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alexham
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 9 -- “Identità segreta”
Entra nel bar cercando di fare meno rumore possibile, come se in quel marasma di persone la sua presenza possa saltare particolarmente all’occhio di lei. Non appena si chiude la porta alle spalle, un giovanotto sui trent’anni scatta in piedi dal proprio tavolino proponendogli di prendere il suo posto, e non può che accettare. Forse cinque anni prima il suo onore lo avrebbe portato a declinare gentilmente l’offerta con un gesto della mano, ma a dirla tutta le sue ginocchia non sono più le stesse di una volta.
C’è confusione quella mattina. È un lunedì, per giunta il primo lunedì di rientro dalle vacanze per molti studenti e lavoratori – è normale che un bar in centro a Roma sia così pieno. Normalmente l’uomo si metterebbe a ricordare la sua giovinezza, come erano fatti i bar un tempo, ma francamente in quel momento gli sembra una cosa inutile. È troppo nervoso per essere il solito buon vecchio tizio che fa il giovanile con chi gli sta intorno, adesso non gli pare il caso. Attende che il marasma di persone davanti al bancone si liberi un po’, e intanto cerca di intravedere tra una testa e l’altra la folta chioma rossa per cui si è trovato lì quella mattina. Una volta avrebbe potuto dire anche lui di avere una chioma del genere, che adesso era stata scolorita dal tempo e dallo stress di una vita all’insegna della carriera lavorativa. Aveva passato tutta la vita a concentrarsi sul suo lavoro per un futuro stabile, e tale vita aveva finito col portarlo allo stesso punto di tutte quelle persone che si erano concesse il capriccio di avere una famiglia. Ironico.
Qualcuno gli chiede se ha bisogno che altri ordinino per lui, risponde di no. Aspetterà a sedere che scali un po’ la fila, dice. Quelli gli rammentano che se ha bisogno di qualcosa non deve indugiare a chiamare, e lo sbuffo dalle sue labbra riesce una volta per tutte ad allontanarli. Lasciatelo in pace, lasciatelo guardare. Ancora le teste sono troppe, è presto perché tutti i liceali si defilino verso la loro prima ora. Ancora cinque minuti. Solo cinque minuti.
Era il suo compleanno. Non di lui – erano passati parecchi anni dall’ultima volta in cui lo aveva festeggiato – ma di lei. Teneva un pacchetto tra le mani, contenente un libro dalla storia assolutamente neutra e potenzialmente apprezzabile da tutti. Non conosceva i suoi gusti, dopotutto l’ultima cosa che le aveva regalato era stato un ciuccio. Non si era mai preoccupato di lasciare un segno nella sua memoria, non gli era mai interessato. Era stato il cancro a convincerlo che forse non era troppo tardi, che forse lei poteva avere il desiderio di incontrarlo. O magari era solo qualcosa che diceva per convincersi di non aver sprecato una vita, chi lo sa? Sa solo che strinse le mani tra di loro, con pazienza, e attese quei maledetti cinque minuti.
« Buongiorno, mi dica. »
Si era distratto a guardare un neonato in un passeggino, testimone il suo cuore reso più dolce dalla vecchiaia, e neanche si era accorto che era stata lei stessa ad avvicinarsi al tavolino. Volta improvvisamente lo sguardo, incrociando i suoi occhi, e il primo pensiero è quanto sia diventata bella. Non credeva che sarebbe arrivato a un cliché del genere, come si vedeva nei film, ma con tutta la sincerità del mondo non gli riuscì pensare altro. I riccioli rossi – di un rosso acceso che erano anni non aveva più visto – erano raccolti in una coda scomposta, mentre le mani si asciugavano sbadatamente al grembiule legato alla vita. Gli occhi erano quelli di sua madre, di un verde acceso come pochi ne aveva visti in vita sua e che, sinceramente, non aveva mai dimenticato in trent’anni che non l’aveva più vista. Rimase in silenzio, fissando quegli occhi e sentendosi mancare il fiato.
« Signore? Sta bene? Vuole che chiami qualcuno? »
« No, no, sto bene. Grazie. » furono parole uscite in un sussurro, quasi balbettate, mentre le mani sudate cominciarono a rigirarsi il pacchetto tra le mani. Si alza in piedi, allora, e spostando frettolosamente la sedia il coraggio viene a mancare tutto d’un botto. Lascia andare bruscamente il regalo sul tavolo, mentre con l’altra mano fa uno strano cenno come a farle intendere di stare bene e di non aver bisogno di niente. La legge la preoccupazione nei suoi occhi, quella preoccupazione di chi tiene veramente alla persona che ha davanti e non lo fa per semplice cortesia. Dio, sei così bella e così gentile, come sei venuta da me?
Non dice più niente, solo esce di gran furia. Ha sbagliato tutto. Ha sbagliato a presentarsi quel giorno e ha sbagliato ad andarsene trent’anni prima. Sente ancora una volta la sua voce chiamarla dall’interno, ma improvvisamente le ginocchia non gli fanno più male. Improvvisamente è capace di tenere un passo tanto veloce da potersi allontanare dal bar con una certa velocità.
Quasi gli sembra di sentirsi chiamare alle spalle da una voce in lacrime. “Papà?” dice, eppure lui – vigliacco – fa finta di niente.
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 8 -- “Incubo”
Sai di esserti addormentato, il mondo attorno ti pare talmente strano che hai piena coscienza del fatto che tu in questo momento stia dormendo profondamente. Neanche ti ricordi di essere riuscito a sdraiarti sul letto, di essere riuscito a chiudere gli occhi, di essere riuscito a rilassare il tuo respiro talmente tanto da farti cullare da quel ritmo binario – eppure lo sai, te lo senti nelle ossa. Ormai è una sensazione che conosci troppo bene per ignorarla, quel senso di inadeguatezza e imbarazzo che circonda la tua aura in quella che sembrerebbe a tutti gli effetti essere una scena della tua vita passata. Bè, solo il fatto che tu sia di nuovo sulla montagna innevata ti dovrebbe far capire che si tratta solo di finzione, ma a quella condizione palese dei fatti tu hai sempre voluto non farci caso. Hai sempre voluto sperare che qualcosa sarebbe andato diverso, che qualcuno avrebbe cambiato qualcosa, che Aleksej si sarebbe spostato quei pochi centimetri utili a salvarlo – e infatti eccolo lì, Aleksej. È poco dietro Giuliano, Giuliano andato a parlare con qualcuno, Giuliano che ti dà le spalle mentre tu parli di qualcosa con Sandro. Di cosa parlavate? Non lo sai, non lo ricordi, non ti interessa. A te interessa Aleksej.
