Tumgik
#resta da risolvere il senso di colpa
omarfor-orchestra · 10 months
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outoftuna · 5 years
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Quarantena e autoisolamento
Mi alzo quando voglio (bello, eh? Da qua in poi le cose belle finiscono, però). Bevo perché in cucina non berrò più, non porto il mio bicchiere fuori dalla stanza. Mi cambio per evitare che il pigiama esca da questo santuario protetto. Non metto il reggiseno perché non voglio sentire costrizioni al torace (a farmele venire ci pensa già l’ansia) per non interpretarle come difficoltà respiratorie. Metto la mascherina. Vado in bagno e prima di sedermi passo della carta igienica bagnata sull’asse del water. Se la facessi in squat, entro la fine della quarantena avrei un culo di marmo, ma ho già la mascherina che mi affatica. Mi lavo la faccia e mi asciugo rigorosamente nella mia salvietta. Evito di toccare con le dita maniglie e manopole, sembra di stare all’autogrill. Scendo a fare colazione. Se disgraziatamente c’è ancora mia mamma in cucina, torno al piano di sopra finché mi manda un messaggio per dirmi che ha finito. Mangio velocemente. Rimetto la mascherina. Mentre mamma sta in salotto, perché, poveretta, non ha una stanza dove isolarsi, mi dà istruzioni su cosa cucinare velocemente per pranzo. Prendere lezioni di cucina da lei è sempre stato terribile, ora lo è di più perché riversiamo il nervosismo in ogni cosa che facciamo, in ogni parola che pronunciamo. Solo io posso svuotare la lavastoviglie. Mentre cucino, mi asciugo le mani col mio personalissimo asciugamani. Se mi confondo, smadonno, me le rilavo e le riasciugo. Una volta pronto, faccio le porzioni: un contenitore per me, soggetto non ufficialmente a contatto con malati di coronavirus, uno per i miei. Potrei dividere per tre, magari domani alziamo il livello di difficoltà. Nel frattempo tutte le stanze vengono aerate e si consuma l’eterna lotta tra mia madre, che staccherebbe direttamente gli infissi, e mio padre, che non vuole che prendiamo freddo perché ci confonderemmo con i sintomi. Vado in bagno per lavarmi i denti, ma il mio spazzolino è in stanza. Sto per andare in stanza, ma mi ricordo di aver toccato una maniglia, per cui vado in bagno a lavare le mani. Recupero lo spazzolino, li lavo e lo riporto in stanza. Vado in bagno con un libro, perché cercare di farla senza leggere mi angoscia anche in periodi di non-pandemia. Però non porto il cellulare in giro per casa perché quello si insozza facilmente e infatti mi perdo le telefonate dei parenti che ci chiedono come stiamo o cosa devono comprarci. Pulisco il bidet, le mani, il libro. Mi rinchiudo in camera. Tra i messaggi ricevuti non c’è quello della nonna in risposta a chi le chiede come sta. “Ecco” penso “vedrai che è morta”. Timidi segnali di vita arrivano in tarda mattinata, scrive peggio del solito. Sarà la mascherina dell’ossigeno? Sarà la malattia? Non ci sentiremo per ore e in quelle ore la immaginerò intubata in condizioni disperate. Non lavoro. Ho preso ferie in vista della scadenza del mio contratto. Chissà se me lo rinnoveranno. Faccio un po’ di ginnastica. Il mio ragazzo si fa sentire poco persino in quarantena, ma lo capisco, a casa finalmente riesce a lavorare in libertà alle sue creazioni e quando ci videochiamiamo è solo per darci brutte notizie, vedere le nostre facce tese e chiederci cosa abbiamo mangiato. Gli si è rotta la fotocamera interna del cellulare, per cui deve scegliere se vedermi o farsi vedere, ma se sta davanti a uno specchio come un poser ce la facciamo. Le videochiamate sono deprimenti, meglio di niente, ma non propongo a nessun altro di farle. Nessuno me lo propone comunque. È già ora del mio turno per mangiare, mascherina e via in cucina, sperando di non dover toccare maniglie. Ingollo tutto in dieci minuti e lascio spazio agli altri. Lavo i denti e torno in camera. Cerco di studiare, mi perdo nelle notizie. Metto di nuovo la mascherina e pulisco il piano superiore. Il fatto che il bagno puzzi di candeggina fa da rassicurante contrappeso ai dubbi su tutte le altre possibilità che abbiamo di contagiarci, ma l’illusione dura poco. Incrocio mia mamma, che mi maledice per il solo fatto di averla incrociata, si incolpa per essere (forse) stata contagiata, ci incolpa per essere (forse) stata contagiata, piange, fa un colpo di tosse, ha paura, si dà della deficiente per aver mangiato dei cracker coi guanti e infatti non li usa più, monitora a distanza la temperatura della zia che è stata a contatto con la nonna. Le invio il numero di supporto psicologico al telefono. Non lo chiama. Preferisce chiamare Regione per avere conferma del fatto che non è ben isolata e quindi rischiamo di ammalarci tutti. Come se non lo avessimo capito fin da subito. Disgraziatamente papà mi chiama perché ha problemi al PC. In ambulatorio, attaccato a casa, parte integrante della stessa. In questo caso metto i guanti, oltre alla mascherina. Il suo tecnico di fiducia, che non lo sopporta in tempi normali (a ragione) fa trasparire tutta la sua insofferenza al telefono anche adesso (a torto). Cerco di risolvere il problema da sola. Chiamo i parenti col mio cellulare. Mi incazzo se mi rispondono l’uno al cellulare dell’altro o se si passano il telefono. È già ora del mio turno per la cena. Ingollo ancora qualcosa. Quando faccio le scale, la mascherina si alza e mi copre la visuale. Temo di inciampare. Sarebbe proprio cretino morire per un incidente domestico in mezzo a tutto questo casino. Mi lavo con i soliti rituali. Torno in stanza. Metto il pigiama. Leggo, scrivo, guardo un film. Vedo gente che fa cose. Mi compaiono consigli su cosa leggere, ascoltare, cucinare, riordinare. Grazie, ma metà del mio tempo lo passo a lavarmi o pulire. Li invidio tanto. Li odio un po’. Auguro la buona notte ai miei a distanza. Chiedo a papà com’è andata oggi. Altri positivi, altri sospetti, altri morti, altri colleghi contagiati. Mi chiedo se e quando toccherà a lui. E forse a noi. “Siamo solo di passaggio” mi dice. Non ci abbracciamo dal 23 febbraio e non sappiamo se ne varrà la pena. Un po’ capisco quelli che se ne fregano di tutto e vanno dalla fidanzata, dal fidanzato, dai parenti. E se si deve crepare, si crepa dopo un abbraccio. Però forse mi divorerebbe il senso di colpa. E tanto morire è brutto comunque, con o senza abbracci. Piango un pochino. Vado a letto.
Dedicato a tutti i quelli che hanno pensato anche solo per un momento che si trattasse di un’influenza, perché in futuro non sottovalutino più niente.
E a quelli che ancora lo credono, visto che i dati non vi convincono, resta da dire solo una cosa: fottetevi.
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genevieveamelie · 5 years
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𝐓𝐲𝐥𝐞𝐫 & 𝐆𝐞𝐧𝐞𝐯𝐢𝐞𝐯𝐞 𝟎𝟒.𝟎3.𝟐𝟎 --------------------------------------
Era consapevole che il proprio carattere non era dei più facili, e non poche volte si era andato a scontrare con la sorella minore, proprio per quello, proprio per i loro caratteri così forti e determinati. Anche se i due non erano fratelli di sangue Tyler aveva sempre considerato Genevieve come sua sorella. Aveva un senso di protezione nei suoi confronti non indifferente risultando anche molte volte appiccicoso o pesante, ma al ragazzo non era mai importato.
In quel periodo non era stato molto presente a causa del lavoro e degli orari, ma soprattutto a causa della morte di quel ragazzo, di Jacob Ruiz. Essendo lui un veggente, del grado più alto, si era prestato per aiutare a risolvere quel caso che aveva mandato il tilt praticamente tutta la città, ma soprattutto chi aveva dei poteri. Tyler non era tranquillo, affatto, ma non per lui ma più che altro per la minore ecco il perché di quella richiesta.
La conosceva, sapeva quanto potesse essere testarda, quanto quella richiesta non le andasse a genio, lo aveva dimostrato, ma lui era più testardo di lei, ecco perché prima d'andarla a prendere passò a casa dei genitori per prendere la valigia che aveva fatto preparare dalla madre, ma anche per tranquillizzarli, ansiosi come erano dare di matto era la minore delle cose che potevano accadere.
Puntuale come un orologio svizzero il chirurgo era già davanti all'università pochi minuti prima della fine dell'ultima lezione della sorella.
Genevieve Amélie S. Hale
Scegliere di andare a vivere da sola era un passo che prima o poi la fata avrebbe compiuto comunque, qualunque cosa avessero detto i genitori e quel fratellastro che da sempre rappresentava il suo punto di riferimento. Testarda all'inverosimile, Genevieve difficilmente lasciava spazio per un possibile compromesso, soprattutto quando riguardava la sua vita. S'era infatti ritrovata a storcere il naso leggendo i messaggi con Tyler, soprattutto perché quando entrambi si mettevano in mente una cosa, era difficile che uno dei due cedesse, figuriamoci poi se avessero dovuto vivere sotto lo stesso tetto. Il giorno successivo a quello scambio di messaggi aveva cercato di rimanere il più possibile serena a quell'incontro che avrebbe avuto con Tyler, s'era preparata e aveva raggiunto il college come tutti gli altri giorni, nonostante ultimamente la mente fosse occupata da pensieri fin troppo complessi. La vicenda di Jacob aveva sconvolto ogni abitante di Ravenfire, e Genevieve non era stata da meno. La fine delle lezioni, tuttavia, non tardò ad arrivare e quando uscì vedendo il fratello già pronto ad attenderla, la fata non riuscì a non trattenere un sorriso. S'avvicinò così lentamente, uno sguardo acuto per studiarsi per un momento, prima di scoppiare a ridere e dargli un rapido abbraccio per salutarlo. « Puntuale come sempre, eh? » Un tono di voce mellifluo si elevò nel salutare quel volto da bravo ragazzo che aveva suscitato in lei così tante emozioni quando era più piccola, tuttavia, non riuscì a non notare che qualcosa di storto era pronto ad abbattersi non solo di loro, ma principalmente sul di lei umore.
Tyler Hale
Sapeva che chiederle di venire a vivere con lui, o meglio quasi obbligarla, era una bomba ad orologeria. Avevano due caratteri forti, entrambi cocciuto e testardi ma dopo quello che era successo a Jacob, Tyler voleva sapere che sua sorella era al sicuro. Si sarebbe preoccupato in ogni caso, come sempre, ma sarebbe stato più sereno nel vederla tutti giorni e non raramente come succedeva ultimamente. Il proprio lavoro era sfiancante e lui aveva dovuto rinunciare a del tempo con la propria famiglia. Era davanti all'università gia da cinque minuti quando la mora entrò dentro la macchina abbracciandolo. Tyler la strinse a se, le posò un dolce bacio sulla nuca e dopo che si mise la cintura si rimise in strada. 《 Sono mai stato in ritardo ? 》 Le chiese ironicamente, ma entrambi sapevano che dovevano affrontare quel discorso, e quasi sicuramente avrebbero litigato, come sempre, ma poco importava. 《 Senti Gen, fallo per me. Non devi rimanere a casa per sempre, anche perché non ti sopporterei, ma almeno fin quando non si scopre chi è stato ad uccidere quel ragazzo, devo sapere che sei al sicuro. Poi da me hai una camera più grande della tua e io ci sto poco a casa, lo sai. 》
Genevieve Amélie S. Hale
Una volta all'interno dell'abitacolo con Tyler, la fata aveva voltato il viso verso il finestrino per osservare come la vita scorresse velocemente, ma lo sguardo del fratello era sempre lì ad osservarla. Lo sentiva come un faro puntato su di lei, impossibile da ignorare, ma sapeva dentro di sé che la lite che ne sarebbe conseguita non avrebbe portato a nulla di buono. La Hale si ritrovò così ad inspirare sonoramente, il sorriso che era comparso era stato subito sostituito da un'espressione decisamente più stanca, e con un gesto lento, si voltò nella di lui direzione. « Non molli, eh? » Domandò quasi retoricamente. Solo quando lo sguardo le cadde sui sedili posteriori, la fata vide le sue valigie pronte per l'imminente trasferimento. Un sentimento di rabbia e sconcerto cominciò così a nascere nell'animo della giovane che subito si voltò furiosa verso il fratello. « Spero che tu stia scherzando. Che cosa ci fanno le mie valigie in macchina? Avevamo detto che ne avremmo parlato, non che avrei accettato. E ci manca ancora che dovrei rimanere chiusa in casa... Ho la mia vita, Tyler, il college, la palestra e la piscina, non vorrai mica segregarmi in casa per una paura infondata, non è vero? Dio... Lo sapevo che mi avresti incastrato. »
Tyler Hale
《 No che non mollo! 》 Con lei non lo avrebbe mai fatto, da quando quella bambina era entrata nella sua vita, nella propria casa Tyler le era sempre stato accanto, in ogni momento. Entrambi avevano fatto affidamento sull'altro in molte occasioni ma non lo avrebbero mai ammesso. 《 Stanno lì perché sei cocciuta come un mulo. Non ti ho mai detto che devi restare in casa porca miseria! Ho detto questo ? No quindi non mi mettere in bocca parole che non ho detto, sai quanto lo odio. 》 Era entrata in macchina da dieci minuti e già stavano litigando sonoramente. 《 Continuerai a fare tutto ciò che vuoi, università, amici, piscina, quello che stradiamine vuoi, devi solo venire a dormire a casa e avvertirmi se esci e fai tardi e basta. Non ti sto chiedendo molto e lo sai. 》 Erano a pochi minuti da casa del ragazzo quando si dovette fermare ad un semaforo. 《 E calmati! 》
Genevieve Amélie S. Hale
La fata ricordava come il loro incontro, quel semplice sguardo, avesse cambiato le loro vite in modo estremamente migliore, facendoli sperare in qualcosa di decisamente migliore, ma nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso. In quel momento, Genevieve sentì la rabbia montare dentro di sé, sentì una furia abbattersi su di lei, che la costrinse a voltarsi maggiormente nella sua direzione e stringere con forza i pugni. Come diavolo poteva pensare Tyler che avrebbe accettato senza dire la sua? Come poteva credere che la fata non avrebbe dato di matto alla scoperta delle sue valigie pronte e finite? « Tu continui a voler imporre la tua volontà su di me, Tyler! Sei diventato paranoico. » Nonostante il tono di voce s'era abbassato notevolmente dalla sua iniziale reazione, la fata continuava a scuotere il capo in segno di diniego. Voleva la sua indipendenza, avrebbe voluto andare a vivere da sola per tagliare quel cordone ombelicale che sentiva a volte stringerla fin troppo, e per non parlare di quella distanza che s'era creata ultimamente con il fratello. Si ritrovò così ad inspirare sonoramente, voltò il capo in direzione opposta a quella di Tyler e si girò poi incrociando le braccia al petto. « Ovvero renderti conto di tutto quello che faccio... No, no e ancora no. Sono settimane che siamo più distanti che mai, tu hai la tua vita, i tuoi impegni, come io ho la mia o quello che mi è rimasto, e ora dovremmo riadattarci entrambi per una paura che non sta né in cielo né in terra. Tyler, voglio la mia indipendenza e venire a vivere con te è come fare un passo indietro. E smettila con questa tua calma apparente, mi innervosisci ancora di più. »
Tyler Hale
Tyeler dovette accostare, non riusciva a risponderle come voleva se continuava a guidare, ecco perché si fermò in una piazzola di sosta. < Ti devi calmare, non ti sto dicendo un cazzo, non ti va bene quello che penso, quello che dico o ti sto chiedendo, ma non è la prima volta o sbaglio !? > Era arrabbiando, perché lui doveva mettersi nei suoi panni, ma lei non ci provava neanche, non provava minimamente a capire il proprio punto di vista e questo lo stava facendo, diventare pazzo. < POTEVI ESSERE TU CAZZO! Lo capisci ? capisci che non voglio che ti accada niente, che non ti sto segregando in casa ? Non ti sopporterei, sei già una spina nel fianco normalmente figurati se ti chiudo in casa, impazzirei! > Aveva alzato il tono della voce per poi calmarsi leggermente, entrambi non volevano cedere, ma in qualche modo dovevano fare, dovevano trovare un punto d'incontro. < Secondo te non ci sto male ? Non mi piace la distanza che si è creata tra di noi e lo so che è colpa mia, per il mio lavoro e per i miei impegni. Ma questo non cambia il fatto che ti voglio bene e voglio saperti al sicuro. Quello che ti è rimasto ? ma smettila Gen, nessuno ti ha mai impedito di fare qualcosa o d'essere chi volevi essere con tutti i tuoi sbalzi d'umore. Ti metti un secondi nei mie panni e mandare in un bel posto l'orgoglio eh ? > Tyler voleva il suo bene, voleva tornare ad essere come erano un tempo, amici, confidenti, migliori amici. < Gen non voglio impedirti d'andare a vivere da sola, sono il primo che vuole che tu faccia quell'esperienza perché è stato uno dei momento i più belli della mia vita, ma voglio, anche, che tu sia al sicuro ? Resta con me finchè le rivolte non si calmeranno, finchè non verrà preso l'assassino e poi ti aiuto a trovare casa. Fallo per me, e si ho sbagliato a prendere le tue cose ma sei cocciuta come un mulo! >
Genevieve Amélie S. Hale
Poter parlare come persone normali e civili sembrava assurdo in quella situazione. Le parole urlare prima dalla fata e poi dal veggente non avevano fatto altro che peggiorare la situazione. Inspirò sonoramente, una, due, tre volte, senza nemmeno rendersi conto che ormai avevano accostato sul ciglio della strada, non troppo distanti dall'appartamento di Tyler. La fata si ritrovò così ad appoggiare la nuca sul poggiatesta della macchina, chiudere per un momento gli occhi, e cercare di mettere da parte il suo carattere a volte irruento. In qualche modo ella comprendeva le paure del fratello, addirittura era lei stessa in apprensione per lui ogni volta che si trovava in ospedale o chissà dove, ma no voleva cadere in quel loop che conosceva fin troppo bene. Avrebbe fatto bene a mettere via l'orgoglio? Avrebbe fatto bene ad accettare quella dannata proposta? Sarebbe stato il loro suicidio, lo sapeva, ma per il suo bene poteva farlo, non è vero? Odiava che si fosse creata quella distanza, odiava sentire il suo punto di riferimento come se fosse perso nella nebbia, ma odiava essere rimasta sola. Spesso la fata veniva giudicata superficiale, ma Genevieve era ciò che più lontano poteva essere dall'essere superficiale. « Va bene. » Due semplici parole, un tono di voce decisamente più basso rispetto a prima, e gli occhi ancora chiusi. Sentiva il cuore battere incessantemente, il respiro affannato di Tyler per quell'ennesimo scontro che non aveva trovato nessuno come vincitore, ma agli occhi della fata era il veggente ad alzare la coppa della vittoria. « Ancora non sono d'accordo, ma se è quello che vuoi, va bene verrò a vivere con te. Almeno sarai più tranquillo, ma niente ragazze in casa, sia chiaro. »
Tyler Hale
《 E niente ragazzi in casa. Se dovete studiare è un conto, per altro no. 》 Sapeva che sarebbe stata una dura prova quella, vivere insieme sarebbe stato allucinante, ma lui sarebbe stato tranquillo. Non voleva impedirle di fare tutte le sue cose, uscire con i suoi amici ma Tyler aveva bisogno di sapere che lei fosse al sicuro. Era un sua paura, fin dal momento in cui era entrata nella sua vita aveva fatto di tutto per tenerla al sicuro, e molte volte si preoccupava più lui dei genitori. La sorella aveva ancora gli occhi chiusi quando scese dalla macchina e dopo aver fatto il giro e aperto il suo sportello la prese e l'abbracciò, la strinse a se come ormai non faceva da tempo. 《 Grazie. 》 Era una parola semplice, una parola che racchiudeva in sé tante cose ma sapeva che lei avrebbe capito anche tutti i significati nascosti. 《 Mi spiace non esserci stato in questo periodo Gen. 》
Genevieve Amélie S. Hale
Fin dal primo in cui la fata e il veggente s'incontrarono, sembrarono legati da un'affinità che era difficile spiegare a parole ma che li aveva condotti a diventare parte integrante della vita dell'altra. Che stesse male uno, l'altro c'era sempre con una carezza, una parola, un gesto che scaldava il cuore facendoli avvicinare sempre di più. Il fatto poi che ultimamente si fossero allontanati per circostanze ancora sconosciute era un qualcosa che rattristava la fata, ma doveva ammettere che tornare a vivere assieme a Tyler poteva essere anche il loro modo per ritrovarsi. Chiuse gli occhi per un momento, scese poi dalla macchina ed inspirò a pieni polmoni lasciandosi abbracciare e cullare da quelle braccia forti. « Dispiace anche a me. » Poche semplici parole simil ad un leggero cinguettio furono emesse dalle labbra della fata che, nonostante tutto, si sentiva per la prima volta dopo tanto tempo a casa.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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naoko-diary · 2 years
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È passato un po di tempo dall’ultima volta che ho scritto. non so perché, magari questo dovrebbe essere un sintomo del fatto che le cose stiano andando bene. In realtà non ho scritto perché non trovo le parole giuste. se qualcuno mi chiedesse cosa mi sta passando per la testa probabilmente non saprei che rispondere perché ci sono tante cose a cui pensare ma nessuna che possa veramente risolvere. per prima cosa cerco di evitare il mio senso di colpa per essere la causa del malessere della persona che vorrei rendere felice. Mi dicevo che non fosse colpa mia ma effettivamente avrei dovuto essere forte ed evitare di metterl* innuna situazione che salevos arebbe staat difficile da affrontare. non so se il mio sia stato più egoismo o mancanza di autorevolezza. semplicemente avevo paura di perrderenuna perosna a cui volevo dare tanto. forse tanto non ho dato ma credo di avercela messa tutta. Ho anche detto che accetterei qualsiasi decisione ma la verita è che mi manca l’aria solo al pensiero. Non sarei piu la stessa. Non credo di poterlo reggere nonostante io mi sia rimbocxata le maniche per essere piu forte e farcela da sola durante queat’anno. poi ovviamente resta la mia paura di non fare lw cose come penso che vadano fatte, o meglio come andrebbero fatte per dimostrare che valgo. ma poi, dimostrare a chi? i miei genitori mi sono sempre stati accanto ma forse hanno un idea sbaglita di me. non voglio essere una delusione, non voglio ricelare un altra verisone di me sopo 20 anni di supporto e sostegno. Probabilmente se leggessero queste parole mi direbbero che non è così, ma questi sono i pensieri autodistruttivi che si crea una come me. per il momento mi fermo qui, ma devo dire che tutto aommato cerco di farmi forza ogni giorno, cerco di guardare il lato positivo e di cogliere l’amore che ricevo da coloro che mi amano veramente.
