Tumgik
#se non si fosse capito
t4merici · 10 months
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A me piace troppo fare puzzle, a voi?
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frammenti--di--cuore · 8 months
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immaginate una persona che capisce di essere ormai adulta perché finalmente il suo bucato profuma e sembra davvero pulito.....
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🙋🏻‍♀️
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omarfor-orchestra · 7 months
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L'intero video è iconico però in particolare
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Sono bisessuale
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unwinthehart · 2 months
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🤍 non so se lo sai ma Conan Gray in un'intervista ha detto che il suo cantante italiano preferito è mahmood, adora tuta gold e gli piacerebbe fare un feat con lui! a me non dispiacerebbe, le loro voci matcherebbero benissimo, e poi li shippo anche come coppia 🥰 tu che ne pensi? il video è sulla fanpage italiana dell'artista su Instagram se vuoi vederlo
Anon ammetto l'ignoranza ma non lo conoscevo. Sono andata a cercarlo dopo quest'ask e la prima cosa che ho pensato è stata "Cazzo, sembra Eddie Munson di Stranger Things!" Le vibes anni 80s delle canzoni non hanno aiutato in questo mio delirio, per cui ti ringrazio moltissimo. Ho apprezzato. Da Millennial sto adorando le sue canzoni, e sì penso che le voci si mescolerebbero bene insieme. Quindi se in futuro dovesse nascerne una collab non mi dispiacerebbe affatto! Non conosco niente di lui per shipparli pure, ma chi sono io per dirti nulla se ti rende felice ahaha E' un bel ragazzo, questo sicuro.
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just-a-lil-anguria · 3 months
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etwlemon · 2 months
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Vorrei ringraziare la mia mamma e papà per avermi chiamato Aldo così posso dire "vabbè finisco di mangiare la peperonata e scendo" ogni volta che qualche povero cristiano mi dice di scendere.
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asllanismo · 4 months
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avuto una crisi di pianto perché oggi il mio gatto ha mangiato pochissimo [è malaticcio ma la veterinaria non è preoccupata], quando gli offro il cibo non gli va proprio e i miei si sono incazzati con me perché sono preoccupato da morire dicendomi "stai esagerando ora" quindi giù di lacrime as one does in queste situazioni no. appena finito di piangere gatto viene e mi chiede da mangiare perché ha visto la ciotola vuota, ok
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killiandestroy · 1 year
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incazzatura di oggi provided by conqui P (ovviamente)
#sta fuori ma proprio tanto. le ho detto che finalmente ho chiamato la veterinaria per portare la gatta a fare la vaccinazione (che doveva#fare a novembre ma visto che eravamo tutte impegnate e la gatat sta in casa abbiamo detto che quando avevamo tempo la portavamo)#e lei si è messa a lamentarsi che queste decisioni si prendono insieme che abbiamo un gruppo apposta che non va bene fare le cose e#avvisarla dopo. e quando le ho detto che ne abbiamo discusso CON LEI PRESENTE A OTTOBRE/NOVEMBRE lei fa. e ma mi pare che conqui A non#fosse d'accordo. al che le faccio NO NO GUARDA CHE CONQUI A E' D'ACCORDO NON HA MAI DETTO IL CONTRARIO HA SOLO DETTO CHE VISTO IL PERIODO#INCASINATO PURE CHE LA PORTAVAMO NEI MESI SUCCESSIVI NON ERA LA FINE DEL MONDO#e niente poi continuava a dire cose tipo.vabbè ma allora se eravate impegnate la portavo io a novembre. e io.MA ALLORA PERCHE' NON L'HAI#PORTATA. e lei. eh ma mica ne abbiamo discusso. e io.SI' CHE NE ABBIAMO PARLATO E' STATO QUANDO ABBIAMO PARLATO ANCHE DEL RISCALDAMENTO.#e lei. eh ma non mi sembra.non mi ricordo#che poi è proprio scema perchè prima mi fa che aveva capito che l'altra conquilina non era d'accordo e poi mi dice che non si ricorda che#ne avevamo parlato......scusa e tu quando avresti raccolto l'informazione che l'altra conquilina non voleva fare vaccinare la gatta???#no mi ha fatto stra incazzare sto fatto perché lei pare sempre cadere dal pero però poi non le van bene le cose e te lo dice pure. quando#non c'era manco di che parlarne a prescindere perchè la gatta va vaccinata e basta#mo' non solo io mi sono accollata l'impegno di telefonare prendere appuntamento e domani. dopo che sto in università tutto il giorno.#correre a casa a prendere la gatta e portarla a fare la vaccinazione. ma mi devo pure sorbire lei che si lamenta. e io st'accollo me lo son#presa perché delle tre io non lavoro e quindi ho impegni più flessibili (almeno finché non mi chiamano per le 200 all'università)
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zhoubi-sul-metro · 2 years
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5. Pagina
Il minuscolo monaco prese posto sullo scranno. Osservò attentamente la pergamena davanti a sé e notò che non era stata trattata bene. Male, male. Era compito dei novizi grattare e squadrare il foglio, mica degli amanuensi esperti e rispettati come lui. Si trattava di insubordinazione! Un compito così semplice, eppure fondamentale per la buona riuscita del lavoro. Ma, dopotutto, pensò sospirando, già la mia generazione era fatta di nani sulle spalle di giganti...