Il suono profondo e distorto che proviene dalle tue spalle è qualcosa di maledettamente familiare, lo hai vissuto già centinaia di volte per non sapere che cosa sia. Sei sicuro che sia stata l’aurora boreale a smuovere la montagna, a originare quel boato che improvvisamente inonda la valle – quasi da assordare tutti i presenti. Porti le mani alle orecchie, ma i passi camminano stranamente in direzione di Aleksej. Aleksej che è immobile, ma che non riesci a raggiungere. Più cammini, più lo spazio che vi divide sembra dilatarsi – quasi ti gira la testa da quanto il mondo che ti circonda sia spazialmente instabile. La valanga sta arrivando e lo sai, le lingue di fuoco verde te lo stanno dicendo chiaramente. Provi ad urlare, a farti sentire da lontano, ma il ragazzo dai capelli rossi, rossi come il sangue, ti guarda immobile, impassibile, con la morte negli occhi. Gliela vedi in fondo allo sguardo, cadaverica e minacciosa, come l’hai vista quando quegli occhi erano reali, guardavano te guardando nel vuoto ma tu eri troppo scosso per riuscire a riconoscerli. Quella non te la scorderai mai e sai che non potrai fare niente per rimediare. Allora cambi direzione, provi ad andare verso Anastasija – ti ha fatto del male, ma le vuoi ancora bene. Non puoi permetterle di scordare quale sia stata la sua vita, non se lo merita – non vuoi che scordi quanto sia stata importante per te, non vuoi che si scordi delle persone a cui vuole bene anche se tu non fai parte di queste. Non ti importa, non vuoi che scordi e basta. Però anche lei sembra allontanarsi, anche lei sembra sfuggire, e allora solo la tua famiglia è rimasta da salvare. Saresti in grado di lanciarti addosso a Giuliano a costo ti prenderti in pieno petto ciò che ha colpito lui, non indugeresti neanche un momento a farlo. Cerchi di fare uscire il suo nome dalle labbra, ma non ci riesci. Gridi, piangi, ti senti impotente mentre anche lui ti guarda senza lasciarsi raggiungere. Sai di non poter cambiare le cose, ma ci provi lo stesso. Ti devi prendere cura di loro, ti devi assicurare che vivano la loro vita, a costo che tu rinunci alla tua. Il boato alle tue spalle aumenta, è come una bestia feroce che ti sta inseguendo col fiato sul collo. Forse lo raggiungi, forse ci riesci, ancora pochi metri, soltanto alcuni centimetri –
Apri gli occhi, le mani tremanti che si stanno reggendo alla coperta addosso a te come se fosse l’appiglio più sicuro di questa terra, quel ponte che è riuscito a riportarti alla realtà. Ti sei addormentato un’altra volta. Non sai dove hai buttato la bottiglia di vodka, probabilmente da qualche parte in mezzo alla stanza – strano tu abbia scordato di nasconderla. Sospiri. È finita, puoi tornare a vivere l’inferno della vita reale. Alzi la testa ancora ansimando leggermente, ricordando che la sera prima tu e la tua famiglia avete giocato a pallate di neve. Ha vinto Giuliano, ma non importa – vederlo felice è stata la tua vittoria. Un leggero sorriso si forma sulle tue labbra, magari domani potresti andare a prendere dell’altra neve e svegliarlo con quella – dimostrargli che nonostante tutto sei ancora lo stesso Lorenzo. Un lungo sospiro esce dalle tue labbra, mentre ti passi una mano sul viso e lentamente ti tiri su dal letto. C’è un odore strano, nell’aria. Arricci il naso chiedendoti da dove provenga e non ci vuole molto per capire che sia il letto di Giuliano ad emanare quell’odore. Ha lasciato vestiti sporchi sotto il letto un’altra volta. Uno sbuffo divertito esce dalle tue labbra, mentre ti alzi velocemente per andare a togliere quella roba maleodorante – solo che sotto al letto non c’è niente. Solo in questo momento ti rendi conto di quanto le cose attorno a te stiano procedendo ad una velocità insolita, e in più quel maledetto odore è adesso diventato insopportabile. Giuliano, dove cavolo sei stato? Aggrotti la fronte, continuando ad odorare l’aria e decretando che quella puzza di marcio viene sicuramente da lì. Cercando con lo sguardo qualcosa nel buio noti quelle due gocce rosse sul cuscino. Ti bastano quelle. Con occhi terrorizzati e il fiato spezzato a metà, scosti in fretta e furia le coperte dal corpo di tuo fratello addormentato – no, non è addormentato. Gli occhi sono aperti, ti osservano con quella traccia di morte in fondo ad essi, mentre dalla bocca esce sangue. Lo hai già visto così, è qualcosa rimasto fisso nei tuoi ricordi e come allora ancora non riesci a capire che cosa abbia. Le mani tremanti vanno a posarsi sul suo petto, la destra non riesci a muoverla, la sinistra cerca disperatamente di capire cosa non vada dentro il suo corpo. Cerchi di dire qualcosa, ma riesci solo a balbettare. Vorresti dire che andrà tutto bene, ma non lo sai, e prima che tu possa elaborare qualcosa di concreto le mani insanguinate di Giuliano di afferrano per la maglia e costringono il tuo orecchio ad avvicinarsi alle loro labbra. Le parole escono con un filo di voce, arrabbiate, deluse, come il sibilo di un serpente.
“Hai fallito”
Affoghi nell’aria, svegliandoti di soprassalto e lanciandoti istintivamente a sedere sul letto. Ti senti mancare il respiro, il tuo corpo sudato trema nel buio mentre tutto intorno sembra girare. È sogno o realtà? Gli occhi si guardano intorno terrorizzati, cercando segnali che confermino il tuo essere sveglio o il contrario. Vedi Giuliano dormire, ma non può essere Giuliano. Anche prima era Giuliano, questo è solo un altro sogno – o forse no? Stai sognando o no? Senti il respiro farsi più spezzato e caotico, mentre le mani arrancano nel buio togliendo la coperta da dosso le gambe – nel movimenti senti vetro freddo spostarsi insieme ad esse, eccola la bottiglia. Fuggi dal tuo letto. È sogno o realtà? Vorresti guardare come sta Giuliano, ma hai paura di farlo. Non vuoi vederlo un’altra volta così, non reggeresti una vista simile. Vai avanti verso il bagno. È sogno o realtà? Apri velocemente il getto freddo della doccia buttandotici sotto. Se è sogno ti sveglierai, ad ogni reazione fisica improvvisa una persona si sveglia.
L’acqua gelida però continua a sgorgare, e tu senti gli abiti lentamente iniziare ad aderire al tuo corpo completamente bagnati. È reale, sei reale, è tutto reale. Chiudi gli occhi, lasciando lentamente calmare il tuo respiro, mentre ti pieghi a sedere toccando con le mani la fredda superfice della doccia. Resti lì, seduto e in silenzio, mentre quell’acqua continua a colpirti delicatamente le spalle. È reale, sei salvo. È finita anche stavolta. Sei tornato nell’inferno della vita vera.
