Tumgik
#l’Iliade
boselliart · 1 month
Text
Tumblr media
36 notes · View notes
deathshallbenomore · 2 years
Text
Tumblr media
neeext non ho assolutamente idea di cosa aspettarmi, time to fuck around and find out
8 notes · View notes
dijeh · 5 months
Text
Tumblr media
Simone Weil, L’Iliade ou le poème de la force 
0 notes
falcemartello · 3 months
Text
Tumblr media
Vi ricordate questi versi: «Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta?» Ecco, a quanto pare Omero è il capostipite della «mascolinità tossica» e un esempio di «patriarcato» a detta dei progressisti della cancel culture e va bandito dalle scuole.
«Sono molto orgogliosa di dire che quest’anno abbiamo rimosso l’Iliade e l’Odissea dai nostri programmi», dichiara Heather Levine, che insegna alla Lawrence High School. Negli Stati Uniti non hanno gradito che gli eroi omerici siano guerrieri «forti e dai capelli biondi», e hanno pensato bene di impedire ai ragazzi di leggerlo in classe.
Ma di cosa parla l’Iliade? Dell’onore, di gelosia, amicizia, tradimenti, di uomini assetati di potere che vorrebbero dominare il mondo e di innocenti che muoiono in modo tragico a causa di una guerra voluta dai potenti. Vi suona familiare? Ma soprattutto parla dell’amore: dell’amore verso la propria patria, l’amore fraterno e dell’amore di un padre nei confronti del figlio.
Vi ricordate di quando il vecchio Priamo supplica Achille di restituirgli il corpo di Ettore? Io mi ricordo che quando lo lessi per la prima volta mi commossi del dolore di questo padre che avanza nella notte vestito come un mendicante e si mette in ginocchio davanti all’assassinio di suo figlio. E vi ricordate la scena in cui Ettore dice addio alla moglie e al figlioletto? Ecco, in quei momento la guerra non è più gloriosa, non è più eroica, ed Omero ve lo mostra!
Secondo voi è tossico tutto questo? E sì l’Iliade parla di uno scontro tra due civiltà, esattamente come le guerre di oggi, ed esattamente come le guerre di oggi nasce da un pretesto, il tradimento di Elena nei confronti del marito Menelao che un uomo assetato di potere, Agamennone, fratello di Menelao, sfrutta per dare inizio alla guerra. Per distruggere i suoi nemici. E alla gente «racconta» la favoletta del tradimento di Elena.
Perché forse il vero motivo per bandire i classici non è perché sono politicamente scorretti e non stanno al passo con i tempi ma perché lo sono fin troppo! Non sia mai che i ragazzi leggendoli, incomincino a fare una cosa pericolosissima per tutti i governi, i politici e gli Agamennone di oggi: pensare!
Guendalina Middei
78 notes · View notes
spettriedemoni · 6 months
Text
Riflessioni da WC numero… boh
Sono ancora in abiti leggeri pure per dormire. Fa caldo anche a quest’ora 24º C. Spero in un po’ di pioggia ma temo invece ne arriverà presto parecchia. Spero non un’alluvione. Il vento è forte, lo senti passare sotto gli stipiti e se apro una finestra diventa una specie di lamento. Come se ci fossero dei fantasmi che vengono a trovarmi e magari a raccontarmi la loro storia. Potrebbe essere materiale per un racconto, chissà. Tutto sommato il cielo grigio mi piace e non so perché.
Ho un forte torcicollo che mi ricorda la mia vulnerabilità. Meglio questo che qualcosa di peggio, suppongo.
Pensi agli occhi grandi e scuri di Tigrotto. Da ieri ho questa immagine fissa in testa quando ha voluto abbracciarmi prima di salutarci.
Da qualche giorno se devo farlo addormentare gli racconto l’Iliade, l’Odissea e l’Eneide o meglio ciò che mi ricordo. Gli piacciono e c’è il vantaggio di non doverglieli raccontare con la luce accesa leggendo un libro: credo lo aiuti a prendere sonno prima.
«Voglio stare ancora con papà» mi ha detto. Vorrei fosse possibile sempre.
Se mi chiedessero cosa farei se vincessi al Superenalotto risponderei sicuro che vorrei smettere di lavorare per poter stare con mio figlio più tempo possibile.
C’è qualcosa di più importante?
28 notes · View notes
jules-and-company · 11 days
Text
j’avais oublié de dire que j’avais récité un poème de nerval en lettres ET comme y’avait pas grand-monde qui avait préparé un truc bah j’ai récité mon passage préféré de l’iliade. b. a eut l’air incommensurable-ment fier
6 notes · View notes
curiositasmundi · 6 months
Text
“Prima che mi caccino, mi dimetto io della direzione del Teatro Comunale di Ferrara”. Moni Ovadia anticipa l’umiliazione della cacciata prossima ventura da parte del cda del teatro, dopo il polverone alzato sulla questione Hamas-Israele. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, l’artista di origine ebraica ha rassegnato le proprie dimissioni, chieste peraltro da giorni e a gran voce da tutta la maggioranza di centro-destra che governa Ferrara.
