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Alzi la mano chi, di voi fanciulle, non l'ha mai fatto.
No, non sto pensando a quello che immaginate. Niente che non si possa descrivere in un post pubblicato on line.
Mi riferisco, piuttosto, al fatto di indossare qualcosa preso in prestito dall'armadio del vostro lui. Babbo, marito, fidanzato; poco importa.
La moda ci viene in soccorso. E se anche non siamo convinte di ciò che stiamo facendo, le ultime tendenze sembrano strizzarci l'occhio dalle vetrine dei negozi o dagli schermi dei pc sintonizzati sui nostri siti di riferimento per lo shopping on line; come a dirci “ma sì, almeno provaci… con tutti questi maglioni over size chi vuoi che si accorga che ciò che indossi proviene da un armadio maschile?”
Personalmente ciò che ha da sempre attirato la mia attenzione in fatto di moda maschile è la cravatta.
Considerata da alcuni uno status simbol - sinonimo per eccellenza del potere - da altri viene vista semplicemente come l'accessorio indispensabile di un completo elegante oppure come un necessario compromesso nella vita lavorativa di tutti i giorni.
E noi ladies, come possiamo sfruttare questo accessorio del mondo maschile per rendere i nostri outfits più interessanti?
Io amo associare la cravatta agli outfits più semplici, proprio per renderli originali.
Camicia bianca, jeans - preferibilmente di una tonalità non troppo chiara - blazer; e il gioco è fatto. Per rendere l'outfit più divertente si può giocare sui colori, proprio partendo dalla protagonista. La cravatta, appunto.
Tinta unita, a stampa, a righe, di tonalità più forti o color pastello; poco importa.
Ciò che conta è che il suo colore predominante si ripercuota sugli accessori.

Volete giocare con la vostra femminilità?Abbinate la cravatta ad una gonna a ruota, camicia e maglioncino e accompagnate il tutto con un paio di stringate o mocassino.

Se invece volete rendere più sensuale il vostro look optate per una gonna lunga, magari anche a vita alta in modo da slanciare ulteriormente la figura, e scegliete uno stivaletto con tacco a spillo che si intraveda mentre camminate.
L'effetto sarà assicurato.

(Ph. Pinterest)
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Non è importante rimanere attaccati alla vita con ostinazione, come fa la cozza con lo scoglio. È importante esserci con la voglia e la consapevolezza di voler lasciare qualcosa di positivo nelle persone che restano. Come le sensazioni positive nel ricordare e il sorriso che nasce spontaneo nel momento in cui lo fai. Ecco. Se già si sorride nel ricordare qualcuno significa che ha lasciato un segno positivo nella tua vita. Non è importante rimanere attaccati alla vita con ostinazione se nessuno ti ricorderà volentieri o se la tua assenza non farà nessuna differenza. Non avrà avuto molto senso esserci se la tua assenza non cambierà la vita delle persone che ti sono state vicine. Se la tua mancanza non si farà sentire. Non avrà avuto molto senso esserci se, per chi resta, sarà comunque tutto uguale. Se questo dovesse accadere significa che avrai sprecato un'occasione importante. E se non riesci neppure a rendertene conto quando sei ancora in tempo per cambiare le cose, allora significa che non ne vale veramente la pena. Va bene così ma ognuno dovrà prendere la sua strada. Qualcuno un giorno mi ha detto “chi c'è stato, resta. Indipendentemente dalla morte e dalla sua assenza fisica. Resta dentro di noi“. Non c'è cosa che considero più vera, adesso.
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Ho sempre amato la primavera.
È sempre stata la mia stagione preferita. Il mese di marzo in particolar modo; complice il cambio dell'ora e il giorno del mio compleanno.
Da bambina e fino agli anni delle superiori riservavo un posto speciale nel mio cuore anche per l'estate perché voleva dire uscire la sera; e poco importava se si trattava semplicemente di giocare a nascondino nel cortile sotto casa.
Estate voleva dire passare serate intere a contare le lucciole che illuminavano a intermittenza il buio della notte o stare sdraiati in spiaggia con il naso all'insù aspettando una stella cadente.
Estate voleva dire uscire nel primo pomeriggio per andare al mare e rientrare all'ora di cena. Estate era andare a letto tardi la sera e svegliarsi tardi la mattina. Era il profumo della crema abbronzante sulla pelle, quello del salmastro nell'aria e il sapore del sale sulle labbra, anche dopo aver fatto la doccia.
Estate voleva dire poter lasciare asciugare i capelli all'aria; che tanto era calda quasi quanto il phon.
Crescendo, però, cambiano le abitudini. Cambia la vita o semplicemente cambiamo noi.
E allora ecco che riscopri cose che fino a qualche anno prima avevano il potere di mandandarti letteralmente in crisi; come il cambio dell'ora, per esempio che assume oggi connotati completamente diversi.
L'arrivo dell'autunno ti fa riscoprire parti di te che credevi non esistessero.
E così aspetti con piacere di vedere le giornate accorciarsi. Te ne accorgi dalla sensazione che provi nel vedere la luce che giorno dopo giorno diventa sempre meno accecante. Sempre meno fastidiosa.
Più a portata di anima.
E allora ecco che attendi con pazienza il piacere del buio perché sai che, tanto, arriverà ad avvolgenti nuovamente.
Ecco che aspetti di vedere accendersi i lampioni nelle strade; uno ad uno con la loro inconfondibile luce color arancio e lasci che ti indichino la strada come fosse un percorso segreto da seguire.
Ecco che ti lasci incantare dai colori di un tramonto che solo un cielo autunnale può regalarti.
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Poche cose hanno il potere di farmi tornare indietro nel tempo.
Può succedere con alcuni profumi.
Quello del bagnoschiuma “Pino Silvestre” - la bottiglia verde e il tappo marrone che aveva la forma di una pigna - per esempio, mi riporta immediatamente alla mia infanzia e al bagno serale della domenica. Mia mamma riempiva quasi fino al bordo la vasca con l'acqua calda e poi versava la boccetta di bagnoschiuma. Immediatamente nella stanza si sprigionava il suo classico profumo e la vasca si gonfiava di bolle di sapone.