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 7 -- “Sangue”
« Non sopporto la vista del sangue. » erano parole uscite dalle sue labbra come uno sputo, una cosa buttata lì tra le tante che si presume sarebbe stata in grado di salvarlo da quella tortura. Che non sopportasse il sangue era vero, ma che fosse quella la causa del suo indugiare un po’ meno.
« Piantala di dire cazzate. » Se l’amico era bianco come un cadavere e indugiava come un’idiota in mezzo a quel parcheggio d’ospedale, Gio sicuramente stava mantenendo i nervi saldi per entrambi. « Ha bisogno di te, non fare il coglione proprio adesso. »
« So che non mi vorrebbe »
« Siamo ben oltre ciò che le persone vogliono, adesso. » era stato fin troppo tempo a sentirla piangere per quell’idiota, e per tutti i mesi in cui lui l’aveva fatta soffrire Gio si era sempre chiesto cosa ci vedesse in quel tizio che adesso stava dando pienamente prova della sua stupidità. « Ti posso assicurare che lei ha bisogno di te, e nessun’altro. »
In realtà sembrava tutto assurdo. Da quando aveva ricevuto la chiamata quella mattina ogni cosa aveva cominciato a girare su sé stessa in maniera confusa e caotica. Il primo pensiero dopo il più totale panico era stato di andare da Luca, prenderlo e portarlo a vedere che bel lavoro aveva fatto della vita di Chiara – possibilmente con qualche schiaffo in mezzo. Di schiaffi ancora non ce ne erano stati, ma sinceramente Gio stava cominciando a sentire la mano tremare dal desiderio di dare aria alle dita. « È tutta colpa tua, quindi adesso fammi il piacere di prenderti le responsabilità delle tue azioni e vai da lei. Ha bisogno di averti vicino – magari tu non la vuoi, ma lei ti ama alla follia e non si meritava tutto quello che le hai fatto. » Ogni parole sfugge dalle labbra quasi correndo, perdendosi nell’aria che li separa e schiantandosi sul cemento di quel parcheggio asettico. “Proprio come Chiara si è schiantata contro un albero” pensò, mentre un brivido gli percorreva la schiena. « Ti prego, ha bisogno di te. »
« Piantala di dirlo, ho capito. »
« E invece non mi pare proprio. »
« Ma cosa ne vuoi sapere tu? »
Ecco, adesso ci starebbe uno schiaffo. Uno di quelli che rigirerebbero la faccia a questo idiota. Lui non ne sa niente, no. Non sa niente perché non ha diritto di saperne niente, non ha mai fatto il minimo passo avanti per avere il diritto di saperne qualcosa. Forse è proprio questa convinzione a farlo innervosire così tanto. Stringe i pugni, Gio, per evitare di mandare un’altra persona quel giorno al pronto soccorso. « Niente. Non ne so niente. »
« E allora vai a quel paese e lasciami in pace. Non ci sto a fare niente qui. » ed ecco che i piedi invertono direzione, Luca si guarda un po’ attorno con un misto di nervoso e imbarazzo prima di incamminarsi verso Dio sa dove. Probabilmente tornerà a casa a piedi. Lo guarda, Gio, mentre si allontana verso il marciapiede più vicino e quasi sembra indugiare sui suoi passi – come se in cuor suo sapesse di star sbagliando ma ormai è troppo tardi per ritirarsi e tornare indietro. Ne va del suo onore da uomo duro. Tutto per niente. Tutto per lui. Lui che non gli è mai piaciuto per ovvi motivi, lui che ha marcato il territorio da subito, lui che sapeva benissimo cosa passava per la testa di Gio e ci ha giocato sopra, lui che adesso se ne va come se quell’ultimo anno non fosse mai esistito.
E resta anche lui immobile in mezzo al parcheggio, Gio, ad aspettare chissà cosa. Ha troppa paura per andarsene e rischiare di perdere il minimo aggiornamento. Ha troppa paura per rientrare e rischiare di vederla morire davanti ai suoi occhi. Resta immobile, Gio, mentre la figura del più gran coglione dell’universo diventa all’orizzonte sempre più piccola. Man mano che aumentano i metri di distanza gli pare quasi che le spalle di Luca si facciamo più grosse, più fiere, come se sappia di star uscendo da un campo minato e possa finalmente tornare sui suoi passi. Come se niente fosse. E Gio sta immobile. Neanche si accorge di star piangendo, sta immobile.
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 6 -- “Compleanno”
Si rivolta un po’ nelle coperte prima di aprire gli occhi, come se mantenendoli chiusi quel giorno possa non arrivare mai. A dire la verità era una cosa che pensava ogni singola mattina, come se il sorgere del Sole ogni giorno fosse più una tortura che l’opportunità di nuovi incontri, nuove storie, nuove avventure. A Will non importava niente delle avventure, gli importavano solo i suoi libri e la sua tanto adorata e sudata solitudine. Comunque il giorno del suo compleanno restava sempre un’incognita particolare, un giorno che tanto era gioioso per gli altri era nero per lui.
Non è facile, dopotutto, seguire in veste di clone le orme di un uomo vissuto secoli prima – per giunta nato e morto lo stesso esatto giorno. Sembrava quasi che il buon vecchio Shakespeare gli avesse fatto quel brutto scherzo di proposito, sapendo che un giorno del 2085 qualcuno avrebbe deciso di clonarlo in un nuovo essere vivente e lo avrebbe costretto a vivere con la croce di dover ogni anno condividere nascita e morte. Dopotutto il vecchiaccio del Seicento aveva tirato le cuoia, cosa importava a lui della pressa psicologica che il clone adolescente provava in quel momento? Continua a rivoltarsi nelle morbide coperte, il ragazzo dai capelli scompigliati, e prega in silenzio che magicamente abbia dormito per tutto il ventitré aprile e sia già arrivato il ventiquattro. Quasi ci crede, quando finalmente quegli occhi sbucano dal letto e cercano assonnati la sveglia sul comodino di fianco. Quella suona, squilla e illumina brutalmente la stanza – già di suo poco illuminata a causa delle tende che coprono i raggi solari. Sono le 7:00, Will, e ti tocca alzarti.
Ah, ovviamente è il ventitré aprile. Anniversario bisesto, giorno funesto.
Fino a quel momento i suoi compleanni non erano stati un granché, anche perché si era ben visto dal far sapere in giro a quei già pochi amici quale fosse l’effettiva data. Semplicemente non voleva festeggiarlo, non ne aveva interesse e soprattutto stare al centro dell’attenzione lo metteva maledettamente a disagio.
