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#pochi the peacock
diceriadelluntore · 2 years
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Storia Di Musica #247 - Grateful Dead, Live\Dead, 1969
L’apice della musica di San Francisco si ha con un ossimoro, perlomeno linguistico. Avviene nel momento massimo di popolarità, nei teatri simbolo, con la band che incarna quasi tutti le caratteristiche di questo periodo. Nel 1969 i Grateful Dead sono ospiti per alcuni concerti al Fillmore West e all’Avalon Ballroom, tra il gennaio e il marzo del 1969. Chiedono al loro mecenate e tecnico del suono, Owsley "Bear" Stanley (il quale molto prima di famose serie tv era anche un chimico clandestino, produttore di LSD, nominato Acid King dai media) di registrare con il meglio che si potesse avere, in termini di tecniche musicali, delle esibizioni live: Bear con l’aiuto di un altro ingegnere del suono, Ron Wickersham, perfezionerà le tecniche di registrazione con un nuovo tipo di microfono, e nuovi tipi di preamplificatori, tanto che Bear e Wickersham fondarono una società, la Alembic, che diventerà regina di questi componenti e in seguito meravigliosa liuteria per chitarre raffinatissime. Con il bene placido della Warner Bros., tre date vennero registrate: un concerto il 26 gennaio all’Avalon Ballroom e 4 concerti consecutivi il 27 Febbraio e il 2 Marzo 1969 al Fillmore West. In queste serate, la magia che scorreva tra Jerry Garcia (chitarra solista e voce), Bob Wier (chitarra ritmica e voce), Phil Lesh (basso), Ron “Pigpen” McKernan (Hammond e voce), le due batterie di Bill Kreutzmann e Mickey Hart e le tastiere di Tom Constanten è unica e il tutto si riversa in questo doppio LP live, leggendario, Live\Dead. In copertina, il disegno di Bob Thomas gioca sull’ossimoro: una divinità femminile esce trionfante da una bara con uno stendardo, sullo sfondo  la scritta psichedelica Live, a giocare sul fatto che sia un disco dal vivo, con nel retro la scritta Dead in caratteri colorati dalla bandiera a stelle a strisce. La scaletta, di appena 7 pezzi, esprime al meglio la creatività del gruppo, e quasi pone un limite creativo al rock psichedelico, come a dire che probabilmente più di così non ci si può spingere: la dimostrazione più sensazionale non può che essere ciò che i nostri combinano a Dark Star, un brano che appariva nel loro primo omonimo disco del 1967. Con il testo del paroliere, e membro ufficiale della band, Robert Hunter, nella versione originale dura 2 minuti, qui è il trampolino di lancio per un viaggio intergalattico di 23 minuti nel suono, nel pulviscolo sonoro spaziale, con gli intrecci delle chitarre di Weir e quella liquida, indimenticabile, di Garcia, rappresentazione unica e inarrivabile di un’idea musicale. Diventerà l’inno dei fan, e arriverà a versioni ancora più intergalattiche: record di sempre i 43 minuti del concerto del Dicembre 1973 a Cleveland, quanto la Sesta Sinfonia di Beethoven. Il ritmo si assesta nella ripresa, frizzante, di Saint Stephen, dedicata alla storia e al martirio del primo Santo cristiano, ma è solo una parentesi, che sfocia nella clamorosa The Eleven: nominata così per l’inusuale e complesso tempo ritmico di 11\8, è una jam che sa di jazz, acid rock, dove il suono arriva a zampate caracollanti. Arriva poi il turno dell’immersione nel blues, che sarà per tutta la carriera della band uno dei pilastri fondamentali: Pigpen ruggisce come un leone nella ripresa di Turn On Your Lovelight, classico della Peacock Record scritto da Don Robey, che qui svetta oltre i 15 minuti, e diventerà anch’esso un classico dei concerti con Pigpen in formazione (sfortunatamente morirà pochi anni dopo, nel 1972, per una rara malattia autoimmune). Ma c’è ancora modo di addentrarsi ancora più a fondo nelle profondità del blues: la band pesca un pezzo del Reverendo Gary Davis, dei primi anni ‘30, tra lo spiritual e il sermone accusatore, Death Don’y Have No Mercy, che viene rallentata all’inverosimile, e cresce con gli interventi magici e da brividi della chitarra di Garcia e dell’organo Hammond di Pigpen, con la sua vocalità calda e ruvida che regala una interpretazione indimenticabile. Con un salto inaspettato, Constanten mette in musica il suo diploma conseguito con Karl Heinz Stockhausen: Feedback è già elettronica, in un susseguirsi di effetti stranianti ed evocativi degli stati psicofisici alterati, con ruggiti elettrici che sembrano spilli di luce in un mare caotico. Alla fine, come un saluto tra amici, il traditional And We Bid You Goodnight saluta un momento storico della storia del rock, il primo e uno dei più alti momenti di improvvisazione musicale, che in quel periodo stava iniziando a diffondersi nel rock. Michelangelo Antonioni prenderà uno spezzone di qualche minuti di Dark Star per una delle scene cult di Zabriskie Point. Nella sterminata e inimitabile discografia Dead, esistono due perle assolute: nel 2005 un box set, limitato a 10 mila copie, Fillmore West 1969: The Complete Recordings, in 10 cd raccoglie in serie le 4 esibizioni al Fillmore West, con alcune perle, tipo una Turn On Your Lovelight da 19 minuti e una cover mozzafiato di Hey Jude dei Beatles. Nello stesso anno verrà distribuita anche una versione 3 cd che raccoglie alcune delle esibizioni di quelle serate magiche, tra cui due jam al limite della fantascienza, That's It For The Other One da 23:30 e una Jam da 25. Difficile trovare miglior rappresentazione della Haight Ashbury che non sia questo disco, per tutto quello che contiene, tranne forse un diretto impegno politico, che verrà sviluppato con più incisività dai Jefferson Airplane. Uno dei dischi da avere.
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Jeremy Allen White, la cucina è più stressante del ring
“Sono settimane incredibili per me”, ha ammesso Jeremy Allen White quando il 15 gennaio è salito sul palco del Peacock Theatre di Los Angeles per ritirare l’Emmy come miglior protagonista di una serie comica. In pochi giorni, lo chef dolente e spettinato di The Bear aveva alzato un Golden Globe e un Critics Choice Award. Intanto, tv, riviste e siti di tutto il mondo si riempivano di immagini di…
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noa-ciharu · 2 years
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Which CLAMP animal companion do you hate the most?
No animal companion hate here, only appreciation. At first I had hard time recalling any 'animals' beside Mokona (I can basically hear "Mokona is Mokona!" inside head) and those animal-like creatures Watanuki befriended in xxxholic. I forgot their names :<
Also look at this cute Mokona pic I've found 🥺 they're adorable
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In TRC there aren't additional side animal characters I think? In CCS Kerberos was a legend, I still remember when he wanted to play online games with Yue and Yue just, went offline. Legends, both of them. In Chobits we have some animal like creatures but those are actually persocons. In TB/X we have Inuki who barely has personality (well, Inugami dog so) and Nandarou, who also has no personality but I believe bird is either 😎 or 300% done with its master, no in between. I know there are some animals in Kobato too but I haven't read it.
So the best animal? Pochi.
No, not those poor puppies in Seishirou's vet office that he killed. No, not Subaru either.
Peacock from Clamp School Detectives.
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Not only was Nokoru floored, but Suoh and Akira busted their cover too. I need extra TB chapter where this girl brings Pochi to vet office. He needs to get in fight with Nandarou and trust me, Pochi will win.
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Thank you Nokoru for your endless supply of money. Pochi confirmed womanizer however, or Nokoru is projecting his host club skills. Still, him and Suoh - sus I say.
