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#letteratura russa dell'900
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900: un secolo di trasformazioni, conflitti e progresso
Il 900 è stato un secolo di profonde trasformazioni, contraddizioni e cambiamenti senza precedenti in tutti gli aspetti della vita umana. Conosciuto anche come "il secolo breve" per la sua durata relativamente breve ma densa di eventi epocali, questo periodo ha ridefinito la politica, la cultura, la tecnologia e la società in modi che continuano a influenzare il mondo contemporaneo. 900: il secolo delle guerre mondiali e di conflitti globali Il XX secolo è stato contrassegnato da due delle guerre più devastanti della storia umana: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. La Prima Guerra Mondiale (1914-1918) ha segnato l'inizio del secolo con una devastazione su scala globale, portando alla caduta degli imperi e a profonde trasformazioni politiche in Europa e in tutto il mondo. La Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) ha causato perdite umane e distruzioni ancora più grandi, culminando nell'uso delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Questi conflitti hanno avuto un impatto duraturo sulle relazioni internazionali e sulla coscienza globale. Il secolo scorso ha visto anche l'ascesa e il crollo di uno dei più grandi imperi del mondo, l'Unione Sovietica. La Rivoluzione Russa del 1917 ha portato al potere i bolscevichi, che hanno instaurato un regime comunista guidato da figure come Lenin e Stalin. L'Unione Sovietica ha giocato un ruolo cruciale nella sconfitta dell'Asse durante la Seconda Guerra Mondiale, ma è rimasta un regime totalitario e repressivo. Alla fine, nel 1991, l'Unione Sovietica è collassata, portando a profonde trasformazioni politiche ed economiche nell'Europa orientale e in Russia. Dal movimento per i diritti civili alla rivoluzione digitale Negli Stati Uniti, il XX secolo è stato testimone di cambiamenti significativi nel campo dei diritti civili. Il movimento per i diritti civili ha lottato contro la segregazione razziale e per l'uguaglianza dei diritti per tutti i cittadini americani. Figure come Martin Luther King Jr. hanno svolto un ruolo centrale nel promuovere il cambiamento attraverso la non violenza e la protesta pacifica. La lotta per i diritti civili ha portato ad importanti conquiste legislative, come il Civil Rights Act del 1964, che ha vietato la discriminazione razziale. Il 900 è stato anche un secolo di rapida innovazione tecnologica. Dall'invenzione dell'aereo ai progressi nella medicina, dalla diffusione della televisione alla rivoluzione digitale, il secolo ha visto cambiamenti straordinari nella vita quotidiana delle persone. L'avvento del computer e dell'Internet ha aperto nuove possibilità di comunicazione, lavoro e intrattenimento, trasformando radicalmente la società e l'economia. Arte, cultura e scienza Il secolo scorso ha assistito a un'ampia gamma di movimenti culturali e artistici che hanno sfidato le convenzioni dell'epoca. Il cubismo e il surrealismo hanno rivoluzionato l'arte visiva, mentre il movimento del cinema d'autore ha portato al riconoscimento del cinema come forma d'arte. La musica ha visto l'emergere del rock 'n' roll, dell'hip-hop e di molti altri generi musicali innovativi. La letteratura ha prodotto opere influenti come "Ulisse" di James Joyce e "Cent'anni di solitudine" di Gabriel García Márquez. Nel campo scientifico e medico, non sono mancate scoperte rivoluzionarie. L'identificazione del DNA da parte di James Watson e Francis Crick nel 1953 ha aperto la strada alla genetica molecolare e alla biotecnologia. Nel 1969, l'umanità ha raggiunto la Luna, segnando un passo epocale nell'esplorazione spaziale. Nel settore medico, l'uso di antibiotici e la scoperta dei vaccini hanno contribuito a combattere le malattie infettive. In copertina foto di WikiImages da Pixabay Read the full article
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...un classico del '900 e della letteratura russa che ricostruisce con rara sapienza la storia della Russia dalla rivoluzione del 1905 alla guerra civile, una storia d'amore immortale, una saggia riflessione sull'uomo e sulla libertà, una critica pienamente condivisibile ad ogni forma di autoritarismo...Vietato dalla censura sovietica, Il dottor Zivago, uscì per la prima volta proprio in Italia nel 1957, ottenendo immediatamente un successo mondiale talmente grande, che l'anno dopo al suo autore fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Grande romanzo sulle generose illusioni e le gravi delusioni che possono legarsi a una rivoluzione e alle sue promesse di palingenesi, il libro è ben altro dal pamphlet anticomunista che credettero di scorgervi i censori: il suo alimento è una desolata, dolorosa filosofia della storia, che si sofferma sui bordi oscuri, sul tributo sempre altissimo di vittime che ogni forma di "progresso" trascina fatalmente con sé. Jurij Zivago, medico e poeta, tenta disperatamente di conservare la propria identità, il proprio giudizio, la propria capacità di amare nel turbine di eventi e di tragedie scatenato dalla Rivoluzione d'ottobre; cerca in ogni modo di spremere un po' di vita da ogni situazione, anche la più avversa, con cui gli capiti di confrontarsi; prova fiducioso ad abbandonarsi all'amore per Lara, a costruirsi una bolla di felicità in un mondo sordo e cieco. Ma infine dovrà arrendersi alla forza delle cose: Lara sparirà dalla sua esistenza, e lui tornerà dopo mille peripezie in una Mosca che non saprà più riconoscere, per morirvi povero e solo, grazie a un caritatevole attacco di cuore. Di Zivago non resteranno che le sue poesie, conservate dai suoi pochi amici, a testimonianza del valore di svelamento attribuito da Pasternak alla letteratura: gramo svelamento all'individuo di un esiguo senso di sé e del proprio destino, invano dissimulato dalla meraviglia delle favole che si continuano, malinconicamente, ad inventare...Bellissimo...#ravenna #booklovers #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #narrativarussa #borispasternak (presso Libreria ScattiSparsi Ravenna) https://www.instagram.com/p/CjFABR9oxfJ/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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lamilanomagazine · 2 years
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Pisa, al via la stagione autunnale al Teatro di Buti
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Pisa, al via la stagione autunnale al Teatro di Buti La stagione autunnale 2022 del Teatro di Buti a Pisa è pronta a partire con un programma ricco e variegato che spazierà dalla letteratura russa a testi e racconti di autori italiani contemporanei per passare da riduzioni drammaturgiche di classici greci a riadattamenti di opere di scrittori del ’900. Il titolo scelto per il nuovo cartellone "Di luogo in luogo" richiama la inusuale disposizione delle opere rappresentate che si divideranno tra due sale: la Sala Di Bartolo e il Teatro Vittoria a Cascine di Buti. L'insolita circostanza è dovuta ai lavori di ristrutturazione che coinvolgono il Teatro Francesco di Bartolo. Gli otto spettacoli andranno in scena nei pomeriggi e nelle serate autunnali da ottobre a dicembre. Questa nuova stagione teatrale aprirà ufficialmente domenica 23 ottobre alle ore 18:00 con la prima opera "Ritratti di donne in fiamme" di e con Luca Scarlini. La domenica successiva il 30 ottobre sempre alle 18:00 al Teatro Vittoria andrà in scena "Sergio". La prima domenica di novembre giorno 6 alle 18:00 sarà il turno di "Se salissimo un gradino"in Sala di Bartolo. Sabato 12 novembre alle ore 21:15 presso il Teatro Vittoria potrete assistere a "L'ultimo nastro di Krapp". Domenica 20 novembre alle ore 18:00 si torna di scena in Sala Di Bartolo con "Preghiera", dieci giorni dopo di mercoledì alle ore 21:15 al Teatro Vittoria si torna sul palcoscenico con "Caligola-Underdog/Upset". Lìopera "Ecuba, la cagna nera" andrà in scena alla Sala Di Bartolo per 5 giorni dal 7 al 10 dicembre alle 21:15, mentre domenica 11 dicembre l'orario di inizio è alle 18:00. Chiude la stagione "E riapparvero gli animali" al Teatro Vittoria martedì 20 dicembre alle ore 21:15.    ... Read the full article
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gregor-samsung · 5 years
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Che cosa ci fosse per colazione, lei non lo diceva, ma era facile indovinarlo: patate lesse o minestra di patate o cascia d'orzo (altre granaglie non si potevano trovare, quell'anno, a Torfoprodukt, ma anche l'orzo si faceva fatica a procurarselo perché era il cibo più a buon mercato per i maiali e la gente lo comperava a sacchi). Non sempre la cascia era salata a dovere, spesso era bruciata e, dopo il pasto, sul palato e sulle gengive restava una patina e lo stomaco bruciava. Ma la colpa non era di Matrjona: a Torfoprodukt non c'era il burro, la margarina andava a ruba, e liberamente vendevano soltanto grasso artificiale. E poi la stufa russa, come mi accorsi, non è adatta a preparare il cibo: la roba cuoce nascosta alla cuciniera e il calore giunge alla pentola da varie parti in modo diseguale. Ma ai nostri antenati s'è tramandata dall'età della pietra perché, una volta ben accesa di primo mattino, mantiene in sé caldi per tutta la giornata il foraggio e il beverone per le bestie, il cibo e l'acqua per l'uomo. E sopra ci si dorme in un bel tepore. Io mangiavo docilmente tutto quello che m'era stato preparato, mettevo da parte con pazienza quel che mi capitava di trovare nel cibo: un capello, un pezzetto di torba, la zampina d'uno scarafaggio. Non mi bastava l'animo di rimproverare Matrjona. In fondo lei mi aveva avvertito: — Se non so far niente, neppure da mangiare, come ti contento? — Grazie, dicevo io con assoluta sincerità. — Di che? Della roba vostra? — mi disarmava lei con un sorriso radioso. E guardandomi ingenuamente coi suoi occhi d'un azzurro slavato, chiedeva: — E per la sera che cosa vi preparo? Mangiavo due volte al giorno, come al fronte. Che cosa potevo ordinare per la sera? Sempre lo stesso: patate o minestra di patate. Mi ero rassegnato a questo, perché la vita mi aveva insegnato a non trovare nel cibo il senso dell'esistenza quotidiana. Mi era piú caro quel sorriso del suo volto tondeggiante che, quando potei finalmente comperarmi una macchina fotografica, cercai invano di afferrare. Vedendo su di sé il freddo occhio dell'obiettivo, Matrjona assumeva un'espressione forzata o insolitamente severa. Soltanto una volta la fotografai mentre sorrideva, guardandomi dalla finestra nella via.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 182-84. 