Si veste in silenzio, anche se nella stanza entrambi i suoi coinquilini si sono già defilati per andare a colazione. Ripensandoci, gli sembra anche di averli sentiti ridere mentre uscivano dalla stanza. Probabilmente hanno architettato qualche scherzo nei suoi confronti, dopotutto non sarebbe una cosa che lo stupirebbe – in quell’accademia si aspetta sempre qualche presa in giro da parte degli altri. Apre con un movimento deciso le tende, e la luce del Sole illumina la stanza dandogli quell’atmosfera calorosa che tanto gli piace. È sempre l’ultimo a svegliarsi, dunque può approfittare di quello spettacolo mattutino in totale tranquillità e pace. Quel giorno tra l’altro i raggi sembrano essere particolarmente caldi, tanto che in fretta il piccolo scrittore capisce di doversi cambiare. Inverte il maglioncino leggero con una t-shirt e una felpa – la sua adorata felpa dietro al cui cappuccio di solito si nasconde – e apre un po’ la finestra per lasciar entrare l’aria primaverile e quei raggi così caldi. Il Sole sembra sorridergli.
Apre la porta senza pensare troppo, senza aspettarsi niente come accade tutti i giorni da ormai un paio di anni – e lo spettacolo che gli si prostra davanti lo fa quasi sobbalzare sul posto. Ghirlande, palloncini, tubetti di coriandoli che gli esplodono dal nulla in pieno viso per poi proseguire per il corridoio fino a (presume) la mensa. Allo stipite della porta è attaccato un cappellino di carta – quelli a forma di cono che andavano tanto di moda agli inizi del 2000 – insieme ad un biglietto. “Mettilo o non sei più mio amico. -L.”. Un lungo sospiro esce dalle sue labbra, mentre pensa all’unica persona che potrebbe aver elaborato una cosa del genere e che vada per un nome che inizia con “L”. Eppure è certo di non aver mai detto a Louis di quando sia il suo compleanno… Beh, può stare certo che Will quel coso in testa non lo mette. Lo stacca dal chiodo, tuttavia, e inizia nervosamente a rigirarselo tra le mani. Come si dovrebbe comportare? Nessuno ha mai celebrato il suo compleanno, che cosa fa un festeggiato? Comincia a elaborare altri scenari apocalittici che potrebbero nascere dalla mente del Re Sole, tra cui la maledizione di un regalo, di feste plateali in mezzo ai corridoi – come se quella scia di “mattoni dorati” alla Mago di Oz non sia già abbastanza – o addirittura una torta con candeline da soffiare. Qualcuno chiami aiuto. Un paio di ragazzi gli passano davanti in quel momento, sorridendo e facendogli gli auguri prima di passare oltre. Sconcertato. William Shakespeare è sconcertato. Sconcertato e terrorizzato da cos’altro può aver pensato il suo migliore amico. Sconcertato, terrorizzato, ma in fondo anche commosso. Infatti ecco che, non appena il sentimento rientra in circolo, le guance si colorano appena di una sfumatura rosea. Non si aspettava che a qualcuno interessasse fare per lui una cosa del genere. E poi il fatto che sia proprio Lou...
Una mano va a scompigliarsi i capelli – classico gesto di irrequietezza per il ragazzo – e con un altro sospiro tra le labbra, aggiunto ad un lieve sorriso che Will negherebbe anche sotto tortura, inizia timidamente a seguire la scia di coriandoli fino alla meta ignota.
O insomma la mensa, gli pare ovvio che sia la mensa.
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 5 -- “Magia”
« Ancora! Ancora! »
L’uomo prese una carta dal mazzo posizionato sul comodino della bambina. La mosse un po’ di fronte al suo viso, prima di schioccare le dita e farla sparire “magicamente”.
« Adesso dimmi dov’è andata. »
« Un mago non rivela mai i suoi trucchi, tesoro. »
Sbuffa, Camilla, incrociando le braccia e arricciando le labbra in quella strana smorfia che fin da quando aveva quattro anni ha sempre fatto sorridere il padre. « Dimmelo o non dormo. »
« Oh-ho! Adesso ci diamo anche alle minacce? », sospira, Papà – perché per lei è solo “Papà” – prima di lasciarle un bacio sulla fronte. « Se farai la brava quando sarai grande te lo dirò. » e allora, come un razzo, ecco che il cespuglio di riccioli biondi si nasconde sotto alle pesanti coperte e stringe forte forte gli occhi. Sente il materasso alleggerirsi improvvisamente, mentre il tappeto copre il rumore di passi. Solo quando sente la porta aprirsi scatta nuovamente a sedere, giusto per avere la conferma finale.
« Promesso? »
« Croce sul cuore. »
« Va bene. » e lo lascia finalmente andare, non prima di vederlo sorridere un’ultima volta. Non ci vuole niente perché la sua attenzione si sposti velocemente alla lucina a lato del letto, lasciata religiosamente accesa per paura che spunti un mostro dall’armadio come aveva visto in quel cartone animato. Roba pericolosa, non bisogna scherzarci.
Quando si sveglia, Camilla, il mazzo di carte è ancora lì accanto a lei. Con gli anni è diventato un riflesso istintivo controllare la sua presenza a fianco del letto, giusto per avere un motivo per cui alzarsi in quel mese appena passato. I compagni di classe continuano a mandarle messaggi, a chiederle come stia, se ha bisogno di qualcosa. Come se a quegli stronzi gliene sia mai fregato qualcosa di lei. Capitano le sventure e improvvisamente passi al centro dell’attenzione e alla pietà di tutti – anche chi fino al giorno prima di sparlava alle spalle. Le persone sono roba pericolosa, non bisogna scherzarci.
È da una settimana che lo riprova continuamente. Si alza, si veste, si piazza di fronte allo specchio e comincia a provarlo. Non ha mai capito come facesse, non si è mai deciso a spiegarglielo con la scusa che “non fosse ancora grande”. Camilla aveva diciannove anni, eppure suo padre si era ostinato fino all’ultimo a considerarla una bambina – e adesso a forza di perdere tempo si era portato quel segreto nella tomba. In realtà le carte erano un passatempo che era ricomparso nella sua vita solo in quegli ultimi sette giorni di agonia, sette giorni esatti in cui era rimasta sola, e da quando le aveva ritrovate nelle vecchie scatole di Papà il suo chiodo fisso era stato imparare quel trucco. Non le interessava la magia in particolare, mentre invece le interessava caldamente sentirlo un’ultima volta vicino – come se quel mazzo fosse l’unico modo per farlo. Non le riusciva capire dove sbagliasse. C’era un giro di carte che le sfuggiva, e ogni volta finiva col far cadere tutto a terra. “Maledetto”, pensava, “cosa ti costava dirmelo?”.
Arriva alla sera e, come sempre, il fiato comincia a farsi più pesante, gli occhi più stanchi e sporchi di lacrime, le mani soffrono dai crampi alle dita e sua madre continua a restare chiusa nella propria stanza – come dopotutto tutti fanno in quella casa. Butta le carte contro lo specchio, Camilla, e come da routine crolla. Crolla a terra mentre anche il mondo attorno le crolla addosso. Crolla tutto. Solo quella lucina notturna resta accesa mentre gli occhi gonfi si lasciano andare al sonno, per paura che mostri escano dall’armadio o anche solo semplicemente dalla sua mente.