Non più di una decina di giorni fa Ovadia aveva dichiarato all’Adnkronos che “la morte anche di una sola persona, sia essa israeliana o palestinese, è sempre una tragedia e va condannata con tutte le forze”; dopodiché aveva criticato la politica del governo Netanyahu sostenendo che “Israele lascia marcire le cose, fingendo che il problema palestinese non esiste, per cancellare la stessa idea che i palestinesi esistano; e la comunità internazionale è complice: questi sono i risultati. Questa è la conseguenza di una politica di totale cecità, di occupazione e colonizzazione”. Ovadia aveva concluso sottolineando che la “Striscia di Gaza non è un territorio libero, è una gabbia, una scatola di sardine: è vero che dentro non ci sono gli israeliani, ma loro controllano comunque i confini marittimi e aerei, l’accesso delle merci, l’energia, l’acqua. Non a caso l’Onu aveva già dichiarato Gaza zona ‘non abitabile’. La situazione è vessatoria, dirò di più: è infernale. Come ci insegna persino l’Iliade, l’assedio è una forma di guerra… e allora? A Gaza non sono forse assediati da Israele? Poi, hanno deliberatamente lasciato il governo di Hamas perché per gli israeliani la rottura inter-palestinese fra Hamas e l’Olp-Al Fatah è stata fondamentale”.
Insomma, un punto di vista non allineato alla vulgata comune nell’improvvisa fiammata di guerra tra Israele e Hamas. “Ho detto che la responsabilità di tutto quello che è accaduto ricade sul governo israeliano. Non ho detto “Viva Hamas”. Ho solo aggiunto che hanno lasciato marcire la situazione. E ho scritto cose molto, molto più forti in questo senso in passato”, ha quindi puntualizzato Ovadia al Corriere. “Fino a ieri ero intenzionato a non dimettermi ma a farmi cacciare, piuttosto. Dopodiché sarei andato in tribunale. Ma, ripeto, non voglio danneggiare il teatro. Non solo, questa situazione si sarebbe ripresentata continuamente, perché questo è il nuovo fascismo: stigmatizzare l’opinione delle persone criminalizzandole”.
[...]
13 notes · View notes
iranondeaira · 8 months
Text
Tumblr media
« [...] dans l’Iliade, Homère a donné à tout le monde antique une organisation de la vie à la fois spirituelle et terrestre, avec la même force que le Christ l’a fait pour le nouveau. »
- Fiodor Dostoïevski, Lettre à Mikhail Dostoïevski, trad. Anne Coldefy-Faucard, 1er janvier 1840.
12 notes · View notes
vicnormansstuff · 7 months
Text
"Notre littérature, la littérature occidentale, la culture qui nourrit jusqu’à nos fibres les plus intimes, cette littérature débute par la colère d’Achille, par la rage.
La rage comme pulsion fondamentale, comme moteur de l’histoire.
Tout part de la colère d’Achille, le guerrier dont la célébrité brûle les siècles, et tout retourne à la rage…
Après l’Iliade vient l’Odyssée et, à la fin de l’Odyssée, à l’issue de sa longue errance sur la mer Égée, Ulysse retrouve sa terre, le sang de son sang. Puis, bouleversé de rage, il massacre les Prétendants, ceux qui courtisent Pénélope. Ils tombent l’un après l’autre.
Qu’éprouve Ulysse, sinon de la rage ? Une rage parfaite, couvée pendant des années, que recrachent les flèches : un venin et un remède. Achille et Ulysse, les deux héros européens : deux chiens enragés.
C’est la rage qui nous unit. La rage d’Achille et d’Ulysse."
Alberto Garlini, Les Noirs et les Rouges
Tumblr media
11 notes · View notes
fridagentileschi · 10 months
Text
Tumblr media
IL DIRITTO DI VIVERE: TERRY SCHIAVO
Le parole di Oriana Fallaci in risposta a Margherita Hack
Ecco cosa disse in una memorabile intervista la scrittrice sul caso della donna in stato vegetativo lasciata morire di fame e sete dal marito e dai giudici , dopo due settimane di agonia, Terri Schiavo, o meglio «Terri Schindler» come si ostinava a chiamarla Oriana Fallaci che, anche con l’utilizzo del cognome da nubile, voleva segnalare la triste storia di questa donna abbandonata e fatta uccidere dal marito.
