis. Aun así, y a diferencia de lo que muchos creen, e incluso de lo que se afirma en la Enciclopedia Italiana, yo nunca estudié con él ni fui su discípulo directo.
De Felice era, ya entonces, un hombre muy importante en términos históricos. En 1965, cuando me estaba graduando del bachillerato, yo había leído el primer volumen de su extensa biografía de Mussolini, que había sido publicada ese mismo año. Ese libro me causó una profunda impresión. Aunque me fastidió un poco que el libro de De Felice estuviera escrito con un estilo muy difícil –yo siempre he preferido las frases breves, a lo Tácito–, quedé muy impactado por el aparato de citas bibliográficas que manejaba. De hecho, las notas casi duplicaban el tamaño del libro. Todas esas citas de archivo me fascinaron. Fue así como descubrí que no solo existía la historia que yo había leído en los libros de Benedetto Croce, que eran sintéticos y casi sin notas, sino que también estaba esto: la posibilidad de encontrar libros como el de De Felice, donde el archivo y las notas bibliográficas eran fundamentales.
Lo cierto es que, luego de graduarme, con De Felice como codirector de mi tesis, pasé un buen tiempo sin verlo, en tanto yo no comencé rápidamente la carrera académica, sino que me dediqué, algunos años, a enseñar italiano y latín, y luego historia del arte y por último historia y filosofía, en escuelas secundarias. Sin embargo, en 1971, conseguí una beca que no solo me dio una excedencia en la escuela secundaria en la que daba clase, sino que me permitió investigar en Roma. Esa beca hacía necesario tener a un profesor como garante de la investigación, y decidí pedirle ese rol a quien había sido mi codirector de tesis de grado. Acudí a De Felice y me contestó que sí, que él sería el garante de mi investigación. Fue entonces cuando comencé a colaborar en sus clases y seminarios. Esos fueron, para mí, dos años de un enorme aprendizaje. En primer lugar, aprendí la importancia de basar cada hecho histórico en la mejor documentación posible. Y, observando e interactuando con De Felice, entendí el verdadero significado de la independencia intelectual. Recuerdo que en una oportunidad le llevé unos capítulos de mi tesis para que los leyera y él, como buen profesor, me hizo una serie de observaciones. Yo le contesté, muy ingenuamente: «Muy bien, profesor, ahora mismo lo voy a modificar, voy a cambiar esto y aquello». Pero De Felice, a quien yo muchas veces veía en su casa, no me dejó ni siquiera terminar de hablar, me interrumpió y me dijo: «Escuche, Gentile, si usted cambia una palabra porque yo le he hecho una serie de observaciones, no venga más a verme». Fue entonces cuando aprendí lo que es ser un profesor universitario de gran valía pero que, como el propio De Felice decía, no quiere crear su copia en papel carbón.
Yo, que nunca fui su alumno, tampoco soy, como algunos dicen, su mejor heredero. Se dice que lo he seguido, pero en realidad, si esto es así, también lo he traicionado. De Felice argumentaba que el fascismo no había sido totalitario, pero yo llegué a la conclusión contraria a partir de mi trabajo con documentación histórica. Luego, De Felice también se convenció de ello. Fíjese que yo escribí en la década de 1980 muchos artículos sobre este tema, discutiendo la propia tesis de De Felice según la cual el fascismo no había sido totalitario. ¿Y sabe dónde se publicaron algunos de esos artículos? En la revista que dirigía el propio De Felice. Fue él mismo quien los publicó. Eso es lo que él me enseñó. Lo que realmente aprendí de De Felice es que hay que ser muy riguroso en la investigación documental y que no hay que escribir una frase que no corresponda a los documentos, a los hechos tal como resultan de los documentos, evaluándolos, por supuesto, críticamente. Y el otro gran aprendizaje que tuve fue que jamás debes oponerte a alguien que defiende una tesis distinta de la tuya si antes no compruebas si esa persona tiene razón y tú estás equivocado. Yo también he intentado enseñar esto a mis alumnos, muchos de los cuales se convirtieron luego en mis colegas. Son lecciones que hay que aprender. Aunque sea muy cansador e implique un trabajo continuo. El año pasado, en octubre, publiqué una historia del fascismo de 1.300 páginas, pero en el año 2002 publiqué una historia del fascismo de 29 páginas.[7] ¿Cuál es la verdadera? Ambas. Solo que en la primera no documenté todo lo que afirmaba. En la segunda, en cambio, no hay nada de lo que afirmo que no esté documentado. Y esto me parece importante.