Maledetto, cosa ti costava dirmelo?
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 4 -- “Inganno”
“Non avresti dovuto farlo”.
Lo pensa, Sara, mentre si guarda allo specchio della propria camera e cerca la formula magica per trasformare in un secondo il colore dei propri capelli, la sfumatura dei suoi occhi, il numero di grammi che quel maglione decisamente over-size nasconde.
Lo pensa, Lorenzo, mentre si guarda allo specchio della stanza di sua madre e cerca la formula magica per trasformare in un secondo la propria altezza, la quantità di muscoli sulle braccia, la forma del viso.
“Forse non se ne accorgerà”, pensano fissando la propria immagine. Ma lo sanno entrambi – se ne accorgerà e non sarà una bella sensazione.
Hanno cominciato a parlarsi durante quell’apocalisse che l’ultimo anno era stato – ed è stato particolarmente buffo, all’inizio. Buffo perché fino ad un giorno prima entrambi avrebbero giurato sulla propria vita che non si sarebbero mai fatti prendere da una corrispondenza messaggistica nata su una di quelle applicazioni social dove tutti e nessuno ti vede. Eppure, in qualche modo, loro si erano visti. A questo punto non ricordavano neanche più chi fosse stato il primo a scrivere – a Sara sembrava di averlo già visto da qualche parte, Lorenzo probabilmente era stato troppo occupato dal suo marasma di pensieri per notarla tutti i giorni alla stazione ferroviaria. Erano due linee parallele, Sara e Lorenzo, che avevano viaggiato alla stessa distanza per chissà quanti anni, e adesso una fatalità aveva fatto bruscamente confluire quelle linee al centro. Pochi secondi di anticipo e boom, ecco fatto il “sinistro sociale”. Nessuno dei due avrebbe mai voluto cominciare uno scambio di opinioni in quel modo – un po’ troppo intellettuali e di animo “superiore” per abbassarsi a certi parametri – eppure era accaduto lo stesso. Non sapevano come, non sapevano quando, sapevano solo che adesso si pentivano amaramente delle loro scelte. Lui era troppo alto, lei era troppo grassa, lui era troppo smilzo, lei era troppo scura di capelli. Tanto Sara lo sa, gli uomini preferiscono le bionde – così le era sfuggita una bugia qua e là. Non che avesse mentito in maniera spudorata, no, aveva semplicemente addolcito un po’ la pillola, proprio come Lorenzo aveva smussato e lucidato i propri difetti.
Alla televisione parlavano di casi simili, e non c’era rete che non li definisse assolutamente sbagliati e fuorvianti. Era un ingannare le persone, era creare aspettative e potenzialmente mettere in pericolo l’altro – dopotutto noi potremmo sempre essere degli psicopatici, no? Lorenzo ci pensa al fatto che Sara potrebbe essere una psicopatica, Sara è convinta che se anche Lorenzo lo fosse probabilmente perderebbe interesse nell’aggredirla nel momento in cui vedrebbe quei dieci chili che la ragazza si è dimenticata di citare. “Non ne vale la pena”, dirà, e ognuno se ne andrà per la propria strada come se niente fosse. Per Dio, magari la vede da fuori il locale e si evita addirittura la premura di entrare.
Wow, è alto.
Wow, è castana.
Me l’ero immaginato un po’ diverso.
Me l’ero immaginata un po’ diversa.
Forse è meglio così.
Forse è meglio così.
È carino.
È carina.
Da come me ne parlava sembrava uno di quei mostri palestrati.
Da come me ne parlava sembrava una di quelle che tiene alla linea più di tutto.
Aspetta, ma è lui?
Perché mi guarda così, cos’ho in faccia?
Merda, dovevo mettere gli occhiali.
Ecco fatto, ha notato la mascella.
No, non arrossire.
No, non guardarmi così.
È… bello.
È bella.
Wow, è veramente bello.
Wow, è veramente bella.
Scusa, non sono chi ti aspettavi, se vuoi andartene fallo ora.
Scusa, non sono chi ti aspettavi, se vuoi andartene fallo ora.
Prima che…
Prima che…
« Beviamo qualcosa? »
« Volentieri. »
« Sai, ti immaginavo diversa. »
« Anche io… Scusami. »
« Scusami tu. »
« Figurati. »
« Ma ti piace davvero Fabrizio de André, vero? »
« Certo! Per quello dicevo sul serio. »
« Ah, ecco… Altrimenti sì che scappavo. »
Stai ridendo.
Sto ridendo.
Grazie a Dio, almeno sono rimasto divertente.
Grazie a Dio, sei chi mi immaginavo.
Anche se non assomiglio a chi ti immaginavi?
Ha davvero importanza?      
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 3 -- “AU”
« Levati quel ghigno. »
« Quale ghigno? »
« James, per piacere, non mettere in imbarazzo nessuno. »
Si bloccò, Ramoso, in mezzo al cortile d’ingresso di Hogwarts. Erano anni che non vedeva più quelle mura, è inutile dire che emozione forte stesse provando in quel momento. « Adesso mi dici in che modo dovrei mettere in imbarazzo qualcuno oggi. »
Sin da quando erano partiti da Godric’s Hollow quella mattina, Lily si era mentalmente preparata all’idea di dover tenere a bada il marito. Lo conosceva fin troppo bene per non sapere quanto agitato ed euforico fosse in quel momento. Ogni cosa passava davanti ai loro occhi come un uragano, dopo anni spesi a ricordare quella loro seconda casa solo attraverso i racconti di Harry. Quella partita era stata un’eccezione, a cui tutti i genitori dei membri delle due squadre erano stati invitati. Grifondoro contro Serpeverde, tanto per cambiare. Chissà se Severus si sarebbe presentato… « Non metterti ad urlare come un pazzo in mezzo alla tribuna, e non raccontare a nessuno aneddoti strani su Remus. »
« È la prima partita di Harry come capitano, vuoi veramente farmi credere che anche tu non sia emozionata? »
« Non si tratta di questo, è solo che – »
« Non sei emozionata?! » Tale richiamo proveniente da un punto indistinto dietro di loro fa voltare velocemente Lily, probabilmente prima ancora che James stesso noti Sirius a pochi passi da loro. Ovviamente con la sua solita pelliccia sfarzosa, i capelli lunghi neanche lontanamente ordinati e una strana macchia di sporco a un lato del viso. La bacchetta della maga scatta automaticamente dalla tasca della sua lunga giacca e quella macchia sparisce in un battito di ciglia. « Per cos’era questo, Lily? »
« Avevi terra in faccia. »
« Ah… Ops! » e, con una risata, eccolo guardare con aria complice James. « Potrei essermi distratto con una radice di dittamo. »
« Parlavamo di non mettere in imbarazzo Harry o Remus. » disse James, sistemando un po’ gli occhiali sopra il naso, in un gesto che Lily aveva visto fin troppe volte anche in Harry. La loro somiglianza la lasciava esterrefatta – nell’aspetto così come nel carattere. Se il ragazzo poteva imparare qualsiasi cosa dal padre, aveva preso giusto i tratti più fastidiosi della sua personalità. Irriverente, a tratti viziato, ma anche coraggioso e amorevole nei confronti delle persone a cui voleva bene. Probabilmente tali qualità le aveva prese dalla madre (visto che, dopotutto, Lily aveva avuto l’arduo compito di insegnare la gentilezza anche al marito) e dalle lunghe giornate passate in compagnia di Remus sin da quando era stato piccolo.