''Di stelle e di galassie la signora Hack se ne intende parecchio, sì, ma di medicina assai meno. E di umanità ancor meno, vedo, sebbene sia abbastanza vecchia e di solito la vecchiaia renda più umani. Perché non è vero che la vita sia intelligenza e basta. Gli animali non scrivono l’Iliade, l’Odissea, il Paradiso perduto, l’Eroica, L’Infinito e L’universo dentro un guscio di noce. Non dipingono la Cappella Sistina, non dissertano sui Buchi Neri, non vanno sulla Luna e su Marte. E gli alberi, le piante, insomma i vegetali, lo stesso. Loro non riescono memmeno a camminare, spostarsi. Eppure sono vivi. E se non esistessero, la vita su questo pianeta non esisterebbe. Del resto chi ci assicura che gli alberi non siano intelligenti, non pensino? Il mio sospetto è che, per contribuire alla nostra esistenza, un pensiero lo debbano avere. Ma ammettiamo pure che non pensino, che come loro Terri non pensasse, reagisse agli stimoli e basta: dove li mettiamo i sentimenti e le sensazioni a cui la signora Hack sembra non dare importanza? La vita è fatta anche di sentimenti, è fatta anche di sensazioni. E chi ha detto che un malato inguaribile,sia un “cittadino inutile”, non sia degno di vivere attraverso i sentimenti e le sensazioni. La vita si misura sull’utilità o sull’essenza? Negli anni settanta Pearl Buck, la grande romanziera americana autrice de La buona terra, la vincitrice del Nobel quando il Nobel era una cosa seria, mi raccontò che in seguito a una lesione al cervello sua figlia viveva come un vegetale. Era bellissima, apparentemente sanissima, ma non aveva alcuna forma di intelligenza. Non serviva a nulla e a nessuno, disturbava il prossimo e basta. Però capiva la musica meglio di lei. La amava disperatamente, e quando le portavi un disco di Mozart o di Brahms o di Chopin anche lei si ravvivava tutta. Sorrideva, rideva, parlava fino a farti sperare che un giorno guarisse. Ciò era sufficiente a conferirle la dignità di vivere o no? Secondo Pearl Buck, lo era. Secondo me, lo stesso. Questo senza tener conto del fatto che se il metro di misura fosse l’utilità, la maggioranza degli esseri umani dovrebbe essere eliminata. La nostra società divampa, scoppia, di gente inutile. Di fannulloni, di scansafatiche, di buoni a nulla, di mangia a ufo. E se ho torto, se la signora Hack ha ragione, se la vita è intelligenza e basta, se in mancanza di intelligenza i sentimenti e le sensazioni non bastano a renderci degni di viverla, che ne facciamo di ciò che ha nome pietà? Che ne facciamo di ciò che ha nome speranza? Oltre che di sentimenti e di sensazioni, la vita è fatta di pietà e di speranza. E un essere umano non può negare la pietà, non può negare la speranza, perdio. Negare la pietà e la speranza, significa educare alla Morte, al Culto della Morte.''
In memoria di «Terri Schindler» Z'L
12 notes · View notes
parmenida · 16 days
Text
Vi ricordate questi versi: «Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta?» Ecco, a quanto pare Omero è il capostipite della «mascolinità tossica» e un esempio di «patriarcato» a detta dei progressisti della cancel culture e va bandito dalle scuole.
«Sono molto orgogliosa di dire che quest’anno abbiamo rimosso l’Iliade e l’Odissea dai nostri programmi», dichiara Heather Levine, che insegna alla Lawrence High School.
Negli Stati Uniti non hanno gradito che gli eroi omerici siano guerrieri «forti e dai capelli biondi», e hanno pensato bene di impedire ai ragazzi di leggerlo in classe.
Ma di cosa parla l’Iliade? Dell’onore, di gelosia, amicizia, tradimenti, di uomini assetati di potere che vorrebbero dominare il mondo e di innocenti che muoiono in modo tragico a causa di una guerra voluta dai potenti. Vi suona familiare? Ma soprattutto parla dell’amore: dell’amore verso la propria patria, l’amore fraterno e dell’amore di un padre nei confronti del figlio.
Vi ricordate di quando il vecchio Priamo supplica Achille di restituirgli il corpo di Ettore? Io mi ricordo che quando lo lessi per la prima volta mi commossi del dolore di questo padre che avanza nella notte vestito come un mendicante e si mette in ginocchio davanti all’assassinio di suo figlio. E vi ricordate la scena in cui Ettore dice addio alla moglie e al figlioletto? Ecco, in quel momento la guerra non è più gloriosa, non è più eroica, ed Omero ve lo mostra!
Secondo voi è tossico tutto questo? E sì l’Iliade parla di uno scontro tra due civiltà, esattamente come le guerre di oggi, ed esattamente come le guerre di oggi nasce da un pretesto, il tradimento di Elena nei confronti del marito Menelao che un uomo assetato di potere, Agamennone, fratello di Menelao, sfrutta per dare inizio alla guerra. Per distruggere i suoi nemici. E alla gente «racconta» la favoletta del tradimento di Elena.
Perché forse il vero motivo per bandire i classici non è perché sono politicamente scorretti e non stanno al passo con i tempi ma perché lo sono fin troppo! Non sia mai che i ragazzi leggendoli, incomincino a fare una cosa pericolosissima per tutti i governi, i politici e gli Agamennone di oggi: pensare!