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poetyca · 3 years
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Alla ricerca di Pace – percorsi di riflessione – In Search of Peace – lines of thought
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Alla ricerca di Pace – percorsi di riflessione
Non ci accorgiamo spesso che, prendiamo gli altri come bersaglio da colpire con le nostre frustrazioni che attribuiamo colpe e crediamo irrisolvibili alcune situazioni, ci chiudiamo nella gabbia delle illusioni,perchè pensare che altri abbiano torti e noi assolutamente ragione ci pone nella condizione di sentirci superiori alle situazioni. A volte accade il ripetersi di esperienze o nodi che siamo incapaci di sciogliere e tutto parte da noi stessi, dal nostro attaccamento, dal nostro ego ferito. Ed è sempre da noi il seme per l’opportunità di fermarci a cogliere in cosa e perchè alimentiamo la nostra reazione di rabbia. Perchè si ama attribuire colpe a ologrammi esteriori piuttosto che focalizzarci sulla responsabilità della nostra reazione a quanto crediamo essere la causa ? Mi viene in mente, quando da bambini, se cadevamo o ci facevamo male contro qualcosa, per consolarci un adulto diceva che la colpa era del sasso che ha fatto inciampare o della porta contro la quale urtavamo. Magari ci credevamo e vedere come si attribuisse colpa agli oggetti ci faceva stare meglio. Ora non si starebbe meglio se, nel retto sforzo, non provassimo a rendere pace il nostro cuore. La nostra non realtà è spesso indotta dai mezzi di informazione che dal nascondere i veri motivi delle cose. Come si sa è sempre stato nella politica delle guerre cercare motivazioni al farle scoppiare, motivazioni che montino giudizi contro ma la realtà si lega alle risorse di un territorio che faccia gola, al potere che amplifichi l’egemonia e sempre a carico della vita di innocenti. Miseria, divisione, sopruso e quella forma di violenza non sempre fisica sono i mezzi per piegare un popolo e parole come pulizia etnica , come genocidio, olocausto, sono tra le più ignobili che l’umanità possa aver coniato. Spero sempre che ci possa essere un ravvedimento ed un modo di condurre verso un’inversione di rotta che non conosca violenza ma dialogo ed equanimità . Forse, agire dal nostro piccolo mondo del quotidiano non sarebbe sufficiente ma che non ci sia confusione tra pace e quei movimenti politici che dietro alle bandiere hanno altri fini. La pace si conquista parola forte che appare bellica dentro di sè per essere poi capaci di avere comportamenti costruttivi. La pace è nel risolvere il nostro moto interiore che vorrebbe correggere quello che sono gli altri, piuttosto che imparare ad accogliere la realtà per come è. Il vero lavoro, la pratica costruttiva è nelle nostre pulsioni che devono trovare armonizzazione per saper lasciare andare ogni attaccamento o proiezione. Non è colpa degli altri se il loro atteggiamento ingenera in noi un moto di rabbia, siamo infatti noi a scegliere se mettere il pilota automatico degli istinti o cambiare rotta verso un cammino di pace, che naturalmente nasce dal nostro essere e nulla dovrebbe turbare o mettere in moto reazioni. La guerra, come si sa, è sempre stata antagonista dell’amore, della saggezza e dell’equità . Minacce, promesse di rivendicazione sono quanto possa mettere in atto chi voglia caricare di rabbia gente che in fondo non ha chiesto guerre. Difesa ed offesa, mezzi che non si giustificano ma fanno perdere il senso della misura che ogni guerra ha conosciuto atti immorali, il piegare il nemico dimostrando la propria forza. Un’ombra ingigantisce la fama di chi se la costruisce, è mostrarsi potente è farsi temere con mezzi che sono lontani dall’abbandonare la forza per mostrare maggiore maturità . Poi, si fa anche tanto parlare, senza realizzare nulla che una forma di dispersione che non arriva neppure all’essenzialità e che non ha alcuna opportunità risolutiva per situazioni che degenerano in violenza e prevaricazione. Si resta impotenti, incapaci di trovare soluzioni e superamento di condizioni che si trascinano senza fine. Si tratta di libere scelte, per noi, per coloro che davanti ad un dilemma possano essere presi nella trappola del fare come gli altri, perchè magari li fa stare meglio. Ci sono persone attive – sentono il bisogno di essere presenti ad alzare la voce – a muoversi e magari le fa stare meglio. Ci sono poi persone che, nel silenzio sono partecipi ai dolori del mondo seppure apparentemente distanti.Sono convinta, semplicemente, che sia con pressioni, con alzar di voci o apparentemente passivi e compassionevoli, il dolore, la privazione e la violenza toccano tutti indistintamente e non solo una parte della terra rispetto ad un’altra. Tutti siamo uno, infatti, penso che si possa includere nella nostra via anche la capacità di allargare il cerchio del nostro non – dividere, del nostro ascolto nelle piccole cose del quotidiano che siano briciola di pace che s’espande. Possiamo lavorare su noi stessi, cercare pace interiore per non allargare a macchia d’olio effetti che incrinano armonia. Si parte dal non giudizio o meglio dal non alimentare dualità . Andare ad una manifestazione, in libertà perchè si sente di farlo e non per moda o perchè non si trovano altre soluzioni , per aver letto un manifesto che invitasse a farlo o perchè ce lo consigliano è poi una soluzione la marcia di Pace? è opportuno solo se si sente – lo si accoglie – da consapevoli che come per la pratica. Semplicemente si deve dare voce e manifestazione a quel rispetto per tutti gli esseri senzienti senza ricerca di torto o ragioni, di verità o menzogna perchè la guerra, tutte le guerre, non ha sconfitti e vincitori, se si arriva all’odio, al mancato dialogo – si è tutti sconfitti. In particolare se per il potere si calpesta il valore di vite. In fondo tutti coloro che possono dare voce alla pace, in base alle proprie caratteristiche ed opportunità ,possono coinvolgere gli altri nel parlarne, con amorevolezza e lontani dal giudizio. Per parlare di pace si deve essere pace ed il cammino profondo nasce in noi e dalla nostra pratica, dalla coerenza di essere quel che si dice. La consapevolezza è la capacità di raccogliere dalle esperienze del passato per offrire – qui ed ora – energie al futuro nella via di trasformazione – dalle tenebre dell’ignoranza alla luce dell’Amore incondizionato.
13.08.2006 Poetyca
In Search of Peace – lines of thought We are not aware that often, we take the other as a target to hit with our frustrations and we believe that we attach blame unsolvable some situations, we close the cage of illusion, because others think that we are wrong and absolutely right places us in a position to feel superior situations. Sometimes it happens, the repetition of experiences or nodes that are unable to dissolve and all part of ourselves, our attachment, our wounded egos. And it is always with us the seed for the opportunity to stop and take in what they provide and our reaction to anger. Why we love to apportion blame rather than outward holograms focus on the responsibility of our response to what we believe to be the cause? Comes to mind when, as children, if we did badly against cadevamo or something, to console one adult said that the fault was of stone that has tripped or the door against which urtavamo. Maybe we thought and how to fault attributed to objects made us feel better. Currently you would be better if, right effort, do not try to make peace our hearts. Our reality is not often induced by the media to hide the real reasons of things. As you know has always been the policy of wars look for reasons to make them burst, motivations that Montini judgments against but the reality is bound to the resources of a territory that makes my throat, to boost power and hegemony always borne the life of innocent . Poverty, division, injustice and violence that are not always physical means to subdue a people and words like ethnic cleansing as genocide, holocaust, are among the most despicable that humanity may have coined. I always hope that there can be repentance and a way to lead to a reversal of that dialogue and not violence but knows equaminità. Maybe act from our little world of the everyday is not sufficient but that there is no confusion between peace and those political movements that have other purposes behind the flags. Peace is gained strong word that appears war within themselves and then be able to have constructive behavior. Peace is the answer to our inner motion that would correct what are the others, rather than learning to accept reality as it is. The real work, the construction practice is in our instincts that harmonization should be able to let go of any attachment or projection. It is not the fault of others if their attitude engenders in us a moment of anger, indeed, we choose to put the automatic pilot of the instincts or change course towards a path of peace, which naturally arises from our being and nothing should disrupt or impair Motorcycle reactions. The war, as we know, has always been antagonistic love, wisdom and fairness. Threats, promises of what are claimed to implement those who want to charge people with anger that basically did not seek war. Defense and offense, which means but do not justify losing all sense of Misuraca has known war immoral acts, the bend the enemy proving its strength. Shadow magnified if the fame of who builds it, show it is powerful to inspire fear in ways that are far from abandoning force to show more maturity. Then, you talk too much without achieving anything but a form of dispersion that can not even essentiality and has no opportunity for resolving situations degenerate into violence and abuse. It remains impotent, unable to find solutions and overcome the conditions that have been dragging endlessly. It’s free choices, for us, for those in a dilemma to be taken into the trap of doing like the others, perhaps because they felt the best. There are working people – feel the need to be present to raise their voices – and maybe move makes you feel better. There are people who are participating in the silent sorrows of the world although apparently convinced distanti.Sono simply that both pressures, with raising of voices or apparently passive and compassionate, pain, deprivation and violence affect all equally and not only part of the land over another. We are all one, in fact, I think we can include on our street also the ability to widen the circle of our not – share of our ear in the small things of everyday life that bit of peace expands. We can work on ourselves, to seek inner peace does not extend to wildfire effects crack harmony. It starts from the proceedings or not most of the non-food duality. Going to an event, because he feels at liberty to do so and not for fashion or because you do not find other solutions, for having read a manifesto calling for it or recommend it because there is a solution then the march of Peace? is only appropriate if you feel – it receives – from knowing how to practice. You simply must give voice and expression to the respect for all sentient beings without seeking right or wrong, truth or lie because the war, all wars, not losers and winners, if you get hate, not dialogue – we are all losers. In particular, if the power is contempt for the value of lives. Basically anyone who can give voice to peace, according to their characteristics and opportunities, can involve others in talking about it, with affection and away from the court. To speak of peace should be peace and the path is born deep within us and our practice, the consistency to be what they say. Awareness is the ability to collect from past experience to offer – here and now – the future of energy in the process of transformation – from the darkness of ignorance in the light of unconditional love. 13.08.2006 Poetyca
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bergamorisvegliata · 3 years
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NARCISISTI IN FAMIGLIA
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Nelle famiglie sane i valori centrali sono l’amore, la cura, l’accoglienza e la libertà di parola di ogni singolo elemento; tutti gli elementi sono importanti, i sentimenti vengono ascoltati e rispettati senza l’emissione di giudizi, accuse o derisioni.
Nella famiglia nella quale uno dei membri è un narcisista perverso c’è posto per una sola stella: lui/lei. Ogni membro gira magneticamente attorno alla sua persona, hanno il terrore di deluderlo e vivono per soddisfare ogni suo capriccio e desiderio.
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La famiglia in balia di un narcisista perverso impara una regola non scritta e che resta segreta finché uno degli elementi, comunemente uno dei figli, si stanca della dinamica e se non si ammala gravemente dà inizio alla grande crisi che metterà a repentaglio la grandiosità del perverso
Karyl McBride nell’articolo The Narcissistic Family Tree[3], dimostra con la sua esperienza clinica che adulti segnati da questa dinamica hanno difficoltà a scoprire esattamente cosa provano, non riescono a spiegare a se stessi perché soffrono o si deprimono. La negazione della realtà è molto intensa nel sistema famigliare narcisista. A forza di somatizzare l’angoscia e l’impotenza per le situazioni complesse e ingestibili del mondo degli adulti, i figli scatenano una serie di reazioni emotive che a un primo sguardo possono sembrare inspiegabili
I figli vengono usati come un estensione del narcisista perverso “per farsi bello”
Molti diventano il quadro, la fotografia, la proiezione che rappresenta la vita della coppia e la sua conflittualità interna: il padre narcisista perverso che svaluta continuamente la moglie davanti ai figli insegnerà al figlio maschio che svalutare e minimizzare i meriti della sorella e di tutte le donne che conoscerà è normale. Lo stesso farà la madre narcisista perversa che, scegliendo uno dei figli per essere il suo diletto, assegnerà all’altro il ruolo di capro espiatorio.
Quando ci troviamo di fronte a padri narcisisti perversi, bisogna valutare sempre il ruolo delle madri nella formazione/consolidamento della loro personalità.
Il figlio “prediletto”
Quando uno dei figli è visto come più importante, oppure nel caso dei figli unici viene considerato infinitamente migliore dei suoi cugini e amichetti, diventare un prevaricatore arrogante o bullo vale come regola generale. Il “bambino d’oro” eletto per funzionare come un’estensione idealizzata della madre o del padre narcisista perverso diventa un adulto capriccioso e irascibile, a lui ogni deroga alla morale è concessa, la vita famigliare gira attorno alle sue volontà e bisogni e il mondo intero deve riconoscere la sua grandezza – esattamente come auspicato dal padre/madre narcisista per sé.
Il figlio come capro espiaorio
Il figlio “capro espiatorio”, invece, è la fogna nella quale il genitore narcisista perverso lancia tutto ciò che non riesce ad accettare in se stesso: sarà un incompetente, scarso in tutto, uno che deve sforzarsi per raggiungere i risultati del “bambino d’oro”, è il più bruttino dei fratelli, il meno brillante, quel poco creativo, troppo timido o troppo estroverso, mai all’altezza della genialità, del successo e degli altissimi livelli auspicati dalla famiglia.
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Il “capro espiatorio” è la discarica, la busta nera della spazzatura nella quale la famiglia deposita le vagonate d’immondizia psichica nascoste sotto il tappeto dell’omertà e dell’ipocrisia. È colui che non sarà mai ascoltato con attenzione perché sprovvisto di ragione, perché noioso, perché si fa troppi problemi. I suoi meriti sono da sminuire, filtrare, neutralizzare per non ferire la grandiosità del fratello/sorella d’oro.
Quando tutto va male la colpa è sempre sua e quando tutto va bene si cerca un motivo per farlo comunque sentirsi a disagio. In linea di massima, se non se ne accorge della dinamica perversa, al figlio capro espiatorio toccherà sopportare il peso delle patologie famigliari in età adulta, oppure fare da bestia da somma per risolvere i piccoli e grandi problemi amministrativi dell’intero nucleo famigliare.