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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pangeanews · 4 years
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“Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile”. Come si traduce la poesia russa? Intervista a tre voci: Maurizia Calusio, Alessandro Niero, Serena Vitale
“Tanto grande e popolare la diffusione delle opere dei grandi prosatori dell’Ottocento, quanto scarsa e manchevole la conoscenza, anche nell’ambiente letterario, dei poeti lirici russi”.  Con queste parole, nel 1949 Franco Fortini (recensendo l’antologia Il fiore del verso russo di Renato Poggioli) constatava la scarsa diffusione della poesia russa in Italia. Anche oggi, certamente, quando si parla della grande letteratura russa si fanno prima di tutto i nomi di Tolstoj e Dostoevskij, eppure molto è cambiato da quel 1949: Puškin, Mandel’štam, Cvetaeva, Pasternak, Brodskij e molti altri hanno infittito gli scaffali di poesia nelle nostre librerie, grazie agli sforzi di numerosi traduttori che si sono adoperati per dar loro una voce italiana. Tre di questi traduttori (Maurizia Calusio, Alessandro Niero e Serena Vitale) hanno accettato di rispondere a quattro domande sulla poesia russa e su che cosa significhi tradurla.
Quali sono le qualità e gli strumenti necessari a un traduttore di poesia? E cosa di specifico richiede e offre la poesia russa?
Maurizia Calusio Un traduttore di poesia deve essere un lettore di poesia, ossia deve essersi formato dentro la propria tradizione poetica, avere familiarità, nel nostro caso, con la poesia italiana. Deve avere orecchio, perché altrimenti non potrà cogliere e restituire il ritmo della poesia, e per farsi l’orecchio può essere di grande aiuto imparare a memoria molte poesie italiane, e poi cercare di tradurre poeti russi che in qualche modo non siano lontani dai poeti lontani amati. Puoi essere ferratissimo nella metricologia, ma se non hai orecchio, se per te la tradizione poetica italiana non è qualcosa di vivo e costantemente frequentato, è difficile che si avverta la poesia dell’originale nelle tue traduzioni. Se non è un poeta, un traduttore di poesia deve essere un filologo dotato di orecchio. Nel mio caso, non essendo poeta, utilizzo gli strumenti del filologo. E il filologo deve studiare l’opera del poeta che si appresta a tradurre, e sulla base di questa conoscenza scegliere le edizioni migliori da cui trarre i testi (la scelta dell’edizione dice già molto della qualità di una traduzione). Occorre poi usare i (numerosi) vocabolari giusti: penso a Dal’, Ušakov, Ožegov, a seconda dell’autore che si ha davanti. È importante anche conoscere bene tutte le migliori traduzioni già esistenti dell’autore, in italiano, come anche nelle altre lingue più o meno note. Accostarsi alla traduzione con una voce originale, portando con sé ciò che ci ha spinti a tradurre un poeta, non significa farlo “ingenuamente”, ignorando per esempio quanto prima di noi è stato fatto. Il traduttore di poesia si inserisce infatti in una doppia tradizione: quella della poesia italiana (sulla quale il poeta che traduce è destinato a influire – perlomeno, se ha scelto di tradurre un grande poeta) e quella della traduzione poetica italiana, e in particolare dal russo.
Alessandro Niero Credo che un traduttore di poesia debba essere, come minimo, un suo frequentatore assiduo, nelle varie forme in cui ciò può avvenire; ossia deve essere, imprescindibilmente, un lettore (appassionato ma non superficiale) e un grande utente della lingua, cioè avere la consapevolezza tecnica di cosa significhi comporre versi. Se, poi, a questi due aspetti (già, a loro modo, operativi e pratici), si affianca anche una qualche forma di “produzione propria”, meglio ancora, anche se ciò – vorrei precisare – non credo che sia da considerarsi né un obbligo né una norma. La poesia russa, oltre ad aver sempre intrattenuto un rapporto vero con la dimensione popolare (anche folclorica) della poesia е con i suoi strati non culti, ha di specifico un non tramontato e naturale attaccamento ai presìdi formali (metro, rima, strofa), sebbene sempre meno. Ciò pone al traduttore il dilemma se sforzarsi o meno di riproporre analoghi presìdi anche nella lingua di arrivo.
Serena Vitale Qualità? Pazienza e testardaggine. È necessario un buon orecchio (musicale). Più di tutto, forse, è necessaria una buona (preferibilmente ottima) conoscenza della lingua come pure della letteratura – in particolare la poesia – italiana. La conoscenza della lingua e della cultura russa mi sembra l’ovvio punto di partenza. “Strumenti” per tradurre? I dizionari – non ne vedo altri, ma a chi traduce poesia serviranno ben poco. Molto più utile, credo, è cercare nel Korpus della lingua russa le occorrenze del vocabolo che si vuole tradurre, ricostruirne la “storia”, i contesti in cui è già apparso. Sono convinta che volgere versi russi in italiano non presenti al traduttore difficoltà e/o problemi diversi da quelli che pone ogni traduzione poetica, salvo forse la maggiore libertà della poesia italiana, dal ’900 in poi, nei confronti della metrica e delle rime.
«Se il traduttore è una persona coscienziosa, cercherà di imitare la forma». Così categoricamente si esprimeva Iosif Brodskij nel 1979, in un’intervista con Eva Burch e David Chin. Siete d’accordo con quello che dice Brodskij? La riproduzione della forma è un elemento imprescindibile della traduzione poetica?
Maurizia Calusio Per me tradurre significa cercare di portare quanto più possibile del testo originale russo nella lingua italiana. Non si può portare tutto, le perdite sono irrimediabili, e implicite nell’atto stesso del tradurre. Nelle mie traduzioni, il metro e la rima dell’originale vanno perduti, mentre cerco di conservare quanto più possibile sintassi, immagini, lessico. In ogni caso, il rimando alla tradizione russa contenuto nella scelta di un metro come di un singolo vocabolo va pressoché sempre irrimediabilmente perduto. Il ritmo che mi sforzo di conservare è quello della sintassi (cercando di preservare la posizione delle parole a fine verso, ad esempio) e per fare questo cerco di procurarmi (quando ci sono) letture del testo russo, se possibile d’autore, altrimenti di un madrelingua (meglio se poeta in proprio). In questo senso anche il ritmo della lettura può essere una guida per restituire la sintassi.
Alessandro Niero Credo che le opinioni di Brodskij vadano viste alla luce della sua vicenda privata e delle sue predilezioni personali. Essendo egli stesso un acceso cultore della forma (anche se, con il tempo, divenne più allentata, sempre meno pressante), non poteva che richiamare il traduttore al rispetto della stessa; tanto più che si trovò nella singolare situazione di chi decise, a un certo punto, di autotradursi e, quindi, di sperimentare, con tutte le difficoltà del caso, ma anche con autorevolezza e autorialità, cosa voglia dire traghettare se stesso su altre sponde linguistiche cercando di trasmettere “tutto”. Quanto alle predilezioni personali, ricorderei che Brodskij (e non solo lui, ovviamente) stimava grandemente figure di calibro mondiale come Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, Boris Pasternak; i quali sono tutti autori primonovecenteschi che, nella loro scrittura, si sintonizzavano “fisiologicamente” sulle esigenze dettate da un certo tradizionalismo formale. Brodskij, da madrelingua qual era, ma anche da figura in grado di inserirsi potentemente nel contesto anglo-americano che lo adottò nel 1972 dopo l’emigrazione forzata dall’URSS, non poteva che leggere come inadeguati gli sforzi di chi impiegava uno strumento apparentemente lassista come il verso libero per spostare da una cultura all’altra testi di straordinario valore contenutistico e formale. Se poi questa sia una posizione da condividere pienamente, è un altro discorso. Traducendo poesia si cade inevitabilmente nel contesto di arrivo, dove vigono regole, spesso tacite, che reindirizzano quella stessa poesia, la adattano a ciò che quel contesto ritiene lecito, praticabile, rientrante nel gusto. È tra due confini – la spinta a rispettare gli istituti formali dell’originale e la cultura di accoglienza – che il traduttore deve ricavarsi uno spazio praticabile, una specie di “zona franca”. In questo non ci sono regole e non vi è nulla di scontato. Se posso, rimanderei, per complicare ulteriormente la cosa (e farmi un po’ di goffa pubblicità), a un mio volume che affronta queste tematiche: Tradurre poesia russa. Analisi e autoanalisi (Quodlibet, 2019).
Serena Vitale Chissà se ha detto proprio “imitare”… E chissà se il termine “riproduzione” si può applicare all’arte del tradurre. Per la poesia russa la “forma” è un elemento imprescindibile, una necessità quasi ontologica. Nel 2000 sempre Brodskij ha detto: “…Il poeta dovrebbe ripercorrere le strade della letteratura che lo ha preceduto, cioè passare attraverso una scuola formale. Altrimenti il peso specifico della parola nel verso si azzera”. La “forma” per Brodskij, è strettamente legata al Tempo, e il metro gli offre la possibilità (o soltanto l’illusione) di riorganizzare un tempo quasi mai amico. Del resto Brodskij ricorre al metro con una grande libertà e, seppure raramente, si cimenta anche nel vers libre, capace di rendere il “miracolo della lingua quotidiana”.