« Non se ne parla neanche! Con Harry posso darmi un contegno, ma non esiste che Remus non si faccia una brutta reputazione prima ancora di cominciare i corsi ». Sirius incrocia le braccia, con un misto di fastidio e divertimento di fronte a tutta quella situazione. Si erano presentati tutti, quel pomeriggio. Non avevano dubitato neanche un secondo di fronte all’invito di andare a vedere quella partita, tutti spinti dall’amore verso suo figlio. I Weasley li avrebbero raggiunti direttamente in tribuna, i Longbottom probabilmente avrebbero ritardato come loro solito – insomma, l’intero Ordine della Fenice non vedeva l’ora di guardare Harry seguire fieramente le orme di suo padre come nuovo capitano della squadra di Quidditch. Aveva discusso, Lily con James, di come si sarebbero dovuti comportare nel caso avessero incontrato anche Severus, e il marito le aveva scetticamente promesso che non avrebbe detto neanche una parola. I tempi delle ragazzate ad Hogwarts erano finiti da un bel pezzo, adesso Harry era al sesto anno e Lily non avrebbe lasciato la reputazione del padre rovinare i suoi voti a Pozioni. Era determinata a tenerlo a bada, e sapeva che fare ciò con James avrebbe spinto anche Sirius a darsi una calmata.
« Avanti, Felpato, andiamo a vedere se troviamo Lunastorta da qualche parte. »
« Cominciamo raccontando la storia della mandragola, vero? »
« Ovviamente. »
Ed eccoli partire alla volta della scuola, uno con il braccio sulle spalle dell’altro e con due sorrisi al limite del fastidioso sulle labbra. Scosse appena la testa, Lily, prima di incrociare le braccia al petto e avviarsi a sua volta verso il campo da Quidditich. L’avrebbero raggiunta più tardi, dopo aver sicuramente fatto innervosire Remus. Andava tutto bene. Stavano bene.
« Lily! » altro richiamo, altro voltarsi della donna alle sue spalle. Marlene corse nella sua direzione col fiato corto, una mano sul cappello in modo da non farlo volare via e la bacchetta nell’altra. « Non sono in ritardo, vero? »
« Cara, figurati! Sei ampiamente in orario, stavo andando giusto adesso a mettermi a sedere? Che ci fai con la bacchetta in mano? »
« Non ritrovavo più la strada, ho dovuto usare un incantesimo di posizione. »
« Finché non ti ha visto nessuno non c’è problema. Dai andiamo. » ed ecco anche lei prendere a braccetto la sua amica di una vita, rimasta al suo fianco in ogni momento da quando avevano abbandonato quella scuola. L’aveva aiutata a capire come essere una buona madre, una buona maga, una buona moglie – il tutto mantenendo quella indipendenza che sempre aveva caratterizzato entrambe. Sia James che Sirius potevano dirlo bene: la Evans e la McKinnon non si erano lasciate mettere i piedi in testa da nessuno in tutta la loro vita. Insieme erano una forza della natura.
Ed eccola quella forza della natura che adesso, velocemente, camminava verso la grande tribuna dedicata a Grifondoro, proprio come avevano fatto una volta. L’aria autunnale dava un tocco di colore alle foglie degli alberi che circondavano Hogwarts, e non c’era motivo per temere il futuro. I Malandrini erano insieme, Lily e Marlene erano insieme. Erano tutti insieme, e niente sarebbe stato in grado di piegare quelle vite piene di gioia.
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 2 -- “Alba”
« Ok, ok! Ce l’ho, ma devi rispondere senza pensare. »
« Spara. »
« Alba o tramonto? »
Alza gli occhi al cielo, prima che Nicky allunghi un dito accusatore nella sua direzione.
« NON PENSARE. »
« Non è facile! »
« Jayde. »
« Ok, ho capito – tramonto. » e improvvisamente cala il silenzio. Volta lo sguardo, cercando gli occhi dell’amico nel buio di quella spiaggia. Ancora stentava a credere di essersi fatta convincere a fare mezz’ora di macchina solo per restare a perditempo al freddo della costa, eppure lo aveva fatto. Aveva questa tendenza a perdere ogni senso di misura quando si trattava dei suoi amici, nonostante non fosse d’accordo con le loro decisioni. Loro chiamavano, lei arrivava. « Che c’è? ».