🤔
Tumblr media
2 notes · View notes
aforcedelire · 2 months
Text
Le Chant d’Achille, Madeline Miller
Coup de cœur 🖤
Tumblr media
« Je le reconnaîtrais rien qu’au toucher, ou à son odeur, je le reconnaîtrais si j’étais aveugle, aux seuls bruits de sa respiration et de ses pas martelant le sol. Je le reconnaîtrais dans la mort, à la fin du monde. »
J’avais entendu parler un peu partout de ce roman, et même s’il m’attirait, j’avais un peu peur : j’ai lu Circé il y a quelques années, et même si c’était bien, ce n’était pas non plus fantastique. Et puis bon, depuis plusieurs jours Le Chant d’Achille me faisait vraiment vraiment envie, alors j’ai fini par craquer. Dans cette réécriture de l’Iliade, nous suivons Patrocle, compagnon d’Achille. Le premier est aussi chétif et maladroit que l’autre est solaire et puissant, promis à la gloire des immortels. Suite à l’exil forcé de Patrocle, les deux garçons grandissent ensemble, tombant amoureux et tissant des liens éternels. Mais très vite, trop vite, le roi Agamemnon appelle les hommes de Grèce à le rejoindre au siège de Troie, et les amants se joignent à la guerre…
J’ai ADORÉ. D’abord, j’ai trouvé l’écriture de Madeline Miller très fluide, et je suis rentrée dans cette histoire beaucoup plus facilement que dans celle de Circé. En plus, ça m’a rappelé mes cours de Littérature latine à la fac, et c’était vraiment cool de refaire ce voyage. Dans sa préface, l’autrice nous explique que dans les textes antiques, Achille et Patrocle sont décrits comme des compagnons, comme l’idéal romantique, et que les traductions modernes et homophobes de l’Iliade ont complètement censuré leur relation, et j’ai trouvé super intéressant qu’elle remette leur relation au grand jour. Tout ce roman est une magnifique lettre d’amour, le chant de Patrocle pour honorer Achille, et le dernier chapitre donne envie de relire le tout une deuxième fois d’un autre œil ! Ça m’a bouleversée, et j’ai adoré.
04/03/2024 - 08/03/2024
2 notes · View notes
cinquecolonnemagazine · 2 months
Text
Volevo scrivere Epico
L’Epico è il genere che preferisco: è un incontro e uno scontro di personalità titaniche, di grandi imprese, di avventure strepitose, di un senso cupo e fatale del destino, dell ineluttabilità’ della vendetta e della morte. Delle guerre di qualsiasi tipo. Di sentimenti estremi. Amavo l’Iliade, l’Eneide, Il Conte di Montecristo, I Miserabili, Guerra e Pace, Faulkner, Steinbeck, amo i grandi americani di praterie e conflitti, i russi delle distese steppose e siberiane. Un raccontare arioso e drammatico che arriva e coinvolge il mondo, perché dell’anima del mondo parla. Senonché il mondo è sempre stato degli uomini: sono loro che cacciavano, difendevano il territorio, attaccavano il nemico, marciavano verso la vendetta, avevano odi e amori al limite del crimine, sostenevano le sorti del mondo, comandavano fuori e dentro casa. Si chiama patriarcato. Le donne stavano a casa, a esercitare le virtù dell’accudimento e della pazienza, a curare la prole, a cucinare, ricamare, curare l’habitat interno. a custodire la vita. Nel ristretto ambiente familiare, a contatto con altre donne e marginali al mondo straordinario degli uomini, non potevano che concentrarsi sulle emozioni e sui sentimenti, sulle dinamiche dei rapporti di condivisione casalinga, sull’attenzione alle piccole cose quotidiane mentre gli uomini costruivano l’eterno. Nei grandi romanzi epici ci sono grandi figure di donne quasi sempre in veste di mogli, madri, amanti, curatrici e consolatrici di feriti e moribondi. Quando si ribellano esplodono verso il loro nemico diretto che è la famiglia, come Medea, Clitennestra, Antigone. Il mondo separato in cui si sono sempre mosse donne e uomini non poteva non produrre, tranne che in pochi casi spesso maturati in ambienti evoluti, una letteratura separata che ancora persiste. È un prodotto culturale più che naturale: i libri degli uomini grondano muscoli di forza e coraggio, quelli delle donne di sentimenti intimi e introspettivi. Le donne raccontano il piccolo, i luoghi, l’ambiente, i sentimenti nel particolare, che gli uomini neppure vedono. Anche in tempi di rivendicazioni femministe? Anche. Perché nonostante che la parità tra uomo e donna sia assicurata, dove è assicurata, sulla carta, persiste una cultura del potere maschile che pregna le società e condiziona le donne stesse, secondo a quella “violenza simbolica” di cui parla il sociologo Bourdieu. Ci vorranno anni per scalzarla. Attenti uomini però: navigate mari e terre, vi attestate l’epica del mondo, ma non riuscite ancora a conoscere il femminile, che liquidate come cose da donne. Perché non entrate nei loro mondi neppure attraverso la lettura. Noi invece che i libri degli uomini li leggiamo, e ci riflettiamo, gli uomini li conosciamo più di quanto si conoscano loro stessi. E l’incontro e non il conflitto tra i sessi passerà proprio da noi, quando vi deciderete ad ascoltarci, a leggerci, a capirci. Foto generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine Read the full article
2 notes · View notes
Text
Qu’est-ce que l’armée depuis l’Antiquité ? C’est une institution quasi religieuse, avec son histoire propre, ses héros, ses règles et ses rites. Une institution très ancienne, plus ancienne même que l’Église, née d’une nécessité aussi vieille que l’humanité, et qui n’est pas près de cesser. Chez les Européens, elle est née d’un esprit qui leur est spécifique et qui, à la différence par exemple de la tradition chinoise, fait de la guerre une valeur en soi. Autrement dit, elle est née d’une religion civique surgie de la guerre, dont l’essence tient en un mot, l’admiration pour le courage devant la mort.
