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#una nazione a rovescio
generalevannacci · 4 months
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(...) Nel complesso il sistema fiscale italiano appare “blandamente progressivo” e “diventa addirittura regressivo” per il 5% degli italiani più abbienti, che pagano un’aliquota effettiva inferiore al 95% dei contribuenti.
Lo studio inoltre conferma che esistono importanti differenze in relazione alla tipologia di reddito prevalente: sono i lavoratori dipendenti a pagare più imposte, seguiti dai lavoratori autonomi, dai pensionati e, infine, da chi percepisce soprattutto rendite finanziarie e locazioni immobiliari (...).
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silviascorcella · 6 months
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Tela p/e 2018: come il tessuto, ospita la creatività sincera
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Potrebbe essere un gioco d’intelletto, come le famose parole che si creano con gli incroci corretti: la usa l’artista per dare vita agli immaginari della sua fantasia; la si usa in sartoria per dare un primo cenno di vita tridimensionale ai capi disegnati; la usa la natura come strumento di difesa e di cattura dei nemici. Infine: le regalano l’iniziale maiuscola e, in quelle sue quattro lettere, diventa un mondo di moda rigorosamente italiana, testardamente ricercata nella fattura e nella femminilità, discreta nel successo sempre crescente che sta godendo dentro e oltre i confini della nostra nazione. 
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Tela, con la “t” maiuscola, è il nome di un marchio istituto a Verona una manciata di anni fa, ma nato da una lunga esperienza nel settore del fashion della sua direttrice creativa e anima appassionata, ovvero Federica Mora. E nella collezione dedicata alla prossima stagione Primavera-Estate 2018 presenta un nuovo capitolo della sua storia giovane nell’apparenza, ma sempre più ricca nella sostanza.
Tela, dunque, è un simbolo eccellente di quell’urgenza sana e salvifica di continuare a creare la moda dell’abbigliamento, una sorta di necessità dell’intelletto curioso e della mano artigiana che da sempre è parte integrante dell’italianità: Tela è espressione concreta, perdonate il gioco di parole, della fiducia nella  moda come veicolo d’espressione, il che non è una mera ripetizione, ma è una vera definizione d’intenti. Ovvero: progettare capi d’abbigliamento che non solo assecondino il vezzo di valorizzare la propria bellezza, ma che nel frattempo funzionino anche come un amplificatore per comunicare la propria identità. Come?
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Partendo da quel che il nome stesso evoca, una volta ridimensionata la sua iniziale: la tela, cioè l’armatura di base dei tessuti a navetta, la versione più semplice, quella dove non c’è rovescio perché il manufatto mantiene lo stesso aspetto su entrambe le facce, un aspetto schiettamente sincero, per questo versatilissimo. Ecco, Tela parte dalla semplicità intesa come approccio minimale: nessun fronzolo, solo l’importanza meticolosa dedicata alla ricerca delle forme, all’esattezza dei tagli, alla definizione dei volumi e alla costruzione di un immaginario in costante evoluzione tra la discrezione classica e l’inventiva contemporanea, ma sempre rigorosamente allacciato alla femminilità e al buon gusto col quale va vestita.
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La collezione s/s 2018 è un racconto stagionale composto attraverso i colori, le forme che danzano tra il rigore geometrico e la delicatezza ariosa, l’essenziale come punto di partenza, la cura dei dettagli che son quasi una strategia di funzionalità ed estetica combinate per rendere unico ogni capo: come i lacci che s’incrociano sospesi sulla pelle nuda delle spalle, i bottoni che chiudono il fondo dei pantaloni, le ruches sul giromanica e l’abbottonatura frontale giocosa della tuta.
Le tinte, si diceva, sono il leit-motif avvincente: il quadrettato dello spolverino dritto dai colori vivaci primaverili come l’azzurro cielo splendente, che si offre anche nella versione dell’ampio gilet da appoggiare sulla camicia candida a stratificata sui pantaloni dal rivolto alla caviglia; il rosa cipria dell’abitino bon ton stretto da una coulisse e del completo giacca e pantalone; il panna delicatissimo della tuta, lo stesso panna delicatissimo dell’abito con i tasconi come fosse un’evoluzione da città della sahariana; la grazia intensa del ciclamino in contrasto con la sinfonia pratica eppur ricercata dei verdoni d’appartenenza militare, come gli stessi capispalla che interpretano.
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Non solo tinte unite, ma anche pattern: come il gioco estivo del bianco e beige, eseguito con l’appaiata di blusa e pantaloni ampi, assottigliato nelle righe che attraversano il maxi-dress, che s’intensificano nel giallo brillante. Ma anche come l’incursione della stampa grafica sul t-shirt dress, che invade anche la gonna a tubo con i suoi motivi che ricordano l’allegria dei grafismi di Mirò, prima rimandano alla delicatezza di inflorescenze, e poi fanno esplodere l’energia cromatica degli astrattismi esatti, anche un pizzico esotici. Le forme, intanto sembrano uscite da un diario dei fantastici Seventies: i pantaloni svasati sul fondo, il trench geometrico lungo e classico ma anche corto e svelto abbinato alla gonna lunga, le bluse soffici, i sandali dalle strisce essenziali, ma colorate. 