Alza un sopracciglio, Nicky, prima di aprire le braccia come se la risposta giusta fosse qualcosa di ovvio. « Sul serio? Siamo venuti qui a guardare l’alba e tu smonti le mie aspettative così? »
« Che vuoi, una non può avere la sua opinione? »
« Non se ti reputi una vera artista. È ovvio che l’alba ha una forza poetica mille volte superiore al tramonto. »
« Mi permetto di dissentire. »
« Sembrate tutti idioti, almeno l’avete mai vista un’alba? »
« Sì ma calmati, si può avere un’opinione diversa dalla tua. » Lo disse ridendo, sebbene Nicky sapesse bene quanto la infastidivano atteggiamenti del genere. Era una ragazza permalosa, competitiva, e continuamente terrorizzata dall’idea di non piacere agli altri. Già solo per quella risposta il suo cervello aveva cominciato a elaborare scenari apocalittici dove tutti i suoi amici l’avrebbero abbandonata solo perché preferiva il tramonto. Non ci poteva fare molto, aveva avuto compagnie in passato decisamente tossiche. Cercò di rilassarsi prendendo un sorso dalla bottiglia di birra che da ormai un paio di ore si stavano passando. Ad essere sinceri era qualcosa come la quarta, ma sono dettagli. « Se ci tieni così tanto dimmi perché dovrei cambiare idea. »
« Preferisci la vita o la morte? »
« Vita, ovviamente. »
« Eppure preferisci guardare qualcosa morire piuttosto che vederla nascere. »
Cala il silenzio. Effettivamente non ci aveva mai pensato. Si volta a guardarlo, con un misto di divertimento e imbarazzo prima di alzare la bottiglia tra le sue mani. C’era riuscito. « Complimenti. » Ultimamente si erano dati molto a conversazioni del genere, sul senso della vita e su ciò che era bello al mondo – sopratutto dopo aver visto alcune delle sue cose peggiori. Era stato un anno particolare, dove entrambi avevano improvvisamente cominciato a capire cosa significava essere adulti. La vita li stava colpendo entrambi duramente, ed entrambi stavano imparando a rialzarsi con le proprie forze. Ciò però non vietava loro di godersi un po’ di “fraternal compagnia” in quelle serate dove il cielo buio sembrava essere particolarmente oppressivo. Quella sera era una di quelle, al freddo autunnale di una spiaggia perché per tutta l’estate nessuno dei due aveva mai effettivamente avuto il coraggio di fare una pazzia del genere. L’ultimo messaggio sul telefono di Jayde risaliva alle 2:30 di quella stessa notte, dove sua madre in preda alla disperazione la pregava di ritornare a casa un’ultima volta prima di mandarla a quel paese e dormire. Adesso erano le 6:50, il cielo stava lentamente cominciando a colorarsi e a mostrare le nuvole che fino a quel momento la notte aveva nascosto. Se Nicky aveva ragione, Jayde lo avrebbe scoperto presto. « A che ora sorge il sole, oggi? »
« Aspetta, controllo. » Apre il telefono, esegue una veloce ricerca digitando “alba 2 ottobre” ed ecco che volta lo schermo dritto verso di lei. « Tra mezz’ora. »
« Sposta quel telefono, ci sto per uscire cieca. »
« La aspettiamo, vero? »
« Nicky, mia mamma-- »
« Tua mamma sta dormendo profondamente da almeno cinque ore, non puoi preoccuparti di lei tutta la vita. Quando andrai a vivere da sola come farà quella povera donna? »
« Se sapesse che parli di lei così smetterebbe di apprezzarti come fa ora. »
« Impossibile, mi adora troppo. » Un attimo di silenzio, alza lo sguardo in alto e guarda quelle poche stelle che riescono a sfuggire all’inquinamento luminoso. « Si sono mosse ancora. »
« Secondo quale logica dici questo? »
« Aspetta, aspetta– » e per un lungo istante guarda di fronte a sé, nel vuoto. Gli occhi, concentrati, sembrano scrutare dentro l’anima dell’aria prima che Nicky se ne esca con un fiero « Stiamo girando per così » e mostri con le braccia un goffo movimento antiorario. Inutile dire che Jayde scoppia a ridere.
« Non ha alcun senso! »
« Ti giuro che sì! »
« Ma è ridicolo. » ed entrambi abbandonano la conversazione in favore di una risata, che a sua volta sfocia nel più pacifico silenzio mentre gli occhi dei due puntano quello stesso cielo che hanno preso in giro fino a quel momento.
« Che vita di merda. » sono parole che escono da Nicky come un sospiro. Jayde lo capisce, dopotutto sa cosa gli sta passando per la testa in quel momento. Probabilmente dovrebbe pensare anche lei la stessa cosa – ma tutte le volte che ripete una frase del genere sa in cuor suo di non crederlo davvero. Sa che, nonostante tutto, non c’è un motivo per non amare questa vita, per non amare ogni colpo che lei ci manda. Sono entrambi giovani, entrambi alle prime armi, entrambi con ancora cose ben peggiori da provare. Se proprio deve odiare questa vita, lo vuole fare per qualcosa che la spezzerà in due. Adesso guarda Nicky e se stessa, e non può che credere che si tratti solo di una fase dove questa maledetta vita meravigliosa sta collaudando la loro capacità di gestirla. Ce la farà lui, e ce la farà anche lei. Sorride appena, e le parole le escono senza che neanche se ne accorga. « Tra dieci anni ringrazieremo il cielo per tutto questo. »
« Ma anche no, sinceramente. »
« Bevi, vai. » E passa la bottiglia al ragazzo, lasciandolo bere mentre un primo raggio li colpisce in volto improvvisamente. Le nuvole hanno coperto l’effettiva salita del sole, la cui luce adesso si sta facendo strada nel cielo. L’effetto è quello di un dipinto. Meraviglioso. Restano in silenzio per cinque minuti buoni, mentre l’alba timida e frettolosa del 2 ottobre inizia ad accendere il mondo e un nuovo giorno. Solo quando il sole ha completamente abbandonato la linea dell’orizzonte Jayde si sente di dare un suo giudizio sullo spettacolo appena vissuto. « Forse hai ragione, sai? »
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writingdisaster · 5 years ago
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Day 1 -- “Cinema”
    È una sensazione strana trovarsi al cinema da soli. La sala si fa buia, il proiettore illumina lo schermo e improvvisamente ogni cosa su quel telo bianco sembra cercare di raccontarti qualcosa di te stesso. È una cosa strana perché quando sei in compagnia la stessa analisi introspettiva non la troveresti neanche a mettere in ballo ogni singola forza, eppure quando si è da soli improvvisamente diventa così facile. È come se venisse a mancare ogni protezione, ogni filtro. Quei pochi secondi di buio prima dell’inizio del film sono letteralmente l’ingresso alle porte di un mondo alternativo, un mondo dove solo la tua storia diventa il centro delle tue attenzioni e improvvisamente ogni cosa sembra stare sotto ad una luce diversa. Alcuni dicono che guardarsi da fuori aiuta ad analizzarsi con oggettività – beh, non proprio “alcuni”… Aristotele si rivolterebbe nella tomba a sapere che lo definisci una parte non identificata di “alcuni”. Vergognati, Gaia. Com’è che funzionava la catarsi? Andiamo, l’hai fatto la scorsa settimana a lezione – oh, quel locale non promette niente di buono. Basta un flash, un colore insolito sullo schermo o un silenzio sospettoso perché la mente si perda di nuovo tra le immagini proiettate e decida momentaneamente di mettere da parte inutili divagazioni riflessive. È curiosa la mente umana. Distratta.
    È ovvio che alla fine riusciranno a farla funzionare, dopotutto siamo davanti ad un’americanata smielata che fa l’occhiolino al pubblico medio. Non esiste che in un film del genere la coppia principale non torni insieme negli ultimi cinque minuti di pellicola, e per adesso siamo ancora pienamente in tempo perché ciò avvenga. Non ci vuole nulla a Mia per lasciare “Innominato #1” e correre da Sebastian a gambe levate. Che poi che nome è “Sebastian”? Chi chiamerebbe un bambino Sebastian oggigiorno? Comunque – eccola che entra nel locale. Comincia la lunga tiritera per cui fuggiranno insieme alla volta di un nuovo giorno e il film avrà il suo tanto agognato lieto fine. Nei film riescono sempre a farla funzionare, nonostante tutti i problemi. Anche tu riuscirai a farla funzionare, Gaia. Il fatto che pensi ancora a lui dopo due anni dovrebbe essere un campanello d’allarme, no? Questa per voi è solo una fase. Una fase delle tante prima che anche voi due scappiate verso un nuovo giorno e verso il vostro lieto fine. Devi farla funzionare, è stata la cosa migliore della tua vita. Non sai come farlo, ma devi.