Oppure il profumo del caffè. Quello “vero”, però. Fatto con la moka; quando ancora le cialde non esistevano neppure. Dopo pranzo mio babbo lo prendeva sempre. Allora mia mamma smontava la macchinetta, riempiva di acqua calda la base e nel filtro metteva il caffè macinato. Il profumo si sentiva già solo aprendo il contenitore di latta nel quale era solito sistemarlo “per non fargli perdere l'aroma”. Così diceva lei. Una volta al fuoco bastava qualche minuto, prima di sentire l'inconfondibile borbottio del caffè che saliva e insieme a lui, anche il suo profumo.
E poi, i suoni…
Quello delle rotelle dei pattini sull'asfalto, per esempio. E proprio ieri sera l'ho potuto riascoltare grazie al primo saggio di pattinaggio della mia Principessa. È un suono inconfondibile per me. Ho passato ore e ore e ancora ore sui pattini a rotelle quando ero piccola. Ho imparato da sola. Autodidatta, come tutti quelli della mia generazione hanno fatto per la maggior parte degli sport praticati. Io e due mie amiche d'infanzia calzavamo i nostri stivaletti a rotelle e via a macinare chilometri. La nostra fortuna era avere a disposizione un grande parcheggio fuori casa. E lì provavamo i passi, i salti, le acrobazie da presentare ai nostri genitori durante la recita serale.
Vedere la mia Principessa, ieri sera, emozionata e concentratissima mentre eseguiva le sequenze dei passi imparati in così poco tempo ha portato a galla, nella mia mente, i miei bellissimi ricordi. E con loro tutte le emozioni provate nell'esibirsi davanti ad un pubblico. Fosse anche solo quello composto dai propri genitori.
Ho visto i suoi occhi che mi cercavano in attesa della mia approvazione.
Ho visto la concentrazione nell'eseguire i suoi passi e nel seguire quelli delle sue compagne.
Ho visto come guardava le esibizioni delle bambine più grandi. E in quegli sguardi ho visto la volontà di imparare per diventare come loro.
Ho visto la sua gioia quando a fine saggio le hanno lasciate libere di pattinare in pista. Sembrava volare…
Ho visto me attraverso lei.
Semplicemente…
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L'intramontabilita' dei tramonti.
Cerco di alzarmi dal letto ma sento ancora la stanchezza nonostante le otto ore di sonno ininterrotto della scorsa notte. Immediatamente i pensieri fanno capolino nella mia mente. Bussano alla porta della coscienza appena sveglia, chiedendo di entrare. Li ricaccio via. Non ora. Adesso devo solo trovare la forza di alzarmi da questo letto ancora caldo di me.
Ripenso all'ultima seduta.
Abbiamo parlato dei tramonti. Di quanto mi piaccia osservarli, fotografarli, riempirmene gli occhi e il cuore.
Ho raccontato uno dei ricordi più belli della mia infanzia. Quando da bambina, nelle sere d'estate, mi affacciavo al balcone di casa ad osservare il tramonto, in attesa della cena.
Ne scrutavo i colori. Ogni sera diversi dalla sera precedente. Una tavolozza dalle mille sfaccettature.
Ascoltavo il verso delle rondini in volo. A volte erano così vicine che sembrava di poterle afferrare. Ricordo perfino i miei pensieri di allora. Di quanto mi sarebbe piaciuto provare a essere una di loro per qualche minuto. Solo per capire che sensazione si provi ad essere liberi in un cielo infinito. Le ho sempre invidiate per questo.
E credo derivi da qui il mio incanto nell'osservare il volo degli aerei - seguirne la scia fino a vederla cancellarsi lentamente come il segno di una matita sul foglio - chiedermi dove stiano andando e immaginare i volti e le storie delle persone che trasporta.
E poi ancora la forma delle nuvole e il provare a dare loro un senso compiuto; insomma tutto ciò che un cielo al tramonto può riservare di magico.
Credo che non ci si stanchi mai della bellezza dei ricordi e che sia una continua ricerca di essa anche quando non ce ne rendiamo conto; anche quando sembra che una giornata ci stia scappando via troppo velocemente. Lei è comunque sempre presente come una compagna silenziosa e paziente che attende di venire allo scoperto.
E allora ritorno sul quel balcone. Ritorno alla me bambina che osserva il tramonto e se ne lascia incantare. Ed è come avere la possibilità di rivivere il passato infinite volte.
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Giornate importanti
Quelle da ricordare. Questa mattina la Principessa si è svegliata senza il suo amato "dentino ballerino". Era già da qualche settimana che si ostinava a ballare soltanto, senza mai decidersi a cadere. Eppure si sa, ogni ballerino prima o poi cade. E lui ha deciso di farlo questa mattina. Mi ha chiamata dal suo letto tutta eccitata per la novità. Appena entrata ha gridato "Mamma, guarda... è caduto il dentino!" , mostrandomi fiera il suo piccolo trofeo. Era contenta. Contenta di aver fatto finalmente un piccolo passo avanti verso il suo diventare "grande". "Adesso sono un pochino più grande di ieri " mi ha detto entusiasta. L'ho abbracciata forte. La mia piccola-grande Principessa.
