Tumgik
keisersoze · 10 years
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Interstellar
Christopher Nolan ha ragione. Vi guarda, da dietro la libreria, e scuotendo la testa sente di aver svolto un ottimo lavoro. Guarda voi, che in questo momento state vomitando fiele sulla tastiera, criticando l'inammissibilità di Interstellar, la sua mancanza di basi scientifiche, la banalità dei dialoghi. Poi guarda voi, che vi state sciogliendo scrivendo parole di miele sul film più bello di sempre, più emozionante di sempre, più tutto di sempre. Nolan, da dietro la libreria, sorride. Ha raggiunto lo scopo. Chi si è annoiato, e ha pensato che quelle tre ore fossero tre mesi; chi si è emozionato, e ha pensato che quelle tre ore fossero tre minuti. Cosa ci dice Interstellar? Che tutto è relativo. E Nolan vince. Questa non è una recensione, perché non credo che si possa scriverne una dopo solo una visione. Interstellar è un film da vedere al cinema. Poi va lasciato sedimentare qualche mese. All'uscita del DVD, dovremo prenderci un pomeriggio o una serata. Tranquilli. Isolati. E rivederlo, rivederlo, rivederlo. Che Nolan piaccia o non piaccia poco cambia: dirige film che sono contro l'immediatezza del commento a caldo. Sono contro il pestaggio violento di polpastrelli sulle tastiere. Costruisce film che vanno fruiti ripetutamente. Da Memento ad Inception, da The Prestige alla trilogia de Il cavaliere oscuro. E allora facciamo così: dimentichiamoci per qualche tempo di Interstellar, e proviamo ad addentrarci nel suo essere tra un po', da dietro la libreria, e non ora. Ora stiamo solo guardando degli strani agglomerati di polvere nella nostra stanza.
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keisersoze · 10 years
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Perez.
La prima immagine è una cartolina: il panorama del golfo di Napoli con l’inconfondibile profilo del Vesuvio sullo sfondo. Rimaniamo così per un po’, come intontiti dalle eteree pennellate pastello del crepuscolo. Ad un certo punto la macchina comincia a scendere, passando da una visione alta, celestiale, quasi divina, ad una bassa, dove la cartolina viene lentamente nascosta dallo scorrere verso l’alto di palazzi luccicanti, mostri di vetro e lamiera che oscurano ogni orizzonte immaginabile. Non è l’idea di Napoli che abbiamo nella nostra mente, che Edoardo De Angelis vuole mostrarci. Dimenticatevi il mare, il Vesuvio, il caos, i motorini sfreccianti, ci dice. Ma dimenticatevi anche il formicaio che la cartolina ingloba in se stessa. Lasciate perdere Gomorra. Perez. non è un film sulla bellezza già immaginata o sulla bruttezza purtroppo sempre inimmaginabile: è esattamente nel mezzo. Perez. è l’ombra tra il buio assoluto e la luce accecante, e vive di riflessi distorti dal vetro generati dal mondo di sopra e dal mondo di sotto. I temporali sono sempre lontani, così come è indefinitamente da qualche parte il cielo azzurro. Le anime dei personaggi rimbalzano sotto uno specchio insistentemente grigio, coperto, una cappa di nulla che schiaccia più dei sensi di colpa. All’interno del Centro Direzionale di Napoli, mostro di vetro e cemento sede del Palazzo di Giustizia, troviamo delle figure essenzialmente in un limbo, entro il quale galleggiano e fluttuano come in assenza di gravità. Senza appigli a cui aggrapparsi e spingersi, in assenza quindi della possibilità di prendere una direzione definita, non riescono a trovare una propria dimensione. Il camorrista Buglione è forse l’unico a possedere una propria forma di sicurezza, come se in qualche modo avesse già visto. Gli altri invece sono bloccati. Fermi. Spogli. Non ancora nati. E allora, in un mondo eternamente interrotto, l’impatto con un toro, con una bestia fatta di sangue e carne e muscoli, è ciò che spezza l’incantesimo. In una scena in cui “il comico ed il tragico collidono, generando raccapriccio”, la vista e il contatto con il sangue, con la vita pulsante e calda, genera un cortocircuito in cui si sviene e ci si suicida, oppure si uccide. La morte diventa la catarsi, l’estremo limite che partorisce e dà alla luce delle figure non ancora nate. Un lampo in lontananza illumina Demetrio Perez mentre sta per premere il grilletto, come se una forza sovraumana, avulsa dai mondi terrestri, esplodesse, illuminandosi di sé e andando in pezzi. L’uomo che dopo anni di separazione dal suo Io, si abbassa (o si alza) sullo stesso piano della vita, del sangue e della carne, e in una frazione di secondo agisce d’istinto, amalgamandosi con il tutto. Tra lamiere, vetro e corpi che stridono senza mai toccarsi, sospesi in tramonti viola ematoma, Perez. è un film creatore di forme che sono esse stesse stati mentali, tratteggiando con colori inumani un mondo profondamente umano e quindi intrinsecamente sbagliato.