Notas:
1. Se refiere a la militancia previa de Mussolini en el Partido Socialista.
2. Edhasa, Buenos Aires, 2014.
3. Carmelite House, Londres, 1922.
4. Siglo XXI, Buenos Aires, 2007.
5. Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi, Feltrinelli, Milán, 2010.
6. Georges Passelecq y Bernard Suchecky: L’Encyclique cachée de Pie XI: Une occasion manqué de l’Église face a l’antisemitisme, La Découverte, París, 1995.
7. En Fascismo: Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002.
Fuente: https://nuso.org/articulo/entrevista-emilio-gentile-fascismo/
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elmartillosinmetre · 2 months
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Una enmienda a la vanguardia
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[Arnold Schoenberg dando clases en la Universidad de UCLA / ASUCLA]
El director de orquesta neoyorquino John Mauceri reivindica la música de los exiliados europeos en USA como la gran tradición clásica del siglo XX
A John Mauceri (Nueva York, 1945) muchos lo conocimos cuando en la década de 1990 participó como director en una serie que el sello Decca empezó a publicar con el título genérico de Entartete Musik (Música degenerada), en la que se pretendía recuperar la música de los compositores ridiculizados (y prohibidos) por los nazis en una famosa exposición con ese nombre (Düsseldorf, 1938) que era réplica de una anterior más importante sobre el arte pictórico (Entartete Kunst). Aquellos discos restauraron música olvidada de algunos compositores de notable reputación (incluidos Weill, Schoenberg, Zemlinsky o Hindemith) y la de otros reconocidos especialmente por su actividad en la música de cine (de Korngold a Waxman), pero sobre todo puso en valor nombres que eran por completo ignorados, incluso por los más eruditos: Hass, Ullmann, Krása, Schreker, Schulhoff, Krenek, Wolpe, Braunfels, Rathaus, Goldschmidt, Strassfogel...
La mayoría de estos músicos eran judíos: algunos murieron en los campos nazis; otros emigraron a los Estados Unidos. Mauceri considera que con ellos no se ha hecho justicia, pues las circunstancias políticas determinaron que, tras la Segunda Guerra Mundial, desde las más altas instancias públicas occidentales se privilegiara la más radical creación experimental, que rompía radicalmente con la tradición de la música clásica que estos compositores representaban, y este libro es una encendida defensa de la necesidad de volver a poner su legado en el centro del repertorio orquestal de nuestros días.
Esta consideración de la vanguardia de la posguerra como auténtica herramienta política había sido ya analizada por Alex Ross en su famoso bestseller El ruido eterno, en el que profundizaba en la ingente cantidad de recursos empleados desde el gobierno americano para fomentar una música que rompiera con la alta consideración que los alemanes tenían de su propia tradición, y ello como recurso de guerra psicológica para socavar su prestigio no sólo estético o intelectual, sino moral. Mauceri considera que lo que podría haber sido una experiencia meramente temporal se consolidó durante la Guerra Fría, ya que el nuevo enemigo era una URSS que también, como el Reich, condenaba las prácticas modernistas. La música se convirtió en un arma de combate. El apoyo oficial –y no sólo de los gobiernos, sino de entidades privadas y un ejército rocoso de intelectuales y críticos– se dirigió a las vanguardias emergidas de la posguerra en torno al serialismo (sobre todo, en Europa) y la indeterminación (en USA) rompiendo radicalmente la línea central de la evolución clásica. Eso se llevó por delante no sólo a la exitosa tradición posromántica, creada en torno a la escuela de Strauss y Mahler, sino también a la ópera italiana que culminó en Puccini, cuyos sucesores se vieron contaminados por el fascismo. El resultado es bien conocido: la fractura entre la nueva música y el público, atraído mayoritariamente por las corrientes de la música popular y muy alejado de lo que algunos pomposamente llaman música de creación (como si las canciones pop nacieran de las setas).
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La ficha La Guerra y la Música. Los caminos de la música clásica en el siglo XX John Mauceri. Traducción de Lorenzo Luengo Madrid: Siruela, 2024 (edición original, 2022). 299 páginas. 26 € (ebook: 12.99 €)
En un breve ensayo que publicó también Siruela en 2003 (El alma de Hegel y las vacas de Wisconsin), Alessandro Baricco se lamentaba ya de que se hubiera quebrado la línea de Puccini y Mahler. Aquel texto de Baricco fue tildado en su día de polémico e incluso provocador. Y es que el discurso del dogmatismo vanguardista de los años 60 y 70 había llegado aún muy fuerte a finales de siglo. Hoy la arremetida de Mauceri contra la vanguardia de la posguerra –muy significativamente contra Pierre Boulez, al que, con razón, categoriza como el hombre más poderoso de toda la música clásica en el siglo XX–, es vista con absoluta naturalidad e incluso con una creciente simpatía en un medio musical cansado de lo que el director americano llama “eterna adolescencia” de la vanguardia.