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Tra le sue braccia
Mi guardo attorno e ancora non mi sembra possibile di essere qui. Mi guardo attorno e vedo solo centinaia di persone che mi passano accanto veloci e senza neppure sfiorarmi. A guardarli bene, sembra che camminino su dei binari immaginari tanta è la loro abilità nell'evitare di urtarsi a vicenda. Mi guardo attorno e mi rendo conto di essere davvero a New York. La Grand Central Station mi appare in tutto il suo splendore: il soffitto a volta decorato con una mappa stellare, le grandi vetrate laterali, l'enorme bandiera a stelle e strisce che scende dal soffitto a testimoniare l'orgoglio americano ferito dagli attentati dell'undici settembre, il punto informazioni, forse, più caratteristico al mondo riconoscibile dall'orologio a quattro facce che lo sovrasta e che adesso segna le nove del mattino. Appena le nove del mattino e lei è già un pulsare di visi, occhi, voci, idiomi, colori, profumi che si mescolano fra loro perfettamente. Mi guardo attorno e lo vedo venirmi incontro con i biglietti della metro tra le mani. Abbiamo deciso di venire a New York per prenderci una pausa da tutti i nostri giorni; per dare finalmente alla nostra favola tutto quello che si merita. Prendiamo la metro, destinazione Columbus Circle. L'albergo scelto si chiama Mandarin Hotel, nellUpper West Side. L'abbiamo scelto per il nome - ci sembrava simpatico - e ovviamente per la posizione: quarantotto suite panoramiche che si affacciano su Central Park e sullo skyline di Manhattan. In questo periodo dell'anno uno dei motivi per cui vale la pena venire a New York è proprio Central Park o come lo chiamano i newyorchesi "Il Giardino della Città". È impossibile non rimanerne estasiati perché il verde delle foglie sugli alberi si trasforma in mille gradazioni di giallo, arancio, rosso fino ad arrivare al marrone più intenso. Oggi l'aria è fredda tanto quanto basta per stare all'aperto senza congelare, così decidiamo di sfidare il vento dell'ottantaseiesimo piano dell'Empire State Building. Ci incamminiamo sulla strada per eccellenza di questa città, la Fifth Avenue, fino all'incrocio con la trentaquattresima. Mentre camminiamo, sfilano davanti ai nostri occhi le più importanti marche del lusso italiano. Il traffico di pedoni sul marciapiede sfida quello delle auto sulla strada ed è solo quando i semafori segnano il rosso e tutto si ferma che ci si rende veramente conto della quantità di taxi presenti; una flotta di yellow-cab pronta ad esaudire ogni tua voglia di spostamento. Senza neppure rendercene conto arriviamo a destinazione e sul marciapiede la coda di gente in attesa di salire è già lunga ma tra baci, carezze e risate complici per noi il tempo passa in fretta e in ascensore, a oltre trecentosessanta metri al minuto, ci ritroviamo catapultati sulla terrazza panoramica. E lì, con il vento gelido che ti accarezza la faccia e ti fa lacrimare gli occhi, il cuore si ferma e perde momentaneamente il battito tanta è la bellezza del panorama. In effetti, non si distingue con precisione il momento esatto in cui le lacrime scese per il freddo, lasciano il posto a quelle provocate dall'emozione. Tant'è, che sono necessari alcuni secondi per rendersi veramente conto di essere sul tetto del mondo. Sarà stato il freddo pungente o la scarica di emozioni vissute, il fatto è che abbiamo bisogno di una pausa. Proseguiamo lungo la Fifth Avenue e arriviamo all'incrocio con la quattordicesima, la imbocchiamo e ci dirigiamo verso il Greenwich Village. Qui il ritmo rallenta, agli angoli delle strade è facile trovare cafe', negozietti tipici e piccole botteghe. Ci fermiamo al "Cuba", un ristorante che offre cucina cubana. Il bello di essere a New York è che puoi trovare tutto ciò che vuoi; anche un quartiere stile europeo dove mangiare un ottimo aijaco, tipico piatto nazionale cubano. Usciti dal locale, prendiamo la linea rossa della metro e da Christopher Street-Sheridan Square con sole cinque fermate siamo a Times Square. Se sull'Empire si ha l'impressione di essere sul tetto del mondo, a Times Square ci si sente al centro. Un centro fatto di mille luci colorate accese giorno e notte, schermi LCD perennemente in funzione attaccati alle pareti dei grattacieli come fossero quadri in una stanza. All'inizio si rimane storditi perché non si sa da che parte guardare; c'è troppo di tutto. Troppa luce persino di giorno, troppa gente sui marciapiedi, troppi negozi, Poi l'attenzione si concentra su ogni minimo dettaglio e tutto è perfettamente incastonato, come un puzzle a grandezza naturale. È qui che ogni Capodanno la famosa palla argentata cade dal tetto del One Times Square. È qui che le persone si lasciano alle spalle il passato ed entrano nel futuro scambiandosi un bacio. Ci scopriamo stanchi di tutto quel camminare, guardare, scoprire, rimanere a bocca aperta e senza fiato. Adesso abbiamo bisogno di noi. Sauna, palestra, spa, centro benessere e piscina coperta sono solo alcuni dei servizi offerti dall'albergo. Noi scegliamo l'ultima; una piscina all'ultimo piano completamente circondata da vetrate. Essendo la vigilia del giorno del ringraziamento, in molti si sono riversati nelle strade della Grande Mela a festeggiare. La troviamo quindi deserta e incredibilmente romantica. L'acqua è calda, le luci sono soffuse e incastonate nel bordo della vasca ci sono candele profumate che emanano nell'aria un dolcissimo profumo di vaniglia. Se non fosse la realtà, potrebbe somigliare alla scena di un film. E invece no. Siamo noi due, la nostra storia, il nostro amore ed è chiaro a entrambi che non abbiamo bisogno di niente di più. I giorni passano inesorabilmente. Me ne rendo conto ora più che mai mentre, seduta sul letto, lo osservo dormire sdraiato al mio fianco. La brezza sposta lentamente le tende bianche; sembra che danzino sulle note di una musica non udibile dall'orecchio umano. Lo osservo di nuovo. Si muove lento tra le lenzuola e con gli occhi chiusi allunga la mano, cercandomi. Io mi lascio trovare. Anche oggi è una bellissima giornata di sole e la temperatura è perfetta per godersi una colazione tipicamente americana in terrazza. "Ti sei divertita ieri sera?" mi chiede portandosi alla bocca un muffin al cioccolato. Lo guardo sorridendo perchè so a quale parte della serata si sta riferendo. Il