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Pochi the legend appears!
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Nothing can top this moment. The emotions, the built up, the shojoness - simply everything.
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Miraculous Heroes - capitolo 9
Indice dei capitoli: Miraculous Heroes
Chat balzò su uno dei lampioni, osservando l’enorme pianta che dominava il piccolo parco: grossa, con grandi denti acuminati e tentacoli lunghi e minacciosi: «Ovviamente, non poteva essere una margheritina innocua.» sbuffò il ragazzo, osservando la sua compagna imitarlo e atterrare su un secondo lampione: «O un girasole…» «Una rosa, no?» «No, perché ogni rosa ha le sue spine.» Ladybug scosse il capo, sedendosi e osservando il vegetale sotto di loro: «Hai per caso delle cesoie dietro?» «Certo, esco ogni giorno con il mio set da giardiniere provetto.» «E’ un no?» «Perché non le fai apparire con il Lucky Charm?» «Perché come minimo esce una zappa?» «Giusta osservazione.» commentò Chat, inclinando la testa e osservando la pianta che, dopo aver avvolto una panchina con i suoi tentacoli, l’aveva portata alla bocca e masticata: «Ok, direi di stare lontani da quei dentini.» Qualcosa di arancio sfrecciò davanti a loro, fermandosi nei pressi di un terzo lampione: «Lavoro extra oggi?» domandò Volpina, salutandoli con la mano e posando poi lo sguardo sulla pianticella: «Ma li pagano gli straordinari almeno? Ho lasciato un ragazzo carino per venire qua e…» «Un ragazzo carino?» «Dovevi vederlo, LB. Alto, muscoloso, capelli neri, occhi scuri…» la ragazza scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli castani: «Uno di quelli per cui ti toglieresti le mutandine e…» «Fermati! Non dire oltre!» «Perché, micetto?» «Non vorrei avere incubi stanotte, grazie.» «Se sogni me non sono incubi.» «Oh sì, che lo sono!» «Ma…» Ladybug scosse il capo, ignorando i due che si prendevano a suon di battutine e studiò la pianta: la bocca era l’apertura di un enorme bulbo, che sembrava poggiare su quattro grandi foglie e proprio da quella zona sembravano diramarsi i tentacoli: «Secondo voi come fa ad accorgersi di ciò che la circonda?» domandò, senza ottenere risposta; si voltò e trovò Chat che stava… Stava baciando l’aria? Mentre Volpina se la rideva soddisfatta. «Volpina?» «Senti, è impossibile vincere con lui a parole.» «Ti prego.» La castana sbuffò, ruotando il lungo flauto e colpendo l’aria davanti a Chat: «Cosa? Che?» il biondo si guardò intorno spaesato, osservando Ladybug e poi il vuoto attorno a lui: «Tu eri qui…» «Era un’illusione di Volpina.» «Tu…» ringhiò Chat, voltandosi verso l’altra che ricambiò con un sorriso innocente: «Sei morta, volpe.» «Come se ci credessi.» «Scusate? Nemico. Cattivo. Sconfiggere.» I due si guardarono male, portando poi l’attenzione sulla pianta: «Dovremmo trovare quella cosa nera, giusta?» domandò Volpina, studiando i tentacoli che si alzavano verso il cielo e poi si abbattevano su tutto quello che trovavano: «Mh. Sembra che non ci veda se siamo qui.» «O ci avverta, quella cosa non ha occhi.» «Spero non sia all’interno…» mormorò Ladybug, studiando i tentacoli: «Volpina, ricapitoliamo i tuoi poteri: puoi creare illusioni e…» «Posso volare e ho la super-forza.» spiegò velocemente la ragazza, sorridendo: «E il mio potere speciale consiste nel creare fuochi fatui.» «In pratica sei inutile.» sentenziò Chat, indicando il mostro: «Proviamo ad attaccarlo e vediamo come reagisce?» «Non penso bene, mon minou.» «Non possiamo neanche rimanere qui a chiacchierare, my lady.» dichiarò il ragazzo, alzandosi in piedi e mettendo mano al bastone: «Io vado, chi mi vuol seguire, mi segua.» Ladybug e Volpina l’osservarono saltare giù e dirigersi verso la pianta, iniziando a combattere contro i tentacoli che, in prossimità del bulbo, si erano accorti della sua presenza: «Ok, ci avverte se siamo vicini.» «Andiamo, prima che quell’idiota si faccia uccidere.» Le due ragazze balzarono a terra, correndo anche loro verso il nemico e iniziando a ingaggiare una lotta con i tentacoli, ritrovandosi presto senza fiato: «Qualcuno ha visto il cristallo nero?» domandò Ladybug, proteggendosi con il suo yo-yo dall’ennesimo colpo da una delle diramazioni della pianta. Due risposte negative le arrivarono alle orecchie, provocandole un gemito frustrato: non poteva essere dentro. Assolutamente. Volpina suonò alcune note e delle sue copie si materializzarono, iniziando a correre in varie direzioni, attirando i tentacoli: «E se fosse davvero dentro?» domandò, osservando gli altri due riprendere fiato: «Dovremmo…» «Vado io.» «My lady, no!» «Ma se è dentro…» «Non ti lascio farti mangiare da quel coso!» «Chat…» «No, se qualcuno deve andare sono io!» «No!» Si fronteggiarono, occhi negli occhi ed entrambi decisi a non cedere di un millimetro: «Mandiamo lei!» dichiarò alla fine Chat, indicando Volpina. «Cosa? Spero tu stia scherzando, micetto!» «Mai stato più serio in vita mia.» Volpina aprì bocca, pronta a dirgliene quattro ma un’ombra la fermò: si voltò, in tempo per vedere un tipo vestito di blu, balzare vicino a loro: «Amico vostro?» domandò, indicando il nuovo arrivato e vedendo Ladybug scuotere il capo, mentre Chat fissare male l’altro. «Sono amico di Chat.» si presentò il tipo, marciando sicuro verso di loro: «Ladybug, è un onore fare la tua conoscenza.» dichiarò, prendendole la mano e portandosela alle labbra: «Hai degli occhi incantevoli.» «Ehi, toglile le tue zampacce di dosso!» «Mi piacerebbe poter dire lo stesso.» dichiarò Ladybug, sorridendo e facendo scivolare via la mano; si voltò verso Chat, trovandolo imbronciato e intento a guardare male il nuovo arrivato. «Se sei amico di Chat…» s’intromise Volpina, ignorando ogni frase provenisse dal gatto: «Vuol dire che sei dei nostri?» «Più o meno.» «Più o meno?» L’eroe blu sorrise, incrociando le braccia: «Ero qua, non avevo niente di meglio da fare e mi son detto: perché non dare una mano a quei poveracci?» «Fatemelo uccidere, vi prego.» dichiarò Chat Noir, venendo subito bloccato dalla sua partner, mentre Volpina si metteva in mezzo, tenendo il suo flauto pronto: «Anzi, non lo uccido, lo do in pasto alla margherita troppo cresciuta.» «Sei dei nostri, ehm…» «Peacock.» «Sei dei nostri, Peacock?» domandò Volpina, tenendo lo sguardo fisso sull’altro e attendendo una risposta; lo vide spostare l’attenzione su Chat e, poi, dietro tutti loro, sorridendo divertito. «Mi sa che le tue illusioni stanno finendo, Volpina.» «Cosa?» la ragazza si voltò, osservando le ultime due copie venire colpite dai tentacoli: «Maledizione!» esclamò, saltando all’indietro e cercando di suonare subito alcune note, ma venendo interrotta da un attacco simultaneo di due propagazioni. Chat e Ladybug balzarono in direzioni opposte, iniziando a duellare con un tentacolo a testa, ritrovandosi poi schiena contro schiena, mentre Peacock spiccò un salto su un lampione e osservò divertito la scena: «Solo perché sono generoso, vi darò una mano oggi!» dichiarò, chiudendo gli occhi e invocando il nome del suo potere. Osservò il tempo andare veloce e riuscì a vedere gli attacchi nemici, finché… Ahia. Ok, non era un bel finale. «Ok, io ve lo dico: se non volete diventare spezzatino, è meglio distruggere il cristallo nero.» dichiarò, attirando l’attenzione degli altri tre su di sé: «E si