Cette religion peut se définir comme celle de la cité au sens grec ou romain du mot. En langage plus moderne, une religion de la patrie, grande ou petite. Hector le disait déjà à sa façon voici trente siècle au XIIème chant de l’Iliade, pour écarter un présage funeste : « Il n’est qu’un bon présage, c’est de combattre pour sa patrie » (XII, 243). Courage et patrie sont liés. Lors du combat final de la guerre de Troie, se sentant acculé et condamné, le même Hector s’arrache au désespoir par un cri : « Eh bien ! non, je n’entends pas mourir sans lutte ni sans gloire, ni sans quelque haut fait dont le récit parvienne aux hommes à venir » (XXII, 304-305). Ce cri de fierté tragique, on le trouve à toutes les époques d’une histoire qui magnifie le héros malheureux, grandi par une défaite épique, les Thermopyles, la Chanson de Roland, Camerone ou Dien Bien Phu.
Dominique Venner
4 notes · View notes
rideretremando · 9 months
Text
"IL CONTRARIO DEL PRESTIGIO. LA FORZA, L'AMORE E SIMONE WEIL (2017)
“Non resta / che far torto, o patirlo”, diceva l’Adelchi morente di Manzoni. Aggiungendo subito, a chiosa, che “Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto”. Il “mondo” rifiutato da Cristo è interamente sottoposto alle leggi della sopraffazione. Niente e nessuno ne è immune, e chi si illude di esserlo sta tirando una coperta ideologica sulla nuda realtà dei fatti. Il massimo che possiamo fare è sospendere a tratti il dominio di questa fisica bruta, trovare un geometrico equilibrio tra le forze e tenere ferme le tensioni contrarie in un’ascesi contemplativa. Non si può cancellare la ferocia che ci governa, solo esercitarsi ad arrestarne provvisoriamente l’azione. Ma la sua natura è così travolgente che anche per fare questo occorre un miracolo. Bisogna venire investiti dalla grazia.
La forza, la grazia: sono i due poli intorno a cui ruotano alcuni dei saggi più importanti di Simone Weil, come “L’Iliade o il poema della forza”, “Non ricominciamo la guerra di Troia” e “L’ispirazione occitana”. Succede spesso, negli ultimi anni, che editori più o meno piccoli ripropongano queste pagine scarne e perentorie composte subito prima e subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; e non penso sia un caso. Da quando è sfumata la speranza diffusa in una palingenesi sociale (e non importa qui discutere la sua fondatezza, negata dalla Weil con argomenti decisivi), ci ritroviamo davanti a un puro potere che può mostrarsi senza pudori, ma al tempo stesso fingere che il suo ordine coincida con la giustizia. Siccome tutti, nessuno escluso, siamo condizionati dalle credenze che la vita comune infonde giorno per giorno in ognuno, questa pedagogia priva di alternative ci persuade col suo ghigno che al di là dell’esistente restano appena velleità, fantasmi, chiacchiere. Così, come sappiamo da mezzo secolo, meno sembra possibile una rivoluzione o un mutamento radicale, più la Storia si traveste da immodificabile Natura. E allora, chi alle leve del potere è più vicino si convince che se è in quella posizione non lo deve anche a un intreccio di combinazioni imperscrutabile, ma soltanto ad alcune caratteristiche eccezionali che lo distinguono, appunto per natura, da chi si trova in basso ed è schiacciato dalla sventura; la quale a sua volta, per usare le parole weiliane, apparirà non il frutto di una serie di casi e di fatalità mai del tutto riconducibili a progetti o a doti umane, bensì qualcosa di molto simile a una “vocazione innata”. In una società che, non importa quanto fantasiosamente, ritiene possibile un altro mondo storico, chi in quello presente non riesce a integrarsi può essere considerato come un’avanguardia, una prefigurazione monca del futuro; in una società dove questa fiducia evapora è solo uno sfigato – termine in cui, significativamente, la sfortuna diventa una qualità negativa del soggetto che la subisce.
Vivere sottoposti al regno della forza implica prima di tutto rimuovere verità del genere. Se infatti questo regno è così potente, è anche perché in fasi storiche come la nostra accorrono a fornirgli giustificazioni ideologiche molte delle intelligenze migliori, più attendibili e più scrupolose; mentre a ricordare che esiste uno iato, sebbene quasi invisibile, tra le differenze di natura e le differenze imposte dal potere, rimangono o un pugno di acrobati della dialettica o una vasta platea di retori davvero velleitari, di chiacchieroni e utopisti da bar o da tastiera. Questo però, come sapevano qualche decennio fa a Francoforte, contrariamente a ciò che si crede non dice nulla sulla legittimità dell’esigenza che balena nella loro oratoria degradata, perché la sua apparenza ridicola e deforme è la veste nella quale sempre vengono imprigionate le istanze sconfitte. Quando la pressione della forza è enorme, chi in quel momento è portato in alto dalla sua onda può scegliersi l’avversario a sua immagine, e sconciarlo fino a farne un relitto kitsch o un comiziante da sagra. Ma specularmente, intanto, le intelligenze impegnate a ripeterci i loro inesauribili “se è così c’è una ragione, sveglia!”, non possono non rivelare al fondo l’ingenuità propria di tutti i cinici, che si illudono di poter calcolare e controllare ciò che non si controlla e non si calcola: cioè la realtà, che per definizione coincide con l’imprevedibile, con l’inatteso, e che prima o poi li prende in contropiede (sotto il cuscino dei perdenti si scopre spesso una copia del “Principe”, diceva Brancati).