suo smoking nero, il mio vestito da sera con lo strascico, la Boheme, i suoi incredibili costumi, il suo magico allestimento, il Metropolitan Opera House, le sue splendide scalinate di marmo, i chilometri di tappeti rossi, i raffinati lampadari di cristallo che vengono sollevati fino al soffitto poco prima di ogni spettacolo. Mi risveglia il suono della sua voce. "Secondo te dove vanno?" mi chiede sorridendo con malizia. Lungo la strada per l'albergo, passeggiando nella zona sud di Central Park, abbiamo cominciato a parlare di libri e ci è venuto naturale pensare entrambi a "Il Giovane Holden". E proprio come il suo protagonista ci siamo chiesti dove andassero le anatre quando d'inverno il lago gela. La fantasia ci ha portato, con loro, in luoghi immaginari. La mattina seguente è trascorsa tranquilla a spasso tra i musei e nel pomeriggio abbiamo deciso di fermarci a mangiare al Brooklyn Bridge Park. Ci ha fatto compagnia una vista mozzafiato del ponte di Brooklyn e abbiamo percorso a piedi i sentieri lungo le rive dell'Hudson godendoci l'ennesima giornata di sole e di relax; in vista della serata che abbiamo deciso di dedicarci. "Cielo Club". Meat Packing District. Atmosfera accogliente, ottima musica e fiumi di champagne hanno fatto da cornice alla nostra ultima serata. Ed eccoci qui. Abbiamo cercato di esorcizzare il momento con ogni mezzo ma inesorabile ce lo siamo trovati davanti. Ci incamminiamo verso i binari e aspettiamo con lo sguardo perso nel vuoto, il treno che ci porterà all'aeroporto e infine a casa. Non abbiamo il coraggio di dire nulla forse per la paura di sciupare tutto quello che abbiamo vissuto insieme. So che anche lui vorrebbe che il tempo si fermasse adesso. Siamo risvegliati dal passaggio di un treno. È stato un attimo. Come quando ricevi una scossa improvvisa, hai un brivido, ti si accende un'idea nella testa. In quel preciso istante il silenzio che ci stava circondando è stato rotto magicamente, come fosse un incantesimo, da una sola parola: "facciamolo!". Sono passati mesi da quel momento e come se fosse lo strano scherzo del destino, oggi, ci ritroviamo ancora sulle scale mobili di una stazione metropolitana newyorchese. Quella sera, guardandoci, abbiamo capito che non potevamo lasciare che finisse tutto così; come termina una qualsiasi vacanza. Non potevamo tornare a casa come se nulla fosse successo. Volevamo che ogni dettaglio diventasse la nostra quotidianità e abbiamo deciso di rimanere per sempre. Per sempre New York. Per sempre insieme. Per sempre noi tre. Guardiamo oltre la grande vetrata, sta nevicando. Mi stringe tenendomi stretta tra le sue braccia e la sua mano si appoggia leggera sulla mia pancia. Siamo un incastro perfetto. Una sensazione unica. In momenti come questo ti rendi conto che basta poco per essere felici.
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"La prima stella della sera"
Trovò riparo dalla pioggia nella sala d’attesa della stazione ferroviaria. Entrò di corsa riparandosi la testa con un vecchio giornale e chiuse la porta alle sue spalle. Appoggiato allo stipite, osservava la pioggia cadere a scrosci e il cielo illuminarsi a giorno. All’orizzonte la furia di quello che sembrava il temporale più violento mai scoppiato. Si sedette sull’unica panchina presente nella stanza guardandosi attorno. La vecchia biglietteria di legno, le bacheche con gli orari dei treni e una panchina di ferro erano le uniche presenze attorno a lui. Esausto alzò al cielo gli occhi gonfi di lacrime. Si sentiva esattamente come lui, carico di una rabbia troppo a lungo repressa che chiedeva di essere scaricata come fa la saetta quando scende in picchiata sulla terra e libera la sua energia. Avrebbe voluto essere uno di quei lampi bianchi che squarciavano il buio della notte. Avrebbe voluto poter cancellare tutto il dolore che aveva dentro, urlandolo, esattamente come fa il tuono. Nessuna di queste strade, però, gli era concessa. Quale essere umano doveva trovare dentro di se la forza per capire tutto ciò che era successo; dentro di se e tra le pagine di quel diario che stringeva tra le mani. Lo aprì all’ultima pagina e cominciò a leggere. Oggi è stata una di quelle giornate che, nonostante tutto, saranno ricordate. Sono arrivata – non so se finalmente o purtroppo – a quello che ci si aspettava sarebbe successo presto. Tutti intorno a me hanno cercato di minimizzare con frasi di circostanza. “Sarà solo per qualche giorno”, “il tempo necessario a rimetterti in forze”, “hai perso troppo peso, devi essere nutrita e loro sanno come farlo in fretta così che tu possa tornare quella di prima”. Ma gli occhi non tradiscono. Loro non sanno mentire come invece fanno le parole. Gli occhi parlano a chi li sa osservare con attenzione ed io ho dovuto imparare a farlo con una maestria che credevo di non possedere, prima. Prima che tutto questo avesse inizio. Quante volte ne abbiamo parlato durante le nostre chiacchierate notturne, circondati dai libri e da un pianoforte muto che ci osservava in un angolo. Mi dicevi di non pensarci, di non accanirmi contro quel “prima” e quel “dopo”. Esisteva solo un “adesso” da affrontare per andare avanti nel migliore dei modi. “Non sarai mai più quella di prima, a prescindere da ciò che ti è successo”. Queste sono state le tue parole; quelle che conservo con più affetto e che mi hanno aiutato ad arrivare fino ad oggi. Io sapevo che ci sarebbe stato un “oggi” da dover guardare negli occhi; a dispetto di quanti intorno a me facevano di tutto per non pensarci, credendo così di riuscire ad allontanarlo davvero dal mio futuro. E invece sono qui. Oggi. Adesso. E ho un ago nel braccio e la mascherina verde dell’ossigeno sulla bocca. Sai, la sera che per la prima volta ti ho visto entrare nella mia camera ben oltre l’orario di visita ho pensato fosse stato per caso. Credevo che gli impegni di lavoro durante la giornata non ti avessero permesso di arrivare prima; come tutti gli altri. Poi ho avuto la conferma che tu non sei come tutti gli altri e che il tuo arrivare quando scende il silenzio e il buio nelle altre camere, sia stata una scelta voluta. Ho imparato a riconoscere il suono dei tuoi passi lungo il corridoio. Un suono così diverso e confortevole rispetto a quello delle infermiere e dei medici che si affrettano a lasciare il posto ai colleghi del turno