trova là dentro.» spiegò, indicando il bulbo della pianta. Chat Noir si fermò, osservando l’altro: «Posso fidarmi?» «Ehi, non ho voglia di salvare Parigi da solo. Non vi farò morire.» L’eroe nero annuì con la testa, voltandosi verso la pianta e sorridendo; ignorò il richiamo della sua signora e iniziò a correre, saltando ed evitando gli attacchi dei tentacoli; si chinò, evitando l’ennesimo colpo e, poi, usando il bastone come asta, s’issò e si gettò all’interno della bocca della pianta. «Chat!» Ladybug urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, facendo un passo verso il mostro che aveva inghiottito il suo compagno. Non poteva… No. Non era successo. Qualcuno l’afferrò da dietro, trattenendola lì: «Lasciami!» urlò, cercando di liberarsi dalla stretta dell’altra ragazza e sentendo le lacrime bagnarle le guance: «Devo andare da lui! Lasciami!» Chat. Il suo Chat. «Ragiona!» tuonò Volpina, facendo forza e trattenendola: «Non ti lascerebbe mai!» «Lasciami andare! Chat! Chat!» «Ladybug!» «Devo andare…» mormorò la ragazza, allungando una mano verso la pianta, che aveva cessato ogni ostilità; poi qualcosa l’attirò, dal centro del bulbo, si stava propagando una macchia nera e, pochi secondi dopo, esplose: Ladybug rimase immobile, osservando Chat uscire incolume e con un cristallo nero in mano. «Quindi è questo che succede se uso il cataclisma su qualcosa di vivo.» mormorò il ragazzo, camminando verso di loro, con un sorriso soddisfatto, e osservando il macello che aveva fatto intorno a sé: «Per la mia lady.» dichiarò, porgendole il cristallo nero. Ladybug lo ignorò, tuffandosi fra le sue braccia e piangendo disperata: «Scusami.» mormorò il giovane, carezzandole la testa e posando poi le labbra sulla capigliatura corvina: «Non volevo farti preoccupare, ma era il metodo migliore.» le spiegò, osservandola negare con il capo: «Potrai rimproverarmi dopo, my lady. Adesso distruggi questo, non ho assolutamente voglia di farmi un altro viaggetto dentro quel coso.» La ragazza lo fissò male, tirando fuori lo yo-yo e dare al cristallo un colpo secco, osservandolo sbriciolarsi come sempre: «Ho pensato…» si fermò, scuotendo il capo: «Credevo che tu…» «Non ti lascerei mai sola.» affermò Chat, facendole l’occhiolino e attirandola di nuovo fra le sue braccia: «Io ci sarò sempre.» Volpina sbuffò, sorridendo e osservando i due completamente dimentichi di lei, poi si voltò verso il luogo dov’era Peacock, trovandolo deserto: quel tipo… Chi era? Ladybug. Chat Noir. Volpina. Peacock. Quattro eroi. Quattro portatori di Miraculous. Com’era possibile che ce ne fossero così tanti a Parigi? «Cinque, se considero anche me.» La ragazza scosse il capo, alzandosi e librandosi in volo; guardò un’altra volta il trio – Peacock era sparito poco prima che l’enorme pianta esplodesse – e solo allora notò che lo sguardo dell’eroina in arancio era rivolto verso la sua direzione. Anzi no, era fisso su di lei. Rafael si passò una mano fra i capelli bagnati, uscendo dal bagno e osservando il kwami che si stava ingozzando di cioccolata: «Come ti senti?» gli domandò Flaffy, sorridendo. «Stanco. Ecco perché non voglio fare l’eroe.» «Però li hai aiutati.» «Sarebbero morti, nel caso.» «Solo per questo?» «Dove vuoi arrivare, Flaffy?» Il kwami blu sorrise, avvicinandosi al suo umano: «Il tuo sguardo, Rafael, è cambiato.» «Stai dicendo un mucchio di cavolate.» Da quando era tornata a casa, da quando aveva lasciato Adrien, era in preda a una strana agitazione: aveva provato a disegnare qualcosa, ma tutto ciò che era nato si traduceva in una marea di carta appallottolata che giaceva sul pavimento abbandonata, che adesso osservava dal suo letto. Dal basso, le proveniva il rumore di suo padre che si alzava, per iniziare la giornata lavorativa: lo poteva sentire provare a muoversi silenziosamente per la casa, nonostante la mole; sorrise, allungando una mano e azionando lo schermo del cellulare. Quasi le quattro di mattina. E lei non aveva chiuso occhio. Si alzò a sedere, stando attenta a non svegliare Tikki e prese l’apparecchio fra le mani, facendo scivolare il polpastrello e accedendo alla galleria: foto di Adrien, foto di loro due assieme, foto con i loro amici… Il cuore prese a farle male, battendole furiosamente in petto, mentre l’agitazione che l’aveva ghermita sembrava accentuare la presa. Doveva andare. Gettò le gambe fuori dal letto e scese la scaletta, raggiungendo l’armadio e cambiando il pigiama con le prime cose che le capitarono a mano: «Marinette?» pigolò Tikki, fluttuando a mezz’aria sopra il letto e osservandola con sguardo assonnato, mentre lei finiva di cambiarsi e le sorrideva impacciata. «Devo andare.» mormorò la ragazza, afferrando il cellulare e mettendolo nella borsetta, mentre la piccola kwami volava e s’infilava nel suo nascondiglio: «Tikki?» «Posso immaginare dove stai andando ed è meglio avermi con te.» «Grazie.» Scese dabbasso, osservando al genitore che stava facendo colazione: «Buongiorno…» mormorò, salutando il padre con la mano e abbozzando un sorriso: ecco, e adesso che doveva dire? Papà, faccio un salto a casa di Adrien, penso di tornare presto. Mh. No, meglio di no. Tom si alzò, sorridendole e mettendo la tazza della colazione nel lavello: «Ti ho svegliata, tesoro?» «Ah no.» «Non riuscivi a dormire?» «Papà, ecco…» «Sei sempre stata una brava ragazza, a parte le scuse assurde che trovavi quando non andavi a lezione…» commentò il genitore, massaggiandosi i baffi e accentuando il sorriso che gli piegava le labbra: «Quindi immagino che hai un buon motivo per uscire a quest’ora.» «Mh. Sì.» «E non puoi dirmelo?» «Devo…» si schiarì la voce, osservando il padre e inclinando la testa: «Papà, ti ricordi di quando mi hai raccontato di come hai seguito la mamma in Cina, perché sapevi che doveva essere tua moglie?» «Sì.» «Diciamo che è qualcosa di simile…» Tom Dupain annuì con la testa: «Vorrei ordinarti di tornare in camera tua, seriamente. Dovrei farlo, tua madre lo farebbe sicuramente se fosse sveglia…» «Papà…» «Ma mi hai appena ricordato di com’ero io, quindi vai da Adrien. Ma ti do il permesso solo questa volta e perché sembra sia importante.» «Grazie, papà.» «Solo questa volta, Marinette. Sia chiaro, non ti conviene tirare la corda troppo…» «Certo, papà.» «Solo questa volta.» «Sì.» dichiarò la ragazza, raggiungendo la porta e uscendo velocemente dalla casa: «Grazie, papà.» mormorò di nuovo, salutando il genitore e chiudendosi il portone di casa dietro: corse giù per le scale e uscì in strada, voltandosi in direzione della casa di Adrien. Bene, era il momento di scoprire quanto era veloce senza il costume di Ladybug. Iniziò a correre attraverso la città che si stava svegliando: forse sarebbe stato meglio trasformarsi, ma aveva paura che la maschera di Ladybug in qualche modo influenzasse ciò che aveva deciso. Era stupido, lo sapeva bene, in fondo era sempre lei. Ma voleva fare quella cosa come Marinette. Solo come Marinette. Quando giunse davanti alla villa degli Agreste, si chinò sulle gambe ansante, cercando di recuperare un po’ di fiato; alzò la testa, osservando la casa e non sapendo cosa fare: suonare il campanello? Ma così avrebbe svegliato l’intera casa e, sinceramente, non voleva il signor Agreste: «Forse hai bisogno di questo.» mormorò Tikki, mostrandole il cellulare e sorridendo alla ragazza. Marinette annuì, prendendo