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keisersoze · 10 years
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Il capitale umano
N.B: In quello che segue non troverete giudizi estetici, mi piace o non mi piace, noioso o avvincente, tecnicamente perfetto o altre amenità. Di recensioni così ne è pieno il web, e i giornali. Che sia l'ultimo dei blogger o il primo dei critici, che il film gli sia piaciuto o meno, francamente, non mi interessa. Conseguenza: perché dovrebbe interessarvi che piaccia o meno a me? Quindi si cercherà d'ora in poi di non scrivere recensioni, ma delle riflessioni sui film che nel sottoscritto abbiano generato pensiero e senso (o sull'assenza di).
l personaggi de Il capitale umano esistono veramente. Girato in buona parte a Varese (20 km da chi scrive), e ambientato in Brianza, porta sullo schermo una serie di volti e accenti che si incontrano facilmente per strada. Dino Ossola è uno di quei pirla gigioni che in fondo non vorrebbero fare nulla di male a nessuno, e probabilmente non ne sarebbero neanche in grado. Il problema è che la sete di denaro, che forse è persino inferiore alla sete di accettazione che ne deriva, li porta, i Dino Ossola, a fare il passo più lungo della gamba.
Guardando il film, non ho pensato più di tanto a ciò che segue (tornerò tra poco al buon Dino). Ma ad un certo punto, una piccola scena, e precisamente un personaggio che compare appena qualche minuto, mi ha acceso un campanello d'allarme: il leghista. Il problema, a mio modo di vedere, è che di assessori così ce ne sono, ma contemporaneamente anche no. Nel varesotto c'è una certa forma di leghismo che si fa rappresentazione, e che spesso, per via della sua natura perfettamente artefatta ad uso e consumo dei media, finisce spesso ad insozzare le discussioni dell'opinione pubblica. Ma contemporaneamente, se scendiamo di livello, e dai titoli dei giornali passiamo ai piccoli assessori dei comuni, probabilmente è vero anche il contrario. Ciò che mi rende perplesso è lo stereotipo che ne deriva. Tutti (sfido chiunque a dire il contrario) ci aspettiamo che l'assessore leghista sia così. E ci divertiamo, soprattutto se non lo votiamo, quando qualcuno ce lo mostra così come lo abbiamo sempre visto. E' una debolezza dell'animo umano, quella di cadere nella semplificazione, crogiolandosi nelle proprie superficiali convinzioni. Un difetto che abbiamo tutti, nessuno escluso: così difficile da contrastare, così dolce ed avvolgente, così stupidamente soddisfacente. Il cinema, quando invece di mostrare i nostri difetti, ce li perdona, non sta facendo pienamente il suo dovere. E allora torniamo al (articolo determinativo d'obbligo) Dino Ossola. Il leghista di cui sopra mi ha acceso un campanello d'allarme che ha cominciato a strepitare come un ossesso quando ho finalmente messo insieme i pezzi. Tutti i personaggi ne Il capitale umano sono stereotipi. Sono bidimensionali, e si muovono esattamente nella direzione in cui ti aspetteresti che andassero: il banchiere cattivo, la moglie annoiata che lo tradisce con un professore di teatro povero e sfigato, il figlio alcolizzato-drogato, la psicologa che lavora nel settore pubblico, buona ed ingenua, la figlia che si innamora del reietto. E il buon Dino, che lo incontri per strada, ci parli, fa una risata sguaiata su quella volta che siete andati a mangiare insieme e quanto avevate bevuto, che poi voi forse a quella cena nemmeno c'eravate, ma meglio lasciarlo fare. Poi finalmente lo saluti, te ne vai, e pensi: <<Cosa c'avrai sempre da ridere te, imbecille>>. Una volta finito Il capitale umano, mi sono reso conto di non aver visto nulla che non avessi già visto. Peggio: ho assistito ad un film in cui si definisce. E la definizione, nel cinema e nell'arte in genere, è sempre una forma di violenza.