di notte. I tuoi passi sono lievi e non hanno nessuna fretta di arrivare. Infondono tranquillità e quando li sento in lontananza, appoggio la testa sul cuscino, chiudo gli occhi e mi godo quel momento. E’ per vivere quell’attimo che sopporto tutta la fatica, il dolore, la tristezza e la paura della giornata. Mi accompagna la certezza che quel suono le farà sparire all’istante tanto da chiedermi se ci siano state davvero o fossero, invece, solo opera della mia testa satura di troppi antidolorifici. Anche le infermiere, ormai, hanno imparato a conoscerti e non si stupiscono più di questo nostro rituale notturno. Anzi, è stata proprio Cristina - il mio angelo in camice bianco – a suggerirci l’idea di utilizzare un codice segreto solo nostro affinché tu possa capire se sono in condizione di ricevere visite. La tua paura innata di disturbarmi ti ha fatto accettare subito l’idea e insieme abbiamo deciso che la luce accesa della mia stanza sarebbe stata il segnale segreto. Dalla strada tu avresti potuto facilmente capire se era il caso, o meno, di salire. E così è sempre stato. Almeno fino ad oggi. Ho deciso di scriverti ogni giorno fino a quando mi sarà possibile farlo, fino a quando il cancro me ne darà la possibilità. Te lo devo per tutto ciò che hai fatto per me e per quello che ancora stai facendo e so che farai in futuro. Da quando l’ho scoperto, tu ci sei sempre stato e mi hai accompagnato e sostenuto in tutto ciò che mio malgrado ho dovuto affrontare. Hai allontanato da me la paura che mi attanagliava all’inizio quando ancora non sapevo bene a che cosa sarei dovuta andare in contro. Lo hai fatto naturalmente e incondizionatamente attraverso le parole, il sostegno e la presenza costante ma mai ingombrante. E così, hai fatto in modo che io arrivassi preparata ad affrontare le fasi della cura. Mi sei stato vicino ogni volta che dovevo subire le interminabili ore di chemioterapia e quei momenti si sono trasformati magicamente in un continuo confronto. Abbiamo parlato di musica, libri, della vita, della morte e le tue parole e il tuo entusiasmo mi entravano dentro e come un balsamo calmavano il mio malessere. Eri con me quando gli effetti delle terapie si sono presentati alla porta, puntuali come un ospite indesiderato. E nonostante tutto mi hai sempre spronato a lottare e ad andare avanti. Abbiamo pianto e riso, tanto da chiederci se fossimo improvvisamente impazziti. Abbiamo gioito insieme di ogni giornata di sole trascorsa sulla spiaggia, del mare che con il suono delle sue onde riempiva i nostri silenzi improvvisi, delle forme bizzarre che le nuvole riescono ad assumere in una giornata con troppo vento. Ci sono stati anche momenti non facili da affrontare e per questi ti chiedo scusa. Scusa per i miei improvvisi silenzi, per le mie parole non dette e per quelle che non avrei mai voluto dire ma che spinte dalla rabbia uscivano incontrollate dalla mia bocca. Scusa per la paura che a volte scaricavo su di te come si fa con una colpa di cui vogliamo liberarci per sentirci più leggeri; fosse anche solo per un istante. Scusa del buio nel quale spesso ti ho avvolto e dal quale cercavi di tirarmi fuori; invano. Avrei voluto avere tutta la vita da dedicarti. Avrei voluto avere tutto il tempo necessario a ricambiare ogni singolo giorno trascorso con me. E sarebbe stato comunque poco. Avrei voluto semplicemente avere la possibilità di esserci e viverti come ti meriteresti. So con certezza che adesso, dovunque tu sia, con questo diario tra le mani, sarai arrivato a odiarmi perché non ti ho dato la possibilità di starmi vicino, fino all’ultimo, come avresti voluto fare. C’è un motivo del perché io abbia voluto evitarti tutto questo. Credo che morire richieda la stessa fatica fisica del venire al mondo e non mi sarei mai perdonata di lasciarti come mio ultimo ricordo i miei occhi scuri e spenti, il mio respiro affannato, il mio corpo immobilizzato dalla stanchezza e l’odore che la morte si porta dietro. So di cosa sto parlando perché l’ho già attraversato, e proprio perché ti troverai a vivere ciò che io ho già provato con mia madre ti chiedo di avere fiducia in me e nelle parole che sto per scrivere. Sarai certo di non avere nessuna scelta e ti sembrerà spontaneo comportarti di conseguenza ma credimi, c’è sempre una strada da percorrere per uscirne vivi. Circondati della vita in ogni sua forma. Ascolta la musica. Balla come un matto ogni volta che sentirai la necessità di farlo. Non vergognarti di piangere all’improvviso ma ricorda di sorridere subito dopo. Torna ad ascoltare il mare e osserva le nuvole con la stessa curiosità di quando eravamo insieme. Lasciati baciare dal sole e abbandonati alla malinconia di una giornata uggiosa. Anche questo serve ad apprezzare la vita. Godi della compagnia delle persone che ti fanno stare bene. Saranno l’ancora alla quale aggrapparti quando ti sembrerà di non farcela. Io ci sarò sempre, anche se spesso dubiterai di questo e lo metterai in discussione smontando e rimontando ogni pensiero, in un rompicapo infinito e dal quale è necessario uscire per tornare a respirare liberamente. Io sarò in ogni cosa bella di cui ti circonderai. In ogni alba, in ogni tramonto, in una nuvola nel cielo, nella prima stella che vedrai la sera. E sarò così luminosa e splendente che non potrai non vedermi brillare per te. Sarò la prima giornata di primavera e l’acqua che ti rinfrescherà la pelle dal calore dell’estate. Sarò in tutto ciò che vorrai vedere se solo avrai il coraggio di guardarlo. E così facendo non sentirai più il bisogno improvviso di cercarmi altrove perché capirai che sarò davvero in ogni singolo battito del tuo cuore. Chiuse il diario, lo strinse forte al petto e tornò a osservare il cielo. Mentre scrutava le nuvole nere allontanarsi in cerca di un nuovo rifugio dove poter scaricare la loro pioggia, si chiese il perché di tutto quello che stava vivendo e se ci fosse davvero un modo per uscire vivi dal dolore. Aprì la porta, chiuse gli occhi e lasciò che l’aria gli sfiorasse il viso. Era fredda ma piacevole al contatto con la pelle. Inspirò profondamente sperando che l’energia rilasciata dal temporale appena passato potesse alleviare la paura che lo stava attanagliando. Quando riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu una piccola stella solitaria e luccicante come l’oro.