Soltanto al narcisista perverso e al figlio/a prescelto/a sarà riconosciuto il diritto di brillare per tenere alta l’immagine di perfezione della famiglia
Il meccanismo è abbastanza chiaro, come nello scenario di guerra nazista: per far regnare i più forti e simili, i più deboli devono ubbidire e soccombere; per far emergere i più forti, gli altri devono affondare.
Che cosa accade quando il prescelto, invece, non è pienamente soddisfatto del meccanismo che lo vede beneficiario?
Cosa accade quando si ribella, anche andando contro il proprio interesse? Oppure, cosa accade quando il prescelto decide che la luce dell’ingombrante genitore perverso rischia di oscurare la sua per sempre? Risposta: una guerra senza quartiere nella quale lui, da figlio d’oro, viene automaticamente declassato a capro espiatorio, mentre l’altro, giudicato meno bravo, sale la classifica dei più amati e ammirati di tutti i tempi dalla mamma o dal papà narcisista perverso. Se da una parte un genitore narcisista perverso vuole che i suoi figli riflettano la sua grandiosità, da un’altra teme la loro concorrenza e il confronto, quindi, DEVE schiacciare e confondere i suoi pargoli per continuare a comandare indisturbato.
Dato che i sentimenti dei figli non sono mai presi in considerazione, i genitori narcisisti perversi non identificano mai in se stessi alcun tipo di responsabilità per quanto riguarda gli eventuali disturbi psicosomatici apparsi nella prole. Non chiedono mai scusa per eventuali errori di valutazione e come strategia comune invertono i poli della verità sulle loro azioni per meglio rovesciare le colpe.
Un’altra abilità dei perversi è la capacità di raccontare fatti veramente accaduti che poi sanno interpretare da un’ottica fuorviante, che denigra e mette a repentaglio la reputazione dei figli per salvare la propria. Gli americani hanno creato il termine “crazy maker”, cioè, “fabbricante di pazzi”, per definire l’azione prevaricante dei narcisisti perversi nei confronti dei suoi cari
Il narcisista all’interno del nucleo familiare
Un genitore perverso ama diffondere la tensione grazie ai suoi improvvisi cambiamenti di umore, di abitudini e di programmi senza alcun tipo di preavviso e, certe volte, fanno ricorso a commenti sgradevoli per rompere il clima armonioso nei momenti di benessere della famiglia, accanto alle lamentele e gesti che palesano la loro eterna insoddisfazione verso tutto.
Il narcisista fuori il nucleo familiare
Fuori di casa, però, i perversi cambiano personalità e comportamento, diventano l’esatto opposto di quel che sono nella dura realtà quotidiana: sotto il vaglio del loro pubblico si travestono da persone meravigliose, attente, premurose, seducenti, servizievoli, impeccabili, leggere, sempre sorridenti e attente ai bisogni altrui.
Anche i figli devono agire come loro per dimostrare che l’educazione ricevuta da un genitore così affascinante, perfetto e brillante, ha degli standard elevatissimi. “Non farmi brutte figure!” è la raccomandazione che si ascoltano giorno dopo giorno, laddove l’immagine è tutto.
Le dinamiche disfunzionali con un genitore narcisista
Ecco in sintesi, le dinamiche intergenerazionali profondamente disfunzionali generate dal narcisista perverso:
Segreti
Il segreto di questa famiglia è che i genitori non rispondono ai bisogni emotivi dei loro figli, ma deturpano la realtà o abusano di loro. Il messaggio tramandato è: “Non dire a nessuno che qua dentro funziona così… fai finta che va tutto bene.”
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Per la famiglia narcisista l’immagine è tutto: “Cosa penseranno i vicini?” “Cosa penseranno i parenti?”. Sono preoccupazioni molto frequenti.
Messaggi negativi
I figli ricevono messaggi verbali e non verbali che restano nella coscienza. I messaggi tipici sono: “Non sarai mai bravo/a abbastanza.” “Sei valorizzato per ciò che fai e per la tua apparenza, non per ciò che sei.”
Mancanza di sintonia emozionale
Genitori narcisisti perversi non riescono a entrare in sintonia con i figli. Non c’è empatia, naturalezza o amore nei loro gesti, tutto è calcolato per il tornaconto posteriore. Distribuiscono critiche, pregiudizi e regali meccanicamente: “Quel tuo amico sembra gay”, “La tua ragazza è cicciottella, meriti di più.”, “Nella tua festa di compleanno chiamiamo anche Tizio e Caio, so che ti stanno anticipatici ma papà ci lavora insieme.”, ecc.
Assenza di comunicazione effettiva
Uso sistematico della triangolazione. L’informazione arriva attraverso terze persone. I confronti diretti si trasformano in liti furibonde. Il narcisista perverso provoca un comportamento passivo-aggressivo nei figli, reca tensione e diffidenza tra i membri della famiglia.
Assenza di limiti
Diari, poste elettroniche, social networks… i figli non avranno diritto alla privacy. Tutto viene controllato dal perverso. Ha senso sorvegliare quando sono piccoli, ma quando hanno già una vita affettiva si tratta di puro voyeurismo, magari per fantasticare di essere della loro età e guardare le foto delle loro amichette sui social.
Se un genitore è narcisista perverso e l’altro è succube…
i figli crescono da soli, soffrono e sentono in silenzio perché il genitore succube, anche avendo delle qualità che potrebbero ausiliare la crescita emotiva dei figli, è troppo occupato nel soddisfacimento dei bisogni del perverso per occuparsi della prole con la massima attenzione.
Un fratello contro l’altro
Nella famiglia narcisista i fratelli sono incitati a competere, non ad amarsi. Il paragone tra chi è meglio diventa una costante. Col procedere l’incomunicabilità tra i fratelli messi in competizione come due cavalli da corsa sarà totale. Il capro espiatorio sarà il primo ad andarsene per cercare la sua indipendenza lontano dal nucleo famigliare disfunzionale.
Sentimenti
Un genitore narcisista perverso non si assume mai alcun tipo di responsabilità, è sleale, disonesto e bugiardo a dismisura anche con i figli. I sentimenti non processati o non esternati dai figli per quanto riguarda i comportamenti scorretti del padre/madre perversi, se a lungo repressi possono trasformarsi in azioni autolesioniste, depressione o esplosioni d’ira distruttiva nei rapporti interpersonali.
Una volta adulti i figli faticano a comprendere la vera personalità dei genitori perversi e cosa provano per loro.
Subire sin da piccoli questa altalena di situazioni genera un enorme confusione che danneggia e condiziona la vita affettiva dei figli. Compiacere il genitore abusivo perché comunque “è stato bravo e ha un lato buono” è una delle trappole che ci porta a identificare nei partner narcisisti perversi quel qualcosa di famigliare che ci fa “sentirsi a casa” quando li conosciamo.
La negazione e il soffocamento delle emozioni negative nei confronti dei genitori – per le dosi massicce di sensi di colpa inferte dai perversi ai loro figli – diventeranno meccanismi di difesa privilegiati nella fragile psiche degli adulti abusati emotivamente.
Riconoscere di essere stati generati e cresciuti da un padre/madre perversi, anche quando ci siamo allontanati dal sistema è pur sempre un trauma, ma ci aiuta a prevenire l’arrivo dei nuovi vampiri affettivi che cercheranno di bere dalla fonte delle nostre ferite per rinvigorirsi e restare eternamente giovani.
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-tratto da
https://psicoadvisor.com/narcisisti-perversi-rapporto-figli-danni-psicologici-4184.html?fbclid=IwAR0VjWD0R1wEQ0F4n5LE3Q6h1n756h8DAymVB7tVWlYyiQHmdU_YuvT8sUo -
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Julien Baker - Little Oblivions
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Perché se non avessi neanche un briciolo di cattiveria in corpo
Troverei qualche altro modo per farti del male
Non sto nemmeno a chiederti scusa per una cosa che so già che farò di nuovo
(da: Relative Fiction)
1. Hardline
Linea dura
   Ho perso i sensi in un giorno della settimana
Una cosa che sto cercando di evitare
Comincio a chiedere perdono in anticipo
Per tutte le cose che distruggerò in futuro
   Così posso rovinare tutto
E quando lo faccio, non puoi certo considerarla una sorpresa
Quando alla fine diventa troppo
Ti ho sempre detto che potevi andartene in qualsiasi momento
   Intanto vado avanti a cancellare la differenza tra medicina e veleno
Prendo quello che viene bene, mentre mi brucia nello stomaco
Mi leggo il futuro da sola
C’è questa cosa che non posso evitare
So già che strada sto prendendo, ma non trovo il freno
   Sono finita al tappeto nel fine settimana
Useresti tutta questa forza se io fossi un ragazzo?
Sai, non ho bisogno che mi difendi tu
Perché è proprio il genere di cose che mi piacciono
   Ci sono caduta
Fisso un limite oltre cui non andare
Quando ci passo sopra diventa la terza volta
Dico il mio nome allo specchio
E quando non compare nessuno, mi dici che non è tutto così chiaro e lineare
Non è o tutto bianco o tutto nero
E se è sempre tutto nero tutto il tempo?
Tutto il tempo
Tutto il tempo
Tutto il tempo
       2. Heatwave
Ondata di caldo
   Lo scheletro di un motore, senza spiegazione
Scoppiato prendendo fuoco, inghiottito dalle fiamme
Respiro gas di scarico, un miraggio dovuto al caldo
Niente da perdere fino a quando non resta più nulla per davvero
È peggio che la morte quella vita, condensata per riempire una pagina del giornale della domenica
Ho avuto un sussulto al pensiero che questa cosa mi avrebbe fatto fare tardi al lavoro
   Mordo una catenella, libera come una corsia
Ti si può guarire?
Mi sbuccio le ginocchia sulla ghiaia
Dico che rientra tutto nei patti
Piena di cicatrici profonde un canyon
Non è come pensavo
La raccapricciante bellezza della tua faccia su tutti quelli che incontro
   Ero finita in una lunga spirale verso il basso
Ma prima di arrivare a toccare terra
Mi stringo al collo la Cintura di Orione e calcio via la sedia
In una lunga spirale verso il basso
Ma prima di arrivare a toccare terra
Mi stringo al collo la Cintura di Orione e calcio via la sedia
E calcio via la sedia
Calcio via la sedia
       3. Faith Healer
Santone guaritore
   Ah, mi manca l’effetto
E come smorzava il terrore e la bellezza
Ora vedo ogni cosa con un’intensità sconcertante
Ah, cosa non darei per far andare via questa fitta per un solo minuto
Tutto quello a cui tengo lo darei via pur di sentire quella scarica nel petto
   È da qualche settimana che scatta l’allarme antincendio
Non è venuto nessuno
E metà delle volte non è quello che pensi
   Santone guaritore, vieni a toccarmi con le mani
Venditore di fumo, ti credo se mi fai sentire qualcosa
   Santone guaritore, vieni a sfregarmi con le mani
Venditore di fumo, ti credo se mi fai sentire qualcosa
       4. Relative Fiction
Finzione letteraria relativa
   Mezzanotte: potresti vedermi penzolare
Un bagliore come una ciliegia che cade
Ora c’è un acquazzone
E potresti vedermi che faccio a gara con la pioggia a chi arriva prima al suolo
Tu sei l’unica cosa per cui resto qua ad aspettare
Magari quando esci dal lavoro ci possiamo beccare
Potremmo andare a sfrecciare sulla via principale
Potresti provare a guardare mentre io corro in mezzo agli abbaglianti
   Perché se non avessi neanche un briciolo di cattiveria in corpo
Troverei qualche altro modo per farti del male
Non sto nemmeno a chiederti scusa per una cosa che so già che farò di nuovo
   Visto che potrei passare il weekend in giro a bere
Ci faccio il callo o resto soffice?
Quale delle due è peggio e quale è meglio?
Considerarmi morta virtualmente, un massacro
Un personaggio inventato da qualcuno
Un martire nell’ennesima rievocazione della Passione
Probabilmente non m’importa perdere la mia convinzione se tanto è tutto una finzione letteraria relativa
   Perché non ho bisogno di un salvatore
Ho bisogno che tu mi porti a casa
Non ho bisogno del tuo aiuto
Ho bisogno che mi lasci un po’ in pace
Sono là dove gli ubriachi al bancone parlano sopra alla band che suona
Cerco di esprimermi
Non riesco a capire
Schiaccio i tasti con violenza
Mi faccio sanguinare le mani fino a che non mi sentite
Non ho motivo di pregare
Ho finito di essere buona
Ora posso finalmente sentirmi a posto
Non nel modo in cui pensavo di dovere
       5. Crying Wolf
Gridare al lupo
   La medaglietta del giorno uno* sul tuo comodino
Mi sfascio a casa tua
Chiedo se ti ricordi
Mi dici “Non so di cosa parli”
Deglutisco la verità
Mi cacciate giù in gola il carbone
Quando alla fine riprenderò i sensi magari avrò qualcosa da riferire
   È il primo giorno del nuovo anno
Le visite sono finite e sono andati tutti a casa
Ho scoperto quello che pensavo fosse solo un trucchetto del fumo
Non potevo sopportare il pensiero di avere tutto da perdere
Per cui ho stretto un nodo**
   Perché non grido al lupo
Sono qua fuori che li cerco
La mattina quando mi sveglio nuda nella loro tana giuro di smettere con tutte le cose che penso mi abbiano fatta finire qui
E la sera ci ritorno
   Perché non grido al lupo
Sono qua fuori che li cerco
La mattina quando mi sveglio nuda nella
Sono qua fuori che li cerco
La mattina quando mi sveglio nuda nella loro tana giuro di smettere con tutte le cose che penso mi abbiano fatta finire qui
E la sera ci ritorno
    * Sono le medaglie o gettoni che vengono dati ai membri di Alcolisti Anonimi e di altri gruppi di supporto per le dipendenze al raggiungimento di un certo numero di giorni (in questo caso, le prime 24 ore) di astinenza.
** “tied a knot” può intendersi in senso letterale (in riferimento a un tentativo di suicidio), ma anche in senso metaforico come l’espressione “to tie the knot” che in inglese vuol dire “sposarsi”.
       6. Bloodshot
Iniettati di sangue
   Mi vedo dentro ai tuoi occhi iniettati di sangue
Chissà se tu ti vedi nei miei
O forse vedi solo me, e di me quello che vuoi vedere?
In piena notte, vedo solo le stelle
Le ho tirate fuori dai miei occhi e dalle braccia della persona con cui stavi prima
Tiro un gancio dopo l’altro
E se fossi in te, dopo tutto quello che ho fatto, avrei fatto la stessa cosa su di me
Non è che l’ho fatto apposta
È che mi dimentico appena l’ho imparato
Tutto quello che mi succede me lo merito
Mi sussurri “Non ti piace quando fa male?”
   A cinque giorni di distanza dall’evento iniziale
Ci vogliono due tipi di pillole per farmi schiudere i pugni
Sei troppo gentile a dire che puoi aiutare
Ma non c’è in giro nessuno che mi possa salvare da me stessa
Non è che lo faccio apposta
È che mi dimentico appena lo imparo
In cerca di piccoli oblii
Farei qualsiasi cosa sapendo che tu mi perdoneresti
   Non c’è gloria nell’amore
Solo lo spargimento di sangue dei nostri cuori
Venga pure ad azzannarmi la gola
A prendermi e farmi a pezzi
   Non c’è gloria nell’amore
Solo lo spargimento di sangue dei nostri cuori
Venga pure ad azzannarmi la gola
A prendermi e farmi a pezzi
A trascinarmi via al buio
A prendermi e farmi a pezzi
       7. Ringside
Lato ring
   Sono tutta sporca di sangue a forza di prendermi a botte
E a te do un posto a lato ring
Dici che è imbarazzante
Mi spiace che hai dovuto vedermi in quello stato
   Potresti o guardare che annego
Oppure cercare di salvarmi mentre ti trascino a fondo
Voglio risolvere il problema, ma non so come
Non è giusto farti aspettare mentre tutti i tuoi amici escono
   Gesù, puoi aiutarmi ora?
Cedimi in cambio di una corona di spine
C’è nessuno che torna indietro a prendermi?
Se mai c’erano, ora non ce ne sono
   Che cosa resta di cui parlare?
E resto aggrappata come a un gratta e vinci
Le mie unghie affondate nella tua pelle
Tesoro, non sono stupida
Lo so che nessuno vince questo tipo di cose
È solo un modo come un altro per passare un’ora
Vorrei essere diversa
Nessuno si merita una seconda possibilità
Ma tesoro, io continuo a riceverle
   Come un gratta e vinci
Le tue unghie affondate nella mia pelle
Tesoro, non sono stupida
Lo so che nessuno vince questo tipo di cose
È solo un modo come un altro per passare un’ora
Vorrei essere diversa
Nessuno si merita una seconda possibilità
Ma io continuo a concederle
       8. Favor
Favore
   Abbiamo preso la 40* per andare a trovare i parenti
E io ti ho detto che gli unici familiari che conosco sono le persone che vedevo dalla barella
Prima pensavo di avere del talento come bugiarda
Invece ho scoperto che tutti i miei amici stavano cercando di farmi un favore
   Io vorrei sempre dire la verità
Ma non sembra mai il momento giusto per fare i seri
Mi dispiace che mi metto a piangere
Quanto mi resta prima di esaurire la benevolenza di tutti nei miei confronti?
   Abbiamo deciso di sederci sul cofano, abbiamo passato lì tutta la notte
Cercando di mettere insieme qualche monetina
Tu hai tirato fuori una falena dalla griglia del pickup
Dicendo che era davvero un peccato
Com’è che è molto più facile con qualsiasi cosa che non sia umana lasciarsi andare alla tenerezza?
Non ci riuscireste a farmelo fare
   Non sembra andare malissimo
Ma non sembra neanche andare benissimo
Un po’ come un cerotto di nicotina
Comincia a malapena a funzionare ed è già finito
Chi ha deciso che mi avresti trovato lungo il tuo cammino?
Che diritto avevi di non lasciarmi morire?
Ma lo sapevo che cos’è che stavo chiedendo?
Se si fosse fatto a modo mio, avrei sentito la tua mancanza più di quanto tu sentissi la mia
Più di quanto tu sentissi la mia
Più di quanto tu sentissi la mia
Più di quanto tu sentissi la mia
    * “la 40” potrebbe comunque anche essere un riferimento al classico formato di bottiglia di alcolici in America, che contiene 40 oz. di liquore.