La reivindicación de Mauceri va en cualquier caso un poco más allá. El exilio europeo en Estados Unidos, que incluía a Schoenberg, Korngold, Hindemith, Weill, Waxman, Rózsa, Steiner, Reiner, Walter... –¡y a Gershwin, Copland o Bernstein como emigrantes de segunda generación!– no sólo trasladó la tradición de la música de concierto europea a América, sino que creó una tradición original, la de la música para el cine, que no era otra cosa que la traslación de Wagner –al que considera el gran inventor de la música fílmica– a un entorno nuevo. Mientras la vanguardia oficial y sus altavoces mediáticos utilizaban el término “hollywoodiense” de forma despectiva y hacían música consumida en pequeños cenáculos de expertos, el gusto mayoritario se moldeaba con las creaciones épicas y conmovedoras que se difundían desde las pantallas, una música que Mauceri considera tiene –aunque no siempre, reconoce– poder autónomo y que debería figurar junto a las obras de concierto escritas durante décadas por los compositores tonales en los programas de las grandes orquestas internacionales. Y de hecho, aunque lentamente, eso es lo que está pasando ya: uno ve a la Filarmónica de Viena tocando en la Sala Dorada del Musikverein la Marcha Imperial de Star Wars bajo la batuta de John Williams en un concierto grabado por Deutsche Grammophon y entiende que los tiempos están cambiando. Mauceri apostilla: el gran reto de futuro (casi de presente) para los compositores está en los videojuegos y el carácter interactivo que se exige para su música.
[Diario de Sevilla. 11-08-2024]
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patoanacoreta · 3 months
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La Izquierda fucsia. O de la metamorfosis kafkiana
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Diego Fusaro
Lilies that fester, smell far worse than weeds (“Los lirios que se pudren, huelen peor que las malas hierbas”) [1] . Estos versos, extraídos de los Sonetos de William Shakespeare, podrían considerarse, con toda razón, como la descripción más realista del destino que despiadadamente ha envuelto a la Izquierda en el cuadrante occidental del mundo tras la caída del Muro de Berlín.
Para evocar una ulterior figura literaria, los neoizquierdistas han experimentado una Verwandlung, una «metamorfosis» similar a aquella descrita por Kafka. Una metamorfosis que les ha hecho precipitarse en el abismo en el que se encuentran desde 1989 y, en mayor medida aún, desde la llegada del nuevo Milenio. La situación puede parecer por momentos tragicómica, si se considera que actualmente las consignas del Capital y la desiderata de las clases dominantes (menos Estado y más mercado, menos vínculos y más fluidez, menos pertenencia comunitaria y más liberalización individualista) encuentran en los programas y en el léxico de la Neoizquierda arcoíris una puntual respuesta, una defensa enérgica y una celebración ininterrumpida. Sin hipérboles, el orden de los dominantes, en el marco de la globalización capitalista, presenta en la Neoizquierda descafeinada una apología y una santificación no menos radicales que las que halla en la Derecha, sede tradicional de la reproducción cultural y política del nexo de fuerza hegemónico.
La regresión y la barbarie, que no han dejado de acompañar al Capital, ya no se ven contestadas por la Izquierda apelando al deseo de mayores libertades y de futuros ennoblecedores; au contraire, son obstinadamente defendidas y presentadas por la propia Izquierda como la quintaesencia del movimiento de ese progreso de claritate in claritatem que –para decirlo con Marx– no ha dejado de asemejarse a “aquel horrendo ídolo pagano que sólo quería beber el néctar en el cráneo del sacrificado» [2]. No más “socialismo o barbarie”, sino “capitalismo o barbarie”; éste parece ser el nuevo y magnético mot d´ordre de una Izquierda que, al negarse a sí misma y a su propia historia, se ha convertido en la guardiana más fiel del poder neoliberal.
Llamamos New left -expresamente en el “inglés de los mercados” que le es tan grato- a la Nueva Izquierda posmoderna y neoliberal, enemiga de Marx, de Gramsci y de las clases trabajadoras y, al mismo tiempo, amiga del Capital, de la plutocracia neoliberal y del Nuevo Orden global turbocapitalista. Utilizamos esta terminología para distinguir cuidadosamente a la neo-izquierda fucsia de la vetero-izquierda roja que, con diversas gradaciones y con intensidades diferenciadas (del reformismo al maximalismo revolucionario, del socialismo al comunismo), intentó de distintas formas, en el Ochocientos y después durante el «siglo breve«, “asaltar los cielos”, alterar el equilibrio de poder, realizar el «sueño de una cosa» y poner en práctica la «simplicidad difícil de alcanzar«.