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Ci sono giorni...
che starei ore lì, seduta, a parlare. Mi siedo e inizio a raccontare mentalmente tutto ciò che mi succede. Ripercorro i giorni come fossero un film visto alla televisione. Le giornate storte, quelle che procedono lente ma tranquille, quelle che cominciano alla grande e finiscono ancora meglio, quelle spente alle quali è difficile arrivare in fondo ma ci arrivi comunque; anche solo per vedere se nel frattempo succede qualcosa. I mille stati d'animo provati. I sorrisi regalati, quelli trattenuti e quelli negati. Le "fantasie che volano libere" , quelle che "a volte fan ridere" ma che comunque "credono alle favole". E poi ci sono giorni in cui non ce la faccio. Vorrei tanto, ma il peso che sento sulle spalle è troppo forte e ho paura che, anche solo sedendomi, possa schiacciarmi a terra e non farmi rialzare più. Allora resto in piedi. In silenzio; tanto lo so che riescono a leggere anche i miei pensieri. E aspetto. Arriva un momento in cui le lacrime scendono. Ho purtroppo imparato che è impossibile trattenerle. E a quel punto devo andarmene. Ho paura che quello stato d'animo mi si incolli addosso e non mi lasci più per tutto il giorno. È infantile. E pure al limite della pazzia, me ne rendo conto. Ma del resto, come canta Morgan "a volte la follia sembra l'unica via per la felicità". So che non è una resa. Che tornerò dopo qualche giorno e allora, magari, andrà meglio.
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“Sono rientrata”. “Da dove?”. “Come non lo sai? Ho iniziato la settimana a Venezia”. “Descrivila… non ci sono mai stata”. Hai presente quando a teatro cambiano le scenografie? Ecco, a Venezia sembra di stare in un teatro a cielo aperto. In quale altro posto al mondo hai come pavimento una distesa d'acqua e tutt'intorno una città che vive quasi normalmente? Cammini per la strada e all'improvviso questa finisce e un canale prende il suo posto. Allunghi il collo oltre le mura per vedere dove va tutta quell'acqua e le uniche presenze sono le piccole barche e le gondole che lasciano la scia del loro passaggio. Ogni angolo è poesia. Ogni ponte che l'attraversa regala emozioni uniche. Il giorno e’ struggevolmente romantica. Il colore dell'acqua riflette quello del cielo e quando esce il sole, le pareti dei palazzi si illuminano. L'unico suono che ti resta impresso nella mente è lo sciabordare dell'acqua contro le mura delle case. La notte, invece, si trasforma e può diventare spaventosamente misteriosa quando viene avvolta dalla nebbia leggera che si alza come un velo dai canali. Le strade si trasformano in piccoli labirinti. I canali sono lì come a segnalare un confine da non oltrepassare. La luce dei lampioni si riflette sull'acqua creando un'atmosfera unica. Venezia è così. Unica.
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Si chiama orgoglio... di mamma!
Non sono orgogliosa di molte cose. Ma lei è veramente l'unico mio grande orgoglio e non solo perché è mia figlia. Ma perché è una bambina speciale. Oggi Asia ha visitato con noi tutta Venezia. È scesa e risalita dai suoi mille ponti senza mai lamentarsi. Ha preso traghetti come se fosse la cosa che fa ogni giorno. È salita sul campanile dell'Isola di S. Giorgio, giocato a rincorrere piccioni in una P.zza San Marco quasi allagata. Ha riso nel vedere le persone camminare a piedi nudi nell'acqua. Asia è una bambina che a nemmeno quattro anni viaggia con noi come se ne avesse quattordici. Ogni tanto si lamenta e fa i capricci ma basta sapere come attirare la sua attenzione e tutto diventa un gioco. È per questo motivo che lei viaggia con noi, viene sempre al ristorante con noi... insomma dove andiamo noi, lei c'è. E cosi a Milano, in vacanza in aereo in Calabria, a Firenze in treno, a Venezia oggi e presto a Genova a vedere l'acquario. La mia idea di famiglia è questa. Insieme. È quello che hanno fatto i miei genitori con me e mio fratello.. se potevano andare insieme a noi, si andava altrimenti si stava a casa. Insieme.
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Momenti indimenticabili
Ci sono momenti nella vita di ognuno che passano e difficilmente verranno ricordati in futuro. E ci sono momenti che, invece, vengono scolpiti nella mente. Sono indelebili e non importa quanto tempo possa trascorrere. O quanta vita ci sia passata attraverso. Te li ricordi per sempre. Io ricordo esattamente, come se fosse oggi, l'11 settembre del 2001. Ero a casa - allora vivevo ancora con i miei genitori - e stavo preparando un esame per l'Università. Era il classico pomeriggio di metà settembre. Il cielo azzurro, limpido e il sole che mi scaldava attraverso i vetri della finestra. Nella mia camera solo io, i libri aperti e la radio accesa. Ad un certo punto hanno interrotto il programma musicale dicendo che a New York stava succedendo qualcosa di irreale. Parlavano di un incidente aereo, ancora. Solo in serata e dopo molte ore di programmi no stop venne pronunciata la parola attentato. Mi sono precipitata nell'altra stanza e ho acceso la TV. E quello che ho visto è stato un aereo schiantarsi contro una delle due torri del World Trade Center e attraversarla neppure fosse fatta di burro. Da quel momento in avanti, per giorni e settimane intere, quell'immagine avrebbe occupato, a ragione, ogni spazio giornalistico televisivo e della carta stampata. Io ricordo esattamente cosa feci l'11 settembre del 2001. Piansi.
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La paura della felicità
Io ho paura della felicità. Può sembrare un paradosso ma in realtà è così. Quando qualcosa è troppo bello per essere vero o quando tutto sta andando nel migliore dei modi possibili, io mi fermo e penso "arriverà qualcosa che rovinera' tutto". È più forte di me, non ci posso fare nulla. Non mi ci faccio condizionare, però. E non lascio che questo pensiero influenzi il mio stato d'animo. Vado avanti. Vivo a pieno il mio attimo di felicità con la consapevolezza che qualcosa potrebbe mio malgrado intervenire, e portarmelo via. Il più delle volte, però, non succede nulla. La felicità si presenta, si fa vivere in tutto il suo splendore e se ne va in punta di piedi; così come è arrivata. Ma anche solo il fatto di pensare per un secondo che potrebbe intervenire qualcosa a strapparmela dalle braccia, me ne fa assoporare ancora di più la bellezza.