Esistono poeti russi intraducibili? Se sì, quali e perché?
Maurizia Calusio Puškin, naturalmente. In Puškin c’è una perfezione originaria che è al contempo il massimo della semplicità e il massimo della raffinatezza. L’italiano, con i suoi meravigliosi e ingombranti ottocento anni di tradizione poetica, è del tutto impotente a restituirla. Bisognerebbe tornare alla purezza della lingua primigenia di Dante, e coniugarla con la felicità di tutta la poesia successiva… bisognerebbe mettere dentro tutto, e questo non si può fare. Un altro poeta che si avvicina per difficoltà a Puškin è l’ultimo Boratynskij, quello della raccolta Sumerki (Crepuscolo), un poeta che io amo molto. Si può tradurne bene la sintassi, ma il suo lessico – al contempo lessico filosofico e lessico dell’elegia russa – è molto difficile da rendere. Continuo a provarci.
Alessandro Niero Se volessi essere sbrigativo e categorico le direi che in varia misura lo sono tutti. Ma sarebbe una posizione inutile, non produttiva e, soprattutto, irrispettosa di quanto è stato ottimamente fatto da molti traduttori italiani. Un nome, però, mi sento di farlo, ed è, paradossalmente, quello del poeta più grande di tutti, ossia Aleksandr Puškin (1799-1837), soprattutto per quanto riguarda la sua lirica (il suo miracoloso romanzo in versi Evgenij Onegin è un capitolo a parte). Con tutto il rispetto per i miei colleghi traduttori, devo dire che in pochi, pochissimi casi mi è capitato di sentire una voce italiana che abbia saputo contemplare, nel volgere di un testo, il romanticismo ammantato di eleganza classica, la capacità di essere tragico ma con straordinaria levità, la scarsa inclinazione alla pirotecnia formale esibita e perfino all’uso dei tropi e l’invidiabile tecnica di versificazione che costituiscono, ancorché sommariamente, la mia idea di Puškin.
Serena Vitale Nulla dovrebbe essere – nulla è – intraducibile. Sono stati tradotti poeti, ad esempio, come Chlebnikov e Cvetaeva, che pure in alcune loro opere sembrano rifiutarsi a ogni tentativo di resa in un’altra lingua.
Quali sono i poeti russi che non hanno ancora voce in Italia, o che aspettano una ritraduzione?
Maurizia Calusio Tra i poeti novecenteschi che non hanno voce in Italia c’è sicuramente Boris Poplavskij (1903-1935), grande talento della giovane generazione dell’emigrazione russa. Poplavskij è un autore su cui sto lavorando e che spero di poter pubblicare in un futuro non troppo lontano. Poi ci sono casi come quello di Nikolaj Zabolockij, poeta dell’età sovietica che, come non pochi altri russi, è noto solo per qualche scelta antologica.
In generale sarebbe importante anche dare versioni aggiornate di antologie che – come quelle di Ripellino e Poggioli – hanno consentito la ricezione dei poeti russi nel ’900 italiano. Oggi sarebbe il caso di riunire gli sforzi di più traduttori, che potrebbero lavorare ciascuno sui poeti e i testi più amati e meglio studiati. Un progetto che poi si potrebbe ampliare, grazie alle possibilità che oggi offre il digitale, per riprodurre la trama delle relazioni strettissime tra poeti russi e italiani. E sul fatto che per i poeti italiani i poeti russi siano importantissimi, non credo servano qui degli esempi.
Alessandro Niero Per quanto riguarda il XVIII secolo, sarebbe opportuno riproporre un poeta come Gavrila Deržavin. L’Ottocento – come dicevo sopra – ha il “problema” di Puškin. Il primo Novecento è stato ampiamente frequentato e annovera ormai dei lavori che sono o si avviano a essere dei “classici della traduzione” (penso ai lavori di Angelo Maria Ripellino, soprattutto, e più recentemente, a Serena Vitale, Remo Faccani e Caterina Graziadei). Ciò non significa che non si debba procedere a “rinfrescare”, per esempio, la ricezione italiana di Anna Achmatova e di Velimir Chlebnikov, così come quella di un autore ingiustamente negletto, Nikolaj Zabolockij. La poesia dell’emigrazione, poi, manca in Italia dei nomi di Boris Poplavskij e di una scelta vasta di Georgij Ivanov. Per il secondo Novecento, le cose si fanno certamente più complicate, giacché non esiste ancora un “canone” stabilizzato del who is who. Certo, un poeta come Iosif Brodskij – già in parte tradotto – andrebbe riconsiderato, così come andrebbero riconsiderate la sua generazione e quella immediatamente successiva, che comunque ha visto già alcuni volumi editi, ma aspetta ancora il traduttore di Bachyt Kenžeev, Inna Lisnjanskaja, Jurij Kublanovskij, Oleg Čuchoncev. Forse un’idea complessiva della poesia di Evgenij Evtušenko e di Andrej Voznesenskij pure non sarebbe da trascurare… Ma sono sicuro di aver fatto torto a qualcuno. Ecco perché, se ci spostiamo verso il contemporaneo in senso stretto, temo che i nomi si infoltiscano a tal punto da indurmi a scaricare la patata bollente sul collega e traduttore Massimo Maurizio, che ne sa più di me e che ha già strumenti affilati per distinguere il grano dal loglio.
Serena Vitale A mio avviso tutte le buone traduzioni (di poesia o prosa) sono sempre importanti e benvenute, quindi anche le “ritraduzioni” – purché affrontate con modestia, amore, senza alcuna pretesa di dimostrare “quanto sono più bravo io di X o Y”… Tra i poeti “che non hanno ancora voce in Italia” (salvo qualche lirica in raccolte antologiche e una versione non a stampa, che si può leggere on line, dеllo splendido poema Terra bruciata) devo forzatamente limitarmi e segnalo soltanto Nikolaj Kljuev, un grande del ’900 russo.
*Interiste a cura di Stefano Fumagalli; in copertina: Anna Achmatova (1889-1966)
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Le dimensioni contano...
Tempo di vacanze. Ritmi più lenti e giornate non più scandite da impegni lavorativi o scolastici. Tanto tempo libero che noi lettori potremo dedicare alla nostra passione. Non c'è dunque momento migliore per inziare una grande opera. E prendeteci in parola quando diciamo “grande”.
Ecco a voi i giganti della fiction stampata, i colossi che troneggiano dagli scaffali di letteratura, autentici monumenti che celebrano l'arte del narrare. Ecco a voi una selezione di romanzi che infrangono il muro delle 1000 pagine. Non lasciatevi scoraggiare dalle dimensioni. Qui sotto trovate un ristretto gruppo di maestri capaci di travolgere i coraggiosi con fiumi di pagine straripanti emozioni, riflessioni, passioni... e di ripagarli ampiamente dell'audacia dimostrata.    E considerate due indubbi vantaggi: è facilissimo trovarli disponibili nelle nostre sedi e difficilmente ne finirete uno a metà vacanza. Sicuro non rischierete di trovarvi senza qualcosa da leggere. Cominciamo con qualche classicone senza tempo. Si, certo, anche chi non li ha letti conosce a grandi linee la trama ma tutte le trasposizioni, cinematografiche o televisive, per quanto ben fatte, non riescono ad egualiare la complessità, la ricchezza di particolari che trabocca dalle pagine di un libro. Subito una coppia di campioni francesi, Alexandre Dumas con Il Conte di Montecristo (1.238 p.) e Victor Hugo con I Miserabili (1.353 p.). Storie potentissime, assolutamente senza tempo. Poi la grande scuola russa. Ovviamente Guerra e pace (1.415 p.) di Lev Tolstoj e l'ultimo capolavoro di Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov (2.038 p.) detentore del record di spessore nelle edizioni in tomo unico. Maneggiarlo assicura anche un discreto allenamento di bicipiti e tricipiti. Consigliati per entrambi, almeno all'inizio, carta e penna dove segnare nomi e gradi di parentela dei personaggi. Completano questa sorta di pantheon di semidei del romanzo classico, il Charles Dickens del Il Circolo Pickwick (1.054 p.) e Robert Musil che entra a pieno titolo nel gotha con L'uomo senza qualità (1.264 p.) librone straodinario che condensa come pochi altri lo spirito del 900 europeo.
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Bene, ma se volessimo qualcosa di più “contemporaneo” per appesantire la valigia, una scrittura meno datata, più moderna? Diversi autori attivi nelle ultime decadi hanno manifestato una certa inclinazione per il gigantismo. Primo tra tutti Ken Follet. Dai suoi due cicli principali possiamo attingere a piene mani. La Trilogia di Kingsbridge propone I pilastri della Terra (1.030 p.), Mondo senza fine (1.367 p.) e si conclude con il recente La colonna di fuoco (“solo” 907 p.). Anche per la Century Trilogy ci attestiamo su questi numeri impressionanti. La caduta dei giganti, L'inverno del mondo e I giorni dell'eternità fanno oltre 3000 pagine in tre. Altrettanto fine compositore di grandi narrazioni è un altro suddito britannico, Edward Rutherfurd autore di Sarum (1.076 p.) e di London (1.005 p.) che seguono le vicende delle due città inglesi, Salisbury e Londra...dall'epoca della conquista romana ai nostri giorni! La travagliata ed illuminante latitanza indo-afghana delle ex detenuto australiano Gregory David Roberts rivive nei suoi due monumentali Shantaram (1.177 p.) e L'ombra della montagna (1.085 p.). Ideali per accompagnare viaggi esotici. Ancora la povertà, la saggezza e la magia della terra indiana si dispiegano, è il caso di dirlo, nel mastodontico volume di Vikram Seth  Il ragazzo giusto (ben 1.618 p.)