    Eccolo che compare, nel suo completo dal colore discutibile e quel sorrisetto che farebbe arrossire chiunque. Dai, Mia, è il tuo momento. Trova a forza di alzarti, di andare a riprendere ciò che sai ti appartiene. Voi due vi appartenete, non esiste sulla faccia della Terra che un amore come il vostro non venga coronato da un lieto fine. Siete perfetti, vi capite, accettate i difetti dell’altro, cosa ti dovrebbe bloccare dal farlo? Fallo per te stessa, fallo per Gaia… Almeno tu, visto che lei non sembra trovare il coraggio da due anni a questa parte. È che c’è sempre quel “ma”. Sei certa del fatto che siete fatti l’uno per l’altra, eppure c’è quel “ma” che martella continuamente. E intanto lui va avanti, si rifà una vita, frequenta altre persone, adotta nuove abitudini, e ogni giorno ti sembra di vederlo allontanarsi sempre di più. Ogni giorno diventa una persona sempre più diversa da quella che ricordi e ami, e quel “ma” si fa sempre più grande. Avanti, Gaia, prima che sia troppo tardi. Riavvolgi il nastro come stanno facendo quei due sullo schermo di cui a questo punto non ricordi neanche più i nomi, non ne riconosci i volti. Ormai non sono più personaggi, ormai siete voi due. Voi due che avevate fatto progetti, che avevate immaginato il nome dei vostri figli, che spendevate le vostre giornate al fiume perdendo tempo e cercando di far rimbalzare i sassi sull’acqua. Tu non ci sei mai riuscita, nonostante lui cercasse in tutti i modi di insegnarti come fare. Il riavvolgimento degli eventi del film a questo punto comincia ad apparire più come una tortura che un commuovente lieto fine. Anche tu riavvolgi il nastro, anche tu cerchi di capire i momenti in cui hai sbagliato e cosa ti ha spinto a farlo. Forse potresti rimediare, forse potresti cambiare le cose e te stessa. Sei sempre stata tu il problema, lui non c’entra niente. Tutto è dipeso da te, dai tuoi problemi, dai tuoi dubbi, dalle tue paure, dalle parole degli altri che ti entravano in testa senza uscirci più. Forse avresti dovuto ascoltare un po’ meno le persone e un po’ di più te stessa. E intanto lui si allontanava, si rifaceva una vita. “Andava avanti”. Cos’altro avrebbe dovuto fare, dopotutto?
    Ma un lieto fine c’è sempre. La vostra storia sembra essere uscita da un film, e un film ha sempre un lieto fine. Avanti, Gaia cinematografica, alzati. Vai a quel pianoforte e bacialo. Avanti, Gaia, alzati da quella poltroncina e trova il coraggio di farlo. Affronterete la vita giorno per giorno, e vedrai che i problemi si risolveranno. Sono due anni che pensi ancora a lui, non è possibile che non lo ami ancora. Sei troppo attaccata a lui per non amarlo. Sei ad un passo dall’alzarti e andartene dal cinema, quando anche sullo schermo lei si alza. Ecco, coraggio, fallo. Vai da lui.
    Le lacrime cominciano a scendere silenziose quando quegli sguardi si trasformano in piccoli sorrisi – quando i loro occhi sembrano suggerire allo spettatore che “va bene così”. Le grandi storie d’amore non erano fatte per finire bene? Quando è successo tutto questo? Va bene così. No, non va bene così. Si possono superare i disguidi, le differenze, i problemi. Si può superare tutto se ami una persona, se sai che è destino che quella persona resti nella tua vita per sempre. Altrimenti non è amore. Il tuo era amore, ne sei certa.
    “Era”. Quasi neanche ci fai caso, quando lo pensi. Quando ha smesso di essere un “è” ed è diventato un “era”? In quale momento specifico di questi ultimi due anni hai deciso di aggrapparti più ai ricordi piuttosto che a quello che potevi avere? Quando hai deciso di nasconderti nell’idealizzazione di ciò che eravate piuttosto che nell’effettivo tentativo di ricominciare da capo? È stata la paura di andare avanti, di restare sola, e curiosamente quella paura ti ha spinto ad allontanarti da ogni opportunità. Lo dicono tutti, alla fine dei conti: “a questo punto lo avresti già fatto”, “hai avuto tutte le occasioni”… E forse hanno ragione, Gaia. Forse fai solo fatica ad accettare che l’unica persona in tutta la tua vita che è stata in grado di comprenderti ed amarti per quello che sei veramente – ecco, quella persona forse è destinata ad essere solo quello sguardo. Quell’intesa ai limiti di un locale notturno dove anche il solo incrociarsi gli occhi è in grado di dire tutto. Non avete bisogno di altre parole, come è sempre stato. Bastano quegli occhi, e bastano i ricordi. Forse è vero che “va bene così”. Con gli anni imparerete ad andare avanti, a gestirla, a non guardarvi più come facevate una volta. Con gli anni imparerai tu a non avere paura, ad aprirti al mondo, a non temere ciò che potrebbe svelarsi là fuori. Hai sempre giocato sicuro nella tua vita, lo sai bene…. Forse è il momento di afferrarla, questa vita–
    « Hai finito? » e lo sguardo si alza verso l’uomo che la sta fissando da un tempo indeterminato. Tra lacrime e pensieri neanche si era accorta di lui. « Hai finito o sei una di quelli che si guarda tutti i titoli di coda? ». La testa si volta lentamente per la sala, trovandola vuota mentre quella musichetta mista tra jazz e genere musical continua a rimbombare tra le file di poltroncine. « Di solito me ne frego ma è l’ultimo spettacolo e voglio andare a dormire. » A questo punto ti alzi, giusto per non disturbare. Lo fai senza spiccicare una parola, tanto capisci presto che è il proiezionista di fronte a te a parlare per entrambi. « Una volta ce ne fregavamo di tutte queste cose del “vero amante del cinema”, ‘sto posto serviva giusto per portarci la fidanzatina ». Sorridi appena (giusto per educazione), passi oltre una manciata di pop corn che qualcuno ha fatto cadere a terra nel posto accanto al tuo – hai anche il vago ricordo di un ragazzo che ti chiede scusa, ma eri troppo presa dal film per elaborare una risposta – e quel piccolo santuario sicuro in cui ti eri rifugiata improvvisamente torna ad essere un puzzolente e desolato cinema di provincia. Niente cambia mai, nei cinema di provincia. Le pareti sono le stesse di cinquant’anni prima, i macchinari uguale, e le poltroncine riportano ancora una serie di incisioni che dovrebbero essere considerate bene storico della città. Niente cambia mai, nei cinema di provincia… Sono le persone che cambiano al loro interno. Vero, Gaia?
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