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Il segreto è "Pollyanna"
Sono cresciuta con i cartoni animati di Bim Bum Bam. Dalle quattro alle cinque del pomeriggio tutto intorno a me si fermava e prendeva vita solo ciò che trasmetteva la televisione. “Occhi di gatto”, “Candy Candy”, “Lovely Sara”, “Il tulipano nero ”. Chi ha la mia età sa di cosa sto parlando. Capitava, poi, che alcuni cartoni animati venissero passati anche a orari diversi; rispetto a quelli pomeridiani. Non so bene il perché ma ricordo che, per esempio, “I puffi” o “Gli snorky” venissero trasmessi prima di cena. E non sempre il tentativo di chiedere il permesso di vederli andava a buon fine. Ma tra questi uno in particolare riuscivo sempre a guardarlo. Si trattava di “Pollyana”. Ecco, adesso, a distanza di ventisette anni, credo che quel cartone mi stia salvando la vita. La storia è semplice - e pure banale, aggiungerei io. Pollyanna è una bambina di circa dieci anni che, rimasta orfana di entrambi i genitori, viene affidata alle cure di una zia ricca in quanto a soldi ma povera di sentimenti. Fin qui tutto normale. Pollyanna, però, non è una bambina come le altre. Ha una dote che definisce “Il gioco della felicità ”. Consiste nel cercare di essere felici di ciò che ci circonda, trovando sempre qualcosa di positivo. Questa sua particolarità la aiuterà a superare ogni problema; nei confronti della zia acida, prima, e con tutti quelli che incontra, poi. Ricordo che appena finiva la sigla di chiusura, andavo nella mia cameretta e ripercorrevo tutta la puntata appena vista. E naturalmente Pollyanna ero io. Ecco, come ho scritto prima, credo che - inconsciamente - quel cartone animato mi stia salvando la vita. Chi mi conosce bene sa cosa mi è successo negli ultimi anni e anche chi mi segue virtualmente può averlo intuito da ciò che spesso pubblico su Facebook o dalle diciture che accompagnano le mie fotografie su Instagram. Ebbene, incosciamente - lo giuro, altrimenti avreste il permesso di farmi ricoverare alla neuro - sto applicando alla vita, non “i puntini di sospensione” come cantava Morgan in una nota canzone, bensì “il gioco della felicità” di Pollyanna. Mi viene ormai spontaneo cercare sempre l'aspetto positivo in tutto ciò che mi circonda. Sempre. In ogni situazione, pur brutta che possa essere, mi sforzo - e spesso è veramente uno sforzo sovraumano -di cogliere l'aspetto positivo. E se proprio mi rendo conto che è una forzatura esagerata, almeno mi accontento del meno peggio. Nella mia situazione specifica, per esempio, l'essere rimasta orfana di entrambi i genitori è un qualcosa che mi ha devastata dentro e cambiata irrimediabilmente. Però… però mi hanno lasciata con un bagaglio emotivo non indifferente. E il cuore colmo di tutto l'amore che loro mi hanno trasmesso in trentacinque anni/sei anni di vita vissuta insieme. Conosco figli che, pur avendo ancora i genitori in ottima salute, non riceveranno MAI ciò che io ho ricevuto dai miei. E non parlo di condizione economica. Ma di condizione emotiva. I miei, purtroppo, se ne sono andati presto. Ed è sempre presto sia per un genitore che per un figlio, qualunque età si abbia. Ma io so che erano arrivati comunque al loro obiettivo principale di genitori. E tutta l'eredità emotiva che mi hanno lasciato, adesso, è parte di me e niente e nessuno potrà portarmela via. Quindi posso dire solo grazie alla mia mamma e al mio babbo. E ovviamente a Pollyanna.
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Il tuo posto è altrove
Non so come sia successo ma so con certezza che erano circa le diciotto del pomeriggio. Ero appena uscita dall'ufficio e camminavo tranquilla verso casa ascoltando in cuffia la mia playlist preferita. Quella del dopo lavoro. Sul cellulare ho creato playlist musicali per ogni momento della giornata e per ogni stato d'animo. Eccomi qui. Io con sneakers, jeans stretti, canotta bianca e camicia aperta. Io con gli occhiali da sole grandi e tondi, la borsa a tracolla e le mani in tasca che cammino per strada a tempo di musica. Mi sono sempre chiesta se le persone si accorgono, guardandomi, che i miei passi seguono il ritmo della canzone che sto ascoltando. Mi sentivo stranamente leggera e spensierata, complice un po' la primavera ormai alle porte e il fatto che la giornata era trascorsa senza intoppi dell'ultima ora. Non so come sia successo. Ho attraversato la strada completamente persa nei miei pensieri. Non ho sentito il suono del clacson né le urla dei passanti. Ho sentito solo un dolore atroce alle gambe e la sensazione di mille ossa in frantumi come fossero le schegge di uno specchio caduto a terra. E poi il buio più nero che si possa immaginare. Non so neppure quanto sia durato. Un secondo, un minuto, un'ora, un giorno. Credo una vita. Poi lentamente ho cominciato a sentire delle voci in lontananza, il suono della sirena e a vedere delle persone intorno a me. Credevo che fossero intorno a me. In realtà erano attorno al corpo di qualcuno che mi somigliava come una goccia d'acqua. Mi sono resa conto solo dopo qualche minuto che quella ero io e che stavo osservando tutto da fuori; come uno spettatore davanti ad uno schermo. Mi sono vista intubare e caricare veloce sull'ambulanza che è partita a sirene spiegate. Ho visto la pozza lasciata dal mio sangue sull'asfalto e la paura negli occhi di chi ha assistito a tutta la scena; ho deciso di seguirmi e di perdermi dentro questa nuova realtà parallela. Sono arrivata all'ospedale prima del mio corpo. Quello che mi permette di spostarmi non è il movimento bensì il pensiero. I medici mi hanno portato immediatamente in sala operatoria; non so quanto ci rimarrò. Tanto vale fare un giro. Giro tra corridoi e camere da letto ma tutta quella sofferenza mi fa stare male. Decido allora di andare al