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keisersoze · 10 years
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Il mio 2013 cinematografico
Ovvero una classifica non esaustiva dei migliori (per me) film del 2013. In continuo aggiornamento perché la memoria è quella che è.
Django Unchained Il film dell'anno. Cinema allo stato puro. Per la prima volta Tarantino mostra una violenza tangibile e insopportabile. Il film della maturità. Di Caprio eccezionale.
La grande bellezza Stregato, rapito, affascinato. Visto e rivisto non mi stanca mai. Non ci sono parole per descrivere uno dei più bei film che abbia mai visto. Al momento, pochi al mondo girano come Paolo Sorrentino.
Captain Phillips Perché il cinema deve avere il dovere di intrattenere. Paul Greengrass confeziona un film che ti tiene incollato alla sedia dall'inizio alla fine. Non ci sono buoni e cattivi, e questo è il suo maggior pregio.
Blue Jasmine Il ritorno di Woody Allen al grande cinema. Una piccola storia, magistralmente interpretata. Il feticismo per il lusso porta alla rovina. Uno Xanax (non) vi salverà.
Solo Dio perdona Ingiustamente demolito dopo il trionfo di Drive, Refn torna alla rarefazione di Vahlalla Rising. Un film ipnotico, senza ritmo e (quasi) senza trama, ma eccezionalmente curato nei dettagli. L'uso del colore è magistrale. Malgrado le critiche, diventerà un cult.
Come un tuono L'ho amato profondamente nel suo cambio di registro a metà vicenda. Onore a Ryan Gosling per la scelta di un ruolo rischioso e anomalo. Il dolly dall'alto che insegue prima il padre e poi il figlio in quel posto dietro i pini è da pelle d'oca.
Bling Ring Sfrontato, un videoclip più che un film. Altra pellicola ingiustamente stroncata. La storia è di quelle da raccontare, e Sofia Coppola, checché se ne dica, è capace di dirigere. Ci si diverte, e a me basta.
Zero Dark Thirty Incalzante, dimostra la differenza tra "storia vera" e "basato sui racconti dei protagonisti di allora". Ogni storia è raccontata, e ogni volta che passa dalla penna di qualcuno, giocoforza perde di oggettività. Un film che non giudica, lasciando allo spettatore il lavoro sporco. Inadatto ai pigri.
L'intervallo Il piccolo capolavoro di Leonardo di Costanzo rappresenta alla perfezione il patologico bisogno di schierarsi che abbiamo noi italiani. Il tifo come malattia metaforica e la fantasia come cura tangibile. Bellissimo.
Philomena Un film perfetto. Si ride, si piange, ci si indigna. Splendidamente recitato. Si fa fatica a trovargli un difetto.
La migliore offerta Giuseppe Tornatore e il film di genere. Colpo di scena che vale il biglietto. Quelli che "Ah ma io l'avevo già capito" rinchiudeteli in cantina.
Gravity Mai visto nulla di simile. Dialoghi imbarazzanti e recitazione non da meno, ma tutto il resto è pura magia. In certi momenti devi ricordarti di respirare.
La mafia uccide solo d'estate Toccante, delicato, divertente, il film di Pif è un piccolo capolavoro di impegno civile e commedia. Da mostrare nelle scuole.
Pain and Gain - Muscoli e Denaro Michael Bay nel suo miglior film. Una storia vera che si fa fatica a credere. Il finale ridimensiona il lato comico, facendoci sprofondare nella realtà della vita (e della morte).
Stoker Elegante e raffinato, ma allo stesso tempo spietato. Desiderio e morte come sempre fianco a fianco. Eros e Thanatos.
Venere in pelliccia Due attori in un teatro e nulla più. Il gioco delle parti si inverte e tutto cambia. Dialoghi accattivanti e due interpreti in gran forma. Grande regia di Roman Polanski.