Cuanto más noble parece la vetero-izquierda tradicional, socialista y comunista, con sus éxitos y sus conquistas, pero también con sus fracasos y sus derrotas, tanto más suscita el efecto desagradable de los «lirios podridos» de los que escribiera Shakespeare, la New left fucsia reducida al status de guardia de la jaula de hierro del Capital (con el politeísmo de los valores de consumo incorporado); una guardia sui generis sin embargo, que, para preservar su propia identidad -en realidad perdida hace largo tiempo- y el antiguo consenso de fuerza del lado de los derechos y de los débiles, y para poder así conducir a las masas hacia la silente aceptación del poder del neocapitalismo, debe permanentemente resucitar de nuevo a enemigos definitivamente extintos (el eterno fascismo) o inventar nuevas luchas laterales (las microluchas identitarias por el género y por la green economy), que le permitan aparentar formar parte de la ofensiva contra los males de un existente al que inconfesablemente ha jurado lealtad.
En esto está el elemento verdaderamente trash de la hodierna Izquierda neoliberal. In specie, el elemento más trash de la New left arcoíris posmoderna reside en considerarse a sí misma, con una necesaria falsa conciencia, como el frente avanzado del desarrollo y el progreso universales, sin darse cuenta de que el desarrollo y el progreso que promueve coinciden con los del Capital y sus clases; desarrollo y progreso que, en consecuencia, van acompañados de la desemancipación, el empobrecimiento y la regresión para las clases nacional-populares, o sea aquellas que la izquierda neoliberal «antipopulista» considera ahora abiertamente sus principales enemigas. Y que la vetero-izquierda roja asumía como su propio sujeto social y político de referencia, en el afán de provocar la emancipación de la prosa de la alienación capitalista. No hay duda: para la New left liberal-progresista el principal enemigo no es la Globalización capitalista, sino todo aquello que aún no se ha doblegado a ella y todavía la resiste.
El antifascismo en ausencia de fascismo y las microluchas identitarias por los derechos arcoíris o, en todo caso, por cuestiones sideralmente distantes de la contradicción capitalista, permiten a la New left obtener una triple ventaja: a) tener una coartada para justificar su ahora integral adhesión al programa de la posmoderna civilización neoliberal; b) mantener una propia identidad y un propio consenso, mediante la ficción de la lucha contra enemigos muertos y enterrados (el fascismo) o contra instancias que, en cualquier caso, no ponen en cuestión la reproducción global de la sociedad tecnocapitalista; c) conducir a las masas de militantes -a quienes, a menudo, sería apropiado llamar «militontos«- directos hacia la adhesión a la anarquía eficiente del neocanibalismo liberal, presentado precisamente como progresista y “de izquierdas”.
El consenso inercial del que aún se beneficia la Neoizquierda fucsia, gracias a un glorioso pasado en el bando del trabajo y la emancipación, sirve de esta forma para aprovecharse y así legitimar aquello que la vetero-izquierda roja había combatido. En sufragio de la tesis que evidencia este proceso de metamorfosis, que comenzó con el Sesentayocho y se manifestó en su forma más radical después del annus horribilis de 1989, baste recordar que, desde los años Noventa del «siglo breve«, todo éxito de la Izquierda en Occidente tiende a coincidir con una estrepitosa derrota de las clases trabajadoras.
En nombre del Progreso la Izquierda, con mayor diligencia incluso que la Derecha, se ha hecho promotora de la liberalización consumista y de la privatización, de la precarización del trabajo y de la exportación imperialista de los Derechos Humanos; es decir, ha llevado a cabo, con método científico y con rigor admirable, el tableau de bord del bloque oligárquico neoliberal. Y lo ha hecho apoyando siempre -y ennobleciendo como Progreso– la extensión de la despiadada lógica mercadista a cada esfera del mundo de la vida, a cada rincón del planeta, a cada grieta de la conciencia, deslegitimando simétricamente (como » «regresión«, «fascismo«, «totalitarismo«, «populismo» y «soberanismo«) todo aquello que todavía pudiera contribuir, en palabras de Walter Benjamin, a tirar del freno de emergencia, a detener el «vuelo loco» hacia la nada de la barbarie y el nihilismo.