Si alzò senza indugiare e andò a prendere un foglio nuovo, perfetto, appena appena uscito dalla lavorazione, e non emise un suono. Nello scriptorium era proibito conversare, figuriamoci lamentarsi. Avrebbe espresso le sue rimostranze nel momento e nel luogo appropriato, adesso era tempo di lavorare.
Si risedette. Fissò la pagina al tavolo. Pregò (ma solo col pensiero) brevemente. Dopodiché impugnò lo stilo, lo intinse nell'inchiostro e cominciò l'ennesima riproduzione della Bibbia:
"Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4,...". Per lode e gloria di Nostra Signora J. K. Rowling, amen.
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kon-igi · 10 days
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QUA CI SAREBBE STATO UN TITOLO ALTISONANTE MA QUESTA VOLTA NO
Trovo difficile spiegare quello che sto per raccontarvi, non perché provi vergogna o esitazione ma perché ho impiegato 23 giorni a capire cosa stesse succedendo e tutte le volte che mi fermavo con l'intenzione di parlarne, sentivo che le parole scritte non avrebbero reso il senso di quello che stavo provando.
Questa volta lo butto giù e basta, ben consapevole che le parole immiseriscono ciò che una volta fuori dalla testa non sembra poi così universale o interessante.
L'errore più grande che ho fatto in questi cinque anni (conto un anno prima della pandemia ma forse sarebbero pure di più) è stato credere di avere un equilibrio emotivo tale da poter prendere in carico i problemi e le sofferenze delle persone della mia famiglia.
Non solo, mi sono fatto partecipe e a volte risolutore dei problemi dei miei amici e una volta che sono stato in gioco mi sono reso disponibile ad ascoltare chiunque su questa piattaforma avesse bisogno di supporto, aiuto o di una semplice parola di conforto.
Ho sempre detto che una mano tesa salva tanto chi la stringe che chi la allunga e di questo sono ancora fermamente convinto.
Ma per aiutare qualcuno devi stare bene tu per primo, altrimenti ci si sorregge e si condivide il dolore, salvo poi cadere assieme.
In questi anni ho parlato molto di EMPATIA e di sicuro questa non è una dote che mi manca ma c'è stato un momento - non saprei dire quando e forse è stato più uno sfilacciamento proteso nel tempo - in cui non ho potuto fare più la distinzione tra la mia empatia e la mia fragilità emotiva.
Sentivo il peso, letteralmente, della sofferenza di ogni essere vivente con cui mi rapportavo... uno sgangherato messia sovrappeso con la sindrome del salvatore, insomma.
Sovrastato e dolente.
Mi sentivo costantemente sovrastato e dolente e più provavo questa terribile sensazione, più sentivo l'impellente bisogno di aiutare più persone possibile, perché questo era l'unico modo per lenire la mia sofferenza.
Dormivo male, mi svegliavo stanco, mangiavo troppo o troppo poco, lasciavo i lavori a metà e mi veniva da piangere per qualsiasi cosa.
Naturalmente sempre bravo a dispensare consigli ed esortazioni a curare la propria salute mentale ma lo sapete che i figli del calzolaio hanno sempre le scarpe rotte, per cui se miagola, graffia e mangia crocchette, bisognerà per forza chiamarlo gatto.