l’apparecchio e facendo partire immediatamente la chiamata, rimanendo poi in attesa: «Pronto?» mormorò la voce assonnata del giovane, dopo parecchi squilli: «Marinette, è successo qualcosa?» «Ehm. Sono davanti casa tua.» «Cosa?» «Mi potresti aprire?» Sentì dei rumori provenire dal telefono e rimase in attesa, osservando poi il portone di casa Agreste aprirsi e Adrien uscire: veloce, il giovane corse al cancello, azionando il meccanismo di apertura: «Che ci fai qui?» le domandò, osservandola con lo sguardo assonnato e reprimendo uno sbadiglio. Marinette sorrise, chinando la testa e notando i piedi nudi di lui: «Possiamo entrare?» Il biondo annuì con la testa, facendole cenno in direzione della casa: «Ha attaccato qualche mostro?» le domandò, mentre chiudeva il portone e poi prendeva le scale, che portavano al piano superiore. «No, nessun mostro mattutino.» dichiarò la ragazza, entrando nella camera del ragazzo e notando lo sguardo confuso che aveva sul volto. «E allora, perché?» le chiese nuovamente Adrien, strusciandosi gli occhi e cercando si svegliarsi, senza accorgersi che la ragazza si era avvicinata; rimase sorpreso, quando sentì la lieve pressione delle labbra di lei sulle proprie e rimase imbambolato a osservarla, mentre gli prendeva una mano e lo guidava verso il letto: «Marinette?» «Io…» iniziò la mora, scuotendo il capo e fissandolo negli occhi, come a pregarlo di capire. E lui capì. Deglutì, trovandosi immediatamente sveglio: «I-io…» balbettò, abbozzando un sorriso, mentre le mani di Marinette prendevano l’orlo della maglia e la sollevavano: «Po-potrei non essere capace di fermarmi.» dichiarò, aiutando la ragazza a spogliarlo. «Ma io non voglio che ti fermi.» dichiarò decisa Marinette, gettando l’indumento da qualche parte della stanza e tirandolo verso di sé e verso il letto: caddero entrambi sul materasso e la ragazza gli catturò la bocca con la propria. «Davvero, non potrei…» mormorò Adrien, puntellandosi con le mani contro il materasso e guardando la ragazza sotto di lui; scosse il capo, alzandosi a sedere e sentendosi idiota: quanto aveva spinto in quella direzione? E adesso che stava succedendo… Adesso lui aveva paura? Marinette si mi a sedere anche lei, per quanto glielo permettesse il peso del ragazzo che le gravava sulle gambe, e con un respiro profondo portò le mani al bordo della maglia, togliendosela: «Adrien...» bisbigliò, poggiandogli una mano sulla guancia e distraendo un attimo l’attenzione di Adrien da ciò che gli stava mostrando: «Voglio che sia tu e solo tu.» Il biondo respirò profondamente, annuendo con la testa: «Come la mia signora comanda.» dichiarò, chinandosi in avanti e baciandola, invitandola poi a distendersi nuovamente sul letto. Gettò il bicchiere contro il muro, osservando il vino schizzare la vernice chiara. Due sue creature, sconfitte entrambe. Ladybug e Chat Noir l’avevano annientata su ogni fronte. E adesso i portatori di Miraculous erano aumentati: Volpina, il tipo in blu… Dovresti lasciare che sia io a occuparmi di loro… Si voltò verso il suo riflesso, osservando il suo volto sorriderle maliziosamente: «Pensi davvero di fare meglio?» Avevi detto che quello era l’ultimo tentativo. Era vero. L’aveva deciso. Quello era l’ultimo tentativo, prima di utilizzare quel potere. «Non voglio.» mormorò, carezzandosi il petto all’altezza del cuore. Tu vuoi. E vuoi i Miraculous. «Sì.» Utilizza il mio – il nostro – potere. «Il mio potere…» Usalo. Fallo. Annuì al suo riflesso, osservando le volute di fumo nero uscire dalla sua figura e poi tre guerrieri, scuri come la notte, materializzarsi alle sue spalle. Adrien osservò la ragazza che dormiva profondamente nel suo letto, carezzando con la punta delle dita la spalla nuda; sorrise, quando lei aprì gli occhi e gli puntò contro lo sguardo celeste: «Buongiorno, my lady.» mormorò, chinandosi e baciandola sul collo. «Non ho sognato tutto, quindi?» «Se intendi essere venuta a casa mia – senza trasformarti. E di questo dovremmo fare un discorsino, signorina. –, essermi saltata addosso e avermi privato della verginità…» riassunse il ragazzo, mentre lei si accoccolava contro di lui: «…mh, no. Direi che è stato tutto reale.» «Non è che ti sei lamentato o hai fatto resistenza.» «Mi sono lasciato trasportare. Scusa, che avrei dovuto fare? Una ragazza bella e disponibile, viene a casa mia alle quattro di mattina…» si fermò, scuotendo il capo e facendo scivolare una mano lungo la schiena della ragazza: «…questa me la segno. Non potevi venire un po’ più tardi?» «Non erano le quattro.» «Saranno state le quattro e mezzo o, al massimo, le cinque, capirai. Tu e i golem sareste un’accoppiata purrfetta.» «Hai detto che sono bella?» «Ah. Ah. Bel modo di cambiare argomento.» ridacchiò Adrien, chinandosi e baciandole la punta del naso: «Sì, sei bella. Anzi, bellissima. Ed io sono stato un deficiente a non aver notato subito i tuoi occhi: si riconoscono subito.» «Sei cieco.» «Anche tu non mi hai riconosciuto!» «Ehi, i tuoi occhi cambiano del tutto quando ti trasformi.» mormorò la ragazza, stringendosi maggiormente contro di lui: «Quindi sono bellissima?» «Al momento direi qualsiasi cosa, sappilo.» «Davvero?» «Beh, sei nuda. Nel mio letto. Stretta a me.» spiegò Adrien, brevemente e deglutendo: «Inizio a faticare a trattenermi.» La ragazza sorrise, allungando il collo e baciandogli la mascella: «E allora non fallo.» decretò, ridacchiando quando il giovane scivolò sopra di lei. Wei osservò l’abitazione dove Wayzz l’aveva trascinato, buttandolo giù dal letto: «Qui?» «Esattamente.» dichiarò il kwami verde, colpendo l’aria con i pugni e con i calci: «Lo farò pentire amaramente di quello che ha fatto.» «Ma che cosa…?» «Suona, Wei!» Il giovane sospirò, premendo il campanello e attendendo che qualcuno aprisse; poco dopo la porta si schiuse e il vecchietto che aveva aiutato il giorno prima fece capolino: «Sì?» «Maestro Fu!» mormorò dolce come il fiele Wayzz, sorridendo all’uomo che, alla vista del piccolo kwami, era indietreggiato: «Deve spiegarmi molte cose.» «E non verrai più qui a orari assurdi non trasformata.» dichiarò Adrien, osservando Marinette davanti al portone della villa e attendendo che lei ripetesse le identiche parole. «E non verrò più qui a orari assurdi non trasformata. Seriamente, Adrien, è una cosa assurda…» «Silenzio. Voglio stare tranquillo e saperti al sicuro.» Marinette sbuffò, alzando gli occhi al cielo: «Come il mio gatto e padrone comanda.» borbottò, allungandosi e baciandolo: «Ci vediamo o sentiamo dopo?» «A dopo, my lady.» Adrien la osservò uscire dal cancello e la salutò con la mano, prima di tornare dentro l’abitazione: «Era Marinette?» domandò suo padre, apparendo sulle scale e cercando di allungare il collo, per vedere l’esterno dell’abitazione. «Già.» Gabriel annuì, scendendo e dirigendosi verso la sala da pranzo: «Figliolo.» iniziò, sedendosi al suo solito posto e osservando Adrien, fare altrettanto: «So che sono stato un genitore pessimo e, quindi, capisco se il nostro rapporto è così incrinato e difficile…» «Ho paura di sapere dove vuoi andare a parare.» «Ma ci sono cose che un genitore, per quanto pessimo, deve sapere.» dichiarò Gabriel, incrociando le mani davanti a sé e fissando il figlio da dietro le lenti degli occhiali: «Adrien. Tu hai…» si fermò, respirando profondamente: «…catturato la farfallina di Marinette?»