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Per gli amanti del thriller fa al caso It (1.315 p.) del prolifico Stephen King. Sempre alta tensione ma ambientazione pre apocalisse ne Il quinto giorno (1.032 p.) del tedesco Franz Schatzing. Chiudiamo con due libri davvero contemporanei, quasi sperimentali. Parliamo di Contro il giorno (1.127 p.) di Thomas Pynchon e di Infinite Jest (1.280 p.) del compianto David Foster Wallace. Pressochè impossibile darne un breve sunto tanto le trame sono variegate, dense e digressive. Si tratta di vere e proprie esperienze che lasciano qualcosa a chi gira l'ultima pagina.
Buon viaggio!
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italianaradio · 5 years
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Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/ermitage-il-potere-dellarte-al-cinema-il-21-22-23-ottobre/
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Più di tre milioni di oggetti d’arte di epoche diverse, 66.842 mq di spazio espositivo, oltre 30 km di percorso di visita e 4,2 milioni di visitatori nel 2018. Sono i numeri di uno dei musei più amati e visitati del mondo: quello dell’Ermitage.
È a questo luogo straordinario che è dedicato Ermitage. Il Potere dell’Arte, una produzione originale 3D Produzioni e Nexo Digital, realizzata in collaborazione con Villaggio Globale International e Sky Arte, il patrocinio di Ermitage Italia e il sostegno di Intesa Sanpaolo, che arriverà in anteprima nelle sale italiane solo il 21, 22, 23 ottobre per essere poi distribuita in tutto il mondo.
Diretto da Michele Mally su soggetto di Didi Gnocchi, che firma anche la sceneggiatura con Giovanni Piscaglia, il documentario fa parte del progetto de La Grande Arte al Cinema ed è stato realizzato con la piena collaborazione del Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo e del suo Direttore Michail Piotrovskij per raccontare il museo in maniera inedita ed emozionante, attraverso i secoli della storia Russa e le vicende culturali che hanno portato allo sviluppo delle sue collezioni nel cuore della città.
A guidarci in questo viaggio l’attore Toni Servillo. Sarà lui a farci respirare lo spirito di questi luoghi e delle sue anime baltiche e a presentarci le bellezze dell’Ermitage e di San Pietroburgo, a recitare brani tratti da poesie e romanzi, a narrare le grandi storie che hanno attraversato quelle strade, dalla fondazione di Pietro I allo splendore di Caterina la Grande, dal trionfo di Alessandro I contro Napoleone, alla Rivoluzione del 1917 fino ai giorni nostri. Immagini spettacolari ci porteranno nei grandiosi interni del Museo e del Palazzo d’Inverno, nel Teatro, nelle Logge di Raffaello, nella Galleria degli Eroi del 1812. Visiteremo i laboratori di restauro e conservazione di Staraya Derevna, i suoi tesori archeologici e la sezione di Arte Moderna e Contemporanea dell’Edificio dello Stato Maggiore, che custodisce le straordinarie collezioni Shchukin e Morozov, con la più grande raccolta di Matisse al mondo.
Per raccontarne visivamente lo sviluppo urbano e architettonico, la città verrà presentata nella sua veste diurna e negli splendori delle sue notti: la Prospettiva Nevskij, il lungoneva, i ponti, il complesso dell’Ermitage, il Cavaliere di Bronzo, le statue di Pushkin, Gogol e Caterina la Grande (amica di penna di Diderot e Voltaire), le dimore nobiliari che si affacciano sui canali. I grandi architetti italiani che disegnarono San Pietroburgo – Trezzini, Rastrelli, Quarenghi – sono i progettisti dei palazzi più belli; ma l’anima di San Pietroburgo e della Russia è sfuggente e prova a raccontarla anche una coppia di Roofers, giovani in cerca d’infinito che si arrampicano sui tetti della città offrendo prospettive sorprendenti.
Era il 1764 quando la zarina Caterina II acquistò a Berlino la collezione da cui sarebbe nato il primo germe dell’Ermitage. Da quel momento prese il via l’arricchimento sistematico di un patrimonio che già dieci anni dopo vantava oltre 2.000 tele e che implementava via via di disegni, pietre intagliate, sculture, capolavori dell’arte decorativa ed applicata.
Dentro l’Ermitage si percorre così la grande arte europea, da Leonardo a Raffaello, da Van Eyck a Rubens, da Tiziano a Rembrandt e Caravaggio. Fuori dall’Ermitage, la storia passa per luoghi ricchi di memorie. La Fortezza di Pietro e Paolo è il primo edificio costruito a San Pietroburgo: è teatro di avvenimenti celebri, come la grazia a Dostoevskij davanti al plotone di esecuzione, e ospita le tombe degli Zar.
Ma la leggenda di San Pietroburgo passa anche per la grande letteratura con Alexandr Pushkin – primo tra tutti – e il suo fondamentale contributo allo sviluppo della poesia e della lingua letteraria russa. Il docufilm mostra gli ambienti della casa-museo in cui è conservato il divano in cui morì e quelli del Caffè Letterario in cui bevve il suo ultimo caffè. Della vita e dell’opera di Fedor Dostoevskij è ancora testimonianza l’abitazione dalla quale lo scrittore poteva osservare la vita della Neva, ambientazione dei suoi romanzi, tra i quali Le notti bianche, il suo inno d’amore a San Pietroburgo.
Dall’Otto al Novecento, da Oriente a Occidente i mondi dell’arte, della letteratura e della musica orbitano intorno all’Ermitage. Da Nikolaj Gogol, citato attraverso brani de La Prospettiva Nevskij, ai poeti e gli scrittori del ‘900: Anna Achmatova e Vladimir Nabokov sono più vivi che mai nei loro luoghi simbolo, mentre l’Hotel Angleterre conserva ancora la camera in cui morì Sergeij Esenin. Rivivremo le difficili condizioni degli intellettuali delusi dalla Rivoluzione e l’assedio di Leningrado, in uno dei momenti più tragici della storia della città. Il capitolo buio del regime di Stalin sarà evocato a partire dalla cessione di importanti opere dell’Ermitage a collezionisti stranieri: capolavori di Raffaello, Botticelli, Van Eyck, Perugino.
San Pietroburgo è inoltre la culla della grande musica russa. Da Michail Glinka a Sergej Prokofev, da Piotr Caikovskij a Nikolaj Rimskij-Korsakov a Dimitrij Shostakovich: autori che hanno cercato attraverso la musica il suono autentico della Russia. Le loro note sono interpretate dal soprano Anastasiya Snyatovskaya e dal maestro Dmitry Igorevich Myachin. Infine, le immagini de Il Lago dei Cigni, in programma al Teatro dell’Ermitage, ci porteranno alle radici del balletto russo.
Dentro e fuori dall’Ermitage, scrigno dell’anima russa, scorre l’identità complessa di San Pietroburgo, città giovanissima eppure da subito protagonista della storia. Ad arricchire il suo ritratto composito e sfaccettato così come quello del suo museo c’è Aleksandr Sokurov, che con il film Arca Russa ha interpretato l’Ermitage come un luogo sospeso nel mondo e nel tempo, in perenne navigazione sul mare della storia. Oltre a lui e al Direttore Generale del Museo Statale Ermitage Michail Piotrovskij, intervengono nel docu-film lo scrittore Orlando Figes, il Direttore dell’Accademia Russa di Belle Arti Semyon Michailovsky, la Curatrice del Dipartimento Arte Fiamminga dell’Ermitage Irina Sokolova, lo Storico della Letteratura Evgeniy Anisimov, la Curatrice del Dipartimento di Arte Veneta dell’Ermitage Irina Artemieva, lo Storico dell’Arte Ilia Doronchenkov, il Curatore della Library of Congress di Washington Harold Leich e il Direttore della National Gallery di Londra Gabriele Finaldi.
Ermitage. Il Potere dell’Arte è una produzione originale 3D Produzioni e Nexo Digital realizzata in collaborazione con Villaggio Globale International e Sky Arte, con il patrocinio di Ermitage Italia e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Diretta da Michele Mally su soggetto di Didi Gnocchi, che firma anche la sceneggiatura con Giovanni Piscaglia, sarà nelle sale italiane solo il 21, 22, 23 ottobre (elenco a breve su www.nexodigital.it).
Hermitage. The Power Of Art, la colonna sonora del docu-film (Nexo Digital/Masterworks), firmata da uno straordinario nuovo talento russo, il pianista e compositore Dmitry Igorevich Myachin, e presentata con l’elettronica d’ambiente del sound designer Maximilien Zaganelli, sarà disponibile su tutte le piattaforme digitali dal 18 ottobre.
La Grande Arte al Cinema è un progetto originale ed esclusivo di Nexo Digital che dal suo debutto ad oggi ha già portato al cinema 2 milioni di spettatori.