En el léxico político posmoderno de la New left de las tonalidades arcoíris no hay ni rastro de los derechos de los trabajadores, del pueblo y de los oprimidos: au contraire, «populismo» es la etiqueta despectiva, cada vez más en boga, que –como maestros de la neolengua patentada por Orwell [3]- deslegitima a priori cualquier reivindicación nacional-popular de las clases trabajadoras y del pueblo sufriente, cualquier desviación del «Progreso«, id est del programa de desarrollo de la civilización neoliberal. No hay duda al respecto: le discours du capitaliste, como lo calificaba Lacan, y la «nueva razón del mundo» neoliberal [4] han saturado también el imaginario de una Izquierda ahora filoatlantista y mercadista, que ha transitado cínica y desenvueltamente desde la lucha contra el Capital hasta la lucha por el Capital.
Tal integración al globalcapitalismo rara vez es admitida de manera abierta como lo que realmente es: un alineamiento consciente con el mundo en oposición al cual se había legitimado la política de la Izquierda socialista y comunista durante buena parte del siglo XX. De modo diametralmente opuesto, la New left casi siempre se justifica recurriendo a la hipócrita fórmula liberadora y desresponsabilizante del «no hay alternativa» o a su variante -en la que se basa la nueva teología económica– según la cual «es lo que exige el mercado«. No pocas veces esto se encomia en la Izquierda como adhesión al ritmo del progreso, omitiendo indicar que el progreso en curso coincide con el del Capital y su marcha triunfal de autoafirmación.
Esta obscena adhesión apologética a la prosa cosificadora de la capitalista inégalité parmi les hommes y a su vertiginoso incremento, viene pretextada en el cuadrante izquierdo recurriendo al teorema de la identificación del status quo, intrínsecamente no democrático, con la «democracia” perfectamente completa que debe ser protegida de peligrosas tentativas de «subversión fascista«, que a su vez se hacen coincidir ideológicamente con cualquier pretensión de poner en marcha el éxodo de la jaula de hierro neoliberal.
La retórica anti-totalitaria, como han mostrado Losurdo [5] y Preve [6], juega un papel decisivo en la consolidación del consenso hacia la civilización neoliberal: permite glorificar el modo de producción capitalista como el reino de la libertad, liquidando como «totalitario» al comunismo histórico novecentesco y, en perspectiva, a todo movimiento que pueda proponer rutas alternativas de emancipación respecto del propio capitalismo. Por un lado, el único totalitarismo hoy realmente existente -el de la sociedad totalmente administrada del tecnocapital- se venera como open society de la libertad perfectamente implementada; y, por otro, la idea de socialismo es condenada inapelablemente, induciendo a la adaptación, eufórica o resignada, a la «jaula de hierro» neoliberal.
La asunción del paradigma anti-totalitario contribuyó decisivamente a la metamorfosis de la New left en fuerza liberal-atlantista de complemento de la relación de poder hegemónica. No hay que olvidar que ya en mayo de 1989, esto es, pocos meses antes de la caída del Muro, Achille Occhetto y Giorgio Napolitano -figuras de primera línea del Partido Comunista Italiano- estaban en Washington (era, además, la primera vez en la historia que se concedía “visa” a un Secretario del PCI). Occhetto había encaminado al PCI hacia la metamorfosis kafkiana («svolta della Bolognina«) en New left, o sea en partido radical de masas. Por su parte, Napolitano ocuparía sucesivamente por dos veces el cargo de Presidente de la República (de 2006 a 2015), sin oponerse ni a la intervención imperialista en Libia (2011) ni al advenimiento del «Gobierno técnico» ultraliberal de Mario Monti (2011).
En esta misma estela metamórfica, bajo el signo de la retórica anti-totalitaria, se debe leer la declaración del Secretario del Partido de la Refundación Comunista, Paolo Ferrero, en el periódico «Liberazione» el 9 de noviembre de 2009, en relación al «juicio político sobre la caída del Muro de Berlín”: “ha sido un hecho positivo y necesario, que se debe festejar”. Las de Ferrero podrían haber sido las mismas palabras pronunciadas por cualquier político de firme fe liberal-atlantista.
La metamorfosis kafkiana de la New left aparece tanto más nítidamente si se considera que, por su parte, el comunismo era la promesa más seductora de una felicidad distinta a la disponible, pero también la crítica más glacial de la civilización de la forma mercancía: era, al menos en teoría, la mayor tentativa jamás hecha en la historia de los oprimidos por romper las cadenas, sin tener nada que perder y sólo un mundo que ganar.