reparto nascite. È una cosa che faccio sempre quando sono psicologicamente a terra. Vedere quelle creature così tenere e la felicità che riescono a sprigionare in coloro che gli sono vicino, mi fa subito stare meglio. Davanti alla porta però è successo qualcosa di diverso. La mia attenzione si è spostata su una apertura laterale semi nascosta. Mi sono avvicinata e leggere la scritta che permetteva l'ingresso solo a personale autorizzato è stata una tentazione troppo forte. Ho varcato la soglia. E un altro mondo si è aperto davanti ai miei occhi. C'erano centinaia di persone in attesa. Non so bene di cosa. Pensavo fossi trasparente ai loro occhi come lo ero stata per tutti fino a quel momento. In realtà ho scoperto che non era così quando ho sentito una voce familiare. "Tu che ci fai qui?". Ho perso mia madre qualche anno fa per colpa del cancro. Dopo anni di inutile sofferenza e di perenne speranza ha deciso che era meglio andarsene che continuare a vivere così. Si è spenta in un letto di ospedale una mattina di fine aprile e da quel giorno non ho più potuto vederla, parlarle, abbracciarla. Mi sono sempre chiesta durante le mie notti insonni dove fosse, come stesse e se poteva veramente vedermi dall' alto come fanno vedere sempre nei film. Ho anche aspettato invano un suo cenno di presenza. Speravo con tutto il cuore di rientrare nella categoria dei fortunati che hanno un accesso privilegiato con l'altro mondo. Ma invano. Almeno fino ad oggi. Almeno fino a questo momento. "Mamma". Riesco a malapena a pronunciare la parola. La voce esce lenta e flebile dalle mie labbra. Non riesco ad andare oltre quel monosillabo. Continuo a fissarla. Indossa il vestito a fiori con il quale l'abbiamo salutata l'ultima volta ma il suo viso è diverso rispetto a quello che ricordavo. Sembra serena. Lei mi guarda, forse più incredula di me e continua a ripetermi che cosa ci faccio qui. Le racconto ciò che è successo, l'incidente, la corsa all'ospedale e l'entrata in sala operatoria. Il mio essere diventata improvvisamente invisibile agli occhi del mondo. O quasi. E lei sorride. Quanto fa male rivedere quel sorriso e sentirne il suono. Le chiedo dove ci troviamo e chi sono le persone intorno a noi. Mi spiega che le anime dei defunti si riuniscono spesso nei luoghi più impensabili e attendono di vedere chi varchera' il confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. "Non tutti i presenti sono ancora morti. Per qualcuno di loro c'è ancora la speranza di poter tornare indietro" "Vale anche per me? " "Per tua fortuna si, cara. Che c'è, non mi sembri contenta di ciò che ti ho appena detto". "Mi manchi, mamma. Come potrei essere contenta di sapere che forse dovrò lasciarti ancora una volta? Adesso che ci siamo ritrovate..." Mi ha sorriso come solo lei sa fare. "Hai ancora tante cose da fare, tu. Questo mondo non ti apparterrebbe, credimi. Il tuo posto è altrove". Le ho chiesto di raccontarmi tutto quello che le era successo dal momento in cui ci eravamo lasciate e mi ha a stupito sapere che stava finalmente bene e che era felice. Una felicità diversa da quella che aveva conosciuto in vita; ma era comunque felice. "Mi devi promettere che cercherai in tutti i modi di essere felice. E non preoccuparti perché quando sarà il momento torneremo a stare insieme e allora sarà per sempre". Mi è scesa una lacrima sul viso perché sapevo che mi stava salutando ancora una volta. "Promettilo" "Te lo prometto, mamma" "Adesso vai, cara. Loro ti stanno chiamando". "Chi loro? No, mamma.... non ancora.." Ma prima che potessi dire altro sono stata trascinata via con forza e intrappolata in un vortice. Ho perso conoscenza e quando mi sono risvegliata ero in un letto dell'ospedale. Intorno tutti i miei amici e familiari. Ho realizzato dopo qualche ora tutto ciò che avevo vissuto. Sapevo che non era stato un sogno perché al mio risveglio avevo un ciondolo nella mia mano. Il ciondolo della sua collana; quella che io stessa le avevo messo al collo prima di dirle addio per sempre. Oggi so con certezza che è stato solo un arrivederci.
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Seduta una panchina l'istinto mi porta a girarmi costantemente verso le scale sperando di vederti scenderle. È successo questa mattina ma so che non poteva accadere… eppure era più forte di me. Ho notato però che tutte le volte che la malinconia prende il sopravvento, i miei occhi si accorgono di ciò che li circonda e allora una semplice ragazza con un foulard in testa che sale in macchina mi fa subito pensare che ognuno ha la sua battaglia con cui convivere. La vostra non era più sostenibile. Ed è come se fosse un vostro segnale per farmi capire che nonostante tutto va bene così e di non avere paura. Andrà tutto bene.
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Io sono felice di quella che sono. Sono soddisfatta di quello che vedo quando mi guardo allo specchio. Riesco ancora a guardarmici senza dover abbassare lo sguardo. Non so quanti possano farlo con la stessa onestà. Con tutto ciò che mi porto dentro posso dirmi "grazie" ogni mattina appena mi sveglio e ogni sera quando vado a dormire. Quello che ho fatto, che faccio e che farò è solo merito della mia forza fisica e soprattutto caratteriale. E per questo devo solo ringraziare i miei genitori che me l'hanno trasmessa e lasciata in eredità. E che custodisco gelosamente. Chi ha voluto esserci, c'è stato. Chi si nasconde dietro mille scuse e tanti buoni propositi può continuare a farlo, liberamente. Non è un mio problema... non più. Spero solo che riescano a sentirsi come mi sento io. In pace con la mia coscienza. Esattamente come mi sento ogni volta che osservo questa immagine. In pace. (presso Spiaggia di Marina di Carrara)
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