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Ermitage. Il Potere dell’Arte: al cinema il 21, 22, 23 ottobre
Più di tre milioni di oggetti d’arte di epoche diverse, 66.842 mq di spazio espositivo, oltre 30 km di percorso di visita e 4,2 milioni di visitatori nel 2018. Sono i numeri di uno dei musei più amati e visitati del mondo: quello dell’Ermitage. È a questo luogo straordinario che è dedicato Ermitage. Il Potere […]
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Chiara Guida
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gregor-samsung · 5 years
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Oltre Matrjona e me nell'isba vivevano anche un gatto, i topi e gli scarafaggi. Il gatto era vecchio e, cosa piú importante, zoppo. Matrjona lo aveva raccolto per pietà e la bestia s'era assuefatta. Camminava sulle quattro zampe, ma zoppicava assai: aveva riguardo d'una zampa che era malata. Quando saltava dalla stufa sul pavimento, il rumore non era soffice come quello d'ogni gatto, ma un forte colpo simultaneo di tre zampe: tup!, un colpo cosi forte che non mi ci abituai subito e mi faceva sussultare. Era il gatto che posava in una volta tre zampe per preservare la quarta. Ma nell'isba c'erano i topi non perché il gatto zoppo non riuscisse ad averne ragione: come un lampo esso balzava nell'angolo, alla caccia, e ne usciva reggendoli tra i denti. I topi erano inaccessibili al gatto perché una volta, ai bei tempi, l'isba di Matrjona era stata tappezzata di una rugosa carta verdastra, e non d'uno strato solo ma di cinque. I fogli s'erano incollati bene tra di loro, ma in molti punti s'erano staccati dalla parete, formando una sorta di pelle interna all'isba. Fra le travi dell'isba e la pelle della tappezzeria i topi avevano costruito i loro passaggi e frusciavano insolenti, correndo lungo di essi e sotto il soffitto. Il gatto seguiva con rabbia quel loro fruscio, ma non poteva farci niente. A volte il gatto mangiava anche gli scarafaggi, ma poi stava male. L'unica cosa che gli scarafaggi rispettassero era la linea del tramezzo che divideva la bocca della stufa russa e la cucina dalla parte buona dell'isba. Fin lí non arrivavano. Però nella cucina di notte brulicavano e se, a sera tarda, andando a ber dell'acqua, accendevo la luce, il pavimento e la panca grande e persino la parete erano quasi interamente bruni e si muovevano. Nel gabinetto di chimica presi una volta del borace e, mescolatolo con della pasta, spargemmo quel veleno. Gli scarafaggi diminuirono, ma Matrjona temeva d'attossicare anche il gatto. Smettemmo di spargere il veleno e gli scarafaggi si moltiplicarono di nuovo. Di notte, quando Matrjona oramai dormiva ed io lavoravo seduto al mio tavolo, il rado rapido fru fru dei topi sotto la tappezzeria era coperto dal fruscio compatto, unito, ininterrotto, come il rumore lontano d'un oceano, degli scarafaggi oltre il tramezzo. Ma io mi abituai perché in esso non c'era alcunché di malvagio, non c'era menzogna. Quel loro fruscio era la loro vita. Mi abituai anche alla bella ragazza grossolana del manifesto che dalla parete mi tendeva eternamente Belinskij, Panfjorov e una pila d'altri libri, ma taceva. Mi abituai a tutto ciò che c'era nell'isba di Matrjona.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 180-81.
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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pangeanews · 4 years
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“Vi aspetto, lettori, con una torcia accesa alle porte del Lukomòrie, remoto paese ravvolto in bambagia di nebbia…”. I libri meravigliosi (e introvabili) di Angelo Maria Ripellino
Alto, bello, baffuto, magro, elegante, pronto all’arabesco retorico e all’altolà del verbo, Angelo Maria Ripellino è riassunto, per lo più, in un libro, Praga magica, ipnotico, per altro, ma parziale. Ripellino – inutile ricamo – è nato il giorno in cui muore mio padre nell’anno in cui nasce il padre di mio padre, nel paese natale della mamma di mio padre. Palermo, 4 dicembre 1923. L’incrocio delle casualità dovrebbe dare abito a un destino. Io continuo a credere che un palermitano nell’allora Cecoslovacchia è lì a fomentare rivoluzioni o per celebrare la propria marcia nel sogno. Ripellino pensava al fulgore della poesia, i sovietici irruppero con le armate, “Non avrà fine la fascinazione, la vita di Praga. Svaniranno in un bàratro i persecutori, i monatti. Ed io forse vi ritornerò”. Ripellino non tornò più a Praga, la poesia prosegue, tra sbadigli, a essere perseguita e perseguitata.
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Ribadisco ciò che si sa. Angelo Maria Ripellino è un genio. Allievo di Ettore Lo Gatto, ha tradotto Andrej Belyj (Pietroburgo, romanzo che Vladimir Nabokov mette, nel mazzo dei prediletti, tra Ulisse, ‘Recherche’ e TuttoKafka) e Aleksandr Blok, Vladimír Holan e Velimir Chlebnikov. Gli piacevano i poeti che forgiano neologismi, che scartavetrano la grammatica, che fanno del vocabolario una giungla – che cercano la tigre, ecco. La sua sintonia con Majakovskij fu pressoché totale – eppure Einaudi gioca a ripubblicare e a dimenticare quello studio necessario, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia –; ha tradotto con maestria Boris Pasternak, di cui adorava l’indole selvatica più che la rassegnazione al romanzo. Incontrò il poeta nel 1957, dandone nota in un articolo eccellente, riprodotto ora in Iridescenze. Note e recensioni letterarie (1941-1976), edito da Aragno, a cura di Umberto Brunetti e Antonio Pane.
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“Le parole di Pasternàk avevano una gravità battesimale. Mi suona ancora negli orecchi la sua cantilena discontinua, arrochita… Ci invitò a pranzo. A capotavola, come un nero idolo, troneggiava la moglie. Un lunghissimo pranzo all’antica: galline, funghi e verdura della sua villa. E cognac e brindisi. Intanto Borís Leonidovič parlava della gioia che si prova nell’ospitare gli amici venuti da terre lontane. Paragonò la figura del poeta ad un albero che stormisca nel vento. Esortò Evtušenko a non stemperare il suo ingegno negli intrugli dei versi servili. Ci narrò di Marina Cvetàeva; tracciò un parallelo fra Bunin e Čechov, dando la palma a quest’ultimo. Mi sorprese il suo amore per le ariette banali di Severjànin, che era stato per me sino allora il campione d’un bolso decadentismo… Quando prendemmo congedo, mi regalò due quaderni con liriche allora inedite; verdi quaderni, su cui rameggiava la sua scrittura antiquata, tutta svolazzi ed occhielli. Benché a poche verste da Mosca, Peredélkino era in realtà più remota di un villaggio in Siberia. In quella dacia Pasternak coltivava, come una fragile pianta, la sua solitudine, contrapponendo all’effimero brulichío degli «slogans» la ferma meditazione dei problemi eterni. Eppure questa solitudine era fertile, esemplare, ed agiva sui giovani stanchi delle false fanfare”.
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Morto nel 1978, nonostante gli sforzi di amici e studiosi – nel 2007, ormai un secolo fa, Einaudi ha riprodotto le sue poesie – mi pare che Ripellino sia inacidito nell’oblio. Forse Ripellino è come una formula magica, che rimbalza a contrario, eco incongrua, contro le pareti di una stanza vuota, con vigna di lampadari. Ad esempio, l’antologia sulla Poesia russa del 900, dedicata da Ripellino “a mio padre”, chiusa con quelle parole d’emblema (“Questi lirici ci offrono la testimonianza d’una poesia non rinchiusa fra schemi dottrinari, non impacciata da intenti di propaganda, non ingolfata in cadenze di superficiale esaltazione, una poesia nitida, luminosa, piena di ottimismo e di aperta fiducia nella vita e nei destini del mondo”), va ristampata immediatamente, la apri e ti salva il giorno, inchiodato ai versi di Anna Achmatova, di Osip Mandel’stam, di Marina Cvetaeva… Come una P sul torsolo della soglia di casa, al raduno degli irredenti.
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“Non ho ancora trovato il tema di questo racconto. Eppure non posso non scrivere. Scrivere, prendere appunti è un’ossessione che ti corrode la vita. Me ne sto qui sull’erba bruciata di Forte Antenne, a schizzare pigri disegni. Estrella mi guarda ridendo. Riempirò molti fogli di graffiti e di sgorbi e di ghirigori. E alla fine in un lampo mi si chiarirà l’argomento”. Così attacca Storie del bosco boemo, al crocevia di un’ossessione, l’ultimo dei “Quattro capricci” del libro omonimo, stampato con sfarzo da Einaudi nel 1975 (“Numeri baracconeschi, riquadri sghimbesci da stampe folcloriche, tavolozze sgargianti da Ballets Russes, sfondi da libri infantili illustrati a frastagli che si alzano aprendoli, una certa bamboleria surrealistica, buffonaggini da vecchia novella italiana… tutto questo confluisce in un ardente giuoco verbale, che tuttavia non si esercita a vuoto, ma è sempre sotteso di tenerezza e rimpianti e calore umano”). Il libro mi è stato inviato – insperabilmente – dalla Sicilia; in copertina una illustrazione di František Tichý (1896-1961), artista di Praga, Il ventriloquo, forse indica il perimetro di una poetica. Ci si adatta alla voce dando voce – chi dice è sempre l’altro. Ma che libro bellissimo, innaturale, fresco perché anomalo, questo, di chi crede, ancora, che il vocabolario non sia un giogo ma un gioco, una mappa stellare, il primo passo di un viaggio nell’ignoto e nell’incongruo.
*
Il libro, Storie del bosco boemo, non si trova più nell’edizione Einaudi, è stato ripreso nel 2005 da Mesogea. Nel mondo isterico, dal linguaggio sterilizzato, chi può amare l’istrione, chi ha voglia di giocare il verbo, di pitturarsi la faccia di bianco? “Non c’è verso di farsi capire”, dice a un certo punto il regista di un baraccone, la scena si chiama Parapiglia, lui s’avventa nel “Museo dei Prodigi”, sterza dal “rancore di fiabe assopite” e “sebbene maldestro come un Wunderrabbi chassidico, un giorno tenterò di costruirvi un teatrino di burattini”. Forse c’è l’estro dei pupi, l’audacia del No nipponico, l’estensione del futurismo russo (la meccanica di Ripellino è riassunta in “Manichini a Pietroburgo”, capitolo miliare del suo Majakovskij, chevvelodicoafare: “il tessuto verbale è con rattrappito da continue contrazioni, si raggrinza, si gonfia, si deforma con ritmo spasmodico”) nel gergo di Ripellino. Un giorno mi dico, con brillio, Ripellino va letto ascoltando Paolo Conte – in assenza di un Esenin nell’armadio.