Aria di vacanza rilassata, nel tempo e nello spazio, ma anche aria di città metropolitana: versatilità, è valore-must di Tela.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
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corallorosso · 2 years
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Onu, rapporto shock sull’Italia: ‘Sfruttamento e persistenti violazioni dei diritti umani’ Il Gruppo di Lavoro dell’Onu su impresa e diritti umani ha pubblicato un rapporto sull’Italia desolante ma completamente ignorato dai grandi media. In un recentissimo rapporto delle Nazioni Unite si possono leggere le seguenti parole: sfruttamento, serie e persistenti violazioni dei diritti umani, condizioni abitative e lavorative disumane, gravi problematiche relative alla salute e la sicurezza sul posto di lavoro, inquinamento ambientale che mette a rischio la salute pubblica. Indovinello: a quale Paese si riferisce il summenzionato rapporto? Una Nazione del Terzo Mondo, dilaniata da una guerra civile Il Venezuela/Cuba L’Italia La risposta è, ovviamente, la terza. Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite su impresa e diritti umani ha, infatti, recentemente visitato il nostro Paese, fornendo un quadro desolante, ma per nulla sorprendente per chi vive quotidianamente sulla propria pelle il funzionamento del cosiddetto ‘mercato del lavoro’ italiano. E così, mentre la stampa italiana si crogiola sui numeri ottimistici della ripresa economica post-pandemia e sul sol dell’avvenire garantito dal rispettato governo Draghi, la durezza più cruda della realtà quotidiana della vita di milioni di persone viene a galla persino attraverso un rapporto delle Nazioni Unite. Il primo elemento messo in luce dal rapporto è la sistematica opera di sfruttamento della manodopera migrante, specialmente in settori quali l’agricoltura, il tessile e la logistica. È un fenomeno risaputo, alimentato attivamente e consapevole da precise scelte politiche: Governo dopo Governo, in maniera sostanzialmente indipendente dal colore, si adottano provvedimenti che criminalizzano le migrazioni. Il migrante, reso ‘illegale’, è ancora più vulnerabile e alla mercé del padrone, che alimenta i suoi profitti grazie a “condizioni abitative e lavorative disumane” e salari da fame, protetto dalla “precaria situazione legale” dello sfruttato, che non può avvalersi neanche dalle forme minime di tutela previste per lavoratori ed esseri umani ‘regolari’. Con il contorno della canea aizzata dal Salvini di turno, che chiede ulteriori restrizioni per poter mettere a disposizione dei suoi (di Salvini) padroni una manodopera ancora più indebolita, frammentata e disperata. Il rapporto mette inoltre in luce come il Governo e le pubbliche autorità siano carenti anche nel fare rispettare le leggi esistenti a tutela del lavoro e nel controllare realmente le imprese, lasciando quindi sostanzialmente mano libera allo sfruttatore nello stabilire da sé le regole del gioco sul posto di lavoro e permettendo a “produttori e commercianti di trarre beneficio dall’impiego di forza lavoro sfruttata e a buon mercato”. (...) . Un sistema economico fondato sulla ricerca del profitto ha bisogno strutturale dello sfruttamento, dove con questa parola non si intende un concetto astratto e lontano nello spazio e nel tempo, ma una serie di fenomeni concreti, quotidiani e drammaticamente banali: dal lavoratore migrante costretto a vivere in ghetti e baracche e che raccoglie pomodori per pochi centesimi al chilo; al rider che lavora a cottimo; dall’operaio della logistica stritolato da ritmi di produzione disumani; alla lavoratrice ricattata e pagata di meno del collega uomo a parità di impiego; fino ad arrivare al depredamento dell’ambiente e delle sue risorse. Eccola la normalità, la prassi quotidiana del capitalismo, di un capitalismo neoliberale ormai normalizzato nelle sue feroci regole da tre decenni di riformismo al rovescio che hanno minato le fondamenta del diritto del lavoro e dello stato sociale. Eccola la normalità cui si vorrebbe tornare dopo la lunga parentesi di una pandemia che non ha fatto altro che infierire su un organismo sociale già gravemente malato e marcescente, dove svalorizzazione e sfruttamento del lavoro, ritmi di lavoro soverchianti e salari da fame o del tutto inadeguati ad una vita dignitosa erano da molti anni divenute le regole generale insindacabili. (...) un sistema economico che strutturalmente produce miseria e che prospera nelle divisioni artificiali tra gli sfruttati. Coniare rivolta
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abr · 4 years
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Il j’accuse di Mittal è un (giusto) manifesto politico contro il “sistema Italia” - Nella memoria depositata al Tribunale di Milano la multinazionale critica lo stravolgimento del contesto normativo e le pressioni mediatiche e giudiziarie subite. “Non replicheremo alle numerose frasi iperboliche, enfatiche e sarcastiche” utilizzate dai Commissari “per attribuire una dimensione di estrema gravità politico-istituzionale a una controversia che ha natura contrattuale”. Parte così la memoria depositata dai legali di Mittal al Tribunale di Milano per chiedere il respingimento del ricorso d’urgenza dei Commissari di Ilva. L'attacco all’utilizzo politico dei tribunali (...)
https://www.ilfoglio.it/giustizia/2019/12/19/news/il-jaccuse-di-mittal-e-un-giusto-manifesto-politico-contro-il-sistema-italia-293328/?underPaywall=true
La MAFIA nazional-popolar (non populista) - tribunalizia che ha per portavoce il FattoinQ. ma non solo, stravolge il concetto di “Patria del Diritto” applicando il Rovescio delle modifichine, leggine, rrrriformine per applicar balzelli e inkulate e in ultima analisi fotter chiagnendo; tale Apparato si attiva da solo come un robot preimpostato contro quei vertici politicanti “che non hanno capito” ma non solo, come in questo caso anche per realizzare nei fatti e non da ieri la politica industriale nazionale della DECRESCITA FELICE (per i Poteri Buromarci). Emiliano non DiMaio ne è il perfetto emblema, essendo contemporaneamente politicante piddino e magistrato, non credo nemmeno ex- come sarebbe etico. 
Infatti in tale scenario i 5S rappresentano nulla più che un epifenomeno, un sintomo non una causa, un effetto bandwagon di massa per provare ad approfittare delle briciole cadenti dal tavolo da parte di classi mediobasse periferiche sedicenti furbe in realtà non meno autoinculanti dei ceti Pro urbani che promuovono tutto questo per arretratezza e miopia. Il fomite di questo cancro in metastasi è il buroceto sinistro e il suo partito elettivo. 
Cetero censeo Pd esse delendum. 
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paoloxl · 5 years
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Nicoletta siamo tutte con te…Lettera di Haidi Giuliani a Nicoletta Dosio
Così Nicoletta andrà in prigione.
E’ una signora minuta e gentile, Nicoletta, una professoressa in pensione. E’ sempre vissuta dalla parte del diritto: quello degli esseri umani, degli animali, delle piante, della terra. Per questo motivo andrà in prigione, per questo motivo una volta le hanno rotto il naso.
Lei no, lei non ha mai fatto violenza a nessuno.
Per questo andrà in prigione.
Chi l’ha ferita, e insultata, e condannata, sta dalla parte dei soldi. Dalla parte di un mondo affaristico cieco e sordo. Dalla parte di pochi che si vogliono arricchire a spese dei molti. E per i soldi devastano territori e raccontano falsità.
Hanno grandi mezzi, molto potere.
Nicoletta ha solo la propria dignità.
Sono una vecchia maestra, le dico, mi sembra di vivere nelle Favole a rovescio di Gianni Rodari che divertivano tanto i miei bambini e le mie bambine. Mi sembra di vivere in un mondo capovolto. Ma c’è poco da divertirsi.
Vedo persone che vanno in chiesa, ama il prossimo tuo come te stesso, recitano. Ma condannano chi porta soccorso a chi non ha cibo né casa.