       9. Song in E
Canzone in mi
   Vorrei bere per colpa tua e non solo per colpa mia
Almeno potrei dire che il motivo è un dolore che riuscirebbe a non farmi sembrare ancora più debole
   E tu sentendo il mio nome potresti infuriarti e avere una buona ragione per esserlo
E cantando un tremendo sfoggio alcolico dei miei pensieri peggiori direi
“Non mostrarmi nessuna compassione”
È la clemenza che non riesco ad accettare
   Vorrei che passassi da me
Non per restarci, solo per dirmi in faccia che sono stata il tuo più grande errore
E poi lasciarmi da sola in un appartamento vuoto, a faccia in giù sul tappeto
Vorrei che mi facessi del male
È la clemenza che non riesco ad accettare
       10. Repeat
Ripetere
   Oceano di aree commerciali
Ti aiuto ad attraversare a nuoto fino all’altro lato della luce della stazione di sosta
Quando scenderà l’effetto delle sostanze, si farà sentire quello dell’amore?
Resteresti in giro abbastanza da ricominciare da capo?
   Continuamente e continuamente do la caccia alla tua forma lungo il materasso
Lascia fare a me finché non vieni a metterla a letto
Dico “mi manchi” come un mantra, alla fine mi dimentico cosa vuol dire
Non importa cosa mi dici, ho solo bisogno di sentirti parlare
   Tutte le mie più grandi paure alla fine si rivelano il dono della profezia
Tutti i miei incubi che si avverano vengono a tracciare la mia sagoma sulla strada
Mentre ogni notte ricreo lo stesso sogno ricorrente
Ora sono prigioniera di una visione che si ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete, ripete
       11. Highlight Reel
Momenti salienti
   Accasciata sul sedile posteriore di un taxi
Scusi, può accostare? Credo di essere in trappola
Ingabbiata sott’acqua, picchio sul vetro
Mi mastico il braccio all’altezza della spalla
Mi aiuterebbe a uscire?
   È un montaggio dei momenti salienti
Dimmi come ti senti
   Tiro giù un proiettore
Un prurito dietro agli occhi
Sorvola in panoramica, impigliato nei cavi dell’alta tensione
   È un montaggio dei momenti salienti
Dimmi come ti senti
   Dimmi che cosa ha spento lo stoppino che hai negli occhi
Gonfi i muscoli del petto per controllare di essere ancora in vita
Quando va a morire, puoi dirmi quante di queste cose erano una bugia
Mi sa che sono io che devo deciderlo
   Quando va a morire, puoi dirmi quante di queste cose erano una bugia
Mi sa, eh, mi sa, eh, mi sa che sono io che devo deciderlo
       12. Ziptie
Fascetta di plastica
   Avanzo trascinandomi come un figliol prodigo
Qualcuno mi ha preso per la testa nei sobborghi degradati
A ogni cosa che faccio peggiora
Natura umana, di’ pure che è una maledizione
Stanca di fare la collezione di cicatrici e di storie alle feste e nei bar
Cerco di trovare un motivo per lottare
Ma qualcuno mi ha messo la testa dentro una fascetta di plastica
   Ah, buon Dio, quand’è che la dai per persa
Scendi dalla croce e cambi idea?
   Mi trovate sulla linea nemica a dare in pegno tutto l’oro che ho nei denti
È stata una delusione scoprire quanto tutti mi assomiglino
   Ah, buon Dio, quand’è che la dai per persa
Scendi dalla croce e cambi idea?
Ah, buon Dio, quand’è che la dai per persa
Scendi dalla croce e cambi idea?
       13. Guthrie
Guthrie
   Dico quello che intendo veramente solo quando comincio a parlarti nel sonno
Posso essere sincera quando penso di essere in un sogno
Posso fare delle promesse che da sobria non manterrò mai
E tu puoi credermi quanto vuoi
Qua dentro non c’è nient’altro che sangue e viscere
   Quando tocco il fondo comincio a tirar sù le assi del pavimento
Ogni volta che mi arriva qualcosa, me ne serve sempre un pochino di più
Mi faccio dare un passaggio per prendere il primo volo
Mi hai detto che ti sei spaventata per com’ero stasera
   Ah, mi manca quando stavo male per ogni minima cosa
Avevo talmente paura di dimenticarmi che me lo sono scritta con l’inchiostro
Mi rivolgevo chiamando uno Spirito, ora mi sa che il cielo lascia squillare
Volevo maledettamente essere buona, ma è una cosa che non esiste
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khan-klynski · 4 years
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. "agreste dalle vene in penitenze" Ci siamo chiesti invano, dalla prua di un divano cucito a mano, di quanto fosse vano tentare di dipanare il filo del discorso da un contorno contorto ed umanamente vacuo. Forse sarà quel senso di concordata veemenza nell'andare a capo senza dare il sesso al respirato, una volta che il caprio abbia espiato la sua colpa dettando legge sotto il peso disinibito di una parola appuntata a mena dito come un mantra. Non mi resta che ricordare il rumore fuori onda delle lacrime che intaccano la carta, quel rantolo alla bocca dello stomaco che indichi il ritorno a monte della sillaba sbagliata, sbadigliata ma inghiottita come l'alba che, non convinta di piacere si riassume sotto terra per ricettare quello stimolo infelice, le permetta di rigettare nell'indifferenza dei cassonetti il maledetto karma all'arma bianca, avara come un lembo di carne dissalata. Ci chiederemo nel cuore di un sospiro articolato quanti zigomi facciano un sorriso, quanto sia importante reggere le spalle al silenzio unendo il cosmo di tutti quei massaggi vocali nell'etere, come puntini di un disegno enigmatico che renda un disegno superiore al corpo decaduto delle nostre ostentazioni da circo massimo. So che un giorno ci rivedremo al fronte e che col seno ebbro dell'essere, convinti di avere capito le massime del calendario gregoriano, ci riabbracceremo ancora sotto questo immenso cielo di stele, come braci resistiti al più impotente dei temporali estinti. Grideró al miracolo della resurrezione strisciando nelle taverne di cartapesta ancora una volta, più spesso, esteso come il riflesso della schiuma all'interno dei bicchieri sbeccati, contando le onde di un mare avaro che non carezza il mondo ma lo consuma di ritorno nella risacca palesata valsa a risolvere il problema del silenzioso cardiopalma, la manovra di un rigetto di Vasalva per riportare a Zeno gli spifferi. Adesso ti consiglio di restare ed andare il più lontano possibile se ancora c'è qualcosa da ridire ma fare senza più sorridere come in quel gatto abbandonato dalla notte al sogno vuoto, se almeno ci riflettano i nostri specchi, per un memento, se si è capito che due fari, anche se accesi... (presso PandemiaWorld) https://www.instagram.com/p/CMVrfktHLBa/?igshid=d9uhqxniy6u5
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paroleedincantesimi · 7 years
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Perdere la testa
"Mi raccomando, Dani: lava il pavimento in cucina e stendi i panni!" è l'unico saluto di mia madre mentre corre spettinata giù per le scale, terribilmente in ritardo, come al solito. "D'accordo" le rispondo, senza aspettarmi un 'ciao', vista la fretta con cui è partita. Ah, che bello stare a casa da sola! È davvero liberatorio: puoi fare quello che ti pare quando ti pare, senza nessuno che venga a sgridarti... Ok, detto così, sembra che i miei genitori siano tiranni inumani, ma alla fine suppongo che siano come tutti gli altri: sono io che me la prendo per un niente, me lo dicono tutti.
Vado in cucina e inizio a spostare le sedie per liberarmi il prima possibile dell'odiosa corvée e - tempo dieci minuti - riesco a lavare il pavimento, così acchiappo il cellulare e do un'occhiata alle notifiche: ancora nulla d'interessante. Va bene, sarò onesta: è inutile preoccuparsi, perché so già che la notifica che mi interessa non arriverà mai, visto che lui non mi nota nemmeno quando gli sono di fronte, ma questo non mi impedisce di sperare! Per chi non lo sapesse, lui è Marco, un mio compagno di classe che occupa i miei pensieri troppo spesso perché si tratti di un caso: mi piace. Da un anno. Purtroppo, abbiamo la solita, banale relazione tra persone che si vedono ogni giorno e che non si parlano mai, anche se oggi mi sono offerta per dargli una mano in chimica, sfruttando la sua totale incapacità nelle materie scientifiche. Lui mi ha risposto - Oh mio Dio, sorrideva! - che mi avrebbe fatto sapere, ed eccomi qui ad aspettare un messaggio, nonostante 'Ti farò sapere' sia la frase universale per dire gentilmente: 'Capisco che tu ci stia provando ma mi fai più schifo dei cavolini di Bruxelles, quindi toglitelo dalla testa'. Lo so: sono senza speranze... Posso persino ricordarmi il momento in cui ha iniziato a piacermi: era stata una giornata da dimenticare - due ore di verifica di francese e tre di noia pura... - e per di più stava piovendo a dirotto; io ero appena uscita da scuola, insultandomi mentalmente per non aver portato uno straccio di ombrello e chiedendomi come tornare a casa senza che il dizionario per la verifica, nella sua misera borsina di carta, si bagnasse completamente, quando dal parcheggio della scuola arrivò il timido ruggito di un motorino. Immagino abbiate già capito che era Marco, altrimenti perché ve lo starei raccontando? Ebbene, per farla breve, mi ha portato lui, nonostante casa mia fosse dall'altra parte della città. Mi ero comunque bagnata un po', ma a casa ero così sollevata che non me ne fregava nulla: per una volta non mi ero dovuta sorbire la mezz'ora di autobus per tornare e - non so se fosse per il suo gesto gentile o perché finalmente qualcuno che non fossero i miei genitori o le mie amiche si era preoccupato per me - non riuscivo a smettere di pensare a Marco, a come mi avesse offerto quel passaggio, alla sua espressione indefinibile, alle sue spalle robuste, ai suoi occhi così espressivi... In classe non lo avevo mai notato, ma non è affatto male: me ne sono accorta quel giorno e da lì in poi è stata tutta un'agile discesa verso l'inferno di una cotta non corrisposta, perché io, sciocca come sono, costruisco film mentali sul primo essere di sesso maschile non totalmente repellente che mi dedica un gesto gentile. L'inferno è proseguito per un anno, tra tentativi di conversazione caduti nel vuoto e sguardi imbarazzati, fino al momento in cui, oggi, dopo innumerevoli tentativi maldestri, ho finalmente trovato il coraggio di gettare tra noi un ponte che spetta a lui continuare. Immagino che non lo farà, o che comunque non sarà più che per l'aiuto in chimica, ma almeno potrò parlargli e magari... Basta, è inutile rimuginarci troppo: ha già il mio numero, ora la decisione spetta a lui! Meglio andare a stendere i panni - prima che mi dimentichi -, invece di fantasticare su Marco. Una volta terminato, non posso impedirmi di controllare il cellulare per l'ennesima volta: non trovo il messaggio che aspetto, ma scopro che qualcuno mi ha scritto su Fling; strano: di solito non risponde quasi nessuno... Fling è un'applicazione che permette di mandare una foto o un messaggio in giro per il mondo a un numero limitato di destinatari casuali che hanno, loro stessi, l'applicazione, in modo da conoscere persone anche molto distanti dal proprio paese; di solito più della metà sono pervertiti che chiedono foto spinte, ma ci sono anche persone carine: una volta un ragazzo cinese laureato in matematica mi ha dato una mano a venire a capo di un esercizio che non riuscivo a risolvere; oppure un'altra volta ho conosciuto una signora dell'Ecuador con cui ho scambiato la ricetta del pesto alla genovese per quella delle banane fritte: era adorabile! Queste sono solo due delle mie conoscenze a distanza, ma ci sono veramente tante persone interessanti... Apro il messaggio, un po' impaziente e vedo che è da parte di un ragazzo italiano, nonostante il suo nickname sia 'Ned Stark'. Si tratta di una foto, in risposta a quella che io ho mandato a dieci sconosciuti - il paesaggio nebbioso fuori dalla mia finestra, con la didascalia "Brace yourselves..." -: la sua rappresenta una foglia coperta di brina, e commenta: "...winter is coming"; se mi risponde così, lo amo già! Sono fan del Trono di Spade in modo assurdo, ma purtroppo a nessuno piace, tra i miei amici, quindi appena fiuto un altro fan mi entusiasmo in un secondo... - Ciao Ned, tutto bene? Gli chiedo; troppo freddo, come esordio? Forse, ma trattandosi di Ned Stark, dovrebbe apprezzare! Blocco il telefono e mi metto finalmente a fare quello che mi ha chiesto mia madre; quando ho finito, trovo già la sua risposta: - Insomma, così così... Mmm, me lo aspettavo un po' meno moscio... Comunque non posso perdere un'occasione per parlare finalmente di GoT con qualcuno: - Dai, Eddard, non dirmi che ti stai scongelando! - Beh, ridimmelo quando avrai perso la testa anche tu... Replica lui immediatamente; ok, questo devo concederglielo, ma l'ho persa anch'io; certo, solo metaforicamente, però il fatto resta! - L'ho già salutata, per citare il Cappellaio Matto. - In che senso? - In senso figurato: si è messa a gironzolare dietro ad un ragazzo, e adesso non la trovo più! - Siamo sulla stessa barca... Pensa che dopo anni che sono rimasto a guardarla in silenzio, paralizzato dal terrore ogni volta che mi si avvicinava - sì, sono piuttosto timido, in realtà... -, lei mi ha proposto di incontrarci. Io non riuscivo a crederci e le ho chiesto un attimo per pensarci, ma, indovina un po'? Mi sono accorto oggi pomeriggio di aver perso il numero! - Almeno tu le interessi... Io invece non ho speranze: mi ignora costantemente! - Mi dispiace, però immagina come mi sento io! Che figura ci faccio a chiederle il numero dopo che me l'ha già dato una volta? - Potresti semplicemente dirle la verità e sono convinta che, se vuole davvero uscire con te, ci passerà sopra... - In realtà non sarebbe proprio 'uscire': mi ha solo offerto un aiuto con lo studio... "Che bizzarra coincidenza!" direi, se mi trovassi in un libro; ma siccome la mia vita non è un libro, non credo sia il caso di iniziare con i film mentali. Poi lui continua: -Comunque per te è facile dirlo! Vorrei vedere te! E poi sono abbastanza timido, te l'ho detto... - Poi dicono che siamo noi donne a crearci paranoie su paranoie: alla faccia della timidezza! Senti, se mi dici il suo nome, le scrivo io con un pretesto e le chiedo il numero. - Davvero? - Se ti dicessi quello che penso, probabilmente ti offenderesti. - Ma lo faresti sul serio? - No: come dicono gli inglesi, 'grow a pair and ask yourself!' (Provvediti di un set di attributi sessuali maschili e trova l'ardire di chiederglielo personalmente! N.d.A.) Che razza di Ned Stark vuoi essere, se non hai nemmeno il coraggio di superare inezie come questa? - Preferirei affrontare un branco di Lannister da solo... - Codardo! - Senti chi parla! Se lui ti ignora, fai tu la prima mossa, no? - Non credere che non ci abbia già provato... Anch'io gli ho proposto di dargli una mano con i compiti di chimica e lui mi ha liquidato con un "Ti farò sapere...": insomma, neanche un 'grazie'...
Visto che non risponde subito, metto giù il cellulare e mi metto straordinariamente a fare i compiti: oddio, non starò mica male? Di solito mi riduco a farli dopo le dieci di sera! (Sempre che li faccia, naturalmente...) Apro il libro di matematica e scrivo uno degli esercizi, ma - guarda un po' - non riesco a concentrarmi. D'accordo, lo ammetto: aspetto ancora un messaggio; o meglio, due messaggi: mi sono già affezionata a Ned e non capisco perché non risponda. Beh, non è il caso di stare in ansia: avrà qualcosa di urgente da fare... Oppure gli si è scaricata la batteria... Oppure stava guidando e si è schiantato contro un albero per leggere il mio messaggio. Com'è tragico: inizio a sentirmi in colpa! Oppure gli sta bruciando la casa... Altrimenti può darsi che sia stato aggredito da una belva scappata da un circo di passaggio... Se no sua madre ha avuto un infarto e lui non può rispondere perché sta chiamando l'ambulanza! Però è strano: ci sta mettendo un po' troppo a chiamare i soccorsi: più probabilmente ha lasciato cadere il cellulare nel water per sbaglio! Ok, basta prendermi in giro: è evidente che sono pesa e sgradevole, quindi se non mi trova abbastanza simpatica, me ne farò una ragione e tutte le solite balle... Il mio telefono vibra, presago e io mi precipito con scatto felino a controllare: mio Dio, è lui, Ned! Ha risposto! Sblocco lo schermo, sollevata e... - Daniela, sei tu?
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pangeanews · 4 years
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“Amare non è sufficiente… Ho scoperto, mia cara, che la persona giusta non esiste”. Sándor Márai, una vera e propria educazione sentimentale
Leggete La donna giusta di Sándor Márai con qualche precauzione, questo libro è una vera e propria educazione sentimentale. La storia pare sempre la stessa: la moglie, il marito, l’altra. La donna giusta (Adelphi, traduzione di Laura Sgarioto e Krisztina Sándor) è un romanzo organizzato per monologhi, la narrazione procede per confessioni, tutti si vogliono confessare, ognuno ha da dire qualcosa in più, la sua versione deve essere quella assoluta perché quella vissuta. In una storia che sembra il solito triangolo amoroso si nasconde in realtà una tra le più belle educazioni sentimentali di sempre. Dovrebbero proporla alle scuole, come consegna a fine quinto anno per la vita che c’è oltre le mura di contenzione.
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“Non credo affatto che marito e moglie possano restare buoni amici dopo il divorzio. Il matrimonio è il matrimonio, il divorzio è il divorzio. Io la penso così” è una delle prime frasi che la moglie pronuncia all’amica-confessore. Quindi l’altra pare abbia vinto, si tratta di una storia raccontata dalla fine. Il problema principale è che “a quanto pare non si può proprio vivere senza affetti”, è quasi una condanna. Lui è un uomo alto, slanciato, di una finezza nel portamento che pare non intaccare l’età, per lui il tempo non esiste, niente turba il volto di un ricco borghese, di questo borghese speciale e pallido che sembra abitare una vetta. Dopo la ricerca di un affetto l’altro problema è sempre la possessione: trovato l’oggetto lo vogliamo nostro, vogliamo togliergli qualsiasi segreto solo per il gusto intimo e non confessabile di vederlo nudo, di scoprirgli quel dannato fianco: “capii che mio marito, che credevo fosse completamente mio, da cima a fondo, come si suol dire, del quale pensavo di possedere tutto, persino i segreti più profondi della sua anima, non mi apparteneva per niente, era invece un estraneo, che di segreti ne aveva, eccome”. L’istinto della conoscenza, del sapere tutto dell’altro è un istinto distruttivo, porta all’annientamento della persona e anche del sentimento. Conoscere è un atto sacro, vuol dire avvicinarsi all’ombra, e finché l’ombra è tua puoi farci quel che vuoi, puoi pure precipitarti dentro. Ma se l’ombra invece è quella di chi ami la faccenda si fa più complessa, la conoscenza diventa violenza.