Capire perché le cose stanno come stanno è bene, e sfuggire a questa comprensione è segno di infantilismo; ma tessere l’apologia di ciò a cui va reso solo l’onore di riconoscergli che “è ciò che è”, trasformandolo in un “è perché deve essere”, asseconda un bisogno di rassicurazione altrettanto infantile. Chi vuole far tornare i conti con uno stridulo Gott mit uns dimentica quello che, secondo la Weil, il poeta dell’“Iliade” ha espresso nel modo più puro descrivendo la guerra, la situazione per eccellenza in cui il potere si mostra nella sua aperta crudeltà: ossia il fatto che nessuna diversità essenziale separa vincitori e vinti. La forza, anche quando li rende simili a tempeste in apparenza inarrestabili, non è mai un possesso dei guerrieri, ma una corrente che passa dal campo troiano a quello acheo, e viceversa, svilendo gli uomini a “cose” – fulmini gli uni, tronchi mozzati gli altri. E quando agli eroi capita la parte del tronco, della preda, “tremano” tutti, persino il grande Ettore. Eppure basta che la forza torni a sollevarli, ed ecco che la sua droga cancella dalla loro mente questo dato elementare. Allora si sentono di nuovo invulnerabili, oltrepassano il limite della tracotanza e sono puniti dalla Nemesi – un concetto che, osserva la Weil, l’Occidente moderno non ha nemmeno più parole per esprimere.
Dunque lo sguardo omerico è supremamente equo perché non veste di ragioni ciò che non lo merita. Nel poema, l’efferatezza di chi sta vincendo una battaglia non è mai soffusa di una luce apologetica, e nel lamento disperato di chi soccombe non si vede mai il tratto distintivo di un “essere spregevole”. Come poi la tragedia attica, e come la cultura occitana (provenzale, romanica, catara) spazzata via nel tredicesimo secolo dalle crociate, l’“Iliade” ci mostra secondo la Weil una civiltà eccezionalmente consapevole del dominio della forza, e insieme indisponibile a identificare questo dominio con la giustizia. “Solo se si conosce l’imperio della forza e se si è capaci di non rispettarlo è possibile amare” ed essere giusti, conclude la pensatrice francese. Il contrario della forza è l’amore, che nei versi omerici avvolge tutto ciò che è vulnerabile e minacciato dall’annientamento. Ma accedere a questa forma di amore, come si è detto, richiede una capacità sovrumana: appunto perché il mondo umano appartiene alla forza, che quando ci innalza ci acceca, additandoci il miraggio di una realtà senza ostacoli e illudendoci di essere onnipotenti, mentre quando ci schiaccia giù a terra, in una servitù da cui sembra impossibile immaginare una liberazione, ci strappa la “vita interiore” e cancella in noi ogni sentimento.
In questi saggi la Weil si sofferma anche su un altro punto cruciale, che riguarda proprio la copertura ideologica dei rapporti di forza. Siccome il potere si posa sull’uno o sull’altro uomo con un’ampia dose di arbitrio, rendendo radicalmente diversi i destini di individui radicalmente simili, chi vuole mantenerlo senza suscitare rivolte deve saper occultare questo arbitrio e razionalizzarlo. È così che intorno alla forza, fingendosi sua causa, si diffonde l’aura illusoria del “prestigio”, che gli uomini scambiano per qualità innata mentre è l’effetto di un contesto determinato, di un provvisorio gioco di luci i cui riflessi tendono però a moltiplicarsi illimitatamente. Qui forse non è inutile ricordare la nazionalità di Simone Weil, dato che la Francia è stata nel mondo moderno il paese più socializzato, quello dove i fantasmi impalpabili ma pervasivi delle identità pubbliche sono penetrati in ogni fessura dell’esistenza. Né è certo un caso che sia stato un altro francese, pochi anni prima di lei, a eternare letterariamente questi fantasmi nella mappa più ramificata e ricca d’implicazioni che ci sia mai stata fornita. “Solo chi è incapace di scomporre, nella percezione, ciò che a prima vista sembra indivisibile, crede che la situazione faccia corpo con la persona”, ha scritto Marcel Proust, che attraverso i molti strati della sua “Recherche” avvicina all’esperienza quotidiana le essenze platoniche weiliane.