Ascolto persone che si riempiono la bocca con parole come legalità, rispetto delle regole ma ignorano la legge del mare che ordina di salvare i naufraghi. Conosco dieci giovani che verranno processati per averlo fatto.
Dopo una cospicua raccolta di immagini e testimonianze e un lungo e dispendioso lavoro di ricostruzione, di coloro che hanno gestito il G8 di Genova del 2001 Amnesty ha scritto: “…hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Ma a distanza di quasi vent’anni i responsabili della repressione vivono tranquilli, qualche manifestante è ancora recluso e io non so chi ha ucciso mio figlio.
Viviamo in un mondo a rovescio, le dico, non accettare che ti rubino anche l’aria, non ne vale la pena.
Ricorda La caduta di Giuseppe Parini, mi risponde sorridendo.
Come pensavo, Nicoletta ha la sua dignità. Lei sì.
E andrà in prigione.
Haidi Gaggio Giuliani
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sebastiandrogo · 5 years
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ESCAPISMO
Senti il latrato della notte che azzanna il respiro indietreggia il conto alla
rovescia il rovescio della medaglia della razza umana è una prigione dei
sensi un verminaio di idee precotte preconfenzionate artatamente diffuse
nell’etere a riprova che l’eterno ritorno è una cazzata mentre lo storno delle
membra il membro che riproduce il tormento delle nascite il voler comunque
andare avanti, sempre in salita in estasi cosciente, in verticalizzazione impervia
uggiolio insensatezza spacciata per tanatofobia inerente a spazi aperti logori
logorroici logos spreme ego lascia un’idea che niente e nessuno spreco impone
dire L’UOMO E’ UN NULLA CHE TORNA NEL NULLA è un truismo un cedevole
modo di dare il commiato o l’estrema unzione a qualunque nazione città 
conquistata saccheggiata messa a fuoco rasa al suolo e poi sulle rovine fumiganti
sparso il sale come il sole che sale allo zenit intercetta il picco del vero 
la bugia è costante la fuga impossibile l’evasione impedita il tunnel a cui
arriviamo non fa vedere la luce alla sua fine ma solo un’altra fine buia.
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pangeanews · 5 years
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“La poesia ci ha salvati, ha salvato l’Italia da se stessa”: Arnaldo Colasanti su Dario Bellezza, il poeta dell’immortalità
L’essere stati giovani è una possibilità se l’essere stati giovani non era quello del tempo, della storia o cronaca cui si apparteneva, ma una profondità della vita mai più raggiunta, l’assoluta coincidenza con una promessa, vale a dire essere stati immortali, perché immortale è sempre ciò che contiene la sua fine, tiene in sé l’inevitabile morte, rendendola impensabile come la vita che, quando sarà trascorsa e occuperà la mente, allora sarà più inspiegabile di quanto lo sia mai stata, una meta sempre e ancora da raggiungere. Dichiarare che un poeta ci ha regalato questa possibilità, non è il più grande tributo che gli si possa fare, il più vero e commovente? Ecco, Arnaldo Colasanti questo tributo dedica a Dario Bellezza, all’irruzione dei suoi versi che parvero una salvezza per una generazione: “Cercate l’immortalità/ l’eterna questione del mare splendente/ dentro il sole di giugno, che diventa nero/ a notte e scompare nelle tenebre”, scriveva Dario, rivolgendosi ai giovani, presenti e futuri, e commenta Colasanti: “La poesia era e poteva ancora essere il mare splendente, se solo ci avesse permesso di cercare l’immortalità e cioè di capire la luce nera della vita, le tenebre abbaglianti della morte, la certezza del corpo e della sua fine in ogni antica nascita delle sillabe”.
*
Leggete il libro, Dario il grande. La poesia di Dario Bellezza (CartaCanta, 2019), seguendo questo semplice viatico, facendo di questi versi il filo rosso che attraversa le pagine, un basso continuo su cui Colasanti rivede e stravolge ogni lettura maudit o aneddotica del grande Dario Bellezza, accompagna un recitativo che sino alla fine spera ci sia un prima e un dopo, “Una proroga, insomma”, un’aria da poter ancora cantare.
Ma l’importanza di Bellezza, seguendo almeno sommariamente il discorso di Colasanti, che ne analizza i temi e lo svolgimento, andrà pure accennata. Con un avvertimento. Nelle analisi più puntuali, accanite e aderenti al testo per sprofondare e giungere alla verità dei versi, si aprono bagliori che illuminano in modo imprevisto anche altre tematiche o altri poeti; dagli antichi greci a D’Annunzio e sono intuizioni che lasciano interrogativi, squarciano in poche righe il quadro tessuto da luoghi comuni della critica: ma la scoperta di questi sprofondamenti verticali la lascio al piacere del lettore, come il breve, intensissimo ricordo di Beppe Salvia in cui per un attimo ci pare miracolosamente di cogliere l’essenza della sua poesia, incantati da un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà, quasi sentendolo ancora qui, vicino a noi.
Ma dicevamo dell’importanza dell’irruzione della poesia di Bellezza, il suo linguaggio volutamente letterario (se non iper letterario) nell’uso delle figure retoriche rompeva ogni possibile manierismo, ogni uso strumentale della lingua, ogni rancoroso editto sulla morte della poesia, tagliava il nodo gordiano del pubblico e privato offrendo se stesso come spada, magari con un colpo affilato della sua sciarpa, e così dava nuova vita a una lingua tanto moderna quanto antica, una lingua che non voleva insegnare niente ma essere un dono irripetibile, rivolto al futuro che già sentiva avvenuto nella sua ansia di rinascere, tema ossessivo del Poeta analizzato profondamente da Colasanti; era un linguaggio capace di accogliere anche l’esasperata esibizione di sé, recuperando un significato esistenziale, la possibilità di dire l’attualità dello scandalo, il suo, ricercato e perseguito, che era però in realtà lo scandalo di tutti, una vita aperta all’immaginazione, allo stupore, all’inevitabile dolore per una vita che può solo regalare promesse enigmatiche nelle forme del cielo e del mare, di un lampione dove si attende l’inganno e l’incanto dell’amore. Anche quando tutto si svelerà e la doppia vista leopardiana non sarà più possibile nella casa abbandonata, o forse affidata ai suoi amati gatti, in quello che è già il suo sepolcro, è sempre il futuro, in cui ormai sa che non ci sarà, a fargli scrivere di pentole, sedie e della stufa di ghisa, già fantasma di se stesso, così saturo del tempo vissuto da poterne fare a meno e essere libero anche dalla sua stessa lingua, dalla sua poesia, come solo i grandi poeti possono permettersi, raggiunta un’insensata sapienza offerta come estremo dono alla propria vita e a quella degli altri, ancora una volta contro ogni sterile saggezza, ogni possibile calcolo che si possa fare sulla pelle ustionata dalla vita, perché è con questa che si entra nell’assoluto, nell’eterno, nella verità. E nell’analisi dell’incompiuto romanzo in versi, le pagine di Colasanti raggiungono una intensità commovente,  in annotazioni critiche che sfidano quel segreto che tanto più è nascosto quanto più rivelato nei versi, seguendo il movimento della mente e del corpo malato del poeta, “ora malato/ malato della malattia della morte” , che sente  esaurita ma non spenta la vita, una recita solo per se stesso; così al termine del percorso, in queste ultime pagine, il lettore capirà l’affermazione di Colasanti “Sapersi definitivi, perfettamente compiuti, ‘ora malato/ malato della malattia della morte’, vuol dire accettare che l’unica cosa che resti nella vita è l’immortalità. Come sempre”. È quella “vita che non diedi a nessuno/ tranne a me”, chiosando con i versi di Dario Bellezza.