E io l'ho chiamata col suo nome.
Depressione.
La mia difficoltà, ora, a parlarne in modo comprensibile deriva da un vecchio stigma familiare, unito al fatto che col lavoro che faccio sono abituato a riconoscere i segni fisici di una patologia ma per ciò che riguarda la psiche i miei pazienti sono pressoché tutti compromessi in partenza, per cui mi sto ancora dando del coglione per non avere capito.
All'inizio ho detto 23 giorni perché questo è il tempo che mi ci è voluto per capire cosa sto provando, anzi, per certi aspetti cosa sono diventato dopo che ho cominciato la terapia con la sertralina.
(per chi non lo sapesse, la sertralina è un antidepressivo appartenente alla categoria degli inibitori della ricaptazione della serotonina... in soldoni, a livello delle sinapsi cerebrali evita che la serotonina si disperda troppo velocemente).
Dopo i primi giorni di gelo allo stomaco e di intestino annodato (la serotonina influenza non solo l'umore ma anche l'apparato digestivo) una mattina mi sono svegliato e mi sono reso conto di una cosa.
Non ero più addolorato per il mondo.
Era come se il nodo dolente che mi stringeva il cuore da anni si fosse dissolto e con lui anche quell'impressione costante che fosse sempre in arrivo qualche sorpresa spiacevole tra capo e collo.
Però ho avuto paura.
La domanda che mi sono subito fatto è stata 'Avrò perso anche la mia capacità di commuovermi?'
E sì, sentivo meno 'trasporto' verso gli altri, quasi come se il fatto che IO non provassi dolore, automaticamente rendesse gli altri meno... interessanti? Bisognosi? Visibili?
Non capivo ma per quanto mi sentissi meglio la cosa non mi piaceva.
Poi è capitato che una persona mi scrivesse, raccontandomi un fatto molto doloroso e chiedendomi aiuto per capire come comportarsi e per la prima volta in tanti anni ho potuto risponderle senza l'angoscia di cercare spasmodicamente per tutti un lieto fine.
L'ho aiutata senza che da questo dipendesse la salvezza del mondo.
Badate che non c'era nulla di eroico in quella mia sensazione emotiva... era pura angoscia esistenziale che resisteva a qualsiasi mio contenimento razionale.
E ora sono qua.
Non più 'intero' o più 'sano' ma senza dubbio meno stanco e più vigile, sempre disposto a tendere quella mano di cui sopra - perché finalmente ho avuto la prova che nessun farmaco acquieterà mai il mio amore verso gli altri - con la differenza che questa voltà si cammina davvero tutti assieme e io sentirò solo la giusta stanchezza di chi calpesta da anni questa bella terra.
Benritrovati e... ci si vede nella luce <3
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omarfor-orchestra · 6 months
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Comunque com'era prevedibile mio padre non ha detto mezza parola sul film anzi secondo me si è mezzo offeso
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susieporta · 4 months
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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Come si può
Elaborare un pensiero
E trasferirlo su di un foglio ?
Dandogli ampio respiro
Quasi fosse vento .
È difficile per tutti
Descrivere un sentire
Dare corpo alle parole
Chi vi dice che ciò che scrivo
Non sia solo immagine sfocata
di me stessa .
Potrebbe essere un puzzle
Fatto di vuoti da riempire
Un minuzioso mosaico
di illusioni
inventate dalle mie visioni .
Ci sono attimi in cui mi sento
Deragliare ,
non si controlla più l' istinto
Tutto fluisce alla velocità emozionale
Sono lontana dalla realtà
E fuori da ogni ragionevole
Consapevolezza.
Il caos che mi porto dentro
è causa di troppi viaggi
senza ritorno
Minuscoli spilli conficcati nella testa .
Attimi di gloria e deliri incontrollabili .
Ho plagiato il mio spirito
convinta
che oggi come ieri
l'unica frontiera è al varco
della mia resa .
Ci si salva nella resa
Ci si libera nella resa
Ci si può pur trovar la pace
nella resa .
Ho dato tutto !
Non mi è stato mai permesso
Di poter dare di più .