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Storia Di Musica #249 - Anthony Williams, Spring, 1966
La grande musica si fa con grandi musicisti. Si può avere successo, si può anche fare per un periodo la storia senza essere bravi musicisti, ed è capitato molte volte nella storia della musica popolare. Però per rimanere nel tempo, in senso musicale, si deve saper suonare. Il tipo di oggi oltre alla maestria aveva un talento smisurato, anche in maniera divertente per quanto era mingherlino fisicamente, e ha segnato il battito musicale per decenni. Quando Miles Davis lo vide, erano gli inizi degli anni ‘60, non poteva credere ai suoi occhi: un 17enne che non solo padroneggiava la tecnica a quel modo ma aveva quella scintilla di talento che un tipo sveglio come Davis non poteva non notare. Anthony Williams, per tutti Tony, era di Chicago ma crebbe a Boston. Di famiglia di musicisti, il padre lo presenta prima a Sam Rivers, che lo mette a suonare a 13 anni nel suo gruppo e poi a Jackie McLean, quando ha solo 16 anni, dove suona nel grandioso One Step Beyond. È il 1963 quando Miles Davis, che sta creando il suo secondo quintetto, lo chiama, con un certo scandalo. Ma Davis dirà di Williams (che lo seguirà per tutto il periodo del quintetto e anche oltre, fino all’inizio della rivoluzione di In A Silent Way del 1969): “Williams was the center that the group's sound revolved around”. Tecnicamente gigantesco, fenomeno di agilità, elasticità e velocità ma uno di quei casi in cui la perizia tecnica era perfettamente e squisitamente legata alle necessità musicali, non della sola parte di batteria, ma di tutti gli attori coinvolti, tanto che nei decenni successivi e non solo per la fama del suo ingresso nel secondo quintetto davisiano, fu uno dei più accreditati e ricercati sessionisti della musica jazz. Quello che Williams introduce, portando all’evoluzione il lavoro di suoi grandi punti di riferimento come Max Roach e soprattutto Elvin Bishop, è l’uso della poliritmia e delle strutture della musica rock in quella jazz. Esordisce come solista nel 1964 per la Blue Note, con Life Time, in formazione con Sam Rivers, il vibrafonista Bobby Hutcherson, il suo compagno davisiano Herbie Hancock al piano, i grandi bassisti Gary Peacock, che suonava con Art Blakey e Richard Davis, che pochi anni dopo diventerà famosissimo per il suo contribuito ad Astral Week di Van Morrison. Lifetime è già un grande disco, ma il meglio di sè Williams lo dà per il quintetto davisiano: capolavori come Seven Steps To Heaven, My Funny Valentine, E.S.P. tra gli altri. Se in quel quintetto sviluppa al meglio la cerniera filosofica e musicale che Davis cercava tra la fine del bop, il jazz modale e quello che inizierà a fare verso la fine del decennio, le contaminazioni da altri generi, come solista Williams inizia a esplorare l’avanguardia, ma senza sconfinare nelle dinamiche della “new thing”, totalmente avversa a Davis, che non gli avrebbe perdonato tale affronto. Il discorso si condensa in sessioni del 1965, per la leggendaria Blue Note, dirette da quell’altro genio del suono che fu l’ingegnere e produttore Rudy Van Gelder. Spring esce nel 1966 e vede in formazione con Williams al sax tenore,  alternandosi, Wayne Shorter con Sam Rivers (che suona anche il flauto), mentre al piano ritroviamo Herbie Hancock e al basso Gary Peacock. L’ingresso di Shorter anche qui è determinante nel cambio di stile rispetto al primo album. In scaletta 5 composizioni autografe di Williams, tra cui spiccano Echo, un brano per sola batteria che esprime la tecnica monumentale del musicista, la melodiosa e bellissima Love Song, il battito emotivo che è Extras, il brano di apertura, o la chiusura, più swingata, di Tee, con il piano di Hancock a primeggiare e il fraseggio-sfida dei due sax, in momenti davvero riuscitissimi come in From Before. È un disco difficile da catalogare, derivata certamente dall'hard bop e dalla musica modale dei primi anni sessanta, piena di cambi di marcia, libera e fiera, capace di svolte inaspettate, che però diventano immediatamente una visione condivisa. Williams aspetterà tre anni per il nuovo lavoro da band leader, quando pubblicherà il suo disco di debutto, addirittura un doppio, della sua nuova creatura, The Tony Williams Lifetime (1969): con il chitarrista inglese John McLaughlin e l’organista Larry Young, è subito considerato uno dei pilastri della rivoluzione della fusion, di cui lui sarà uno dei più geniali creatori, e regala al jazz uno dei primi capolavori jazz rock nella leggendaria Via The Spectrum Road, dall’inusuale tempo di 11\8. La sua carriera continuerà nel rispetto e nell’ammirazione totale dei colleghi, non solo jazz ma anche rock, che prenderanno a piene mani le sue idee degli anni ‘70, dove ricordo suonerà in Trio con Hank Hood e Ron Carter, con il cui basso formerà probabilmente la linea ritmica più grandiosa della storia del jazz, con McCoy Tyner, in Trio Of Doom con Jaco Pastorius e John McLaughlin e l’ultimo progetto, Arcana con Bill Laswell e Derek Bailey. Morirà, a soli 51 anni, a San Francisco nel 1997 per le complicazioni di un’intervento alla cistifellea. Rimane, e rimarrà per sempre, uno dei più grandi interpreti e innovatori dello strumento, un gigante dal fisico gracile ma dall’impeto, e dalla tecnica, sconfinata.