*
Bisognerebbe però parlare anche del progetto critico portato avanti da Colasanti (basti vedere il progetto di libri editi e da editare) e tenere uniti i vari titoli che disegnano una costellazione benjaminana e dunque anti storicistica della poesia contemporanea, con la passione e l’ostinata convinzione che i moderni vadano trattati come i classici, che non è il maldestro rendere ‘attuali’ gli antichi, che nel più benevolo dei giudizi è un gesto involontariamente al servizio di un degradato storicismo, da cui per pudore è tolta l’idea di progresso, o riducendolo alla mera cronologia padre-figlio, facendo del tempo che scorre e li separa una memoria pettegola priva di sapienza. Certo, ancor più che per la poesia o la letteratura, il pubblico della critica è difficilmente individuabile e forse per questo invoca una leggibilità. Colasanti vuole un lettore che lo segua in percorsi difficili, non per snobismo ma per il contrario, perché lo sente vicino e uguale a lui nell’entrare insieme nell’opera di un poeta, in un atto di vera ‘umiltà’, perché il linguaggio per ogni Autore deve trovare la via giusta, e deve farlo anche il lettore che a un certo punto si accorge di non essere più tenuto per mano.
Ma bisogna poi davvero porsi il problema del pubblico? Entità immaginaria come la ‘gente’, o bisogna invece credere ancora che vi sia sempre un potenziale lettore che non va educato e come il critico è disposto a mettere in gioco il suo sapere, la sua vita, la sua ricerca della verità? Non nasce da tutto questo, dal ricevere il dono di una lingua e la creazione di un mondo offerti da un poeta, che non possono essere soltanto ciò che vediamo e diciamo, una annotazione metrica come la seguente?  “Della lingua di Bellezza mi ha sempre colpito quella filigrana di grammatica classica. Iperbati, rotture, posticipazione delle parole. Qualcosa che risorge e muore e poi si trattiene immobile…. è come se Dario dovesse rinviare in una proroga ciò che sulle labbra si sta incenerendo. C’è qualcosa di eroico… in quel movimento di iperbati che riprendono per i capelli sciolti le parole sull’orlo di un precipizio”.
E ancora: il pubblico non andrà inventato e non blandito? Chi avrebbe oggi il coraggio di scrivere queste parole di Bellezza: “L’autore vorrebbe che questo libro fosse letto dai giovani, dai ragazzi; che essi cioè facessero giustizia da sé di un corpus poetico a loro consacrato”. I giovani, cioè l’antico perennemente moderno.
*
Sempre di Benjamin penso che Colasanti approvi l’esortazione di: “Cercare di cogliere l’attualità come rovescio dell’eterno nella storia”, per redimere lo sfacelo della storia, in questo caso quella italiana, costante obiettivo polemico e lacerante di Colasanti e del resto ammette lui stesso che la sua biografia critica e lo stesso progetto che porta avanti non sono altro che “il grande spasmo di una nazione che fiuta la fine”.
Se è una costellazione, come dicevo, è chiaro che è voluta la mancanza di un metodo critico da applicare a priori, importa seguire la verità rivelata in modi diversi, con la consapevolezza che la critica deve affrontare il problema della realtà, capire come un Autore vi trovi la redenzione che non vediamo e non riusciamo a vivere. È una possibilità di vita, strappata alla tirannia del presente, dal prima e dopo che ci opprime e rende vecchie le parole nel momento stesso in cui le pensiamo, è la certezza che nemmeno il passato è immutabile e il poeta contemporaneo diventa antico, per sempre inattuale, per sempre dotato del sogno giovanile. Così l’approccio a ogni poeta deve essere diverso; anche questo su Bellezza non riposa su acquisizioni critiche che precedano la lettura o vogliano solo sistemare le date, adeguare la cronologia all’irripetibile esistenza di un Autore che ne ha fatto il suo mistero, nascosto dietro le pose, le private ossessioni preda di pettegolezzi anche cercati. Colasanti ne è pienamente consapevole che deve scavare come esige l’Autore, inseguirlo sul suo campo, in ciò che Bellezza occultando ha voluto rendere una rivelazione: “Qualcuno lo leggerà come un diario privato, altri come un romanzo in versi. Ma poco conta. Non cerco i ricordi, ma il peso e l’intelligenza delle parole nel tempo di un’esistenza”.
Sono parole forti, che toccano lo statuto della critica. Di fronte a questo, uno si aspetterebbe prese di posizione, pro o contro, discussioni sugli Autori scelti e su come vengono affrontati, l’interpretazione che ne viene data, l’importanza che gli viene attribuita.
Ma c’è solo il silenzio. Eppure, e mi rivolgo, per questi primi libri, agli amici della Scuola romana, de te fabula narratur: Damiani, Magrelli e ora Bellezza. Ma questa è cronaca cittadina, perché attraverso la poesia Colasanti è convinto si parli di una nazione, del suo splendore e della sua miseria. Non può cadere nel nulla una pagina come questa: “La poesia ci ha salvati: è stata la nostra rivoluzione, più degli elicotteri gabbiani negli schermi in bianco e nero del cielo di Saigon. Se c’è stato qualcosa, dopo gli anni Sessanta, che abbia permesso all’Italia di resistere al suo più grande nemico – se stessa, l’incubo di un’identità mancata e di una democrazia incompiuta e sempre rinviata – non è stato il pensiero o la politica, le grandi inchieste o il romanzo: no, è stata davvero la poesia, insieme alla poesia del cinema. Sono i versi che hanno stretto in un abbraccio l’Italia al termine del suo sogno post bellico di sviluppo. È la poesia che ha trovato una fedeltà contadina, una lingua comune e ha vietato la stupidità macabra della fine della letteratura, negando l’ipocrisia, l’invidia sociale, offrendo a poeti immensi di essere davvero i poeti di una nazione ferita”. C’è abbastanza per discutere, oppure no?