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“E in cosa consiste il potere di noi donne, la nostra forza? Nell’amore, dici tu. Può darsi che sia l’amore. A volte mi è capitato di dubitare del senso di questa parola. (…) Eppure talvolta ho la sensazione che gli uomini, quando ci amano – perché proprio non possono fare altrimenti –, sembrano quasi sottovalutare la faccenda. In ogni vero uomo c’è una certa ritrosia, come se egli volesse precludere una parte del suo essere, della sua anima, alla donna amata”. Sándor Márai introduce così il difficile concetto di spazio libero dell’essere umano dentro al matrimonio; uno spazio inviolabile e inaccessibile all’altro della coppia deve essere preservato per il bene di entrambi, sono zone che hanno tutte le sfumature del grigio e tali devono restare. I segreti vanno custoditi nella solitudine, l’amore va quindi arginato se pretende la conoscenza. Márai spiegherà lentamente in questo libro cosa succede quando l’amore si mangia tutto, anche i segreti intimi dell’uomo. Quel che ne resta è probabilmente solo polvere, si brucia tutto, il fuoco incendia e poi si estingue. E l’amore resta una colpa per tutti in questa storia.
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“Poi non scrissi più a nessuno, neppure a te, non vivevo che per il bambino. Tutti erano spariti intorno a me, vicini o lontani che fossero. Non si dovrebbe amare fino a questo punto, non si dovrebbe amare nessuno così tanto, nemmeno i propri figli. Ogni amore è sfrenato egoismo. E così smettemmo di scriverci. Tu eri la mia unica amica, ma ormai non avevo più bisogno nemmeno di te, perché c’era il bambino”. La coppia borghese a un certo punto ha un figlio, figlio che serve alla madre come parafulmine di questo amore, di questa necessità. Ma una creatura così fragile come può resistere a questo sfrenato atto egoistico d’amore? Fa come la formica sotto la lente di ingrandimento picchiata dai raggi del sole: brucia e muore. “Da un dolore simile non si guarisce mai. Ecco l’unico, vero dolore: la morte di un bambino. È il termine di paragone per misurare tutti gli altri dolori. Tu non lo conosci”. Allora il bambino è visto come un miracolo, come l’agente che può risolvere le tensioni, come colui che deve raddrizzare quel che di contorto e oscuro è contenuto nei genitori. Sándor Márai capovolge il concetto di nascita, lo trasporta nel quotidiano borghese tra due coniugi che non han molto da dirsi ma sorridono sempre, tra due persone che abitano latitudini opposte della casa, una insegue i movimenti dell’altro, l’altro abita la settima stanza da solo, nemmeno il figlio riesce davvero ad entrare: “Si avvicinò smarrito, come chi si ritrova a essere il protagonista di una situazione delicata, troppo umana, e se ne vergogna un po’”.
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Ed ecco il culmine di questa prima parte di educazione sentimentale, Sándor Márai svela un po’ della ricetta magica per vivere felici, oppure solo per vivere: “Sai, quando si invecchia, si scopre che le cose stanno in modo diverso, che bisogna sempre sapere come si fa, bisogna imparare tutto, anche ad amare. (…) Siamo esseri umani, e ciò che accade nella nostra vita viene filtrato dalla ragione. Ed è sempre attraverso la ragione che i nostri sentimenti e le nostre passioni diventano sopportabili, oppure ci paiono intollerabili. Amare non è sufficiente”. Quindi amare non solo non è sufficiente per vivere ma anche intollerabile, tutti i sentimenti assoluti necessitano di carne di cui vivere, si mangiano tutto, partono dall’interno, a volte dal cuore stesso. Chi ha provato un amore disperato e ossessivo, totalizzante, capisce benissimo queste righe di La donna giusta, la ragione ti salva e permette di dare un nome a questa massa piena ma senza involucro, che si espande e si aggrappa dove può.
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“Ci vuole una forza sovrumana per vivere contro la propria natura. Stringeva i denti, voleva a ogni costo essere felice”, anche qui Sándor Márai è sempre avanti a tutti. Per la società borghese non c’è spazio per svolgere la matassa della propria natura, si è necessariamente obbligati a raggiungere la ricchezza e poi a conservare lo status. Non c’è spazio nemmeno per essere tristi, lo si può fare ma nella famosa settimana stanza, chiusi a chiave e soli. Senza nessuno a testimoniare cosa c’è dietro la figura del perfetto borghese.
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“Una donna non può capirlo. Un uomo trova nella propria anima forza sufficiente per vivere. Il resto non è che un’eccedenza, un sottoprodotto. Ma il bambino, eccolo il vero miracolo! Per lui si può raggiungere un compromesso. Facciamo un patto. Restiamo insieme ma tu amami di meno. (…) Ci sono uomini, dall’indole più femminea, che hanno proprio bisogno di essere amati. Ma esiste anche un altro genere di uomini, quelli che l’amore tutt’al più riescono a tollerarlo. E io sono uno di loro. Tutti i veri uomini sono pudichi, tu dovresti saperlo”. Amare oltre misura è un errore imperdonabile. Qui in La donna giusta Sándor Márai ci sbatte ferocemente in faccia la biologica differenza tra uomini e donne. L’uomo è naturalmente portato a indirizzare le proprie forze all’esterno, in un progetto ad esempio, per progredire e per vivere ha necessità di trovare un punto di fuga. La donna invece è centripeta, e quando ama qualcuno in modo totalizzante commette il più grande errore per se stessa: allontanarsi dal suo centro, riversarsi come un vaso su una terra arida. La sete non si cura così.
*
Sul dolore Sándor Márai poi è spietato, ce lo descrive senza alcuna premura, dovete essere pronti a leggere una feroce verità: “quando si comincia a piangere, vuol dire che ormai si cerca di ingannare il prossimo. In quel momento, il corso degli eventi si è già concluso. Non credo alle lacrime. Il dolore è asciutto e muto. (…) Non è vero che il dolore ci purifica, che si diventa migliori, più saggi e comprensivi. Si diventa freddi, lucidi e indifferenti”. La prima regola che mi hanno insegnato in ospedale è stata quella di prestare sempre attenzione al paziente che non si lamenta, chi tace è spesso chi è più grave. Davanti ai grandi dolori si diventa muti, ci si ritira nel corpo, la pelle si fa indietro, si scava fossati di protezione.
*
Amare è una colpa, Márai ci avvisa in tutti i modi, lo fa dire persino dal prete: “Ma in lei, adesso, c’è una smania che rasenta il peccato. Lei vuole privare un uomo della sua anima. È quello che vogliono tutti gli innamorati. Questo è il peccato”. Insomma, innamoratevi del segreto di qualcuno, lasciate all’altro esattamente quello che vi ha fatto avvicinare, sfiorate quel segreto senza mai aprirlo. La conoscenza può inghiottire tutto, vomitarvi in un istante. Addomesticate i vostri sentimenti e rasserenatevi: “Ho scoperto, mia cara, che la persona giusta non esiste. Un giorno mi sono svegliata, mi sono messa a sedere sul letto e ho sorriso. Non sentivo più alcun dolore. E improvvisamente ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte, puoi starne certa. (…) Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce, tutto”.
*
Le parti trascritte appartengono al primo monologo, la storia dal punto di vista della moglie. Un romanzo perfetto e completo questo di Sándor Márai, assolutamente necessario. Dovrebbe stare sui comodini di tutti, da usare davvero come la bibbia. Si dovrebbero scrivere comandamenti da questo libro: amare totalmente è un errore e un peccato, togliere il segreto a un uomo equivale a togliergli l’anima, esistono uomini che non hanno necessità di essere amati, una donna non può amare troppo perché esce dal suo centro, la ragione è l’ultimo ramo da prendere prima della follia. Tenetevi stretto il vostro segreto, piantatelo bene nell’ombra. La settima stanza può contenere solo un uomo alla volta, nessuno spettatore è ammesso. Sbarrate la conoscenza persino a quelli che vi amano, il fianco deve restare coperto.
Clery Celeste
*In copertina: John Singer Sargent, “Lady Agnew di Lochnaw”, 1892
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chiarasolems · 7 years
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#bingeeating disorder come #guarire: Intervista a Simona Pasini 20 anni di #disturbodaalimentazioneincontrollata
binge eating disorder come guarire: Si chiama binge eating disorder (Bed) letteralmente abbuffarsi di cibo: mangiare in continuazione ma senza vomito. In termini tecnici <manca la fase di ripulitura dalla trasgressione alimentare e la persona resta invasa dal senso di colpa e dal gonfiore dell’eccesso>. Il binge è un disturbo alimentare. Può essere un’evoluzione dell’anoressia o della bulimia ed è diffuso sia tra le donne che tra gli uomini. Molte persone ne soffrono anche nella provincia di Rimini e non sanno neppure di esserne affetti.
Simona Pasini, riminese 43 anni, per lungo tempo ha dovuto convivere con questa patologia. Da qualche tempo è riuscita a lasciarsi tutto alle spalle e deciso di raccontarci la sua storia.
Quando sono iniziati i primi problemi? <Intorno ai 17 anni. Avevo un’ ossessione del mio corpo, non mi vedevo, non mi accettavo e a un certo punto ho iniziato a controllare anche il cibo. In pochi mesi sono iniziati i primi sintomi. Ho sviluppato una vera e propria ossessione: mangiavo tutto il giorno, a tutte le ore, anche di notte ma senza vomitare. Alternavo periodi di abbuffate compulsive, ad altri in cui, divorata dal senso di colpa, controllavo ogni singolo alimento, arrivando a pesarmi più volte al giorno. Mangiate continue, poi restrizione: un’altalena infernale per una ventina di anni>.
Qual è stato il momento più difficile? <I problemi sono iniziati alle scuole superiori. Ma il periodo più brutto è stato quello dell’università: siccome non hai delle giornate ben scandite, trascorri molto tempo in casa, in quegli anni mi abbuffavo di continuo. Sei autonoma nello studio e l’ autonomia, l’ indipendenza sono sinonimi di crescita, pertanto spaventano. Ancora oggi trovo briciole nei libri>.
Fisicamente che problemi avevi? <Dopo ogni abbuffata mi sentivo talmente gonfia da non riuscire neanche ad alzarmi dal letto. Trascorrevo intere giornate in completa apatia. Il discorso del cibo è relativo, oltre ai problemi fisici il binge eating è una patologia che intacca tutte le sfere della vita. Avevo problemi di concentrazione oltre a una grande rabbia con il mondo, ma principalmente con me stessa, per le difficoltà a rapportarmi con gli altri. Mi sentivo continuamente inadeguata e giudicata. Anche i rapporti affettivi erano difficili: avevo sviluppato una grossa dipendenza affettiva. Dipendevo dal mio partner, persino per svegliarmi la mattina. Scaricavo su di lui tanta collera, ci sono episodi che addirittura non riesco ne anche più a ricordare, tanto ero fuori di me ed era difficile portare avanti un discorso di coppia>.
Hai provato ad uscirne? <Sì ho provato tante strade: dagli psicologi ai farmaci. I miei genitori mi hanno accompagnato ovunque, ma non riuscivo mai ad arrivare al cuore del problema. Le terapie si concentravano sul sintomo (cibo) che però era solo la punta dell’iceberg>.
Quando hai imboccato la strada giusta? <Otto anni fa, quando ho conosciuto l’Associazione MondoSole di Rimini che ho voluto fortemente incontrare. La perdita di un’ amica a me molto cara, che soffriva di disturbi alimentari, mi ha fatto svegliare dal mio limbo, allora mi sono decisa a chiedere aiuto. Così è iniziato il mio percorso di guarigione: lì ho capito che il cibo era il sintomo principale ma rappresentava solo una piccolissima parte del problema che finalmente sono riuscita a risolvere. Grazie all’associazione ho imparato anche a relazionarmi con il mio compagno. Prima convivevo con lui, poi con i miei referenti abbiamo valutato che era meglio interrompere per un po’ la convivenza. Era diventato deleterio vivere insieme, perché io tendevo a sviluppare una dipendenza affettiva enorme. Così sono andata a vivere in un’altra casa, con altre ragazze del centro di cura MondoSole, per essere in grado di camminare da sola>.
E’ stato utile? <Utilissimo, fondamentale. Ho imparato a diventare grande: a pulire la casa, a fare la spesa da sola, a pagare le bollette, tutte cose che da sola non riuscivo a fare. Prima mi sentivo bambina con la paura di crescere>.
Adesso come va? <Sto bene. Vivo con il mio compagno da otto anni, sono serena, indipendente e in grado di vivere la mia vita. Il cibo è tornato ad avere il giusto valore e non è più l’anestetico ai problemi come una volta>.
Cosa diresti a chi soffre di questi disturbi? <Rivolgetevi a degli specialisti perché da soli è impossibile venirne fuori. E di crederci. perché dai disturbi alimentari si guarisce. E’ un percorso duro, difficile, richiede molto impegno, ma si può guarire>.
  Grazie al Corriere e a Luca Cassoni per aver reso pubblica la preziosa testimonianza di Simona. clicca sull’immagine dell’articolo per ingrandirla:
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tmnotizie · 6 years
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SAN BENEDETTO – L’amministrazione comunale ha presentato il report relativo al conferimento dei rifiuti da gennaio e fino a tutto il periodo estivo. “L’amministrazione comunale –dice il sindaco Pasqualino Piunti- è in prima linea nella pulizia e nel decoro della città. L’obiettivo primario è quello di informare i cittadini su cosa vanno incontro nel caso in cui non rispettino le regole. Per questo motivo è stata organizzata una task force che comprende gli uffici comunali, i Vigili Urbani, la Guardia Nazionale Ambientale e la PicenAmbiente. In questo modo sono stati attuati strumenti di controllo sia per il conferimento dei rifiuti che le deiezioni canine che hanno come scopo quello di risolvere queste problematiche”.
Sono 60 verbali elevati e 75 controlli effettuati in materia di conferimento dei rifiuti da gennaio e fino a tutto il periodo estivo. Per quanto riguarda il primo dato sono 25 da gennaio a giugno 2018, 13 nel periodo estivo mentre 22 le infrazioni rilevate attraverso le foto trappole nel bimestre settembre-ottobre 2018. Quest’ ultimi accertamenti sono stati svolti con la collaborazione tra la Polizia Municipale e la Guardia Nazionale Ambientale. I numeri, invece, relativi ai controlli effettuati senza accertamento di violazione e con rimozione dei rifiuti da parte di PicenaAmbiente sono 40 nel periodo gennaio-giugno 2018 e 35 nel periodo estivo.
Sono stati, inoltre, 250 i controlli in materia di regolamento per il benessere degli animali, con 31 provvedimenti a danno dei padroni. Si va dalle deiezioni canine lasciate per strada all’assenza di sacchetti di raccolta, passando per l’accesso degli animali in zone vietate e il mancato utilizzo del guinzaglio.
Per quanto il materiale ingombrante che, senza alcun senso civico viene lasciato a fianco dei cassonetti con la speranza che siano rimossi dagli operai della PicenAmbiente, l’amministrazione comunale precisa che “basta telefonare alla PicenAmbiente per accordarsi sulla data e sull’ ora del ritiro. Non è colpa del Comune se materassi, vecchi televisori e quant’altro resta in strada ma del comportamento scellerato dei privati. Identico discorso per la potatura delle essenze arboree dei giardini privati, nel caso di rami di una certa grandezza. In altri comuni questo servizio ha un costo, mentre a San Benedetto è gratuito”.
“Questi dati –spiega l’assessore all’ ambiente Andrea Traini- sono solo iniziali. I controlli proseguiranno in modo continuo e permanente. D’altro canto come giunta comunale abbiamo elevato la sanzione per l’attività commerciale che conferisce in modo errato i suoi rifiuti, passandola da 50 euro a 200 euro. Importante, poi, è la collaborazione tra la Polizia Municipale e la Guardia Nazionale Ambientale che attraverso le foto trappole ha già individuato un buon numero di trasgressori. Ad oggi ce ne sono tre in azione, in via del Cacciatore, via Ivrea e via Valtellina. L’obiettivo è di spostarne almeno un paio nel centro città ma anche di potenziarne il numero portandolo a sei”.
Ma si preannunciano anche novità di rilievo per quanto riguarda il conferimento di rifiuti. “Innanzitutto –spiega l’assessore Traini- installeremo una nuova isola ecologica in piazza Chicago Heights dinanzi la Capitaneria di Porto che farà così il paio con quella già presente in via Mazzocchi. Inoltre si proseguirà con la consegna dei mastelli nella zona sud della città per la precisione all’ Agraria ed a Fosso dei Galli. Poi toccherà al quartiere Ragnola lato ovest ed avere così entro il 2019 una raccolta differenziata completa in tutta la città. Anche nelle aree verdi sono stati fatti interventi importanti. Nel parco di via Zara è stata cambiata l’illuminazione e sono state installate, grazie ai ragazzi di Rifondazione Comunista, due nuove panchine. Ma ci sono stati lavori nel parco Pao in zona Sentina ed a quello di fosso dei Galli”.
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L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (terza ed ultima parte)
di Nazareno Valente
2.1 Pompeo ripiega su Brindisi (anno 49 a.C.)
È ancora Cicerone — nelle lettere che indirizza all’amico Attico — che svela le intenzioni di Pompeo e delinea l’itinerario successivamente da questi compiuto nel viaggio di avvicinamento a Brindisi.
Nella prima, allega copia della lettera con cui Pompeo, trovandosi il 18 febbraio a Lucera, comunica ai consoli in carica d’aver deciso che, tranne i presidi stabiliti per la Sicilia, i restanti reparti militari devono concentrarsi a Brindisi, per essere poi di lì trasportati con le navi a Durazzo («reliquae copiae omnes brundisium cogerentur et inde navibus Dyrrachium transportarentur»)33. Li esorta pertanto a radunare tutti i contingenti militari possibili e di raggiungerlo quanto prima («Vos hortor ut quodcumque militum contrahere poteritis contrahatis et eodem Brundisium veniatis quam primum»)34.
Ma, come fa notare Cicerone ad Attico in una successiva lettera, a Brindisi confluisce ogni forma di ostilità futura («Brundisi autem omne certamen vertitur huius pr<ox>imi temporis»)35. Vi si dirige infatti anche Cesare, partito da Corfinio nel pomeriggio dello stesso giorno della festa dei Feralia in cui, al mattino, Pompeo s’è allontanato da Canosa («Eodem enim die video Caesarem a Corfinio post meridiem profectum esse, id est Feralibus, quo Canusio mane Pompeium»)36.