*
Ci sono sonnambuli e teatranti, clown ignari di esserlo e angeli di Klee, l’idea che il tempo sia una sciocchezza e che si possa vivere nel sottoscala del secolo defunto, che i morti non muoiono mai, che la lingua è acqua e tutti andiamo a Manichinia. “Vi aspetto, lettori, con una torcia accesa alle porte del Lukomòrie, remoto paese ravvolto in bambagia di nebbia, invetriato nel velo verde bottiglia di una fittissima nebbia che mai si dirada”, attacca Ripellino, gran maggiordomo della letteratura, aeropagita del parlar materno, in Il gallo d’oro. “Se non vi conducessi per mano, potreste perdervi in questo paese grande dieci giornate, in questo intrico di madidi muri illusori…”. Che desiderio di perdersi, appunto, tra nebbie e illegali illusioni; abbiamo prediletto le virtù dell’ordine, l’ordinario, la comprensione. Bye, bye. (d.b.)
*In copertina: Angelo Maria Ripellino; la fotografia è tratta da qui
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pangeanews · 4 years
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In memoria di Vittorio Strada, lo slavista che in Russia trovò l’amore e l’orrore. E conobbe Boris Pasternak
Capì tutto. Non subito, però. All’inizio c’era l’Eden dell’ideologia comunista c’era la Russia felix. 1957. Lui ha 28 anni, milanese, laurea su Aspetti del materialismo dialettico sovietico e ha ottenuto l’avallo di Antonio Banfi per il fatidico viaggio. Rotta: Marsiglia, Odessa, Mosca. In Russia Vittorio Strada trova due cose belle e una orrenda. Incontra Clara Janovic, siberiana, che sposerà l’anno dopo, nel 1958. E va a trovare il massimo scrittore russo del ’900. Boris Pasternak. Il titano era rimasto sorpreso dall’arguzia del giovane studioso. E lo invita a casa. In Russia, Vittorio Strada scoprì l’amore e la letteratura. E capì poco dopo, ma prima di tutti, che il regime sovietico poteva sopprimere entrambe le cose. L’amore e la letteratura.
*
Quanto all’amore. Ai comunisti di Russia non andava a genio la verve dell’impavido slavista. Ostacolarono l’unione con Clara, non le permisero di trasferirsi in Italia. Strada contattò Togliatti, che mise la buona parola. Quanto alla letteratura. Al cospetto di Pasternak, Strada capisce che l’ideologia è veleno omicida. «Mi disse Pasternak che la pubblicazione del suo romanzo aveva incontrato ostacoli nel suo Paese», disse più volte Strada. Boris, viso scandito nel cristallo, occhi che perforano i millenni, non demorde. «A me che, sbalordito, lo fissavo, Pasternak mise una mano sulla spalla e disse con assoluta serenità: Vittorio, riferisca questo a Feltrinelli: gli dica che io voglio (e sottolineò questo voglio) che il mio libro esca a ogni costo». Esempi di quotidiana fermezza. Strada, che consiglia a Einaudi di pubblicare Il dottor Zivago e riceve i preziosi scritti autobiografici di Pasternak, ora capisce davvero tutto: «Confesso che pur credendo di avere una certa conoscenza della realtà sovietica, la mia ingenuità era allora tale che chiesi dove potevo far fotocopiare il dattiloscritto per leggerlo tranquillamente a casa! Ricordo che l’amico mi guardò come si guarda un pazzo».
*
L’esito dei rapporti con il governo russo e con il Partito comunista è quasi ovvio. Strada frequenta persone non allineate e legge libri «eretici» (nel 1968 fu arrestato all’aeroporto di Mosca perché ha in tasca una lettera di Aleksandr Solzenicyn): nel ’77 l’Urss gli nega il visto d’ingresso; tre anni dopo lo studioso cestina la tessera del Pci. Slavista di platino in Einaudi, autore di testi decisivi come Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa o Le veglie della ragione, Strada ha focalizzato il suo sguardo sui legami tra politica ed estetica, sul rapporto tra Stato e scrittore, tra politburo e intelletto. Nella sua fondamentale Storia della letteratura russa (prima edita a Parigi da Fayard, poi da Einaudi), per primo, ancora una volta, Strada comprende che è il virus della Rivoluzione russa, fin dalla presa al potere di Lenin, a minare, a eliminare la libertà creativa dello scrittore. «La rivoluzione sociale, che aveva animato la letteratura russa, fu schiacciata da una rivoluzione politica regressiva, che tolse al Paese la sua libertà. Al di là delle vittime tra gli scrittori, la prima vittima letteraria fu la letteratura russa stessa», disse una volta. In effetti, i gesti compiuti consecutivamente da Lenin sono micidiali. Ricordiamoli: 7 novembre 1917, chiusura dei giornali «che avevano un atteggiamento critico nei confronti del potere»; 3 luglio 1918, chiusura della rivista dell’amico Maksim Gor’kij dove pubblicavano, tra gli altri, Anna Achmatova e Osip Mandel’stam perché, parola di Lenin, «ogni forma di pessimismo intellettuale è oltremodo nociva»; 1919: chiusura delle case editrici private e indipendenti a favore delle sole Edizioni di Stato, Gosizdat, con squisiti compiti censori.
*
Al cospetto di Boris Pasternak, attraverso l’impeccabile curatela del ‘Meridiano’ Mondadori che ne raccoglie le Opere narrative (1994), Strada scopre qualche cosa in più. Registrando alcune parole del grande poeta («Il tormento degli artisti sarà adesso non il fatto di essere o no riconosciuti dai contemporanei o da un potere politico stagnante e ritardato bensì l’incapacità di staccarsi del tutto da concetti divenuti abitudinari, di dimenticare le consuetudini imposte, di spezzare la continuità») lo slavista che ha amato la Russia fino a dissezionarne il cuore, capisce l’ultimo segreto. Un regime può inchiodare la lingua del poeta al palato, può costringere lo scrittore ai lavori forzati, può mozzargli le dita. Ma se il poeta non si fa sottomettere dall’autocensura, guarderà sempre altrove, verso «uno spazio la cui integrità e purezza vanno comprese e riempite di comprensione». Povero. Mutilato. Invincibile. (d.b.)
*L’articolo è stato pubblicato in origine, leggermente modificato, su “il Giornale” del primo maggio 2018
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pangeanews · 7 years
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“Quello lascialo sempre entrare”: Pasternak il poeta fondamentale del ’900. Intervista alla traduttrice del “Dottor Živago”
Boris Pasternak è l’artista centrale del Novecento. Lo è per l’opera, ovviamente. Pasternak è tra i poeti più grandi del secolo – basti leggere il poemetto Le onde – e uno dei prosatori più delicati. Il salvacondotto e soprattutto Il dottor Živago si sono impresse come opere indelebili, per quanto imperfette, perché ci sembra che, dal cuore della narrazione, ci sia svelato il segreto ultimo del vivere. Pubblicato, attraverso un escamotage da ‘spionaggio’ editoriale, da Feltrinelli nel novembre del 1957 – la vicenda è ricostruita dettagliatamente da Paolo Mancosu in Živago nella tempesta, Feltrinelli, 2015 – “Živago” va ben al di là del romanzo, come ha ricordato proprio Feltrinelli a Pasternak in una lettera rivelativa: “Živago ha impartito una lezione indimenticabile. Ora so che ogni volta che non saprò come andare avanti potrò tornare a Živago e imparare da lui la più grande lezione di vita. Živago sarà sempre accanto a me quando queste cose mi sembreranno perse per sempre, per aiutarmi a ritrovare i valori semplici e profondi della vita” (5 settembre 1958). Boris Pasternak non è il poeta più grande del Novecento – non c’è gerarchia nell’assoluto, ma più vasti di lui sono Saint-John Perse, Thomas S. Eliot, Rainer Maria Rilke – e non è il più grande romanziere – sono insormontabili James Joyce, Marcel Proust, Franz Kafka, Thomas Mann, William Faulkner. Eppure, è l’artista decisivo del Novecento, il più emblematico. Pasternak, che è stato nel cuore della Storia fino a udirne l’ossessivo rimbombo, incarna il poeta che evade dalla Storia, che è ben al di là delle cronologie e delle grammatiche del tempo. Come scrive Angelo Maria Ripellino – che riteneva, con una certa giustizia, che le poesie fossero la quintessenza di Pasternak e lo ‘Živago’ un’opera ‘minore’ – il massimo interprete di Pasternak in Italia, “Pasternak si ritrasse sin dagli inizi in una sua gelosa solitudine… e negli anni tumultuosi della rivoluzione si tenne ancora in disparte, diffidando dei temi politici e di quella poesia tribunizia in cui s’era invece tuffato Majakovskij con tutta l’anima. […] Egli passava nel folto delle battaglie, che avrebbero mutato la Russia, come un sonnambulo, destandosi a tratti per annotare con voce assonnata, non le gesta del popolo, ma i prodigi del cosmo”. Falciato dalla Storia, ma invitto – nel 1958, dopo aver ricevuto il Nobel per la letteratura, che rifiuterà, accusato di “tradimento nei confronti del popolo sovietico”, scrive, con candida fermezza, all’Unione degli scrittori, “mi potete fucilare o deportare, potete fare quello che volete, vi perdono in anticipo” – Pasternak attraversa tradizioni e uomini – allievo di Aleksandr Skrjabin, amico di Rilke, passò la Seconda guerra a difendere l’Occidente traducendo Shakespeare e Goethe – con la pazienza di un geniale testimone, costellato da versi memorabili (“frequentando il futuro nella vita di ogni giorno/ non si può non incorrere, infine, come in un’eresia/ in un’incredibile semplicità”), consapevole che il tempo e le oscurità passano, falangi di falene impazzite, ma la poesia resta, “sempre eguale a se stessa, più alta di ogni Alpe d’altezza celebrata”, come disse, sonnambulo, a Parigi, nel 1935, “essa giace nell’erba, sotto i nostri piedi, e bisogna soltanto chinarsi per scorgerla e raccoglierla da terra; essa sarà sempre troppo semplice perché se ne possa discutere nelle assemblee; essa rimarrà sempre la funzione organica dell’uomo”. Ora, 60 anni dopo, abbiamo, finalmente, una nuova traduzione, definitiva, del Dottor Živago (Feltrinelli 2017, pp.632, euro 19,00), quella compiuta da Serena Prina – già uscita in una ‘edizione speciale’ del cinquantesimo, nel 2007 – straordinaria traduttrice di Dosteovskij, di Lev Tolstoj, di Michail Bulgakov, di Nikolaj Gogol’, insomma, tra le grandi interpreti dei classici russi in Italia. Per me, da par mio, è ‘la neve di Pasternak’, vezzeggiativo che le ho affibbiato quando l’ho invitata al dialogo.