L’analisi dello snobismo, cioè, secondo il critico americano Lionel Trilling, dell’“orgoglio a disagio” di chi non è mai sicuro della propria identità, è appunto l’analisi degli equivoci creati dal “prestigio”. In un universo come quello borghese, dove non esistono più ruoli fissi e garantiti da ordini aristocratici o da fedi nel soprannaturale, questa precarietà è fisiologica; e il romanzo, col suo dinamismo, è nato per rappresentarla. Ma di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci a uno scioglimento: o sotto la loro superficie abbagliante si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure questa superficie diventa il segno di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo di un’altra certezza, seppure di segno negativo. Proust, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa, la stoffa onirica e fantastica di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata inevitabilmente a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. L’ambiguità, in questo senso, è senza fine. La magia dei nomi trasfigura di continuo la materia, e la materia fa cadere a un tratto il sipario di una convenzione, di una magia effimera. La gelosia stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Ogni gesto, ogni parola, ogni episodio racchiudono un gomitolo di equivoci che si intrecciano e si divaricano nel tempo. Volgarità e finezza, bontà e perfidia, onorabilità e impresentabilità, prosaicità e fascino esclusivo, provincialismo grottesco e talento supremo, filisteismo e regalità si scambiano ovunque le parti, e toccano tutti i principali caratteri di questo romanzo di romanzi: Saint-Loup, i Verdurin, Morel, Charlus, Swann, i Guermantes, Rachel, Odette, Bergotte, Albertine, Vinteuil, Cottard, Elstir… e ovviamente il narratore.
Col prestigio, col potere e con i ruoli di vittime e carnefici, questi personaggi cambiano la loro stessa pelle. Ma se è così, non hanno ragione i lodatori di ciò che appare, di ciò che ‘è’ in quanto s’impone? Non basta, per approvarli senza riserve, imprimere un po’ di mobilità eraclitea al loro troppo statico sistema panglossiano, al loro hegelismo mummificato e andato a male? Quale identità nuda o profonda ci resterebbe in mano da difendere, al di là delle mutevoli maschere sociali? Esiste forse là dietro un volto, un ‘noumeno’ che non sia un’astratta, umanistica petizione di principio? Difficile crederci: soprattutto oggi che siamo tutti più socializzati dei vecchi francesi, essendo social e tendendo a una assai più totalitaria indistinzione di ‘intimità’ e ‘pubblicità’. In quel vorticoso primo Novecento, tra Proust e Weil, un altro francese ha messo in bocca a un suo personaggio teatrale una risposta disinvoltamente contraddittoria. “Non state confondendo la gloria e l’amore? Amereste Giocasta se non regnasse?”, chiede Tiresia a Edipo nella “Macchina infernale” di Cocteau. “Domanda stupida e ripetuta mille volte”, ribatte il marito e figlio della regina di Tebe. “Giocasta mi amerebbe se fossi vecchio, brutto, se non sbucassi dall’ignoto? Credete che non ci si possa buscare il mal d’amore toccando l’oro e la porpora?”. Ma poi aggiunge che “i privilegi di cui parlate non sono la sostanza stessa di Giocasta e aggrovigliati così strettamente ai suoi organi da non poterli disunire”. La scena è interessante anche perché qui, come altrimenti in Proust, la politica, cioè il campo per eccellenza del potere, fa tutt’uno con l’amore.
Ma non è, s’intende, l’amore soprannaturale che per la Weil sta sull’altro piatto della bilancia rispetto alla forza. Eppure anche di questo amore è fatto l’amore umano. Chi, che cosa amiamo dunque davvero? È il nostro amore separabile dal prestigio? All’alba della modernità, in una Russia infranciosata, il romantico e ironico Aleksandr Puškin ha lasciato nell’“Onegin” una immagine memorabile della divaricazione tra società e verità su cui è fiorita la nostra cultura. “In quel tempo, in quel deserto, / Lontano dal pettegolezzo, / Io non vi piacqui: questo è certo… / E dunque mi inseguite adesso? / Che cosa a voi mi pone in vista? / Non forse il fatto ch’io apparisca / Per il mio rango in società; / L’esser di ricca nobiltà; / O il marito che in guerra è stato / Ferito e alla corte è in favore? / Non forse che il mio disonore / Da tutti sarebbe osservato, / A voi nel bel mondo recando / Un lusinghevole vanto?”, domanda malinconicamente Tatiana a Eugenio verso la fine del poema, dopo che lui l’ha prima tenuta affettuosamente a distanza, moderando il suo dongiovannismo, quando era una semplice ragazza di campagna, e poi l’ha ardentemente corteggiata quando l’ha vista muoversi da dama impeccabile tra i ricevimenti pietroburghesi.
Non so chi potrebbe rispondere alla domanda di Tatiana. Quanto è grande, specie in un mondo più che mai socializzato, la dose di desiderio mimetico che ci entra in circolo? Quanto influisce sui nostri atti il prestigio, questo vestito imperiale della forza? Se esistessero confini visibili o palpabili tra un’‘essenza’ e un’‘apparenza’, combattere sotto l’insegna di una delle due riuscirebbe relativamente facile. Sarebbe lecito pensare a una lotta di princìpi, confidare in un mutamento progressivo che a poco a poco conduca a esiliare dal mondo la forza magnetica e menzognera del prestigio contrabbandato per cosa salda. Invece il mondo è strutturalmente suo. Perciò una tale etica è ritenuta insufficiente dalla platonica Simone Weil, e contemporaneamente anche dalla sensuale Etty Hillesum. Solo il riconoscimento di questa realtà, la sua accettazione senza risarcimenti e la contemplazione della forza possono sospenderla, tenere in miracoloso equilibrio la bilancia.