*
Sfruttando queste parole, personalmente penso che un paese in cui tutto ciò che si sospetta o sospettava è e era vero, dove la verità è taciuta ma sulla bocca di tutti, di fatto non abbia una storia, non può essere raccontato; è dagli anni di cui parla Colasanti che segreto e evidenza hanno coinciso al punto di non nascondere nulla e rendersi così irrappresentabili se non nelle aule dei tribunali, dopo il solito sacrificio nazionale di morti ammazzati. Ma dove il romanzo non poteva giungere, arrivò la poesia, ci suggerisce Colasanti: ci arrivò con la sua lingua di nuovo comune, capace di regalare ancora bellezza e dunque verità, non solo giustizia, anche descrivendo un paese che non c’era. Per questo ho sempre letto nell’io so di Pasolini, l’urlo di un poeta: una disperazione e non una indagine; la disperazione nel vedere che la verità era un pettegolezzo: io so come voi  sapete, come tutti sanno, è il grido angosciante con cui Pasolini accetta di appartenere alla propria nazione, preparandosi a un sacrificio rituale.
Ma, ripeto, e le mie precedenti considerazioni sono marginali: c’è da discutere oppure no? Perché discutere vuol dire prendere una posizione sulle affermazioni di Colasanti, sull’idea di letteratura e critica che porta avanti da sempre. La poesia è una rivelazione utile sulla vita? E la critica è l’insediarsi in tale rivelazione, nella inevitabile frattura tra poesia e realtà, per rendere quest’ultima la sola vita che possiamo vivere, stando in un posto giusto, lontano da ogni patologia, da ogni ossessione, da ogni accademismo?
Sembra paradossale, ma nel mondo liquido di internet, nella sua apparente sconfinata libertà, oggi  prendere posizione, esprimerla, è difficile, se la vanità o la paura di quell’io virtuale che tutti diventiamo, controllano i like su un post di Facebook o altri social, ne deducono giudizi inespressi, in una catena di risentito psicologismo che acceca e annulla ogni memoria, perde di vista ciò di cui si parla, dà un nuovo senso al termine ‘amicizia’ o ‘condivisione’. Eppure, come la politica, la letteratura sembra ormai passare per questi canali, attraverso comunità astiose: gli applausi sono per gli ammiccamenti, i pensieri lunghi quanto la distanza di una rima baciata. Al solito i contenuti sono sottintesi per gli iniziati, depositari di un segreto inesistente a cui si mette però una partecipata emoticon. Non solo questo libro, ma tutta l’opera di Colasanti ha da sempre rifiutato questo vuoto, questo non pubblico, questa impossibilità di conversazione civile, per questo non mi resta, a chiudere, che riportare le sue sconsolate parole: “Davvero il risentimento, la voglia non di vincere ma soltanto di non restare fuori, è e è stata la più grande viltà italiana”.
Paolo Del Colle
*In copertina: Dario Bellezza nell’interpretazione fotografica di Dino Ignani
L'articolo “La poesia ci ha salvati, ha salvato l’Italia da se stessa”: Arnaldo Colasanti su Dario Bellezza, il poeta dell’immortalità proviene da Pangea.
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jamariyanews · 7 years
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La Russia, un baluardo contro l’Impero
8 giugno 2017 “Lo scenario politico internazionale nella nostra epoca può forse avere qualche analogia con quello realizzatosi alla vigilia della prima guerra mondiale, ma le divergenze sono di gran lunga più numerose delle somiglianze. A quel tempo esistevano numerose grandi potenze, ciascuna al centro di un impero coloniale. Queste potenze da un lato avevano aspirazioni egemoniche ma non universalistiche (la Germania voleva strappare colonie al Regno Unito, assaltare il “potere mondiale”, ma non conquistare il Regno Unito), dall’altro tendevano a formare blocchi di alleanze, concentrazioni di forza economica, politica e militare in linea di massima equivalenti. Era l’età degli imperialismi. Oggi esiste un solo centro di potere mondiale le cui ambizioni territoriali, economiche e culturali sono illimitate: è l’età dell’Impero. Ignorare, nel 2017, l’esistenza di questo sistema di potere, significa farsi sfuggire non un dettaglio, ma la caratteristica capitale del mondo contemporaneo, caratteristica peraltro già indagata in lungo ed in largo da decenni. Cos’ è l’Impero? (…) E’ la “democrazia totalitaria” profetizzata da Alexander Zinov’ev nel 1999 ed oggi pienamente realizzata. Per quanto ciò sembri paradossale il cosiddetto “totalitarismo” (nel senso di assorbimento totale di ogni aspetto della vita umana in un’unica dimensione economica, politica, ideologica ed etica), strumento concettuale brandito dal liberalismo per legittimarsi, non si è mai realizzato in forma storicamente tanto perfetta quanto lo è oggi, sotto l’Impero del liberalismo stesso. Questi i tratti essenziali, a cui è utile aggiungere alcuni importanti dettagli. Nel tempo dell’Impero esistono ancora, di nome, imperialismo, fascismo, ed estremismo religioso. Ma si tratta di copie sbiadite degli omonimi fenomeni del secolo scorso. Di zombie che l’Impero utilizza per conseguire i suoi fini. La stessa “nazione indispensabile”, gli Stati Uniti d’America, non può adottare indirizzi strategici contrastanti con le logiche del potere globale, senza precipitare (come mostra il caso Trump) in una gravissima crisi istituzionale. La dirigenza americana inclina pericolosamente verso il protezionismo? Sarà la centrale europea a far da sponda, fino a che i globalisti d’oltre atlantico non avranno “risolto”, con le buone o con le cattive, l’errore di percorso. L’Impero uniforme ed orizzontale non teme nessuna crisi locale. Ove si presentano aree di resistenza economica, politica e culturale, l’Impero interverrà suscitando nazionalismo, fondamentalismo o terrorismo, che verranno utilizzati di volta in volta per frantumare e digerire queste sacche (Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina…) o per alimentare la lealtà ed il conformismo delle popolazioni terrorizzate. Ove la guerra ibrida non sia possibile o conveniente, e l’ Impero sia