Pompeo arriva infine nella città salentina il 25 febbraio ed è sempre Cicerone a farcelo sapere. Il 18 marzo prima si lamenta con Attico di non aver niente da scrivere («Nihil habebam quod scriberem»)37, e poi redige una lunghissima lettera in cui, citando un avvenimento avvenuto il 1° marzo, ricorda en passant che Pompeo era, a quel tempo, a Brindisi già da quattro giorni. («At Kalendas Martias, cum ille quintum iam diem Brundisi esset»)38. Gli effettivi su cui può contare sono trentamila uomini («numerus est hominum milia triginta»)39 oltre a numerose navi che è riuscito ad ottenere («πλοίων εὐπορήσας τοὺς μὲν ὑπάτους εὐθὺς ἐμβιβάσας»)40 probabilmente dagli alleati orientali.
Ma nel frattempo anche Cesare si avvicina, avvalorando così le preoccupazioni di Cicerone. Ora pero può contare su una milizia ben più consistente di quella con cui aveva iniziato l’impresa. Ai veterani della XIII legione si sono uniti quelli della XII e dell’VIII e, durante la marcia, 3 altre legioni sono state costituite ricorrendo a nuove leve ed arruolando chi ha abbandonato i ranghi pompeiani41.
    2.2 Cesare raggiunge Brindisi (anno 49 a.C.)
Cesare giunge a Brindisi il 9 marzo e si accampa davanti alle mura («a. d. VII Idus Martias Brundisium veni; ad murum castra posui»)42, come comunica egli stesso ai suoi agenti Oppio e Balbo,
Pompeo è ancora in città con venti coorti mentre il grosso delle sue truppe è salpato il 4 marzo («a. d. IV nonas Martias»)43 per Durazzo insieme con i due consoli, i tribuni della plebe ed i senatori, sfruttando i venti favorevoli che da quel giorno avevano cominciato a spirare da nord («Ex ea die fuere septemtriones venti»)44. Non è per scopi strategici che Pompeo resta a Brindisi ma per banali cause di forza maggiore: le navi non bastavano a trasbordare tutte le truppe insieme ed è costretto ad attendere il loro ritorno da Durazzo per salpare a sua volta («μέχρις οὗ τὰ πλοῖα ἐπανῆλθε»)45.
Cesare, non essendo in grado di valutare come stiano effettivamente le cose, e temendo che il rivale possa avere l’intenzione di occupare la città per presidiare le rotte del basso adriatico, decide di bloccare l’uscita e le attività del porto («exitus administrationesque Brundisini portus impedire institui»)46. In questo modo, come egli stesso chiarisce al nipote (o pronipote) Quinto Pedio in una lettera poi finita nel carteggio di Cicerone con Attico, vuole obbligare Pompeo a portar via quanto prima le truppe che tiene a Brindisi oppure intrappolarlo («ut aut illum quam primum traicere quod habet Brundisi copiarum cogamus aut exitum prohibeamus»)47.
Che però Pompeo non intenda tenere Brindisi è evidente dalla circostanza che non abbia fatto presidiare i litorali prospicienti il canale di accesso al porto interno, lasciando così del tutto sguarnita la città dalla parte del mare. Sa infatti che Cesare non dispone al momento d’una flotta, per cui ritiene che nell’immediato non possa creare eccessivi problemi per quella via.
Tuttavia Cesare è noto per l’imprevedibilità e, nonostante le incertezze manifestate, ha in realtà tutta l’intenzione di avere uno scontro con il rivale per risolvere entro breve la faccenda. Ne intravede la possibilità in quelle coste che ha preso con facilità e che gli possono consentire, bloccando il canale di comunicazione tra porto interno e porto esterno, di chiudere il rivale in una trappola senza via d’uscita. Solo deve fare in fretta, per non dare il tempo alla flotta di Pompeo di venire in suo soccorso. Per questo dà subito inizio ai lavori di sbarramento del canale.
Dapprima fa gettare massi per creare un terrapieno nel punto in cui l’imboccatura del porto è più stretta ed il mare è poco profondo («Qua fauces erant angustissimae portus, moles atque aggerem ab utraque parte litoris iaciebat, quod his locis erat vadosum mare»)48. Dove la profondità delle acque non può invece reggere un argine, fa collocare, come prolungamento, coppie di zattere quadrate larghe 30 piedi49, tenute ferme da àncore collocate ai quattro angoli in modo che non siano spostate dai flutti («Longius progressus, cum agger altiore aqua contineri non posset, rates duplices quoquoversus pedum XXX e regione molis collocabat. Has quaternis ancoris ex IV angulis destinabat, ne fluctibus moverentur»)50. Congiunge poi a queste zattere altre di pari grandezza ricoperte di terra e di altro materiale per passarci sopra con facilità e accorrervi per la difesa («alias deinceps pari magnitudine rates iungebat. Has terra atque aggere integebat, ne aditus atque incursus ad defendendum impediretur»)51. Come protezione pone sui lati esterni graticci e plutei52 («A fronte atque ab utroque latere cratibus ac pluteis protegebat»)53; infine, per ogni gruppo di quattro zattere, fa innalzare torri a due piani per difenderle da attacchi con le navi e da tentativi d’incendio («in quarta quaque earum turres binorum tabulatorum excitabat, quo commodius ab impetu navium incendiisque defenderet»)54.
Come vedremo in seguito, lo sbarramento non produsse l’effetto sperato, malgrado ciò l’episodio è tuttora ricordato dai cronisti in quanto è convinzione comune che sia stato la causa principale dei grossi problemi di impaludamento cui andò incontro il porto di Brindisi. Nel periodo di dominazione spagnola, infatti, il porto interno brindisino era più simile ad una palude che ad uno specchio di mare, risultando di fatto inaccessibile ai vascelli. Di tale stato di cose Pigonati, tenente colonnello del Genio dell’esercito borbonico, incaricato di ripristinarne l’agibilità, addossò tutta la colpa a Cesare, dimenticandosi che il porto aveva funzionato senza problemi di sorta per mille e più anni dall’evento narrato55. La cosa singolare è che tale opinione abbia superato i secoli e risulti tuttora diffusa, in aggiunta ingigantita con artifizi narrativi ancor meno credibili, del tipo quello che imputa al condottiero romano l’aver addirittura spianato le colline della fascia costiera per procurarsi i massi necessari a chiudere il canale.
Per altro non è che Pompeo lascia fare senza reagire: a sua volta fa allestire grandi navi da carico, su cui innalza torri a tre piani riempite di macchine da lancio e di ogni genere di proiettili («naves magnas onerarias… adornabat. Ibi turres cum ternis tabulatis erigebat easque multis tormentis et omni genere telorum completas»)56, che poi scaglia contro le opere di sbarramento di Cesare per scompaginare le zattere e disturbare i soldati al lavoro («ad opera Caesaris adpellebat, ut rates perrumperet atque opera disturbaret»)57.
Ci sono così scaramucce quotidiane con attacchi a distanza compiuti con armi da lancio e, proprio quando Cesare è arrivato a metà della sua opera («Prope dimidia parte operis a Caesare effecta»)58, rientrano a Brindisi, rimandate da Durazzo, le navi che hanno lì trasportato la prima parte dell’esercito («naves a consulibus Dyrrachio remissae, quae priorem partem exercitus eo deportaverant, Brundisium revertuntur»)59.
Pompeo può quindi prepararsi a partire. Guardato però con scarso favore dai brindisini.
  3.1 Pompeo salpa da Brindisi (anno 49 a.C.)
Ora che le navi sono tornate ed i venti sono favorevoli per levare l’ancora, Pompeo non ha motivo di rimanere a Brindisi e così affretta i preparativi. Come riferito da Mazio e da Trebazio a Cicerone, la sera stessa del 17 marzo, giorno del ritorno della flotta da Durazzo, Pompeo lascia Brindisi con tutte le truppe a disposizione («Ante diem XVI Kalendas Apriles cum omnibus copiis quas habuerit profectum esse»)60.
Prima di andarsene, s’è però premunito d’impedire che il nemico possa irrompere in città mentre è in atto la partenza. Dopo aver ordinato ai brindisini di stare calmi nelle loro case («τοὺς δὲ Βρεντεσίνους ἀτρεμεῖν κατ’ οἰκίαν κελεύσας»)61, fa barricare le vie e le piazze; fa scavare fosse in senso trasversale alle vie e vi fa piantare dentro pali e tronchi con la punta aguzza. Poi ricopre i buchi con sottili graticci e terra, livellando il terreno («vicos plateasque inaedificat, fossas transversas viis praeducit atque ibi sudes stipitesque praeacutos defigit. Haec levibus cratibus terraque inaequat»)62. Rende in seguito inagibili le vie d’accesso e le due strade che, al di fuori della cerchia delle mura, conducono al porto sbarrandole con travi molto grandi e bene appuntite, conficcate nel terreno («aditus autem atque itinera duo, quae extra murum ad portum ferebant, maximis defixis trabibus atque eis praeacutis praesepit»)63. Lascia praticabili soltanto due vie delle quali si serve per scendere al mare («καὶ σκολόπων ἐνέπλησε τοὺς στενωποὺς πλὴν δυεῖν, δι’ ὧν ἐπὶ θάλατταν αὐτὸς κατῆλθεν»)64.
Quando ha imbarcato il grosso della truppa sulle navi, fa lanciare un segnale per i soldati che sono di guardia alle mura e questi scendono rapidamente verso il mare, montano a bordo e consentono alla flotta di salpare per la sponda opposta («τοῖς δὲ τὰ τείχη φυλάττουσιν ἐξαίφνης σημεῖον ἄρας καὶ καταδραμόντας ὀξέως ἀναλαβὼν ἀπεπέρασεν»)65.
Pompeo abbandona così Brindisi sul fare della notte.
Cesare comprende dalle mura deserte che il rivale gli sta sfuggendo. Ordina che vengano scalate e poco manca che, nella fretta, i suoi soldati non rimangano vittima dei pali nascosti nelle fosse che Pompeo aveva fatto scavare. Sono i brindisini, schieratisi apertamente a favore di Cesare, ad avvertirlo ed egli evita così di attraversare la città («τῶν δὲ Βρεντεσίνων φρασάντων φυλαττόμενος τὴν πόλιν»)66. Già quando si svolgevano i preparativi della partenza essi avevano incominciato a fare segnalazioni dall’alto dei tetti («ex tectis significabant»)67. Ora li guidano su un percorso più lungo sino a farli giungere incolumi nei pressi del porto («sed moniti a Brundisinis, ut vallum caecum fossasque caveant… et longo itinere ab his circumducti ad portum perveniunt»)68.
Ma, quando vi giungono, è ormai l’alba e le navi di Pompeo sono in mare aperto; Cesare, privo com’è di un qualsiasi supporto navale, non può che guardarle impotente allontanarsi all’orizzonte. Fallisce in questo modo il suo tentativo di avere uno scontro decisivo con il rivale e di annientarlo, quand’egli era ancora a Brindisi, così da porre termine al conflitto già sul suolo italico («Ὁ δ’ οὖν Καῖσαρ σπουδὴν μὲν εἶχε συμμῖξαί τε αὐτῷ, πρὶν ἐκπλεῦσαι, κἀν τῇ Ἰταλίᾳ διαπολεμῆσαι, καταλαβεῖν τε αὐτὸν ἐν τῷ Βρεντεσίῳ ἔτ’ ὄντα»)69.
L’abilità di Pompeo ha avuto in questa circostanza il sopravvento e il mancato scontro va in definitiva tutto a suo vantaggio; non a caso, questo suo ripiegamento dall’Italia sarà ricordato come una delle sue manovre belliche meglio riuscite («Οἱ μὲν οὖν ἄλλοι τοῦ Πομπηΐου τὸν ἀπόπλουν ἐν τοῖς ἀρίστοις τίθενται στρατηγήμασιν»)70.
A Cesare non resta che consolarsi con la cattura di due navi impigliatesi negli sbarramenti costruiti a prezzo di notevoli sforzi («duasque naves cum militibus, quae ad moles Caesaris adhaeserant»)71. Un bottino invero ben misero a fronte dell’impegno profuso nei nove giorni d’assedio, dove ha cercato invano d’impedire la partenza di Pompeo con tutti i mezzi possibili («Hos frustra per omnis moras exitu prohibere conatus»)72.
La delusione che traspare da questo passo di Svetonio è palese, tuttavia la conclusione non è poi tanto lontana: alla fine dell’anno, Cesare ritornerà a Brindisi per attraversare finalmente l’Adriatico e chiudere una volta per tutte i conti con il rivale.
  Note
33 Cicerone, Cit., VIII 12A, 3.
34 Cicerone, Cit., VIII 12A, 4.
35 Cicerone, Cit., VIII 14, 1.
36 Cicerone, Cit., VIII 14, 1. I Feralia era la festa dedicata agli dèi Mani che si svolgeva il 21 febbraio.
37 Cicerone, Cit., IX 10, 1.
38 Cicerone, Cit., IX 10, 8.
39 Cicerone, Cit., IX 6, 3.
40 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 2.
41 Defezionarono dalle fila di Pompeo, passando con le milizie di Cesare, un numero imprecisato di coorti di Azio Varo (cesare, Cit., I 13, 4), la maggior parte delle dieci coorti di Lentulo Spintere (cesare, Cit., I 15, 3), le sette di Quinto Lucrezio e di Azzio Peligno (cesare, Cit., I 18,4), buona parte delle coorti di Domizio (cesare, Cit., I 23, 5) e le tre di Rutilio Rufo (cesare, Cit., I 24,3). In definitiva circa 26 o 27 coorti, come dire tre legioni scarse, cambiarono di campo. Si ricorda che una legione, composta da 10 coorti, aveva una consistenza ideale di 6000 uomini che, nella realtà, non superava in media le 4500 unità, destinate peraltro a ridursi con il protrarsi dell’evento bellico.
42 Cicerone, Cit., IX 13A, 1.
43 Cicerone, Cit., IX 6, 3
44 Cicerone, Cit., IX 6, 3. Si deve tener presente che il calendario era essenzialmente di carattere lunare sicché c’era una differenza tra calendario e stagioni che comportava uno sfasamento di circa un mese. All’inizio di marzo non si era quasi in primavera ma in inverno inoltrato, stagione questa in cui si evitava, a quei tempi, di affrontare viaggi in mare aperto.
45 Dione (II secolo d.C. – III secolo d.C.), Storia romana, LXI 12, 3.
46 Cesare, Cit., I 25, 4.
47 Cicerone, Cit., IX 14, 1.
48 Cesare, Cit., I 25, 5.
49 Circa dieci metri.
50 Cesare, Cit., I 25, 6-7.
51 Cesare, Cit., I 25, 8.
52 I plutei erano ripari in legno di forma semicircolare o ad angolo retto, montati su tre ruote.
53 Cesare, Cit., I 25, 9.
54 Cesare, Cit., I 25, 10.
55 Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando, Michele Morelli, Napoli, 1781. Nella prefazione si può leggere: «Il porto celebre di Brindisi, soffrì nei tempi della Repubblica per l’assedio fatto da Cesare, e per la chiusura di due bracci che turarono l’entrata… il gran male lo produssero que’ bracci».
56 Cesare, Cit., I 26, 1.
57 Cesare, Cit., I 26, 1.
58 Cesare, Cit., I 27, 1.
59 Cesare, Cit., I 27, 1.
60 Cicerone, Cit., IX 15A.
61 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 3.
62 Cesare, Cit., I 27, 3-4.
63 Cesare, Cit., I 27, 4.
64 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 3.
65 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 4.
66 Plutarco, Pompeo. Cit., LXII 4.
67 cesare, Cit., I 28, 2.