E sì: noi siamo anche i nostri privilegi, gli ori e le porpore di cui non potremmo mai dire, senza apparire tracotanti di fronte al fato, di esserceli guadagnati da soli. Eppure, c’è chi alle origini della nostra civiltà ci ha mostrato uomini spogliati di tutto ciò: uomini ridotti a ‘cose’ passive, resi schiavi o annientati da uomini ridotti a ‘cose’ ciecamente attive come catastrofi naturali. Chi amerà questi nudi? Chi rimarrà vicino a un corpo, a una voce, a un volto totalmente privati di prestigio e di potere? Chi sopporterà di stringere esseri che basta un soffio a cancellare dalla scena, e che non sembrano avere più alcuna dignità umana? Noi tendiamo a immaginare la sventura in chiave eroico-hollywoodiana, a incastonarla in una sequenza in cui lo sconfitto mantiene intatto il suo fascino, la sua forma socializzabile di uomo. Ma proviamo a immaginare invece la vera sventura, cioè una condizione in cui tutte le nostre coordinate vacillano come nel Vangelo vacillarono i discepoli durante la Passione. Immaginiamo una situazione dove ogni circostanza sembra dare ragione al mondo che umilia lo sventurato. Immaginiamo il momento in cui la sventura arriva a toccare l’ultimo strato dell’identità della persona che diciamo di amare – il momento in cui, senza che questa persona si sia inconfutabilmente macchiata di una colpa, le sue attrattive si mutano in un motivo di imbarazzo, di smarrimento o di nausea, in una specie di vergogna senza nome. Immaginiamo tutto questo, e la domanda ci farà tremare.
Forse di una tale figura nuda, senza protezioni sociali e senza neppure il marchio di una minoranza esclusa ma ‘riconosciuta’, non si può predicare nulla. Forse si può dire solo che l’uomo è più di tutto il suo prestigio, di tutte le qualità in cui i “privilegi” si mescolano ambiguamente agli “organi”. Ma questo più non si può descrivere. Come l’anima, si può cogliere solo con un atto di fede. E proprio dalla fessura che lascia tra sé e il resto passa la grazia. È da lì che soffia l’amore trascendente, incondizionato, assoluto: l’amore senza il quale, diceva Denis De Rougemont occupandosi dei provenzali negli anni della Weil e in modi per molti versi opposti, siamo destinati a cadere in un romanticismo calcolatore che non troverà mai un oggetto su cui fermarsi, perché ci sarà sempre qualcosa di più attraente a meritare l’innamoramento.
Solo una decisione mai giustificabile, che è poi il contrario di una facoltà d’opzione, può arrestare questa fuga nell’illimitato. Un decennio prima, montando le tessere del suo discorso sulle “Affinità elettive” e il matrimonio, Walter Benjamin lasciava intravedere una prospettiva molto simile.
Credo che il saggio della Weil sull’“Iliade” sia uno dei due massimi capolavori della saggistica filosofica del Novecento. L’altro, non unilaterale e spoglio ma tormentosamente dialettico, va sotto il titolo di “Minima moralia”. Negli aforismi di Adorno si trova una frase che può stare accanto alla conclusione weiliana: “Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”. Il mondo, però, ci consegna un’ingiustizia ulteriore. Di solito si aderisce alla forza là dove la pressione collettiva è troppo intensa rispetto alle convinzioni che potrebbero farci resistere alla sua piena: cioè quando a propria volta, come carnefici, ci si trova in una condizione di debolezza, quando non si è abbastanza sicuri della propria comprensione delle cose da poter rimanere saldi in mezzo alla tempesta insieme a chi è rimasto nudo (la pressione consiste spesso in un sottile gioco di suggestioni atmosferiche incrociate, ma chi voglia vederne rappresentati i tratti più elementari e irresistibili può pensare al Bube di Cassola spinto a picchiare il prete Ciolfi, o al giovane ufficiale Eric Blair, alias George Orwell, accerchiato dalla folla birmana che esige di vederlo abbattere un elefante). Non è questa l’ultima ragione per cui il mondo ci chiude la bocca impedendoci di dire a ogni passo “non è giusto”, e quasi assimilando il nostro comportamento a un fatto di natura. Ma appunto, quasi. Resta quella fessura. Di cui nessuno si può appropriare senza tradirla, ma che nessuna forza può ridurre a sé."
Matteo Marchesini
4 notes · View notes
whencyclopedfr · 1 year
Photo
Tumblr media
Sarpédon
Sarpédon est un personnage de la mythologie grecque antique, un prince lycien qui fut l'un des principaux héros de la guerre de Troie et combattit du côté de Troie. Selon l'Iliade d'Homère, il était le fils de Zeus par Laodamie et le cousin de Glaucos de Lycie, le commandant en second des forces lyciennes, bien que d'autres versions du mythe fournissent une généalogie différente. Il était une force dominante dans la bataille et commandait le respect du prince troyen Hector et de ses pairs. Patrocle, cher compagnon du héros Achille, tua Sarpédon pendant la guerre de Troie, mais avec l'aide de Zeus, le corps de Sarpédon fut ramené dans sa patrie après sa mort, en Lycie, où il fut enterré avec tous les honneurs.
Lire la suite...
8 notes · View notes