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diceriadelluntore · 4 years
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Storia Di Musica #126 - Albert Ayler Trio, Spiritual Unity, 1965
I dischi di Giugno, scelti per il loro spiccato senso iconoclasta (a vari livelli) si concludono con uno dei dischi più importanti del free jazz. A dir la verità, nel 1964 molti jazzisti, anche non legati al movimento free, iniziarono a designare la loro musica come new thing, in contrasto con il mondo bianco che lo chiamava jazz. Albert Ayler, sassofonista immensamente talentuoso, fu uno dei primi seguaci del solco tracciato da Ornette Coleman, ma verso fine anni ‘50 ha pochi contatti e si trasferisce in Europa. In Svezia, insieme a Cecil Taylor (altro pilastro della nuova musica), si esibisce in trio sia con Taylor sia con una ritmica indigena scandinava, e tra il 1962 e il 1963 incide i primi dischi (The First Recordings, appunto) e realizza per la radio danese, l'album, edito in origine come My Name Is Albert Ayler e poi anche come Free Jazz, a testimonianza dei suoi studi free. Ma la vera svolta arriva quando ritorna a New York e incontra un personaggio bizzarro, l’avvocato Bernard Stollman. Stollman è uno dei maggiori sostenitori dell’Associazione Esperantista Americana, che si adoperava per lo sviluppo e l’uso della lingua Esperanto, la fratellanza dei popoli e il superamento delle divisioni razziali. Nel 1964 fonda la propria casa discografica, all’epoca completamente artigianale, la ESP Disk, che fu una delle prime etichette indipendenti: per i successivi 12 anni, fin quando nel 1976 l’etichetta chiuse, la ESP fu considerata la casa discografica più pazza del mondo, definizione tra il denigratorio e l’ironico, che descrive solo in parte l’interesse e la curiosità della casa discografica verso le nuove arti e le nuove dimensioni musicali: a loro si dovranno i dischi dei Fugs, quelli meravigliosi di Tom Rapp e i Pearl Before Swine, e l’alba del new thing. Tanto è che Spiritual Unity, del 1965 (ma registrato nel luglio 1964), è il primo album ufficiale della ESP. Ayler si presenta in trio con Gary Peacock, contrabbasso e Sunny Murray alle percussioni. Spiritual Unity riprende alcune sue composizioni dagli album precedenti, ma dandone un nuovo spessore e una nuova dimensione. Il disco, sin dal titolo, richiama il mondo esoterico che tanto caro fu ad Ayler sin dagli inizi, e questa attenzione si ripete nei titoli delle sue composizioni. I primi 44 secondi di Ghost sembrano una marcetta militare, con un po’ di gospel, ma dal secondo 45 la musica è come se iniziasse a sciogliersi, a zoppicare, a suonare in un universo parallelo. Ghost viene ripreso in una seconda (e più ampia) variazione che chiude il disco: il tema principale si fa debordante, specie sul versante improvvisativo, con contributo incisivo e permeante del contrabbasso di Peacock, che in verità è piuttosto in ombra negli altri brani. The Wizard è quasi una prova muscolare, soprattutto all’inizio, per poi stemperarsi in una dimensione da preghiera (altra componente-chiave, questa, della poetica ayleriana); Spirits sbuffa e minaccia come magma di un vulcano che si sta raffreddando, incutendo cioè un timore tutto potenziale, quasi a dimostrare la necessità di stemperare questa voglia di scardinare il quadro generale. Nelle versione più moderne c’è un quinto brano, Variations, che appariva nell’album Ghosts, (in quartetto stavolta, con Don Cherry insieme a Peacock e Murray), ma che qui si espande e cambia dimensione. Leggenda vuole che dopo le sessioni di registrazioni (che per un errore degli ingegneri del suono iniziarono solo in mono recording, per poi essere virate in stereo) Stollman li attendesse al bar davanti ai Variety Arts Recording Studio, dove i musicisti furono pagati e firmati tutti i documenti necessari per la pubblicazione. Ayler pur nella sua furia, cerca di mantenere un legame con il passato: sebbene la sua musica arrivasse dopo lo strappo di Coleman, non fu subito apprezzata. Anche se a qualcuno piacque davvero tanto. John Coltrane si innamorò della sua tecnica e delle strane magie che poteva fare con il suo sax, e ne fu moltissimo ispirato nei suoi lavori “trascendenti” degli ultimi anni (Ascension e Meditations soprattutto); poco prima di morire, nel 1967, volle che fosse Ayler a suonare al suo funerale. Senza sapere che appena tre anni dopo il corpo di Albert Ayler fu trovato nell’East River a Brooklin, il 25 Novembre 1970. Per anni si diffusero numerose leggende sulla sua morte, tanto che a metà anni ‘90 la Gallimard, notissima cada libraria francese, intitolò una raccolta di gialli noir “Le 16 morti di Albert Ayler”. Rimane un gigante da riscoprire, per la sua peculiare e fortissima carica innovativa, e per il mito, magico, che accompagna la sua musica.
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Miraculous Heroes - capitolo 3
Indice dei capitoli: Miraculous Heroes Capitolo 3
Il tenente Roger aveva pensato che tutta quella cosa di mostri e roba sovrannaturale fosse finita quattro anni fa, quando il misterioso Papillon era scomparso nel nulla: certo, Ladybug e Chat Noir aiutavano ancora le forze dell’ordine, ma in compiti più tranquilli come la cattura di quel criminale o la salvezza dei civili quando succedeva qualche incidente. Insomma, erano quattro anni che Parigi non aveva niente di anomalo. Fino a quella sera, quando dal nulla era comparso quel colosso di ghiaccio e aveva iniziato a distruggere tutto. L’uomo si tolse il berretto, grattandosi la nuca e osservando la barricata fatta di volanti e transenne: di certo non avrebbe fermato il bestione, ma l’avrebbe rallentato fino all’arrivo dei due supereroi. Sospirò, osservando i suoi poliziotti sparare contro l’essere di ghiaccio, senza sortire nessun effetto, mentre questo avanzava minaccioso: «Libérée, Delivrée» canticchiò una voce maschile e un’ombra nera atterrò su una delle due volanti vicino al tenente Roger, voltandosi poi verso l’uomo sorridendo: «Je ne mentirai plus jamais…» «Chat, ti prego.» sospirò Ladybug, saltando sul tetto dell’altra volante e sorridendo al poliziotto: «Non temete, siamo arrivati.» «Ladybug, Chat Noir.» mormorò Roger, mettendosi il berretto e fissando i due eroi speranzoso: adesso sarebbe andato tutto a posto. Quei due avrebbero fermato il colosso di ghiaccio e la città sarebbe stata al sicuro: «Vi stavamo attendendo.» dichiarò, riprendendo la sicurezza di un ufficiale. «Lasciate che ci pensiamo noi al ghiacciolino.» dichiarò Chat, saltando giù dall’auto e mettendo mano al suo bastone, fermandosi quando notò che Ladybug non l’aveva seguito: «My lady?» «Tenente Roger, potrebbe chiedere ai suoi di allontanarsi? Non vorrei venissero coinvolti nello scontro.» «Certamente, Ladybug.» L’eroina sorrise, raggiungendo il suo compagno e mettendo mano allo yo-yo: «Andiamo a scaldare la situazione, Chat?» «Non aspettavo altro, my lady!» dichiarò il giovane, allungando il proprio bastone e saltando per aria, ruotò poi l’arma e colpì il colosso sul muso, senza sortire nessun effetto; Ladybug lanciò il proprio yo-yo verso un