68 Cesare, Cit., I 28, 4.
69 Dione, Cit., LXI 12, 1.
70 Plutarco, Pompeo. Cit., LXIII 1.
71 Cesare, Cit., I 28, 4.
72 Svetonio, Cit., XXXIV 2.
Per la prima parte
L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (prima parte)
Per la seconda parte:
L’assedio di Brindisi: uno scontro mancato (seconda parte)
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poetyca · 3 years
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Alla ricerca di Pace – percorsi di riflessione – In Search of Peace – lines of thought
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Alla ricerca di Pace – percorsi di riflessione
Non ci accorgiamo spesso che, prendiamo gli altri come bersaglio da colpire con le nostre frustrazioni che attribuiamo colpe e crediamo irrisolvibili alcune situazioni, ci chiudiamo nella gabbia delle illusioni,perchè pensare che altri abbiano torti e noi assolutamente ragione ci pone nella condizione di sentirci superiori alle situazioni. A volte accade il ripetersi di esperienze o nodi che siamo incapaci di sciogliere e tutto parte da noi stessi, dal nostro attaccamento, dal nostro ego ferito. Ed è sempre da noi il seme per l’opportunità di fermarci a cogliere in cosa e perchè alimentiamo la nostra reazione di rabbia. Perchè si ama attribuire colpe a ologrammi esteriori piuttosto che focalizzarci sulla responsabilità della nostra reazione a quanto crediamo essere la causa ? Mi viene in mente, quando da bambini, se cadevamo o ci facevamo male contro qualcosa, per consolarci un adulto diceva che la colpa era del sasso che ha fatto inciampare o della porta contro la quale urtavamo. Magari ci credevamo e vedere come si attribuisse colpa agli oggetti ci faceva stare meglio. Ora non si starebbe meglio se, nel retto sforzo, non provassimo a rendere pace il nostro cuore. La nostra non realtà è spesso indotta dai mezzi di informazione che dal nascondere i veri motivi delle cose. Come si sa è sempre stato nella politica delle guerre cercare motivazioni al farle scoppiare, motivazioni che montino giudizi contro ma la realtà si lega alle risorse di un territorio che faccia gola, al potere che amplifichi l’egemonia e sempre a carico della vita di innocenti. Miseria, divisione, sopruso e quella forma di violenza non sempre fisica sono i mezzi per piegare un popolo e parole come pulizia etnica , come genocidio, olocausto, sono tra le più ignobili che l’umanità possa aver coniato. Spero sempre che ci possa essere un ravvedimento ed un modo di condurre verso un’inversione di rotta che non conosca violenza ma dialogo ed equanimità . Forse, agire dal nostro piccolo mondo del quotidiano non sarebbe sufficiente ma che non ci sia confusione tra pace e quei movimenti politici che dietro alle bandiere hanno altri fini. La pace si conquista parola forte che appare bellica dentro di sè per essere poi capaci di avere comportamenti costruttivi. La pace è nel risolvere il nostro moto interiore che vorrebbe correggere quello che sono gli altri, piuttosto che imparare ad accogliere la realtà per come è. Il vero lavoro, la pratica costruttiva è nelle nostre pulsioni che devono trovare armonizzazione per saper lasciare andare ogni attaccamento o proiezione. Non è colpa degli altri se il loro atteggiamento ingenera in noi un moto di rabbia, siamo infatti noi a scegliere se mettere il pilota automatico degli istinti o cambiare rotta verso un cammino di pace, che naturalmente nasce dal nostro essere e nulla dovrebbe turbare o mettere in moto reazioni. La guerra, come si sa, è sempre stata antagonista dell’amore, della saggezza e dell’equità . Minacce, promesse di rivendicazione sono quanto possa mettere in atto chi voglia caricare di rabbia gente che in fondo non ha chiesto guerre. Difesa ed offesa, mezzi che non si giustificano ma fanno perdere il senso della misura che ogni guerra ha conosciuto atti immorali, il piegare il nemico dimostrando la propria forza. Un’ombra ingigantisce la fama di chi se la costruisce, è mostrarsi potente è farsi temere con mezzi che sono lontani dall’abbandonare la forza per mostrare maggiore maturità . Poi, si fa anche tanto parlare, senza realizzare nulla che una forma di dispersione che non arriva neppure all’essenzialità e che non ha alcuna opportunità risolutiva per situazioni che degenerano in violenza e prevaricazione. Si resta impotenti, incapaci di trovare soluzioni e superamento di condizioni che si trascinano senza fine. Si tratta di libere scelte, per noi, per coloro che davanti ad un dilemma possano essere presi nella trappola del fare come gli altri, perchè magari li fa stare meglio. Ci sono persone attive – sentono il bisogno di essere presenti ad alzare la voce – a muoversi e magari le fa stare meglio. Ci sono poi persone che, nel silenzio sono partecipi ai dolori del mondo seppure apparentemente distanti.Sono convinta, semplicemente, che sia con pressioni, con alzar di voci o apparentemente passivi e compassionevoli, il dolore, la privazione e la violenza toccano tutti indistintamente e non solo una parte della terra rispetto ad un’altra. Tutti siamo uno, infatti, penso che si possa includere nella nostra via anche la capacità di allargare il cerchio del nostro non – dividere, del nostro ascolto nelle piccole cose del quotidiano che siano briciola di pace che s’espande. Possiamo lavorare su noi stessi, cercare pace interiore per non allargare a macchia d’olio effetti che incrinano armonia. Si parte dal non giudizio o meglio dal non alimentare dualità . Andare ad una manifestazione, in libertà perchè si sente di farlo e non per moda o perchè non si trovano altre soluzioni , per aver letto un manifesto che invitasse a farlo o perchè ce lo consigliano è poi una soluzione la marcia di Pace? è opportuno solo se si sente – lo si accoglie – da consapevoli che come per la pratica. Semplicemente si deve dare voce e manifestazione a quel rispetto per tutti gli esseri senzienti senza ricerca di torto o ragioni, di verità o menzogna perchè la guerra, tutte le guerre, non ha sconfitti e vincitori, se si arriva all’odio, al mancato dialogo – si è tutti sconfitti. In particolare se per il potere si calpesta il valore di vite. In fondo tutti coloro che possono dare voce alla pace, in base alle proprie caratteristiche ed opportunità ,possono coinvolgere gli altri nel parlarne, con amorevolezza e lontani dal giudizio. Per parlare di pace si deve essere pace ed il cammino profondo nasce in noi e dalla nostra pratica, dalla coerenza di essere quel che si dice. La consapevolezza è la capacità di raccogliere dalle esperienze del passato per offrire – qui ed ora – energie al futuro nella via di trasformazione – dalle tenebre dell’ignoranza alla luce dell’Amore incondizionato.
13.08.2006 Poetyca
In Search of Peace – lines of thought We are not aware that often, we take the other as a target to hit with our frustrations and we believe that we attach blame unsolvable some situations, we close the cage of illusion, because others think that we are wrong and absolutely right places us in a position to feel superior situations. Sometimes it happens, the repetition of experiences or nodes that are unable to dissolve and all part of ourselves, our attachment, our wounded egos. And it is always with us the seed for the opportunity to stop and take in what they provide and our reaction to anger. Why we love to apportion blame rather than outward holograms focus on the responsibility of our response to what we believe to be the cause? Comes to mind when, as children, if we did badly against cadevamo or something, to console one adult said that the fault was of stone that has tripped or the door against which urtavamo. Maybe we thought and how to fault attributed to objects made us feel better. Currently you would be better if, right effort, do not try to make peace our hearts. Our reality is not often induced by the media to hide the real reasons of things. As you know has always been the policy of wars look for reasons to make them burst, motivations that Montini judgments against but the reality is bound to the resources of a territory that makes my throat, to boost power and hegemony always borne the life of innocent . Poverty, division, injustice and violence that are not always physical means to subdue a people and words like ethnic cleansing as genocide, holocaust, are among the most despicable that humanity may have coined. I always hope that there can be repentance and a way to lead to a reversal of that dialogue and not violence but knows equaminità. Maybe act from our little world of the everyday is not sufficient but that there is no confusion between peace and those political movements that have other purposes behind the flags. Peace is gained strong word that appears war within themselves and then be able to have constructive behavior. Peace is the answer to our inner motion that would correct what are the others, rather than learning to accept reality as it is. The real work, the construction practice is in our instincts that harmonization should be able to let go of any attachment or projection. It is not the fault of others if their attitude engenders in us a moment of anger, indeed, we choose to put the automatic pilot of the instincts or change course towards a path of peace, which naturally arises from our being and nothing should disrupt or impair Motorcycle reactions. The war, as we know, has always been antagonistic love, wisdom and fairness. Threats, promises of what are claimed to implement those who want to charge people with anger that basically did not seek war. Defense and offense, which means but do not justify losing all sense of Misuraca has known war immoral acts, the bend the enemy proving its strength. Shadow magnified if the fame of who builds it, show it is powerful to inspire fear in ways that are far from abandoning force to show more maturity. Then, you talk too much without achieving anything but a form of dispersion that can not even essentiality and has no opportunity for resolving situations degenerate into violence and abuse. It remains impotent, unable to find solutions and overcome the conditions that have been dragging endlessly. It’s free choices, for us, for those in a dilemma to be taken into the trap of doing like the others, perhaps because they felt the best. There are working people – feel the need to be present to raise their voices – and maybe move makes you feel better. There are people who are participating in the silent sorrows of the world although apparently convinced distanti.Sono simply that both pressures, with raising of voices or apparently passive and compassionate, pain, deprivation and violence affect all equally and not only part of the land over another. We are all one, in fact, I think we can include on our street also the ability to widen the circle of our not – share of our ear in the small things of everyday life that bit of peace expands. We can work on ourselves, to seek inner peace does not extend to wildfire effects crack harmony. It starts from the proceedings or not most of the non-food duality. Going to an event, because he feels at liberty to do so and not for fashion or because you do not find other solutions, for having read a manifesto calling for it or recommend it because there is a solution then the march of Peace? is only appropriate if you feel – it receives – from knowing how to practice. You simply must give voice and expression to the respect for all sentient beings without seeking right or wrong, truth or lie because the war, all wars, not losers and winners, if you get hate, not dialogue – we are all losers. In particular, if the power is contempt for the value of lives. Basically anyone who can give voice to peace, according to their characteristics and opportunities, can involve others in talking about it, with affection and away from the court. To speak of peace should be peace and the path is born deep within us and our practice, the consistency to be what they say. Awareness is the ability to collect from past experience to offer – here and now – the future of energy in the process of transformation – from the darkness of ignorance in the light of unconditional love. 13.08.2006 Poetyca
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poetyca · 4 years
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Alla ricerca di Pace – percorsi di riflessione
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Alla ricerca di Pace – percorsi di riflessione
Non ci accorgiamo spesso che, prendiamo gli altri come bersaglio da colpire con le nostre frustrazioni che attribuiamo colpe e crediamo irrisolvibili alcune situazioni, ci chiudiamo nella gabbia delle illusioni,perchè pensare che altri abbiano torti e noi assolutamente ragione ci pone nella condizione di sentirci superiori alle situazioni. A volte accade il ripetersi di esperienze o nodi che siamo incapaci di sciogliere e tutto parte da noi stessi, dal nostro attaccamento, dal nostro ego ferito. Ed è sempre da noi il seme per l’opportunità di fermarci a cogliere in cosa e perchè alimentiamo la nostra reazione di rabbia. Perchè si ama attribuire colpe a ologrammi esteriori piuttosto che focalizzarci sulla responsabilità della nostra reazione a quanto crediamo essere la causa ? Mi viene in mente, quando da bambini, se cadevamo o ci facevamo male contro qualcosa, per consolarci un adulto diceva che la colpa era del sasso che ha fatto inciampare o della porta contro la quale urtavamo. Magari ci credevamo e vedere come si attribuisse colpa agli oggetti ci faceva stare meglio. Ora non si starebbe meglio se, nel retto sforzo, non provassimo a rendere pace il nostro cuore. La nostra non realtà è spesso indotta dai mezzi di informazione che dal nascondere i veri motivi delle cose. Come si sa è sempre stato nella politica delle guerre cercare motivazioni al farle scoppiare, motivazioni che montino giudizi contro ma la realtà si lega alle risorse di un territorio che faccia gola, al potere che amplifichi l’egemonia e sempre a carico della vita di innocenti. Miseria, divisione, sopruso e quella forma di violenza non sempre fisica sono i mezzi per piegare un popolo e parole come pulizia etnica , come genocidio, olocausto, sono tra le più ignobili che l’umanità possa aver coniato. Spero sempre che ci possa essere un ravvedimento ed un modo di condurre verso un’inversione di rotta che non conosca violenza ma dialogo ed equaminità . Forse, agire dal nostro piccolo mondo del quotidiano non sarebbe sufficiente ma che non ci sia confusione tra pace e quei movimenti politici che dietro alle bandiere hanno altri fini. La pace si conquista parola forte che appare bellica dentro di sè per essere poi capaci di avere comportamenti costruttivi. La pace è nel risolvere il nostro moto interiore che vorrebbe correggere quello che sono gli altri, piuttosto che imparare ad accogliere la realtà per come è. Il vero lavoro, la pratica costruttiva è nelle nostre pulsioni che devono trovare armonizzazione per saper lasciare andare ogni attaccamento o proiezione. Non è colpa degli altri se il loro atteggiamento ingenera in noi un moto di rabbia, siamo infatti noi a scegliere se mettere il pilota automatico degli istinti o cambiare rotta verso un cammino di pace, che naturalmente nasce dal nostro essere e nulla dovrebbe turbare o mettere in moto reazioni. La guerra, come si sa, è sempre stata antagonista dell’amore, della saggezza e dell’equità . Minacce, promesse di rivendicazione sono quanto possa mettere in atto chi voglia caricare di rabbia gente che in fondo non ha chiesto guerre. Difesa ed offesa, mezzi che non si giustificano ma fanno perdere il senso della misurache ogni guerra ha conosciuto atti immorali, il piegare il nemico dimostrando la propria forza. Un’ombra ingigantisce la fama di chi se la costruisce, è mostrarsi potente è farsi temere con mezzi che sono lontani dall’abbandonare la forza per mostrare maggiore maturità . Poi, si fa anche tanto parlare, senza realizzare nulla che una forma di dispersione che non arriva neppure all’essenzialità e che non ha alcuna opportunità risolutiva per situazioni che degenerano in violenza e prevaricazione. Si resta impotenti, incapaci di trovare soluzioni e superamento di condizioni che si trascinano senza fine. Si tratta di libere scelte, per noi, per coloro che davanti ad un dilemma possano essere presi nella trappola del fare come gli altri, perchè magari li fa stare meglio. Ci sono persone attive – sentono il bisogno di essere presenti ad alzare la voce – a muoversi e magari le fa stare meglio. Ci sono poi persone che, nel silenzio sono partecipi ai dolori del mondo seppure apparentemente distanti.Sono convinta, semplicemente, che sia con pressioni, con alzar di voci o apparentemente passivi e compassionevoli, il dolore, la privazione e la violenza toccano tutti indistintamente e non solo una parte della terra rispetto ad un’altra. Tutti siamo uno, infatti, penso che si possa includere nella nostra via anche la capacità di allargare il cerchio del nostro non – dividere, del nostro ascolto nelle piccole cose del quotidiano che siano briciola di pace che s’espande. Possiamo lavorare su noi stessi, cercare pace interiore per non allargare a macchia d’olio effetti che incrinano armonia. Si parte dal non giudizio o meglio dal non alimentare dualità . Andare ad una manifestazione, in libertà perchè si sente di farlo e non per moda o perchè non si trovano altre soluzioni , per aver letto un manifesto che invitasse a farlo o perchè ce lo consigliano è poi una soluzione la marcia di Pace? è opportuno solo se si sente – lo si accoglie – da consapevoliche come per la pratica. Semplicemente si deve dare voce e manifestazione a quel rispetto per tutti gli esseri senzienti senza ricerca di torto o ragioni, di verità o menzogna perchè la guerra, tutte le guerre, non ha sconfitti e vincitori, se si arriva all’odio, al mancato dialogo – si è tutti sconfitti. In particolare se per il potere si calpesta il valore di vite. In fondo tutti coloro che possono dare voce alla pace, in base alle proprie caratteristiche ed opportunità ,possono coinvolgere gli altri nel parlarne, con amorevolezza e lontani dal giudizio. Per parlare di pace si deve essere pace ed il cammino profondo nasce in noi e dalla nostra pratica, dalla coerenza di essere quel che si dice. La consapevolezza è la capacità di raccogliere dalle esperienze del passato per offrire – qui ed ora – energie al futuro nella via di trasformazione – dalle tenebre dell’ignoranza alla luce dell’Amore incondizionato.
13.08.2006 Poetyca
n Search of Peace – lines of thought We are not aware that often, we take the other as a target to hit with our frustrations and we believe that we attach blame unsolvable some situations, we close the cage of illusion, because others think that we are wrong and absolutely right places us in a position to feel superior situations. Sometimes it happens, the repetition of experiences or nodes that are unable to dissolve and all part of ourselves, our attachment, our wounded egos. And it is always with us the seed for the opportunity to stop and take in what they provide and our reaction to anger. Why we love to apportion blame rather than outward holograms focus on the responsibility of our response to what we believe to be the cause? Comes to mind when, as children, if we did badly against cadevamo or something, to console one adult said that the fault was of stone that has tripped or the door against which urtavamo. Maybe we thought and how to fault attributed to objects made us feel better. Currently you would be better if, right effort, do not try to make peace our hearts. Our reality is not often induced by the media to hide the real reasons of things. As you know has always been the policy of wars look for reasons to make them burst, motivations that Montini judgments against but the reality is bound to the resources of a territory that makes my throat, to boost power and hegemony always borne the life of innocent . Poverty, division, injustice and violence that are not always physical means to subdue a people and words like ethnic cleansing as genocide, holocaust, are among the most despicable that humanity may have coined. I always hope that there can be repentance and a way to lead to a reversal of that dialogue and not violence but knows equaminità. Maybe act from our little world of the everyday is not sufficient but that there is no confusion between peace and those political movements that have other purposes behind the flags. Peace is gained strong word that appears war within themselves and then be able to have constructive behavior. Peace is the answer to our inner motion that would correct what are the others, rather than learning to accept reality as it is. The real work, the construction practice is in our instincts that harmonization should be able to let go of any attachment or projection. It is not the fault of others if their attitude engenders in us a moment of anger, indeed, we choose to put the automatic pilot of the instincts or change course towards a path of peace, which naturally arises from our being and nothing should disrupt or impair Motorcycle reactions. The war, as we know, has always been antagonistic love, wisdom and fairness. Threats, promises of what are claimed to implement those who want to charge people with anger that basically did not seek war. Defense and offense, which means but do not justify losing all sense of Misuraca has known war immoral acts, the bend the enemy proving its strength. Shadow magnified if the fame of who builds it, show it is powerful to inspire fear in ways that are far from abandoning force to show more maturity. Then, you talk too much without achieving anything but a form of dispersion that can not even essentiality and has no opportunity for resolving situations degenerate into violence and abuse. It remains impotent, unable to find solutions and overcome the conditions that have been dragging endlessly. It’s free choices, for us, for those in a dilemma to be taken into the trap of doing like the others, perhaps because they felt the best. There are working people – feel the need to be present to raise their voices – and maybe move makes you feel better. There are people who are participating in the silent sorrows of the world although apparently convinced distanti.Sono simply that both pressures, with raising of voices or apparently passive and compassionate, pain, deprivation and violence affect all equally and not only part of the land over another. We are all one, in fact, I think we can include on our street also the ability to widen the circle of our not – share of our ear in the small things of everyday life that bit of peace expands. We can work on ourselves, to seek inner peace does not extend to wildfire effects crack harmony. It starts from the proceedings or not most of the non-food duality. Going to an event, because he feels at liberty to do so and not for fashion or because you do not find other solutions, for having read a manifesto calling for it or recommend it because there is a solution then the march of Peace? is only appropriate if you feel – it receives – from knowing how to practice. You simply must give voice and expression to the respect for all sentient beings without seeking right or wrong, truth or lie because the war, all wars, not losers and winners, if you get hate, not dialogue – we are all losers. In particular, if the power is contempt for the value of lives. Basically anyone who can give voice to peace, according to their characteristics and opportunities, can involve others in talking about it, with affection and away from the court. To speak of peace should be peace and the path is born deep within us and our practice, the consistency to be what they say. Awareness is the ability to collect from past experience to offer – here and now – the future of energy in the process of transformation – from the darkness of ignorance in the light of unconditional love.