Una forza misteriosa mi ha fermata
Ho combattuto a lungo
prima di comprendere
che non esiste luogo
Più infame di un pensiero
Scriverlo mi ha condannata
ad attraversare il vento
Non riesco più a muovermi
Non ho capito
se ho finito la mia lotta
o semplicemente mi sono arresa...
📖🌹
Anaise
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godisacutedemon2 · 4 months
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Varcò la soglia di quel bar coi capelli legati e la mano sventolante vicino al viso: faceva caldo, troppo caldo, nonostante fossero appena le 8 di mattina. Le goccioline che le partivano dalla fronte scendevano giù lungo tutto il viso arrivando alla bocca rimpolpata da quel suo lipgloss appiccicoso che usava sempre. Il locale era pieno, le voci erano alte, tutti di fretta ma non troppo: va bene andare a lavoro, sì, ma con calma, ce n'è di tempo per lavorare, ma per esser felici e spensierati ce n'è troppo poco. Si avvicinò al bancone, a servirla c'era un bel giovane sorridente. «Non ti ho mai vista qui, sei nuova?» il sorriso si fece ancora più ampio, ma come risposta ricevette il sopracciglio inarcato e indispettito di lei. «Buongiorno, innanzitutto» rimbobò. Erano già due mesi che era lì, ma ancora non si era abituata a quella confidenza che chiunque si prendeva. Sapeva non fosse cattiveria, ma un po' l'infastidiva. Tutti conoscevano tutti e lei, a sentirsi dire sempre la stessa frase, si sentiva un po' un pesce fuor d'acqua. «Sì, sono nuova. Ma ricordate tutti coloro che passano o è proprio un vostro modo di approcciare?» continuò quindi lei. Il giovane si passò la mano tra i capelli lisci che gli cadevano sulla fronte «signorina, non mi permetterei mai di approcciarvi... O almeno, mi correggo, non così» rise, era bello. «Scusatemi se mi sono permesso o se vi ho dato fastidio... Diciamo che qui ci conosciamo tutti» botta secca «o comunque, più o meno mi ricordo chi passa, un viso così bello lo ricorderei». Le lusinghe erano tante, ma la pazienza la stava proprio perdendo. «Sì, capito, capito. Mi può portare un caffè, per favore?» «sì, certo, permettetemi di presentarmi almeno, io son-...» dei passi lenti dietro di lei la interruppero «Antò, e falla finita! Ti vuoi sbrigare? Non è cosa, non lo vedi? Portagli 'sto caffè e muoviti, glielo offro io alla signorina». La situazione stava degenerando, la ragazza in viso era ormai paonazza e non di certo per il caldo. «Scusatemi tutti, il caffè me lo pago da sola! Posso solo e solamente averlo?! Si sta facendo tardi, non pensavo che qui fosse un delirio anche prendere un caffè!» per un attimo calò il silenzio che non c'era mai stato, nella mente di lei passò un vento di leggerezza e sollievo, senza rendersi conto che, con quell'affermazione, si era di nuovo sentita come tutto ciò che non voleva sentirsi: un pesce fuor d'acqua. «Scusatemi» bofonchiò, poi di nuovo «potrei avere gentilmente un caffè? Grazie. Mi andrò a sedere al tavolo» il barista la guardò, un po' dispiaciuto «signorì, se permettete, cappuccino e cornetto, offre la casa. Sentitevi un po' a casa, vi farebbe bene» e si dileguò. Non disse nulla e si trascinò verso il tavolino, non poteva combatterli: erano tutti pieni di vita lì in quel posto. Che alla fine, un po' di gioia dopo anni di sofferenze, non sarebbe poi mica guastata.
Si sedette lì, ad un tavolino accanto ad un immenso finestrone: da lì si vedeva il mare, mozzafiato. Si guardò intorno. Il viavai di gente era irrefrenabile e la mole di lavoro assurda, ma la cosa più bella di quel posto è che nonostante le richieste più assurde dei clienti, venivano accolti tutti con il sorriso più caloroso del mondo.