También por este motivo la Izquierda posmarxista y neoliberal aparece entre las realidades menos nobles que existen bajo el cielo: ha determinado operativamente o, en todo caso, ha favorecido dócilmente el silencio del «sueño de una cosa«, su tétrica conversión en el «sueño de las cosas» y en la reconciliación con el mundo de la explotación y la desigualdad, de la cosificación y la alienación.
Variando la conocida fórmula empleada por Benedetto Croce en relación al cristianismo [7], hubo un tiempo en el que no era posible no declararse “de izquierdas”, de igual modo que ahora, por las mismas razones, resulta imposible denominarse “de izquierdas”. Intentar reformar o refundar la Izquierda es una operación intrínsecamente imposible e inútilmente energívora, ya que -como intentaremos demostrar- su paradigma está contaminado desde el principio por esa contradicción, que estalla completamente en dos fases: la primera con el Sesentayocho, y la segunda con el 1989. Desde Marx, desde Gramsci y desde el anticapitalismo se podría recomenzar el camino en busca de la comunidad emancipada, bajo la bandera de las relaciones democráticas entre individuos igualmente libres. Pero para hacerlo será necesario, al mismo tiempo, decir adiós al paradigma de la Izquierda, animado como está -nos lo han enseñado los estudios de Boltanski y Chiapello, los de Michéa y Preve– por una adhesión irreflexiva al mito del Progreso y a la errónea creencia de que la aprobación del mundo burgués y su cultura produce por sí misma la emancipación. Habrá que «desconectar» el paradigma de Marx de la Izquierda y sus aporías internas, para volver a partir del propio Marx y aventurarse hacia un nuevo -y aún por imaginar- comunitarismo anticapitalista, más allá de las columnas de Hércules de la Derecha y la Izquierda.
Por tanto, consideramos inútil y además contraproducente obstinarse en «aullar con los lobos«, para retomar la feliz fórmula que Hegel utilizó en Frankfurt para explicar cómo no era posible reformar nada en los francforteses [8]. Vivimos en el tiempo de la “Izquierda imposible”. Si, como le gustaba afirmar a Preve, “el mensaje es inadmisible cuando el destinatario es irreformable”, es preciso ir más allá, sin preocuparse del coro virtuoso de los lobos ululantes. Estos últimos, sumidos en la agorafobia intelectual, se opondrán a toda innovación teórica y a toda posible producción teórico-práctica de nuevos paradigmas con capacidad –por retomar la explosiva hendíadis puesta en cuestión por Marx– de criticar teoréticamente y cambiar prácticamente el orden de las cosas.
La Neoizquierda glamour, de hecho, parece definitivamente atrincherada en su propio paradigma. Y, a merced de su agorafobia intelectual permanente, no está dispuesta a exponerse a un diálogo sobre temas y problemas relativos a ella y a su propia visión: su indisponibilidad para una discusión racional y problematizadora hace que cualquiera que se atreva a criticarla sea, por eso mismo, condenado al ostracismo como un enemigo a expulsar y como un infiltrado fascista que -nuevo hereje- intenta penetrar en la ciudadela «pura» para corromperla.
Incluso en esto la New left desempeña una función apologética no despreciable respecto a la globocracia neoliberal: más específicamente, una función apotropaica.
De hecho, a remolque de su pasado, la Izquierda sigue presentándose traicioneramente como el bando de la emancipación, justo ahora cuando sólo defiende las razones del bloque oligárquico neoliberal: y por esta vía, con su pretensión de estar monopolísticamente del lado de la la defensa de los dominados (que en realidad contribuye diariamente a desemancipar), contribuye a deslegitimar cualquier intento de criticar y superar el capitalismo, tildándolo inmediatamente como «no de izquierdas» y, por tanto, reaccionario por definición.
En resumen, la paradoja reside en el hecho de que si la Derecha encarna plenamente el paradigma de quienes, de diversas maneras, se sienten cómodos con el status quo, la New left pretende representar en exclusiva toda posible instancia crítica, en el acto mismo con el que –no menos que la Derecha– es orgánica al orden de los mercados. Y con ello garantiza de la mejor forma posible su función de gatekeeping.