13.08.2006 Poetyca
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pangeanews · 5 years
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“Scrivere allora è la speranza di un folle di Dio, è stare nel pianto inconsolabile di Rachele”. Il romanzo di un critico: Andrea Caterini
Alëša non ha dubbi: risorgeremo e ci racconteremo tutto nella gioia. Fëdor si sbagliava, forse volutamente, (o è solo Alëša?) quella pacificazione troppo umana è un rimandare ancora il suo tormento sull’esistenza di Dio senza risolverlo: lo affida ancora a un romanzo che sa non scriverà mai, né lui né un altro – “Sono un figlio del secolo, un figlio della miscredenza e del dubbio e, lo so, tale resterò fino alla tomba…”. Credo che l’atto di fede sull’esistenza di questo romanzo impossibile racchiuda il senso drammatico della ricerca di Andrea Caterini. Quella gioia è l’unico romanzo che non possiamo ma vorremmo scrivere, illudendoci che sarà il prossimo perché tutto ciò che abbiamo fatto o scritto è sbagliato, andrebbe bruciato. È forse per questo che delle letture sempre così penetranti degli Autori contenute in Ritratti e paesaggi (Castelvecchi, 2019) rimane alla fine un gusto amaro, che non è l’aver svelato qualcosa, come se l’arte fosse un gioco a nascondino, un trucco più o meno riuscito; caso mai punta al contrario: comprendere e lasciare che il mistero resti un mistero, perché ogni esistenza si dona all’incompiuto, all’indicibile, tramite la perfezione della letteratura che non può che dimenticare la bellezza senza scopo di un gesto, una parola, una carezza inutile dello sguardo, il capire la sofferenza nel profilo di una persona amata che è rimasta accanto a noi e si è addormentata, mentre un libro aperto ora ci pesa tra le mani e vorremmo solo essere felici e non ci riusciamo senza capire bene perché: intuiamo solo che la teniamo nascosta in una parte inaccessibile di noi stessi, come fosse una vergogna. Ecco, il gusto amaro è questa assenza della felicità, dello scrivere nella gioia, questo si prova alla fine della lettura di ogni Autore. Forse deriva da quella filosofia inevitabile di Gombrowicz, “Se di filosofia si può ed è necessario parlare nell’opera di Gombrowicz, questo succede perché la stessa filosofia nasce da un fatto naturale, nel senso di insito alla natura umana, cioè qualcosa da cui è impossibile prescindere, di «fatale»”. Non a caso è Autore cui dedica pagine di rara intensità, forse perché sente suo lo stesso paradosso: “Eppure, ammettere che la filosofia per l’uomo «è fatale» significa radicarla a un paradosso. Voglio dire che in Gombrowicz lo strumento primo di conoscenza di se stessi e della realtà è strettamente connesso al fato (da qui «fatale»); un fato però che mai si sottrae alla logica, anzi, si materializza proprio a partire dalla logica”.
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Bisognerebbe fare un balzo ontologico per superare questo circolo vizioso del pensiero, ma Caterini non lo fa, non vuole cambiare le regole che il gioco della vita ha stabilito, oppure rifugiarsi nel relativo, nella parodia, nel nichilismo ma è quanto di più lontano da lui, convinto dell’esistenza della verità rivelata agli uomini come un mistero da comprendere per far sì che rimanga un mistero: questa è la conoscenza disperata di Caterini, la cui incrollabile fede è che l’arte e il pensare siano l’unico modo per far sì che il pianto di Rachele inconsolabile sia ciò che obbliga Dio a una promessa di salvezza che però, ripeto, non è la gioia. Si leggano i paragrafi che chiudono le serrate analisi di ogni Autore: sempre perentorie e convincenti, ma non per una vittoria del pensiero, quanto per una violenza della vita che è già andata oltre, lì dove non ci sono parole. Tutto e niente. Caterini cammina su questo confine affilato con i suoi Autori che non sono ritratti, ma diventano personaggi del suo impossibile quanto ineludibile romanzo critico. Già nel saggio di apertura la necessità filosofica è ‘fatale’, come affermava per Gombrowicz, nel senso che il punto di arrivo coincide con l’inizio, come se la scrittura disegnasse il futuro, creando una tensione che non conosce quiete, perché la vita è sempre spezzata da un nuovo itinerario destinato all’oblio, inteso come Benjamin lo usava per Proust, opponendolo alla memoria. È la trama già svelata dentro la quale trovano libertà gli autori visti da un destino già compiuto: solo tornando indietro si ricostruisce la biografia, assume un senso, trova una libertà in ciò che diventa irripetibile proprio perché osservato dalla fine, quando nulla si può cambiare.
Un assillo, mi pare infatti di poter dire, è alla base dell’attività critica di Caterini: una vocazione, la sua come degli Autori che studia, si accorge che non è conseguenza di nessuna biografia, al contrario è il momento in cui la divide in due parti, asimmetriche, atemporali, avviene in un luogo che resta lo stesso ma non riconosciamo e ricomporre tale scissione in unità è impresa impossibile e per questo l’unica da tentare, se non si vuole abitare nel regno del dissimile: la letteratura, l’arte, la vita, forse non sono altro che questa ricerca e la scoperta che ogni biografia è per sua natura incompiuta, mancata. Ma questa mancanza è ciò che ha permesso l’esercizio di cercare la verità, cioè il senso profondo della nostra esistenza, forse occultato in un gesto che abbiamo dimenticato, incapaci di descriverlo o timorosi di distruggerlo con una parola o un pensiero.
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Per Ritratti e paesaggi non si pensi a una serie di medaglioni, accostati in modo occasionale: è un itinerario da seguire nelle sue riprese, nei suoi slittamenti di significato, come se ogni Autore avesse qualcosa di non detto che insieme mostra, invitando a comprendere che il tempo in cui ogni opera, grande opera, aspetti il momento di essere capita: Caterini diventa il loro futuro, rilanciando ancora, sognando un tempo che dovrà esistere grazie a questo atto di irrazionale fede.
Per comprendere come questo libro sia volto al futuro e non al passato di quanto già scritto, va letto alla luce del primo inedito e fondamentale saggio: “La tela del critico”. Qui ci confessa più o meno volontariamente, la sua guida nascosta: Wittgenstein. Come tutte le vere guide ci rendiamo conto che ci hanno accompagnato partendo dalla fine, da un nostro fallimento, da una nostra dimenticanza o disattenzione, dal vortice di una vita che ci confonde; ricordate? Perché non sali il dilettoso monte, oppure Non sapei tu, che qui è l’uomo felice? Bisogna capire che i nostri mostri esistono perché siamo i soli a vederli, bisogna accettare che ci attenda un rimprovero, un ritardo sul futuro.
Ma torniamo a Wittgenstein. Un uomo che non smetteva di interrogarsi, continuamente minacciato dai propri sensi di colpa («La mia coscienza mi tormenta e non mi lascia lavorare»).
Bisogna comprendere come Wittgenstein sia la sua guida, non perché lo abbia tenuto sempre al suo fianco, ma perché lo ha trovato alla fine, era lì che lo aspettava. È una mossa decisiva, perché è quanto si ripeterà con ogni Autore affrontato. Il rifiuto del non detto, la sua ingannevole presenza o aspirazione, l’assenza di un mistero che non sia ciò che si vede: fatti, parole, immagini, direbbe con il maestro austriaco.
Cosa nella parola divida il detto dal non detto crea il campo di forza entro cui si muove ma, e forse è la sua più profonda lettura di Wittgenstein, come se volesse negare vie di uscita, soluzioni, per lui letteratura rimane in questa incompiutezza, si comporta come la talpa di Kafka, ogni strada per uscire può essere quella dove può entrare l’avversario. In questo senso tragico, per lui letteratura rimane in questa ambiguità che è un’attesa e una eterna contraddizione. Leggiamo dal primo fondamentale saggio sulla Woolf, “«Non posso scriverlo», «non posso rileggere». Eppure aveva fatto entrambe le cose. Non era affettazione. Non si trattava di una delle infinite revisioni delle pagine dei suoi romanzi – riletture e correzioni che la sfinivano. Sembra piuttosto che la riscrittura della lettera fosse un modo per confermare che davvero era la scelta giusta; che l’addio alla vita era irrevocabile; che neppure scrivere le avrebbe più garantito una possibilità di liberazione”.
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Non separare la vita dalla scrittura, o meglio da come quest’ultima prema sulla prima per essere più vera senza riuscirci, in uno scacco che non può essere che inevitabile; eppure in questa sconfitta si fissa lo sguardo di Caterini, consapevole che proprio l’impossibilità di unirle sia il compito vero della letteratura: questa diventa vera e la prima finalmente incomprensibile ma visibile (ancora Wittgenstein, quello estatico), come solo così svelasse mostrando la sua innocenza sovranamente indifferente ai nostri sforzi di capirla, di dare un senso ai nostri dolori gioie o sofferenze.
Cosa cerca? Felicità o disperazione? Difficile separare le due cose in Caterini, che una si rispecchi nell’altra mutando forma è la sua utopia, ciò che lo porta avanti, l’alternativa che non vuole risolvere perché ognuna da sola annullerebbe il mistero dell’esistenza rendendo la prima un’ebete contemplazione la seconda una arrogante angoscia.
E si ritorna a Wittgenstein, a cosa ha fatto suo del grande filosofo: di chi sta parlando Caterini se non di se stesso, di quello che cerca negli autori che studia e che ama? “Era da questi eccessi che trovava la forza di ristabilire un contatto intimo coi suoi pensieri; da questi tormenti nasceva la sua necessità logica”. Allora, di chi sta parlando? E come è cambiato Caterini? Perché in fondo dietro il corpo a corpo con gli Autori, sempre rigoroso, mai impressionistico, sta cercando in loro quello che sente è capitato o sta capitando anche a lui.
È necessario un sommario sguardo retrospettivo, scusandomi per l’alternarsi del ‘tu’ all’impersonale nome dell’Autore: ma il tono di una lettera, più che di una critica di cui non sono capace, prende spesso il sopravvento, e non mi dispiace.
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La vita e la ragione dovrebbero avere una sola condivisa verità, ma la prima zittisce la seconda, la seconda umilia la prima, questo è il circolo incandescente del suo pensiero che trovava il momento esemplare in Lord Jim (nel libro di saggi Patna. Letture dalla nave del dubbio, Gaffi, 2013), in quell’attimo in cui volevi/a tenere sospese entrambe: ma non poteva bastare. Nell’annullare la divaricazione in nome di una scelta, stava chiudendo la libertà, non le stava dando respiro, non la stava facendo uscire dal recinto mentale: a ben vedere cosa sarebbero state dopo vita e ragione, esistenza e verità? Una colpa di cui sentirsi pienamente responsabili, un circolo vizioso. No, non doveva fare spazio alla libertà, ma alla vita o alla ragione, cercare una verità con una faccia sola. La via di uscita era spingere sulla autobiografia, inventare la propria vita sperando che la sua incomprensibilità giustificasse la ricerca della verità, quella sorpresa sui libri, quella amata sulle pagine, che in fondo ti sembrava sempre quella vera e inconfutabile perché sfuggente. La vita così usciva da se stessa, andava alla ricerca della verità senza che questa però se ne accorgesse o tu te ne accorgessi e ci voleva una maschera enorme: Proust e una scrittura al quadrato, non metaletteraria, sia chiaro, ma al quadrato, cioè che si moltiplica per se stessa, crea l’aldilà che è solo suo. Con Proust (in Vita di un romanzo, Castelvecchi, 2018) Caterini scriveva le sue Confessioni, esibendo una crisi profonda assai bene occultata, favorita da quel distacco dalla sofisticata intelligenza di Proust che volevi fare tua, ma in modo diverso: con un’altra vita. No Proust, su cui ha scritto uno dei libri più belli di un’immensa bibliografia, non conteneva la tua vita, non la spiegava, le dava un senso volontaristico. Ma c’era qualcosa di più luminoso del tuo ombroso quanto lucido Proust, un vero bagliore: il commento a Dostoevskij: Il sogno di un uomo ridicolo (Ianieri, 2015). Una scrittura felice perché commentare quel testo voleva dire annunciare prima di tutto a te stesso che un’opera attende di essere capita, che il suo tempo coincide con il tuo, con la sua glossa, il sapere felicemente provvisorio proprio perché esaustivo: una saturazione che non lo conclude, ma al contrario apre a un nuovo paradigma. Era un libro dedicato al futuro che si realizza, grazie a te, dove sentivi di poter proiettare te stesso, chiuso in quelle glosse, che finalmente ti spiegavano. Un immobile mutare, certo, come non averlo già pensato e colpevolmente abbandonato? Così, al pari del recupero di un vecchio amore finalmente compreso, ecco allora Morandi, ecco il felice accecarsi dello sguardo. Le immagini hanno qualcosa che non mente e più delle parole paiono tenere insieme la vita e la verità, facendo della loro disperante separazione due mondi che si rispecchiano, quasi aspettando uno sguardo esterno, il tuo. Ma pretendi troppo, vuoi che un’opera guarisca la nostra esistenza e l’opera si allontana, rimanendo immobile davanti a noi e nella tua testa, perché il divenire della vita segue altre regole, anzi non le segue, per la disperazione tua e del tuo amato Wittgenstein e tu non vuoi abbandonarla per un senso superiore che la giustificherebbe, vuoi affrontarne lo scandalo, le offese, tutto ciò che ci spinge a pensare che non sia umana, che non potrà mai essere quello che vorremmo e non risponde nemmeno a un’altra volontà, più grande di noi, è una innocente quanto aliena verruca che si sposta sul tuo viso e ti cambia il volto. Di nuovo la tua eterna lotta con l’angelo, in una notte che si prolunga oltre il dovuto, perché quell’angelo non puoi riconoscerlo, e in questo modo non fa mai giorno. Spesso scrivi, magari con lievi varianti: “Può capitare che…”. Quanti mutamenti nasconde quel poter capitare? Una biografia che ora devi occultare, nonostante, o al contrario proprio grazie ai rimandi a episodi del passato, visti così come un futuro anteriore, come nelle glosse, nel commento: è arrivato il tempo in cui sono capiti. Ma c’è altro; parti da qualcosa che è accaduto per poterlo definire una possibilità, ma è una possibilità post factum, eppure è questo che ti fa smuovere il pensiero e fa andare avanti la tua vita. Non vuoi creare un mistero, vuoi impedire che rimanga tale, mi ricordi Forest; il gatto di Schrödinger serve per imbastire una storia e non di quel mondo sospeso tra vita e morte finché non lo apri, ma di quello che conosci avendo aperto, tu come lui, la scatola, cioè l’unico gesto umanamente possibile; sai cosa è successo, altrimenti con quale decenza e onestà scrivere? E scrivere allora è la speranza di un folle di Dio; ciò che più è vicino a Dio (come lasci dire al tuo Cézanne) è la lontananza massima e la creazione, è il momento irripetibile in cui le cose sono di due mondi, con il corollario che appartengono, disperatamente, solo a questo e ciò le rende inconoscibili quanto descrivibili: e questo è quello che cerchi, solo questo ti dà una lucida disperazione, l’abbandonarsi alla rivelazione che è sempre una isolata metà. È il tuo Wittgenstein mistico chiuso nel cerchio magico delle parole per capire che queste non danno senso al mondo, ma almeno delle regole consapevoli di essere parziali, perché esaurire le possibilità permette di spostare il senso altrove. Torna l’algebra: qual è la potenza, meglio: il quadrato di un evento qualsiasi? In realtà ogni volta sei costretto a avvicinare ciò che deve toglierti ogni speranza, perché solo allora fai scattare la promessa di una salvezza, vuoi forzare, costringere a questa promessa, la disperazione in te chiede questo, anche se non sai a chi sia rivolta: cerchi una salvezza non per il futuro ma per il passato.
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Se anche un critico ha il suo stile, quello di Caterini è sicuramente apodittico, ma il procedimento è rovesciato: deve bruciare la necessità logica per affermare una confutabilità estrema, che metta in gioco tutto il senso o non senso di una vita, è la scelta, lo stile di una disperazione, non è verità argomentata e vuole cogliere l’autore e se stesso quando si trovano con le spalle al muro, perché solo allora scoprono la autenticità, o meglio scoprono di esistere, di essere ciò che nessuno potrà ripetere, perché le disgrazie sono personali come i lamenti le accuse le debolezze le colpe le imprecazioni la follia della felicità che abbiamo rifiutato persino un attimo prima. Messo all’angolo, nessuno farà la stessa domanda nemmeno nella propria vita, se pure ne avesse occasione.
Prendiamo il saggio su Lowry: “Spingersi ancora più a fondo, trascendere il passato nel presente, cioè farlo rinascere come cosa viva, riaprire la ferita già cicatrizzata, tornare a piangere per essere capaci di rivolgersi a chi la vita ce l’ha donata, e infine pregare; perché questo Lowry cerca tutta la vita, una forma espressiva che sia la ricerca di una voce che lo faccia sentire di nuovo accolto, salvo nel territorio del possibile: sarà chiaro allora che non è sterile provocazione dire che il suo capolavoro non è ‘Sotto il vulcano’ ma ‘Buio come la tomba’”.
Inutile passare in rassegna gli Autori presenti: è ricerca che ogni lettore deve condurre a modo suo.
Allora, di nuovo, cosa è cambiato da Patna, da Lord Jim?
Dovessi dire cosa cerca è ciò che appare inconsolabile, la vera voce di ognuno, una speranza folle che unisce Dio a una promessa, lo costringe a riparare a un dolore che per l’uomo non ha senso, e non è una prova (Giobbe di Roth è tra i saggi presenti e inizia questo rifiuto di una prova a cui un Dio e satana scommettono, entrambi perdenti): oggi non abbiamo altra speranza di salvezza, i tuoi figli torneranno dall’esilio, è costretto a dire Dio, cioè dalla morte, solo allora ogni storia sarà obliata. Per questo deve cercare lo stesso in ogni autore ed è compito che riparte sempre daccapo, nell’accerchiamento intorno ai libri, le lettere, i diari. Ma anche questa varietà, che riprende e sviluppa temi dominanti, ha un corollario fondamentale e di cui pare crescere pagina dopo pagina la consapevolezza: questa varietà è infinita anche nella vita di un solo uomo, se intendiamo l’essere nel mondo come condizione di una colpa: una colpa incomprensibile e ingiusta finché non ci accorgiamo che non si trova all’origine, ma lungo il corso della nostra vita, è l’esito che la invera, i nostri gesti e pensieri, che la rendono originaria ma diversa per ognuno, come non appartenesse alla natura umana ma al singolo uomo, uno scandalo ancora più incomprensibile, proprio perché è il futuro di ogni uomo fissato in un istante, un urlo, un grido. Allora comprendiamo come Caterini abbia utilizzato Barthes: “«Cambiare, vale a dire dare un contenuto alla “scossa” del mezzo della vita – vale a dire, in un certo senso, un “programma” di vita (di vita nova). Ora, per colui che scrive, che ha scelto di scrivere […], non può esserci altra vita nova (mi sembra) che la scoperta di una nuova pratica di scrittura». E certo questo valeva anche per lui, che aveva esperito quel «mezzo della vita» solo tre anni prima di morire, nel 1977, con la scomparsa di sua madre, mentre scriveva il suo romanzo diaristico, i suoi veri frammenti amorosi, il suo strazio linguistico”.
Dietro Barthes, Caterini si nasconde, perché non esplicita quanto afferma nei suoi saggi e in realtà sposta in avanti le riflessioni del critico francese: la vita nova presuppone un fallimento e il rinnovamento non lo oblia, ma lo evidenzia perché incancellabile, perché è quella via sbagliata che è unica per ognuno di noi. Il pianto di Rachele resta inconsolabile. Nella gioia della resurrezione non avremo più niente da dirci.
Paolo Del Colle
In copertina: Rembrandt, “Autoritratto con capelli scompigliati”, 1628 ca.
L'articolo “Scrivere allora è la speranza di un folle di Dio, è stare nel pianto inconsolabile di Rachele”. Il romanzo di un critico: Andrea Caterini proviene da Pangea.
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