costretto ad un intervento diretto, lo strumento utilizzato non sarà la “guerra” che presuppone un riconoscimento implicito del nemico, ma l’“operazione di polizia internazionale” espressione che abolisce la politica estera declassandola a questione di ordine pubblico discendente da un’unica fonte di legittimazione imperiale. La convergenza ideale e pratica arancio – bruno – verde fra certi ambienti liberal atlantici, la manovalanza neofascista ucraina ed i mangiatori di cuori siriani è solo apparentemente incongrua: nella realtà si tratta di strumenti di potere decisamente integrabili che l’Impero utilizza simultaneamente a diversi livelli. Poi c’è la questione della sproporzione delle forze: un immenso divario che è militare, ma soprattutto economico, politico e mediatico. Per misurarla è utile osservare la proiezione dello schieramento della NATO dalla Germania Ovest fino al ventre molle della profondità strategica russa, ricordare che il blocco atlantico supera la Russia di quattro volte per popolazione, di dieci volte per spesa militare, di venti volte per potenza economica. E’ utile ma non è sufficiente, perché in realtà la superiorità dell’Impero trascende la realtà della NATO, estendendosi a tutte le organizzazioni e le formazioni internazionali costituite intorno ad esso, di cui l’Impero detiene un pacchetto di controllo che gli consente di usarle a piacere. Alla luce di queste considerazioni è chiaro che non esiste alcuno scontro fra “opposti imperialismi”. Volendo a tutti i costi utilizzare le categorizzazioni leniniste, la Russia odierna dovrebbe piuttosto collocarsi nella categoria delle “semi colonie” (Persia, Cina, Turchia, nella classificazione di Lenin, che scriveva nel 1916…): quella dei paesi parzialmente egemonizzati che lottano per conservare margini di autonomia politica. In questi casi Lenin era categorico: la borghesia della nazione oppressa deve essere sostenuta nella propria lotta contro la nazione opprimente, ed avversata nella lotta contro il proprio proletariato: “In quanto la borghesia della nazione oppressa lotta contro quella della nazione che opprime, noi siamo sempre, in tutti casi, più risolutamente di ogni altro, in favore di questa lotta, perché noi siamo i nemici più implacabili, più coerenti dell’oppressione. In quanto la borghesia della nazione oppressa difende il proprio nazionalismo borghese, noi siamo contro di essa. Lotta contro i privilegi e le violenze della nazione che opprime; nessuna tolleranza per l’aspirazione della nazione oppressa a conquistare dei privilegi.”. E ancora: “Se noi non ponessimo la rivendicazione dl diritto delle nazioni all’autodecisione, se non agitassimo questa parola d’ordine, aiuteremmo non solo la borghesia, ma anche i feudali e l’assolutismo della nazione che opprime.” In conclusione la questione si pone esattamente nei termini prospettati da Preve: riconosciuta la (onni)presenza e l’esistenza dell’Impero “liquido” “orizzontale” “globale” dei nostri giorni, occorre decidere se collaborare arrendendosi (è la soluzione implicitamente scelta da Negri-Hardt) o resistergli. E se si decide di resistere si incontra Putin. Forse voi “di sinistra”, prima di incontrare Putin a questo punto del mio ragionamento, lo avete avvistato altrove, in posti a voi cari. Ad esempio potreste averlo trovato nel Venezuela bolivarista, mentre concorda politiche energetiche con il governo locale o mentre fornisce grano e cooperazione politica e militare. Oppure a Cuba, mentre annulla il 90% dei debiti del Paese verso la Russia. O in Corea del Nord: il mondo accerchia Pjongjang, Putin manda un segnale, aprendo una nuova linea di traghetti con Vladivostok. E ancora in Donbass, in Siria, nelle Filippine. Ovunque l’Impero non riesca ad affermarsi proiettando la luce della propria potenza, si trova Putin. Putin è il rovescio, è l’ombra della globalizzazione. E’ facile immaginare cosa accadrebbe a queste realtà di resistenza locale il giorno in cui un Maidan moscovita abbattesse lo Zar: sarebbero immediatamente soverchiate, schiacciate annichilite. La stesso pensiero di un altrove, di un altro tempo, soppresso negli anni novanta, recentemente riaffiorato, verrebbe inghiottito nel buco nero del pensiero unico. Putin è l’assillo, il rovello, l’ossessione, lo spettro dei media mainstream. Nella rappresentazione dei nostri organi di informazione Putin è onnipotente, è ovunque, è il male che si annida nel sistema, perché la sua stessa esistenza ne mette a nudo le negate criticità. Il vostro nemico lo sa bene che Putin è dalla vostra parte: e voi no?” Da A sinistra, con Putin!, di Marco Bordoni. Originale, con video: http://ift.tt/2rstlpl http://ift.tt/2sL4Nfc
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generalevannacci · 2 months
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Una nazione a rovescio e anche un po' di 💩
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redazionecultura · 7 years
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sede: Palazzo della Cultura (Catania).
Nato nel 1924 come L.U.C.E., L’Unione Cinematografica Educativa, con l’intuizione e l’intento di raccontare l’attualità del Paese, della sua società e del mondo attraverso l’ancora nuovo linguaggio delle immagini in movimento, e ribattezzato con Regio decreto l’anno seguente, l’Istituto Nazionale Luce venne presto sostenuto con forza e controllato da Benito Mussolini, che ne comprese e sfruttò le enormi potenzialità divulgative e politiche. Dopo 90 anni e una vicenda che ha accompagnato in parallelo e continuità tutta la recente Storia d’Italia, quell’intuizione è diventata oggi la più antica istituzione di cinema pubblico al mondo e, con un archivio di decine di migliaia di filmati e tre milioni di fotografie, un patrimonio di immagini impareggiabile per quantità e ricchezza di temi. Tanto da meritare nel 2013 l’ingresso per il fondo ‘Cinegiornali e fotografie dell’Istituto Nazionale L.U.C.E.’ nel Registro Memory of the World dell’UNESCO. Un bene italiano divenuto bene mondiale.