Parto in quarta. Angelo Maria Ripellino ritiene ‘Živago’ l’opera meno riuscita di Pasternak. Il vero Pasternak è nelle poesie (alcune delle quali, come si sa, per altro, stanno in appendice al romanzo). Lei concorda con questa opinione? Come si colloca ‘Živago’ nella grande tradizione del romanzo russo, quali i modelli principali?
“Parto dall’ultima di queste sue domande, per ricordare come l’inizio di Živago sia una diretta citazione dell’incipit della Guardia Bianca: il figlio (in Bulgakov i figli) al funerale della madre, con tutte le implicazione che quest’immagine potente poteva avere nella Russia di fine secolo (per Pasternak) e di una Russia al cospetto della rivoluzione (per Bulgakov). Živago si inserisce dunque prepotentemente, e consapevolmente, in quella tradizione di romanzi che si interrogano su ‘Dove va la Russia?’, tra i quali non posso non citare Le anime morte di Gogol’. E questa domanda a proposito di ‘dove va la Russia?’ per Pasternak, grande poeta, si fonde con il suo interrogarsi su ‘dove va la lingua russa?’. A parer mio Živago rappresenta il contributo, in prosa, a un ragionamento sul destino della poesia nel ���900”.
Poi. Che tipo di cambiamenti sostanziali ha operato rispetto alla ‘canonica’ traduzione di Zveteremich? Che linguaggio è quello del Pasternak prosatore?
“Quando Zveteremich, con grande coraggio e intuizione, insistette con l’editore Feltrinelli e contribuì in modo sostanziale alla decisione di pubblicare Živago, si trovò ad affrontare la traduzione di un’opera estrememente complessa con pochissimo tempo a disposizione. Le vicende che seguirono sono note. La primissima traduzione venne revisionata dalla Olsufieva e da Socrate, al quale si deve la traduzione delle poesie di Živago, e solo successivamente, negli anni ’90, Zveteremich poté ritornare sul testo in occasione della pubblicazione del romanzo nei ‘Meridiani’ Mondadori. Ciascuna di queste fasi fu naturalmente accompagnata da un ‘passaggio’ redazionale, e tra il testo originario e il lettore si sono progressivamente interposte varie voci: il risultato è un testo ‘perfetto’, levigato e scorrevole ma, almeno in qualche punto, non del tutto coincidente con lo spezzettarsi della frase pasternakiana (soprattutto nella seconda parte del romanzo), dove il testimone della rivoluzione quasi non trova più parole. Per quel che mi riguarda, ho avuto dalla mia il tempo (e quindi la possibilità di affrontare anche la traduzione dell’ultimo capitolo del romanzo, dove sono raccolte le poesie di Živago) e una redattrice di grande sensibilità, Annalisa Agrati. Tra il testo russo e il lettore c’è dunque una sola voce e la possibilità di cogliere il variare delle sue intonazioni senza subire interventi esterni. E di intonazioni, in Živago, ce ne sono davvero tante”.
Tra la prosa del Salvacondotto e quella di ‘Živago’ pare esserci, davvero, in mezzo, un mondo, una rivoluzione. Come influisce, a suo avviso, la storia nella scrittura di Pasternak?
“In Živago c’è la grande Storia, che si intreccia alla storia dei suoi personaggi, all’incrociarsi e allo smarrirsi dei destini in un’epoca inquieta. Ma, come ho accennato, c’è anche la storia di una lingua, soprattutto letteraria.
Leonid Pasternak, ‘Boris Pasternak mentre scrive’, 1919
Si parte dalla lingua anticorussa del canto funebre che apre il romanzo, si passa attraverso pagine gogoliane, a citazioni dirette di Puškin, Tolstoj, Tjutčev, Blok, si approda all’impatto con la nuova lingua sovietica, fatta di acronimi e apparente dinamismo, si sprofonda nell’afasia di un poeta che sembra non trovare più parole. Il tutto si intreccia alla lingua della natura e dell’amore tra Jurij e Lara, nella quale si manifestano le immagini caratteristiche della poesia pasternakiana. L’ipotesi finale proposta da Pasternak è quella di un ritorno a una lingua primigenia, conservatasi nel profondo della Russia e della quale nel romanzo è portatrice la figlia abbandonata di Lara e Živago. Il poeta non poteva certo immaginare cosa sarebbe invece successo alla lingua russa nel giro di pochi decenni”.
Nella Nota lei definisce Živago uno “jurodivyj che in silenzio attraversa mezza Russia, e che poi in silenzio siede in disparte nei salotti”. Lo jurodivyj è una figura canonizzata dalla letteratura russa: ce la spieghi.
“Il protagonista si chiama Jurij Andreevič e il romanzo ha inizio alla vigilia della festa del Pokrov, dell’Intercessione della Vergine, che si celebrava il primo (14) ottobre per festeggiare la comparsa della Madre di Dio al beato Andrej Jurodivyj. È Pasternak stesso, quindi, a sottolineare con forza il collegamento profondo tra il suo protagonista e, appunto lo jurodivyj, il cosiddetto ‘folle in Cristo’, colui che rinunciava a un ruolo sociale integrato in cambio della possibilità di denunciare gli abusi e le ipocrisie della società”.
Divago. Qual è il russo che le ha dato più gioia tradurre? Perché? E poi: perché la letteratura russa?
“Quando si parla di gioia nel tradurre si esclude Dostoevskij (il più amato), perchè lì c’è solo passione e tormento e fatica. Quindi direi Gogol’, con il suo genio assoluto, l’umorismo travolgente, il suo riso tra le lacrime. Perché il russo? Forse perchè un mio vicino di casa, un pianista russo emigrato, Il’ja Grinshtein, veniva a sentir musica con mio padre, e per ricambiare si offrì di insegnare il russo ‘alla bambina’. Così mi insegnò l’alfabeto, ogni pomeriggio salivo al piano di sopra, leggevo La signora col cagnolino e non capivo una parola, ma lui si beava della mia lettura, mentre la vecchia zia preparava il tè col samovar e la Russia mi entrava nel sangue. O forse perché una volta i ragazzini avevano il tempo di leggere, e quando si comincia a leggere i russi, non si può più smettere”.
Ultima. Che valore ha, oggi, la testimonianza poetica di un autore come Pasternak?
“Le risponderò raccontando un episodio forse poco noto su Pasternak e Bulgakov. Quando quest’ultimo, malatissimo e quasi morente, accettò di incontrare il poeta, i due rimasero a lungo a conversare, da soli. Poi Pasternak se ne andò, e la moglie di Bulgakov ricorda che Michail Afanasevič le disse: ‘A quello, lascialo sempre entrare’. Non ci fu un secondo incontro, pochi giorni dopo Bulgakov morì. Ma Pasternak è rimasto davvero un autore che bisogna sempre ‘lasciar entrare’”.
L'articolo “Quello lascialo sempre entrare”: Pasternak il poeta fondamentale del ’900. Intervista alla traduttrice del “Dottor Živago” proviene da Pangea.
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pangeanews · 7 years
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1917: la Rivoluzione che ha ucciso i più grandi poeti del ‘900
Aleggia in giro una strana leggenda. Leggenda vuole che la Rivoluzione russa, di cui si onorano i 100 anni quest’anno, sia stata una incubatrice di mirabili esperienze culturali. Che i bolscevichi promuovessero le arti e che Lenin fosse un arguto mecenate. Insomma, che alla rivoluzione politica e sociale si sia associata per davvero, pur in una stretta cinghia di anni – diciamo dieci? diciamolo – la rivoluzione estetica.
Boris Pasternak (1890-1960)
Poi accadde Stalin e tutti sappiamo come andò a finire. Dai buoni propositi culturali alle macerie dei Gulag. Beh, sono tutte palle. Quella leggenda è fasulla. È vero che gli artisti – come sempre – lavoravano per la ‘rivoluzione’ delle forme e quindi dei costumi, consapevoli che la Russia, di per sé, non esiste, che, come cantava l’immenso Fjodor Tjutcev, “con la mente non si può capire la Russia/…nella Russia si può soltanto credere”. Ma non è vero che la Rivoluzione bolscevica, quella fatale, quella dell’ottobre, fu un toccasana per i poeti. Fu, al contrario, una mannaia. E i poeti, come sempre, capirono tutto subito. Mettiamo insieme un po’ di dati. Perché? Perché in Russia, nel 1917, vive una generazione di poeti, di singolari individualità poetiche, che a ripeterle fanno rabbrividire il gozzo (ci provo: Achmatova, Cvetaeva, Blok, Belyj, Majakovskij, Mandel’stam, Pasternak, Esenin, Chlebnikov…), sono la generazione lirica più abbagliante del Novecento e forse di ogni tempo. Una generazione interamente annientata dalla tirannia ‘rossa’, dal delirio proletario. Partiamo con i dati, per così dire, poetici.