[1] William Shakespeare. “Sonetos”. Ed. Acantilado, 2013
[2] Karl Marx.” Futuros resultados de la dominación británica en la India”, 1853 http://www.marxist,org/espanol/m-e/1850s/1853-india.htm
[3] George Orwell. “1984”. Ed. Signet Classic, 1961
[4] Pierre Dardot y Christian Laval. “La nueva razón del mundo. Ensayo sobre la sociedad neoliberal”. Ed. Gedisa, 2015
[5] Domenico Losurdo. “La izquierda ausente. Crisis, sociedad del espectáculo, guerra”. Ediciones de Intervención Cultural, 2015
[6] Costanzo Preve. “Destra e Sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali”. Ed. Petite Plaisance, 2021
[7] Benedetto Croce. “Perché non possiamo non dirci <cristiani>”. Ed. Laterza, 1959
[8] Georg Wilhelm Friedrich Hegel. ”Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio”. Ed. Laterza, 1963
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jesusespino · 5 months
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El ‘cliffhanger’ de Pedro Sánchez
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La excesiva carta del presidente del Gobierno completa la asimilación del discurso de Podemos por parte del PSOE y trata a todos como espectadores enfurecidos
Unos meses antes de las elecciones municipales y autonómicas del 28 de mayo, las encuestas mostraban que el principal partido de España era “el antisanchismo” (sic), como explicaban expertos en demoscopia –no necesariamente antisanchistas– al analizar sus números con ojos limpios. Aquellos comicios tuvieron un resultado demoledor para el PSOE, cuyo poder territorial se contrajo hasta mínimos históricos. El presidente Sánchez, en su enésimo movimiento táctico, adelantó desesperadamente las elecciones generales al 23 de julio para detener la hemorragia. Pese a ganar Feijóo, el torniquete funcionó. Aunque salvar al paciente requirió un amargo tratamiento coagulante: tragarse el venenoso sapo de la amnistía, validar el relato del independentismo supremacista, hacer lo contrario de lo que dijo –una vez más– y tensionar la conversación pública hasta el tope.
Para lograr y retener el poder ya es más importante no generar rechazo que cosechar adhesión –véase el caso Juanma Moreno en Andalucía–. Por eso, Sánchez vio una oportunidad en las negociaciones para formar los gobiernos autonómicos: había que imponer, en ese periodo, otro rechazo capaz de disipar el rechazo previo; había que agitar el miedo a todo lo que no fuera la izquierda y meterlo en el saco de Vox; había que levantar el “muro” al que luego aludió en el Congreso. Porque, en la lógica de Sánchez, es legítimo gobernar con la ultraizquierda e ilegítimo todo lo demás; cabe hablar, conteniendo la risa, de “mayoría progresista” incluyendo en la suma los escaños del PNV ¡y Junts!; y procede acusar a los demás de trumpistas mientras se usan con desparpajo las más toscas técnicas populistas –el eterno doble rasero–.
La proclamación del falso dilema democracia-fascismo devino en la definición de la fachosfera: si no estás conmigo, eres un fascista y aquí se termina el debate. Todo lo que no fuera Sánchez se situaba en terreno antidemocrático, un marco burdo apuntalado por el persistente eco de los opinadores sincronizados. Y así fue como el PSOE aceleró la asimilación del discurso de Podemos, un proceso que se completa con la carta de Sánchez. No olvidemos que, hace casi seis años, Pablo Iglesias e Irene Montero enviaron una misiva a su militancia a través de las redes sociales y convocaron una consulta sobre su célebre chalé. Con idéntico procedimiento, Iglesias y Montero buscaban entonces lo mismo que Sánchez pretende ahora: medir visceralmente el apoyo popular, hacer política con las tripas, enardecer.
El cliffhanger de Sánchez –consistente en subordinar un país a su estado de ánimo– no parece una posición responsable, seria ni madura por parte de alguien que ocupa nada menos que la Presidencia del Gobierno. Porque la política no es una serie de televisión y trasladarla a la dramatización permanente es ficcionar la realidad, ofrecer un sucedáneo en lugar del producto que la sociedad necesita.
La carta es excesiva y victimista porque lo publicado en El Confidencial resulta relevante y merece ser investigado, lo denuncie quien lo denuncie. Es agria, simple y polarizadora. Lo es intencionadamente, con un objetivo evidente. El líder del PSOE ha entendido como pocos el nuevo paradigma de la comunicación. Sabe que ahora, en la era de las pantallas personales, se demanda más entretenimiento que información. Y así nos tiene, entretenidos, especulando sobre su anunciada comparecencia de mañana, esperando el inminente estreno de la siguiente temporada mientras comentamos el trepidante final del capítulo anterior en calidad de espectadores enfurecidos –concepto de Manuel Arias Maldonado, extraído de La democracia sentimental–. Enfurecidos todos, sea en el rechazo o en la adhesión, lo cual es un tristísimo (de)mérito de Sánchez. Cuando se marche, sea en las próximas horas o más adelante, dejará España enfrentada como nunca desde la Transición. Menudo legado.