Per raccontare questa evoluzione, Luce – L’immaginario italiano si muove su due binari ideali: come l’Italia si è rappresentata nei decenni attraverso le immagini del Luce, e come l’Italia si è rivelata, confessata, svelata attraverso e nonostante le immagini delle sue rappresentazioni ufficiali. Dal suo esordio il Luce ha provveduto a rivelare l’immagine degli italiani a loro stessi, e a fornire una conoscenza di base del Paese. Grazie ai ‘cinegiornali’ Luce, milioni di cittadini dagli anni ’20 in poi hanno potuto vedere e scoprire per la prima volta città, geografie lontane, popolazioni sconosciute, forme sociali e culturali differenti. La nascita di un’opinione pubblica in Italia passa di qui, insieme alla stessa formazione di ‘luoghi comuni’. È su questo terreno condiviso ed elementare che il fascismo poté promulgare le sue propagande e il suo controllo. Ma anche che il Paese uscito dalla Guerra riuscì a testimoniare gli sforzi e la spinta civile della ricostruzione, e gli sviluppi di una nuova società democratica e di massa avviata alla modernità. Di questo aspetto educativo, informativo e propagandistico, il Luce fornisce milioni di documenti. Il Paese ‘si mette in posa’. Ma la mostra racconta anche il rovescio di quell’immagine. Per la natura realistica del cinema e della fotografia, allo spettatore di ieri, e ancor più a quello di oggi, non poteva e non può sfuggire la retorica (e a volte la goffaggine) delle ‘pose’ di Mussolini nei suoi comizi; o la povertà e la fatica dei contadini messi in scena sorridenti davanti all’obiettivo, e lo sconforto dei soldati in una guerra che si raccontava trionfale, mentre si subiva una sconfitta. E l’ironia di uno speaker sulle donne lavoratrici negli anni ’50, la compostezza dei rappresentanti dei partiti politici, i volti allegri dei giovani in una festa o in una manifestazione, rivelano in controluce i sommovimenti e le richieste di una nuova età di diritti. In tutti questi rovesci dell’immagine il Paese svela e confessa il suo intimo. Il suo immaginario.
Nel racconto di questo autoritratto della nazione, LUCE – L’immaginario italiano è concepita con un approccio espositivo non statico, ma come un flusso continuo di immagini. Il percorso parte dal concetto e dalla forma di ‘strip’: grandi pannelli organizzati secondo un ordine tematico-cronologico, su cui in più di 20 schermi sono proiettate speciali videoinstallazioni, montaggi realizzati ad hoc di centinaia di filmati dell’Archivio storico Luce. Accanto alle immagini in movimento, più di 500 splendide fotografie dell’Archivio fermano dettagli e momenti significativi, mentre pannelli di testo approfondiscono l’analisi storica e linguistica dei video. Un percorso visivo e uditivo di notevole impatto, che fa sì che ogni visitatore si confronti con un’immagine differente, e in cui ciascun video dialoga con quelli vicini per analogie e differenze. Una serie di parole-chiave lega l’itinerario. Si va così dagli anni ’20 di città/campagna, ai ’30 di autarchia, uomo nuovo, architettura, censura e propaganda. Si arriva a Guerra e rinascita, Cassino (icona della brutalità distruttiva delle guerre), vincitori e vinti (con sequenze poco conosciute e straordinarie, anche a colori, dell’ingresso degli alleati non solo a Roma, ma anche nelle profondità del Paese), modernità/arretratezza (un parallelo significativo di immagini dell’Italia anni ‘60), giovani, economia, corpi politici, neotelevisione, e tante altre.
Alcune speciali ‘camere’ mostrano aspetti specifici e suggestivi. La camera delle meraviglie è un omaggio ai viaggi per il mondo compiuti dagli operatori Luce; la ‘camera del Duce’ disegna un’imperdibile antologia delle retoriche e dei silenzi di Mussolini, ed è contrapposta alla stanza del Paese reale, un commovente viaggio nei volti degli italiani negli anni ’30. L’ultimo spazio dell’esposizione è infine interamente dedicato al Cinema: con centinaia di foto di registi, attori, set, e una preziosa selezione di trailer e backstage di film.
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Luce – L’immaginario italiano sede: Palazzo della Cultura (Catania). Nato nel 1924 come L.U.C.E., L'Unione Cinematografica Educativa, con l'intuizione e l'intento di raccontare l'attualità del Paese, della sua società e del mondo attraverso l'ancora nuovo linguaggio delle immagini in movimento, e ribattezzato con Regio decreto l'anno seguente, l'Istituto Nazionale Luce venne presto sostenuto con forza e controllato da Benito Mussolini, che ne comprese e sfruttò le enormi potenzialità divulgative e politiche.
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corallorosso · 3 years
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Onu, rapporto shock sull’Italia: ‘Sfruttamento e persistenti violazioni dei diritti umani’ By Coniare Rivolta In un recentissimo rapporto delle Nazioni Unite si possono leggere le seguenti parole: sfruttamento, serie e persistenti violazioni dei diritti umani, condizioni abitative e lavorative disumane, gravi problematiche relative alla salute e la sicurezza sul posto di lavoro, inquinamento ambientale che mette a rischio la salute pubblica. Indovinello: a quale Paese si riferisce il summenzionato rapporto? Una Nazione del Terzo Mondo, dilaniata da una guerra civile Il Venezuela/Cuba L’Italia La risposta è, ovviamente, la terza. Il Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite su impresa e diritti umani ha, infatti, recentemente visitato il nostro Paese, fornendo un quadro desolante, ma per nulla sorprendente per chi vive quotidianamente sulla propria pelle il funzionamento del cosiddetto ‘mercato del lavoro’ italiano. E così, mentre la stampa italiana si crogiola sui numeri ottimistici della ripresa economica post-pandemia e sul sol dell’avvenire garantito dal rispettato governo Draghi, la durezza più cruda della realtà quotidiana della vita di milioni di persone viene a galla persino attraverso un rapporto delle Nazioni Unite. Il primo elemento messo in luce dal rapporto è la sistematica opera di sfruttamento della manodopera migrante, specialmente in settori quali l’agricoltura, il tessile e la logistica. È un fenomeno risaputo, alimentato attivamente e consapevole da precise scelte politiche: Governo dopo Governo, in maniera sostanzialmente indipendente dal colore, si adottano provvedimenti che criminalizzano le migrazioni. Il migrante, reso ‘illegale’, è ancora più vulnerabile e alla mercé del padrone, che alimenta i suoi profitti grazie a “condizioni abitative e lavorative disumane” e salari da fame, protetto dalla “precaria situazione legale” dello sfruttato, che non può avvalersi neanche dalle forme minime di tutela previste per lavoratori ed esseri umani ‘regolari’. Con il contorno della canea aizzata dal Salvini di turno, che chiede ulteriori restrizioni per poter mettere a disposizione dei suoi (di Salvini) padroni una manodopera ancora più indebolita, frammentata e disperata. Il rapporto mette inoltre in luce come il Governo e le pubbliche autorità siano carenti anche nel fare rispettare le leggi esistenti a tutela del lavoro e nel controllare realmente le imprese, lasciando quindi sostanzialmente mano libera allo sfruttatore nello stabilire da sé le regole del gioco sul posto di lavoro e permettendo a “produttori e commercianti di trarre beneficio dall’impiego di forza lavoro sfruttata e a buon mercato”. (...) Un sistema economico fondato sulla ricerca del profitto ha bisogno strutturale dello sfruttamento, dove con questa parola non si intende un concetto astratto e lontano nello spazio e nel tempo, ma una serie di fenomeni concreti, quotidiani e drammaticamente banali: dal lavoratore migrante costretto a vivere in ghetti e baracche e che raccoglie pomodori per pochi centesimi al chilo; al rider che lavora a cottimo; dall’operaio della logistica stritolato da ritmi di produzione disumani; alla lavoratrice ricattata e pagata di meno del collega uomo a parità di impiego; fino ad arrivare al depredamento dell’ambiente e delle sue risorse. Eccola la normalità, la prassi quotidiana del capitalismo, di un capitalismo neoliberale ormai normalizzato nelle sue feroci regole da tre decenni di riformismo al rovescio che hanno minato le fondamenta del diritto del lavoro e dello stato sociale. Eccola la normalità cui si vorrebbe tornare dopo la lunga parentesi di una pandemia che non ha fatto altro che infierire su un organismo sociale già gravemente malato e marcescente, dove svalorizzazione e sfruttamento del lavoro, ritmi di lavoro soverchianti e salari da fame o del tutto inadeguati ad una vita dignitosa erano da molti anni divenute le regole generale insindacabili. È proprio per questa ragione che la lotta contro le “condizioni abitative e lavorative disumane” a cui viene sottoposta la forza lavoro migrante, la difesa dell’ambiente e della natura, il contrasto alla precarietà e ai bassi salari devono essere le parti costitutive di uno stesso, unico progetto politico, che ha come obiettivo e nemico non soltanto una particolare forma degenerativa ed estrema del disagio e dello sfruttamento, ma un sistema economico che strutturalmente produce miseria e che prospera nelle divisioni artificiali tra gli sfruttati.