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keisersoze · 11 years
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L'ultima ruota del carro
L’ultima ruota del carro è un falso-positivo, proprio come il tumore immaginario diagnosticato per errore al protagonista. Ci sono tutti i sintomi di un bel film, ma poi alla fine non si dimostra tale. Mi spiego meglio. Il limite dei film di Giovanni Veronesi è quello che prima o poi, seduto al cinema, tra una scena e l’altra, pensi: “Mi ci ritrovo”. Il che non dev’essere per forza un’affermazione negativa in sé, ma può risultare alla lunga appagante nella misura in cui ti accorgi di stare guardando esattamente quello che ti aspetti, quello che vorresti vedere. Questa sensazione compiacente, come se fossimo seduti su un caldo e familiare divano che ci avvolge e ci coccola, è dal punto di vista dello spettatore molto soddisfacente, in quanto lo fa sentire a casa, servito, riverito e compreso. Ma, adoperando un paragone gastronomico, andare al ristorante non dovrebbe significare mangiare pietanze che a casa non cucineremmo o comunque mangeremmo di rado? Il cinema di Veronesi, e soprattutto questo suo L’ultima ruota del carro, è un ottimo piatto casereccio, che però non stupisce, non declina novità sul nostro palato cinematografico. Lo sentiamo nostro, familiare, già visto e già assaggiato. Il film, mantenendo un buon livello di intrattenimento, esaudisce tutto quello che desideriamo da una commedia, certo, ma che in definitiva è l’esatto contrario di ciò che fu la grande commedia all’italiana, sempre rivelatrice di quel qualcosa insito in noi che mai avremmo confessato e che, forse, nemmeno percepivamo, prima di vedere. Quindi, seguendo le vicende di Ernesto e della sua famiglia, tra una pacca sulla spalla, un ammonimento da vecchia zia e un accenno di analisi sociale e politica da giornale di provincia, L’ultima ruota del carro non ci fa muovere di un passo da dove eravamo. Si sente, pesantemente, la lontananza dai grandi registi come Scola o Monicelli, e si avverte l’incapacità di Veronesi di essere leggero senza essere superficiale, di riuscire ad osare e di arrischiarsi ad oltrepassare quel confine che trasforma lo spettatore da passivo ad attivo, da appagato a desideroso. Nella sua comoda confezione, il film si posiziona molto lontano da quel cinema coraggioso, divertente, emozionante e abrasivo dei grandi registi italiani, maestri nel lasciarci perennemente e magistralmente insoddisfatti.
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keisersoze · 11 years
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Non sparate su Checco Zalone
Non sparate su Checco Zalone, perché la coda al cinema in un qualsiasi martedì di novembre era tanto tempo che non la vedevo. Forse è l’unica coda che non mi innervosisce, perché non c’è niente di più sconsolante di un cinema vuoto. Sommessamente, quindi, ringraziatelo. Ieri sera non ho visto Sole a catinelle, e non lo vedrò. Non per pregiudizio, né per spocchia, ma semplicemente perché ci sono altri film che preferisco vedere, e siccome il tempo a disposizione è limitato, una piccola selezione è d’obbligo. La scelta è ricaduta su Venere in pelliccia di Roman Polanski, ed è proprio perchè non si tratta del film di Zalone che mi sento di ringraziarlo ugualmente: è grazie a lui che i cinema possono permettersi di dedicare una piccola sala a film ostici, non da incasso facile, che in altre circostanze probabilmente non avrebbero potuto essere proiettati. D’altronde, non possiamo biasimare scelte aziendali atte alla massimizzazione del profitto: è l’obiettivo di qualunque impresa, comprese le multisale. All’interno di questa logica aziendale, però, bisogna muoversi con cautela, equilibrando le proprie forze e cercando di soddisfare un po’ tutti. Si può sicuramente fare di più, e mi rivolgo ai distributori e ai cinema, ma non mi sento di colpevolizzarli oltremodo: al cinema, purtroppo, ci vanno in pochissimi. Lo sforzo comune dovrebbe essere prima di tutto riportare le persone in sala, riconquistarle, cercando di rinvigorire una passione ormai spenta perché fuori moda. È un’operazione culturale lenta e a lento rilascio, che deve necessariamente partire dalla scuola. Il cinema italiano è un patrimonio, al pari di Foscolo e di Michelangelo. C’è un disperato bisogno di inserire il cinema come materia di insegnamento. Pensate