lampione e lo usò come leva per issarsi, liberò velocemente il filo e colpì anche lei il nemico, fallendo miseramente. «Un tipo tutto d’un pezzo, eh?» commentò Chat, mentre atterrava insieme alla compagna: «Come minimo se lo invitano a una festa è capace di raggelare l’ambiente. L’hai capita questa? Raggelare!» «Chat, ti prego…» Il colosso ruggì, facendoli sobbalzare entrambi: «Ehi, era carina come battuta!» sbottò l’eroe nero, additando il nemico. «Penso che anche a lui non sia piaciuta.» «My lady, ciò mi ferisce.» La ragazza alzò gli occhi al cielo, scuotendo il capo divertita: «Puoi provare a rallentarlo? Colpendolo magari, invece di farlo arrabbiare con i tuoi giochi di parole?» Un sorriso mefistofelico piegò le labbra del giovane: «My lady, io non colpisco. Io cataclismo forte.» dichiarò sicuro Chat Noir, invocando poi il nome del proprio potere e correndo verso il colosso di ghiaccio: lo toccò con la mano che aveva il potere della distruzione e gli mandò in mille pezzi una delle gambe. Balzò indietro, osservando l’enorme essere crollare miseramente a terra e cercare di acciuffarlo, mentre Chat effettuava un nuovo balzo e si metteva distanza di sicurezza. «Io cataclismo forte?» ripeté Ladybug, scuotendo il capo: non era il momento per pensare alle battute di Chat. Lanciò in aria il suo yo-yo, pronunciando ad alta voce il nome del proprio potere magico e dal nulla apparì un oggetto, che sarebbe servito alla vittoria di quello scontro: «Un punteruolo?» «Lo scaliamo?» domandò Chat, tornando al suo fianco e osservando l’oggetto fortunato: «Seriamente, il Lucky charm mi lascia perplesso alle volte. Ok, no: quasi sempre.» La ragazza lo ignorò, per quanto gli era possibile, e si guardò attorno, cercando qualche indizio su come usare quell’arnese: alla fine, con un particolare gioco di angoli con i lampioni e il bastone di Chat, la soluzione si creò davanti a lei: «Chat, colpiscilo.» «Ho sempre sognato giocare a golf.» gongolò il giovane, impugnando il bastone a mo’ di mazza e colpendo il punteruolo, osservandolo mentre colpiva prima il lampione alla loro sinistra e poi, di rimbalzo, quello alla destra, andando a conficcarsi nella fronte del colosso, che cercava miseramente di raggiungerli: l’incrinatura, partendo dalla fronte, si sviluppò per tutto il corpo del bestione e, con un ultimo ruggito di sconfitta, si frantumò in mille pezzi. «Ehm. Lo abbiamo ucciso?» domandò Chat, osservando ciò che era rimasto del colosso: «Ma non era una persona come tutti gli altri?» «A quanto pare no.» mormorò Ladybug, avvicinandosi e studiando il ghiaccio: un piccolo pezzo captò la sua attenzione, si chinò allungando la mano verso il cristallo nero che risaltava fra quelli bianchi: «Che cosa è?» «Distruggetelo!» ordinò una voce autoritaria, facendo voltare i due eroi verso la figura di un vecchietto che li fissava attentamente: «Distruggetelo o quell’essere tornerà come nuovo entro breve.» Ladybug fece ondeggiare il suo yo-yo e colpì il cristallo nero, osservandolo sbriciolarsi e poi, come polvere, vennire portati via dal vento; la ragazza si voltò nuovamente verso l’anziano signore che, in camicia hawaiiana e bermuda, risaltava nella notte parigina: «Ma lei…» «Ti ricordi ancora di me?» domandò l’uomo sorridendo alla fanciulla: «Non ti ho ancora ringraziato per avermi offerto il tuo macaron...» «Aspettate. Fermi tutti.» s’intromise Chat, fissando il vecchietto e poi la sua compagna: «Quello ha assaggiato il tuo macaron?» «Ho paura a chiederti cosa intendi con macaron.» Chat sbatté le palpebre, osservando Ladybug mentre la sua bocca si allargava in un sorriso che non prometteva niente di buono: «My lady, io sono un gattino innocente…» «Innocente dove?» sbottò la ragazza, indicandolo: «Con tutta quel ben di dio in mostra con questa roba nera…» si fermò, sgranando gli occhi e portandosi le mani alla bocca, mentre sentiva le guance farsi fuoco. «Ooooh.» mormorò Chat, sorridendo lascivo e avvicinandosi alla sua compagna: «Quindi è questo che pensa la mia coccinella pervertita?» «Io non ho detto niente.» biascicò Ladybug, incrociando le braccia al seno e infossando il mento: «E comunque fra il completo di Chat Noir e quei maledetti jeans dell’ultimo set…» «Stai pensando a voce alta.» cantilenò il biondo, ridacchiando quando vide le guance della ragazza diventare rosse quanto la sua maschera: «Ehi, maestro Miyagi.» «Mi chiamo Fu.» «Mi ricordo anch’io di lei.» Il mostro era stato sconfitto. Appollaiata sul tetto di uno degli edifici che si ergevano davanti Champs de Mars, Bee aveva osservato i due eroi parigini sconfiggere il mostro: aveva sentito parlare di Ladybug e Chat Noir e aveva voluto vederli in azione, capendo subito che erano come lei. Anche loro avevano un Miraculous. «A quanto sembra siamo arrivati tardi.» commentò una voce maschile dietro di lei, facendola sobbalzare: si librò in aria, voltandosi e studiando il giovane: una tuta blu pavone, molto simile a quella che indossava anche lei, che lo fasciava dal collo fino ai piedi e una maschera dello stesso colore; sui pettorali, risaltava poi il disegno di una coda di pavone. Il proprietario del Miraculous blu a quanto pare «Interessante, puoi volare.» osservandola mentre rimaneva sospesa a pochi metri da lui: quando era Bee, lei poteva librarsi in volo come un’ape, l’animale del suo Miraculous. «E tu chi sei?» domandò studiando il nuovo arrivato, senza avere intenzione di scendere: se fosse stato un nemico si sarebbe potuta dare alla fuga velocemente; se fosse stato un amico… Beh, si sarebbe scusata per la poca fiducia accordata. «Puoi chiamarmi Peacock, signorina apetta.» «Bee.» mormorò, fissandolo male: «Sei un supereroe anche tu?» «Supereroe…» mormorò Peacock, massaggiandosi il mento e sorridendo divertito: «Beh, direi di sì.» «Lavori con loro?» Peacock gettò uno sguardo dietro la ragazza, osservando le figure di Ladybug e Chat Noir che si allontanavano nella notte: «Come dire? Preferisco fare in solitaria.» Bee incrociò le braccia al seno: «Sei uno dei suoi servi?» Un sorriso piegò le labbra di Peacock che, con fare galante, s’inchinò davanti a lei: «Questo sta a te scoprirlo, signorina apetta.» «Camembert.» esclamò Marinette, mostrando la scatola di formaggio a Plagg che, con espressione contenta, l’afferrò fra le zampette, volando poi fino alla scrivania e accomodandosi accanto a Tikki, che già sgranocchiava i suoi biscotti: «Se sei stanco, non dovresti accompagnarmi a casa.» commentò la ragazza, girandosi verso Adrien, che si riposava sulla chaise longue rosa: la testa era appoggiata al bordo dello schienale, gli occhi chiusi e il corpo completamente abbandonato. «Grazie per il camembert di emergenza. Domani te ne porto un po’ per la riserva.» mormorò il biondo, aprendo pigramente un occhio e voltandosi a osservare il proprio kwami che, senza ritegno, aveva iniziato a mangiare il formaggio. «Nessun problema.» dichiarò Marinette, sorridendo alla vista dei due kwami che si rifocillavano tranquilli, parlottando tra loro: «Non pensavo che l’avrei usata, comunque. Sembrava ci fosse calma, ultimamente.» «Già…» sospirò Adrien, tirando su la testa