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armatofu · 11 months
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1.-Okupas, anarquistas, antifascistas, y racismo.
2.-Antifascismo.
3.-Se busca fascismo con sus fascistas..
4.-El racismo antecede al fascismo, prefigurándolo.
5.-El racismo de los antirracistas. España es singularmente racista.
6.-El vergonzante antifascismo en España.
7.-Ecos resuenan desde Ferraz: «¡No pasarán!».
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1. Okupas, anarquistas, antifascistas, y racismo.
En las semanas anteriores a las últimas elecciones municipales y algunas autonómicas, saltó a los medios las protestas de los vecinos de un barrio de Barcelona por el medio ambiente creado en los alrededores por las actuaciones de los okupas de un conjunto de edificios. En general, los informativos narraban que los vecinos habían sido exaltados por partidos políticos de la derecha españolista y por la empresa Desokupa, muy sobreactivada publicísticamente ante los hechos, y que siempre se la ha señalado organizada por mentalidades neonazis.
Los medios más a la derecha y ajenos al régimen nacionalista señalaban el tiempo que llevaban los vecinos sin que sus demandas tuvieran eco alguno en las instituciones ni en los medios; a veces también indicaban que estos okupas eran de ideología anarquista, y acostumbrados a los métodos violentos. Dentro del mismo periodo, en Valencia, en el campo de fútbol de Mestalla, en un partido con el Real Madrid, una continuada oleada de gritos racistas de la muchedumbre provocó la reacción del aludido, el jugador brasileño Vinicius, contra la grada. Este suceso tuvo una reacción de signo contrario a la anterior, y aquí fueron especialmente los grandes informativos televisivos altavoces del gobierno los elevadores del volumen ante el racismo en la sociedad española planteado como cuestión.
Después, en las elecciones municipales, en Barcelona, no hubo cambio significativo en cuanto al predominio de independentistas y soberanistas. En cambio, en las autonómicas valencianas PP y Vox desbancaron al gobierno autonómico.
En los sucesos de Barcelona, la policía autonómica tomó posiciones en el lugar, ante las manifestaciones opuestas anunciadas. El apoyo a los okupas lo formaba un conglomerado de okupas, anarquistas, “colectivos radicales” y el estandarte del antifascismo anudaba la movilización.
No vale la pena dedicar atención a los okupas originarios (los emuladores de los antiguos squatters), el movimiento ha sido ampliamente desbordado por la realidad, y sólo representa una burbuja ensimismada, ajena y estéril sobre la holgazanería de la política institucional para el eterno problema de la vivienda en España. Como quiera que es mucho el tiempo que el ‘antifascismo’ aparece en manifestaciones y actos de boicot, sin que nadie plantee de qué es continente y a quien representa, se hace necesario abordarlo, y hay que empezar por revivir su historia.
2. Antifascismo.
La doctrina comunista que quedaría establecida es que el fascismo es una herramienta de último recurso de la burguesía ante la amenaza real de derrumbamiento del capitalismo por la acción revolucionaria o transformadora del obrerismo. Entonces: (a) burguesía y capitalismo son matrices sustanciales del fascismo; (a1) por tanto, el verdadero antifascista es anticapitalista, (a2) lo que permite una extensión básica de  la definición de fascista a todo lo que no sea anticapitalista. De acuerdo con esa definición base, el antifascismo implica una doctrina decisoria en la identificación de cualquier fascismo objetivo, pues se supone, en consecuencia, que hay quienes no se declaran como fascistas, y sin embargo lo son (incluso combatiendo al fascismo).
Por la teoría estalinista (y cuyo origen algunos remontan a la teoría leninista del socialpatriotismo)(1), adoptada en 1929 por la Internacional comunista y hasta 1935, entran en la definición los partidos socialistas y socialdemócratas alemanes (socialfascismo). Aunque Togliatti (1934) manifestaba que no era concebible abatir el régimen fascista para substituirlo por una democracia o una socialdemocracia de tipo burgués, sin embargo, habrá la revocación de la acusación sobre los socialistas, y se adoptará la política de la ‘unidad antifascista’ proclamada por Stalin en la III Internacional a partir de 1935, la unidad de acción con socialistas y demás partidos antifascistas (facciones burguesas salvables de su caída en el fascismo), que tomó el nombre de política de ‘frentes populares’.
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iphisesque · 1 year
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umberto eco non mentiva quel fascismo davvero è eterno
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