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generalevannacci · 5 months
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Arezzo elegge sindaco un topo di fogna (neo)fascista (e Pistoiese tra l'altro) figlio di un topo di fogna fascista che aderì alla Repubblica Di Salò senza mai rinnegare quella scelta e si ritrova a festeggiarne i cent'anni dalla nascita in consiglio comunale.
Una nazione a rovescio, una nazione piena di topi di fogna.
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generalevannacci · 4 months
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Una nazione a rovescio...
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generalevannacci · 5 months
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Una nazione a rovescio
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generalevannacci · 5 months
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Un gioielliere viene rapinato da tre imbecilli che si improvvisano ladri (il che non li assolve né dall'essere ladri né dall'essere imbecilli), armati di armi giocattolo a cui hanno tolto il tappo rosso.
Durante la rapina minacciano di morte il gioielliere e la moglie, poi ottenuto il bottino fuggono ma siccome sono ladri improvvisati vengono raggiunti dal gioielliere armato con un'arma vera che è autorizzato a detenere solo ed esclusivamente nel suo negozio.
Il gioielliere spara e non per difesa ma per recuperare il maltolto e per vendicarsi delle minacce oltre che del furto.
Due restano morti e uno ferito. Ad uno dei morti a terra, il gioielliere sferra dei calci.
In tribunale il gioielliere viene riconosciuto colpevole per avere sparato non per difendersi e la cosa mi pare evidente.
Quando lo ha fatto non era in pericolo di vita lui e nemmeno la moglie o altri suoi cari o collaboratori.
O meglio, in pericolo erano solo i passanti che avrebbero potuto trovarsi sulla traiettoria dei proiettili.
Gli danno diciassette anni e non essendo un avvocato non mi spingo a dire che siano stati troppi o troppo pochi.
Potrei scrivere qui le mie impressioni in merito all'entità della condanna ma lascerebbero il tempo che trovano o potrei parlarne al bar Seventyfive e sarebbe tempo ancora più sprecato.
Il gioielliere è stato giudicato e condannato secondo la legge italiana che i giudici sono tenuti ad applicare, per giusta o ingiusta che sia. Punto.
Il gioielliere è stato condannato da giudici che hanno esaminato dei video girati al momento della rapina, sia all'interno della gioielleria che all'esterno, quindi non solo sulla base di testimonianze o dei sentito dire.
Il gioielliere si ritiene condannato ingiustamente e incolpa non solo i giudici del suo processo o le leggi ingiuste che lo hanno visto colpevole ma addirittura incolpa "alcune frange del CSM".
Oggi la notizia spopola nei social e tanta gente si schiera con il gioielliere che viene ritenuto da alcuni perfino un eroe.
E fin qui ci può stare. Quello che non ci sta è che come il gioielliere incolpa alcune frange del CSM, la gente sui social che lo acclama, se la prenda con giudici, governo, leggi, cazzi e sdazzi, insomma con tutto il sistema democratico che regge la Repubblica dal 1946.
Poi naturalmente arriva lui, il capitone e tutte le 💩💩💩 del suo partito di 💩.
Da sempre Salvini e tutte le 💩💩💩 leghiste stracciano le palle con la difesa sempre legittima, anche quando sparacchi in mezzo a una strada, rischiando di colpire non solo i ladri ma pure i passanti.
Vogliono più armi e meno storie se vengono usate a cazzo di cane, che siano i cacciatori nelle campagne altrui, piuttosto che i gioiellieri che subiscono una rapina e si mettono a sparare tra la gente per strada.
Quello che non ci sta è che un partito politico e in prima persona il suo segretario, continuino a fare politica, o meglio a fare propaganda politica in questo modo, sfruttando drammi come questo e fingendo di non essere al governo di questa "nazione al contrario" da decenni.
Quello che non ci sta è che la lega continui ad avere poco meno del 10% di voti, stando agli ultimi sondaggi e che tanti coglioni continuino a credere alle puttanate del capitone e della schiera dei suoi scherani.
Ma se così non fosse, l'Italia non sarebbe una nazione al contrario.
PS: una cosa mi scappa, non riesco proprio a tenerla. Oltre alla condanna il gioielliere, in base alla sentenza, deve risarcire le sue vittime con più di quattrocentomila euro. Mi pare una puttanata, sempre tenendo conto di non essere un avvocato: praticamente i rapinatori (magari non proprio loro ma le loro famiglie) hanno ottenuto un risarcimento superiore all'entità del tentato furto. Se si facevano sparare direttamente facevano prima. Ma siamo una nazione a rovescio, per cui giusto così...
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generalevannacci · 1 month
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Una nazione a rovescio, colpevole per le morti in mare che colpisce i soccorritori e finanzia gli assassini...
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