e sorridendole: «Vieni qui.» La ragazza si avvicinò, sedendosi sul bordo della poltrona: «Vuoi parlare di quello strano cristallo che il Maestro Fu ci ha fatto distruggere? Ma tu lo sapevi che era da lui che facevano le loro riunioni i kwami? Tikki non mi ha mai detto dove…» Adrien sorrise, afferrando per un polso Marinette e tirandola addosso a sé: «Di questo possiamo parlare domani.» dichiarò, aiutandola a sistemarsi meglio sopra di lui e abbracciandola, notando come le guance le divennero subito di un delizioso rosa: «Volevo parlare dei tuoi pensieri sconci…» Marinette arrossì. Tanto. Alzò la testa, osservandolo con gli occhi celesti sgranati, mentre iniziò a muovere le labbra a vuoto: «Ca…ah…eh…uh…bl…ml...» il balbettio sconclusionato che seguì il momento di silenzio, fece sorridere maggiormente Adrien, ricordandogli la ragazzina imbranata che non riusciva ad articolare una frase davanti a lui. All’epoca aveva pensato che lo facesse perché ancora arrabbiata con lui per la storia del chewingum, poi aveva scoperto che c’era un altro motivo – nettamente più interessante – per quel piccolo problema. «Qu-quando mai l’ho detto?» riuscì a dire Marinette alla fine, buttando giù la saliva e osservando il ragazzo, mentre le guance erano passate alla tonalità più accesa di rosso. «Mmh. Quando?» si domandò Adrien, accarezzandole il braccio e sorridendo al volto imbarazzato: «Quando mi hai detto che la tuta di Chat Noir ti eccita? E hai tirato fuori anche dei jeans di un set fotografico, se non sbaglio.» «Io non ho detto questo!» «Ah no?» «I-io…» Adrien sorrise, stringendo più forte a sé la ragazza e spostandogli i capelli con la mano destra, in modo che il collo fosse libero: «Io faccio sempre pensieri sconci su di te.» bisbigliò, iniziando a lambirle il collo: Marinette si morse il labbro inferiore, mentre poggiava le mani sulle spalle del ragazzo, inspirando profondamente; si accomodò meglio in grembo a lui, piegando la testa di lato e assaporando i baci che, lentamente, salivano verso l’alto, giungendo fino a un punto delicato sotto all’orecchio: «Sempre.» continuò Adrien, prendendo poi il lobo fra i denti e mordicchiandolo leggermente: «Soprattutto, quando sei sopra di me con solo questo addosso.» «So-so-sono solo una canotta e un paio di pantaloncini…» mormorò Marinette, inarcandosi, quando sentì le dita fredde di lui risalire lungo la schiena; tenne gli occhi chiusi, stringendosi al giovane e lasciando che continuasse a leccarla e toccarla. «Sei talmente deliziosa…» sussurrò il biondo, carezzandole la guancia e portando nuovamente indietro una ciocca di capelli mori, mentre l’altra mano scendeva lungo la coscia in una lenta carezza: «Che vorrei mangiarti.» Marinette aprì le palpebre e fissò gli occhi verdi che la guardavano tranquilli e sicuri, mentre una strana tensione s’impadroniva del suo corpo: «Fal…» Plagg ruttò sonoramente, facendola sussultare e riportandola alla realtà: rossa in volto scese da sopra di Adrien e chiuse la felpa, nascondendo parte del suo pigiama, come se fosse quello il problema. «Plagg, l’educazione…» sbuffò Adrien, alzando gli occhi verso l’alto e issando su anche lui: «Te l’ho detto mille volte: anche se il camembert è buono, non si rutta.» «Diciamo che quello era un richiamare l’attenzione su noi due.» sbottò il kwami nero, indicando sé stesso e la sua compagna: «Sembrava che qualcuno si fosse dimenticato di noi.» «Come se fosse possibile dimenticarsi di te…» sbuffò il ragazzo, allungando la mano con l’anello verso il suo amico: «Plagg, trasformarmi.» ordinò e un lampo di luce verde-gialla lo avvolse, trasformandolo nuovamente in Chat Noir. Con addosso gli abiti dell’eroe parigino, si voltò verso la ragazza e le fece l’occhiolino: «Ci vediamo domattina, my lady?» «Eh…ah…s-sì.» «E stanotte vedi di dormire. Non mi sembra di averti dato materiale per rimanere sveglia.» Marinette si sedette sulla poltrona, alzando lentamente la testa e osservando il ragazzo vestito di pelle nera: «Veramente mi hai dato materiale per rimanere sveglia almeno due mesi.» biascicò, stringendo le mani in grembo. Chat si chinò davanti a lei, e prendendole le mani fra le sue, se le portò alle labbra: «Marinette?» mormorò, osservando gli occhi celesti fissarsi nei suoi: «Prima stavi per dirmi di sì?» La ragazza arrossì, abbassando lo sguardo e annuendo con la testa. «E’ già qualcosa.» mormorò il giovane, baciandole nuovamente le mani e poi issandosi in piedi: «Significa che mi sto avvicinando alla meta.» «E pensare che stavi andando così bene…» sospirò Marinette, alzandosi anche lei e scuotendo il capo: «Scusami, penso sia difficile avere a che fare con un’imbranata come me.» «Io veramente adoro il tuo essere imbranata: sei così tenera che mi fa solo venir voglia di proteggerti e tenerti al sicuro.» spiegò Chat, incrociando le braccia: «Mentre quando sei Ladybug sei talmente sicura di te, che il mio unico pensiero è “voglio essere schiavo di questa donna”.» si fermò, annuendo con la testa: «Devo avere qualche problema, mi sa.» «E te ne accorgi solo ora?» «Ti ricordo che hai preso il pacco completo.» «L’offerta diceva solo Adrien, Chat Noir è stato aggiunto dopo.» «Oh no, principessina.» le intimò Chat, premendole un dito guantato sul naso: «Anche se eri innamorata persa per Adrien – e sono certo che qualche pensierino l’avevi fatto anche su Chat –, quando ci siamo messi insieme già sapevi chi ero, quindi hai preso il pacco completo.» «Che affarone!» «A-ha! Divertente.» dichiarò il ragazzo, facendole l’occhiolino: «Adesso vado, altrimenti domattina non avrò forze sufficienti per…» «Adrien!» «…per tenere lontani tutti i tuoi ammiratori. Non so se hai notato che attiri uomini come se tu fossi erba gatta e quelli un branco di gatti drogati!» «Non è vero!» «Oh sì, fin dal collége ci sono stati Nathanael e Nino; fortunatamente Nino è stato tolto dai piedi perché qualcuno lo ha rinchiuso in una gabbia con Alya.» «Devo ricordati che qualcuno, qui presente, aveva spinto Nino a provarci…» «Errori di gioventù. Poi c’è Theo, che prima era innamorato di Ladybug ma ho visto come ti ha guardato l’ultima volta che l’abbiamo incontrato.» Marinette alzò gli occhi al cielo, iniziando a spintonare il ragazzo verso le scale: «E l’ultimo è Rafael. L’ho visto lo sguardo che ti ha rivolto e non mi è piaciuto per niente. Per niente.» «Per niente?» «Già, perché era lo stesso mio di quando t’immagino senza nulla addosso!» «Adrien!» «O forse solo con quegli slip di pizzo rosso…» «Tu…quando…come…Come fai a saperlo?» «Alya mi ha mandato un foto, quando siete andate a fare shopping, cara la mia coccinella pervertita.» «Voglio morire.» «Comunque è meglio dormire e essere in forze per proteggerti da questi cattivi, my lady.» dichiarò Chat, voltandosi e chinandosi per baciarla sulla labbra: «Devo salvare te, salvare Parigi. Un mucchio di salvataggi.» «Dura la vita per il supereroe.» Chat balzò sulla scaletta, arrivando agilmente alla botola e balzando fuori nella notte: «Non ne hai idea, my lady.» dichiarò, facendole l’occhiolino e chiudendosi dietro lo sportello.
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