Sorseggiava il suo cappuccino, lasciando vagare il suo sguardo di tanto in tanto, fin quando non si fermarono inchiodati su quello di un altro. Nell'angolo, in fondo, c'era un ragazzo. Gli occhi scuri tempesta bloccati nei suoi ciel sereno. I capelli un po' arricciati gli scappavano qua e là dalla capigliatura indefinita che portava. Un ricordo è come un sogno lucido, che però puoi toccare, sentire, annusare, vivere ad occhi aperti, vivere senza dormire. In quell'angolo di stanza, c'era lui. I battiti partirono all'impazzata all'unisono, nel bar non c'era più nessuno, solo loro. So potevano quasi toccare co mano, nonostante la distanza a separarli, le loro mani accarezzavano i rispettivi visi come a gridare “sei vera? Sei vero?”. Un impeto di emozioni, un vulcano in eruzione, la pioggia sul viso, il vento che porta il treno che sfreccia, il pianto di un bambino, la risata di un ragazzo. «Signorì, tutto apposto?» il tempo di sbattere le palpebre: lui non c'era più «sì, sì... Pensavo di aver visto qualcuno di mia conoscenza».
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ilpianistasultetto · 5 months
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A proposito della guerra Israelo-palestinese..
Un ministro di questo governo, per giustificare quanto sta facendo Israele nella striscia di Gaza, si rivolge a chi contestava quella furia militare che ad oggi ha fatto 12mila vittime palestinesi, di cui 8mila minorenni:
- ma scusi, lei cosa avrebbe fatto se qualcuno fosse venuto a casa sua e le avesse sterminato la famiglia in quel modo brutale?
Insomma, ho capito come puo' pensarla un ministro.. "se viene qualcuno a casa tua e ti stermina brutalmente la famiglia, tu sei autorizzato ad andare nel quartiere dove abitano i bruti e radere tutto al suolo finche'nessuno ne esca vivo"..
@ilpianistasultetto
#non ci meritiamo certi Ministri
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belladecasa · 4 months
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Quando mi fanno la canonica domanda sul fidanzato ormai rispondo che io non sono compatibile, come faceva Battiato. Che poi io una fetta di famiglia non canonica ce l’avevo, una in cui nessuno ti avrebbe chiesto del fidanzato, dell’Università, del perché parli poco, una in cui c’erano persone che capivano cosa fosse opportuno chiedere e cosa no, e alcune che capivano pure la tua indole, la tua vocazione, il motivo e il desiderio per cui sei al mondo. Ma quando è morta mia zia è morta tutta una radice, un ramo, un frutto, un albero, un bosco intero. Mia zia non era una donna, era una famiglia, un sistema di segni e simboli, una scuola, una società, un cultura, una città, quasi era un’anima infinita come Roma. Soprattutto, era il mio daimon, non una madre biologica ma la madre del mio intelletto. Per quanto una terra possa essere fertile non può far crescere nulla se nessuno ci pianta un seme. Mia zia aveva capito quello che potevo essere e aveva messo il seme dentro la mia terra. Il seme dentro la vita. E quando se n’è andata io mi sono sentita come suolo inaridito, pensavo che mai nessuno avrebbe potuto far crescere più nulla da me, dentro di me.
8 settembre 2019
Otto anni fa, nella squallida cappella del cimitero, la tua bara era stata deposita su un carrello di ferro a quattro ruote che ti avrebbe trascinata sotto terra e lontano da me. Tutti toccavano quella bara come se fosse stato un semplice gesto lasciarti andare, così pensavo che anche io avrei dovuto darti quell’ultimo addio, ma farlo avrebbe significato toccare con mano la consapevolezza della tua morte, e io non potevo. Ho preferito lasciarti scorrere via di fronte a me come fosse stato un sogno, cosicché oggi, ancora, nella mia vigliaccheria posso chiedermi se sia stato reale, se davvero non ci sei o se è stato solo un mio incubo. Oggi, dopo sei anni, quella bara non l’ho ancora toccata.
Ora sono passati dieci anni, e ancora percepire per me significa sentire la tua mancanza, perché io sono entrata nel mondo per mano tua e ora sono al mondo senza di te, ma oggi quella bara l’ho toccata perché ho accettato che non ci sei più, che amare qualcuno significa amarlo nella sua finitezza, amare il fatto che niente e nessuno ti apparterrà mai e mai per sempre. Ho imparato a non amare mai nessuno come un oggetto. Ho accettato che qualcosa, una qualsiasi cosa, finisce, e brucia, o si consuma. O almeno le persone, l’amore e tutte le cose umane. Ancora oggi hai piantato un altro seme nella mia terra.
#s
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