*Osip Mandel’stam, 15 novembre 1917, un distico didascalico: “Quando il favorito dell’Ottobre ci ha preparato/ il giogo della violenza e della crudeltà”; Mandel’stam a Anna Achmatova, nella poesia A Cassandra: “E nel dicembre del millenovecentodiciassette/ abbiamo perso l’amore, abbiamo perso tutto”; maggio 1918, ancora Mandel’stam, Inno: “Celebriamo, o fratelli, il crepuscolo della libertà…”.
*Boris Pasternak, poche settimane dopo la Rivoluzione ‘d’ottobre’, sfodera una poesia da sardana infera, “versa l’inferno col tino del Baltico/ sangue umano, cervelli ed ebbro vomito di marinai”; ancora Pasternak, in una lettera all’amico Dmitrij Petrovskij, nel 1920: “Il potere dei Soviet si è gradualmente trasformato in una specie di sudicio ospizio ateo. Pensioni, razioni, sussidi… tengono la gente a digiuno e la obbligano a professare la propria miscredenza – pregando per la propria salvezza dai pidocchi – a togliersi il berretto al canto dell’Internazionale ecc. Ritratti dei membri del Comitato Esecutivo Centrale di Tutte le Russie, corrieri, giorni feriali e giorni festivi… Tutto qui è morto, morto, e bisogna andarsene via al più presto”.
*Michail Bulgakov, lo scrittore de Il Maestro e Margherita, 31 dicembre 1917: “Ritorneranno i vecchi tempi? Il presente è tale che cerco di vivere senza farci caso… non vedere, non sentire! Ultimamente durante il viaggio a Mosca e Saratov, mi è toccato di vedere tutto con i miei occhi, e vorrei non vedere più. Ho visto grigie folle che con urla d’incitamento e ignobili imprecazioni rompevano i vetri dei treni, le ho viste picchiare la gente. Ho visto, a Mosca, case distrutte e in cenere. Facce ottuse e bestiali… Ho visto folle assediare gli ingressi delle banche confiscate e chiuse, file di persone affamate davanti alle botteghe, poveri ufficiali braccati, fogli di giornali dove in sostanza si scrive di un’unica cosa: del sangue che scorre a sud, a ovest, a est, e delle prigioni”.
*Vasilij Rozanov, supremo critico letterario, superbo aforista (leggete almeno Foglie cadute, stampa Adelphi), ottobre 1918, lettera a un amico: “ottobre 1918, Vasilij Rozanov, lettera a Gollerbach, “Come è successo. La Russia è stata sostituita. Ed essa arde di una fiamma estranea, di un fuoco estraneo, riluce di luce non russa e non riscalda la stanza in modo russo”.
*Aleksandr Blok, già alfiere – a modo suo – della Rivoluzione, maggio 1919: “Ormai non sono più in grado di lavorare sul serio… finché sul collo mi balla il cappio dello stato poliziesco… significa dunque che è la fine per la mia vita?”.
*Andrej Belyj sintetizza cosa è stato il 1919, due anni di Rivoluzione bolscevica e di guerra civile: “l’anno più difficile […] quello in cui erano svanite le illusioni sul prossimo avvento della Rivoluzione dello Spirito”.
*Evgenij Zamjatin, lo scrittore di Noi, a suggello, nel 1921, firma un articolo dal titolo emblematico, Ho paura: “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.
Passiamo ora a qualche esemplare dato storico-politico:
a) 7 novembre 1917, varato il ‘Decreto sulla stampa’, “che introduceva la censura e chiudeva tutti i giornali e le riviste che avevano un atteggiamento critico nei confronti del potere” (Andrej Siskin).
b) 3 luglio 1918: Lenin chiude la rivista del suo amico Maksim Gor’kij. “È necessario chiudere La nuova vita”, dice il capopopolo, “allo stato attuale delle cose, e con l’urgenza di portare l’intero paese a difendere la rivoluzione, ogni forma di pessimismo intellettuale è oltremodo nociva”. Gor’kij va in esilio, farà ammenda, torna in Russia, diventa il paladino del ‘realismo socialista’ – e morirà, in circostanze molto poco chiare, nel 1936.
c) “’Verso la fine del 1920, dopo tre anni di guerra civile e di comunismo di guerra, nulla più rimane delle vecchie strutture della vita letteraria. Anche se mai formalmente vietate, le edizioni private sono state via via soffocate dalla censura, dalla mancanza di carta, dalle tasse, dalla chiusura delle tipografie. L’editoria ha finito così per concentrarsi nelle mani del potere centrale, dei soviet locali, delle ‘organizzazioni culturali ed educative del proletariato’”. Di fatto, esistono dal 1919 solo le Edizioni di Stato, Gosizdat, “organismo che sovrintende su tutto il complesso dell’attività editoriale, soprattutto attraverso il razionamento autoritario della carta” (Michel Aucouturier).
d) Di lì a poco, ma prima del ‘realismo socialista’, prima dei Gulag, prima del tallone staliniano, si impone la letteratura ‘sociale’, utilitarista. Nasce, per dire, il romanzo ‘produttivistico’. Nessun intento estetico, per carità, “si trattava di avvicinare il lettore al processo lavorativo, educare in lui la coscienza del suo ruolo nel processo di industrializzazione e di collettivizzazione” (Aleksandr Flaker). Basati su “una fabula lineare, in cui l’operaio o l’ingegnere comunista vince le resistenze opposte dall’arretratezza russa o dall’attività di sabotatori, per rimettere in funzione o costruire un oggetto industriale”, nascono romanzi come L’altoforno di Nikolaj Ljasko e Cemento di Fedor Vasil’evic Gladkov, nel 1925 e La centrale idroelettrica, di Mariétta Saginjan. La metamorfosi forzata è avvenuta: l’artista è asservito all’ideologia.
I dati sciorinati qui sopra non sono segreti arcani, né oggetto di studi abissali. Tutta roba che abbiamo sotto gli occhi da anni (cito solo due reperti: la Storia della letteratura russa, sotto la supervisione di Vittorio Strada, Einaudi 1990, e la Storia della civiltà letteraria russa, diretta da Michele Colucci e Riccardo Picchio, Utet, 1997).
Vladimir Majakovskij (1893-1930)
Insomma, sappiamo da sempre cosa è stata la Rivoluzione ‘rossa’: massacro della libertà individuale in favore dell’orrore collettivo, collettivismo delle arti. I dati sono testimoniati dalle singole, esemplari esistenze dei poeti russi, autori, in quegli anni, di libri destinati a cambiare il corso della lirica occidentale. Riassunto:
*Osip Mandel’stam muore in un campo di smistamento prigionieri nel 1938 – la sua storia è ricordata, tra l’altro, nei Racconti della Kolyma di Varlam Salamov;
*Isaak Babel’, lo scrittore de L’armata a cavallo, viene fucilato nel 1940 con la consueta accusa di attività sovversiva antibolscevica; nel 1954 il governo sovietico, però, dice che si è sbagliato, Babel’ è innocente, non ha commesso il fatto, è soltanto defunto;
*Nikolaj Gumilëv, il promotore dell’‘acmeismo’, marito di Anna Achmatova, viene fucilato – solita accusa, radicale antibolscevico – nel 1921;
*Sergej Esenin si impicca nell’albergo ‘Angleterre’ dell’allora Leningrado, è il 1925, dopo aver scritto, con il sangue, “non è nuovo morire, in questa vita/ ma più nuovo non è nemmeno vivere”;
*Marina Cvetaeva si impicca nel piccolo distretto di Elabuga, il 31 agosto 1941; il giorno prima aveva chiesto di essere assunta come lavapiatti per guadagnare due soldi. Fu intima amica di Boris Pasternak e di Rainer Maria Rilke;
*Vladimir Majakovskij, il geniale megafono della Rivoluzione, si uccide il 14 aprile 1930, sparandosi al cuore, “il tuo sparo fu simile a un Etna/ in un pianoro di codardi e di codarde”, scrive di getto l’amico-nemico Pasternak;
*Boris Pasternak vive. Oltraggiato, spiato. Nel 1957 l’editore Feltrinelli pubblica il Dottor Zivago, di cui è impedita la pubblicazione in Russia. Pasternak vince il Premio Nobel per la letteratura nel 1958. Il governo sovietico gli intima di rifiutarlo. Al suo funerale, nel 1960, aleggiano gendarmi inviati dal regime;
*Anna Achmatova vive. Censita nell’ostilità, censurata. Nessuno può pronunciare il suo nome. Le dicono – testuale – che è la puttana della poesia russa (un libro istruttivo: le memoria di Lidija Cukovskaja, Incontri con Anna Achmatova).
Queste storie sono narrate, sommariamente, in un libro, 1917. I poeti che fecero la rivoluzione (Interno 4 Edizioni, pp.180, euro 14,00). Che è, in sintesi, una antologia dei grandissimi poeti vissuti durante la Russia sovietica. L’ho scritto io, ma questo è secondario.
Anna Achmatova (1889-1966)
Di primaria importanza è che il libro è un risarcimento estetico. In Italia tutti sviscerano la Rivoluzione russa da ogni lato. Ma non pubblicano più i poeti russi di quegli anni. La pionieristica antologia della Poesia russa del Novecento (1954), curata da Angelo Maria Ripellino, un totem di eleganza stilistica e di acutezza critica, è scomparsa. Manca una edizione delle poesie tutte di Pasternak, di Mandel’stam, della Achmatova, della Cvetaeva. Mancano i libri di molti poeti importanti, Chlebnikov, Chodasevic, Gumilëv, Belyj. Bisogna colmare la pecca. Per non ucciderli due volte. Il libro, ad ogni modo, fa un breve tour. L’8 novembre è al Museo della Città di Rimini (ore 17,30), il 7 dicembre a Roma, presso Più Libri Più Liberi (ore 15, con lettura dei poeti russi da parte di Monica Guerritore), il 14 dicembre a Cles. Per far risuonare la voce di chi non si è piegato, di chi con un verso ha piagato la Storia.
Davide Brullo
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