sia una sciocchezza? Solo se considerate il cinema come un passatempo facilmente sostituibile da una serata in discoteca o una cena al ristorante. Se invece siete convinti che l’arte cinematografica sia una branchia importante della cultura di questo paese, capirete benissimo quello che sto dicendo: insegnare un linguaggio è fondamentale perchè esso sia compreso, decodificato, e quindi apprezzato. Diamo agli studenti gli attrezzi per capire ed essere critici davanti ad un artefatto visivo, e avremo degli adulti appassionati. Non tutti, ovviamente. Ma non tentare equivale a fallire. Tutto ciò sarà possibile se cominceremo a pensare al cinema come industria, che come tale ha bisogno di attori e di consumatori. Coltivare i nuovi registi, i nuovi sceneggiatori, e coltivare i consumatori del futuro. Due operazioni da svolgere in sincrono, didatticamente. Non possiamo permetterci di produrre diplomati e laureati che non riconoscono la trama de La dolce vita o che non abbiano mai visto Il sorpasso. Non possiamo permettercelo perchè parliamo di un settore che potrebbe produrre ricchezza materiale e ricchezza immateriale nello stesso momento, profitto e cultura, senza che uno soffochi l’altra. La Francia lo fa già. Noi, nel nostro disastrato sistema produttivo riusciamo a sfornare ogni anno film eccezionali che nessuno vede, di cui nessuno parla, e che nessuno apprezza. E allora, concludendo e riallacciandomi all’inizio, vedere intere paginate sui maggiori quotidiani italiani - scritte da anziani chiusi in stanze che emanano un odore che piacerebbe molto a Jep Gambardella -, contro Zalone, contro il suo film che non è cinema, che non merita nulla, con quel tono scalfariano saccente ed arrogante, fa ribrezzo. Perchè il cinema è sparito dai quotidiani. Dedichiamo intere pagine a masturbazioni intellettuali contro, ma mai intere pagine pro. Nessuno che parli per esempio de L’intervallo di Leonardo di Costanzo, nessuno che si prenda la briga di focalizzare attraverso un articolo l’opinione pubblica su un film che altrimenti non sarebbe pubblicizzato. Giocoforza non possiamo stupirci se poi le persone corrano a vedere i film che noi, da incartapecoriti scribacchini, consideriamo sbagliati. Per questo ringrazio Checco Zalone, sentitamente e sinceramente, che mi ha fatto perdere tempo in coda in attesa di non andare a vedere il suo film.
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keisersoze · 11 years
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Appunti su Gravity (SPOILER)
Quando sono uscito dalla sala, la prima domanda che mi sono fatto è stata: <<Si può piangere nello spazio?>>. Arrivato a casa mi sono messo alla ricerca di una risposta, e mi sono imbattuto mio malgrado in un sacco di recensioni "tecniche": astrofisici, astronauti, professori universitari. E allora mi sono posto un'altra domanda: <<Ma è l'approccio giusto?>>. E' giusto scrivere di un film sulla base di eventuali errori tecnici sulla riproduzione della realtà? L'opera perde di valore se "sbaglia"?
Dove sbaglia Gravity? Leggendo qua e là, mi è sembrato di capire che:
è impossibile raggiungere la stazione orbitante ISS perché si trova su un'orbita diversa rispetto al telescopio Hubble. Altezze diverse e velocità diverse. Con i razzetti dello zaino, poi.
quando Clooney si sgancia dalla Bullock, in un atto suicida eroico, tecnicamente sarebbe dovuto rimanere fermo, senza andare da nessuna parte.
i portelli dei moduli reali non hanno aperture esterne.
sotto la tuta non si sta in mutandine e canotta, ma c'è un complesso sistema di riscaldamento e raffreddamento, dato che le temperature esterne variano di un centinaio di gradi.
i "proiettili", ovvero i detriti che colpiscono le stazioni, non si sarebbero dovuti nemmeno vedere all'orizzonte, data la velocità. 
un modulo in discesa sulla Terra, o attraversa l'atmosfera con un calcolato angolo di ingresso, oppure si schianta come contro un muro.
i movimenti degli astronauti sono in realtà molto più lenti e molto meno rimbalzanti.
Questi sono alcuni degli errori tecnici del film. L'intervista a Samantha Cristoforetti, la prima astronauta italiana che partirà nel novembre dell'anno prossimo, mostra il giusto approccio ad un film del genere: la Cristoforetti esordisce con: << Andate a vederlo, è meraviglioso! Sarete inevitabilmente commossi dalla bellezza estetica del film!>>. Afferma anche come sia incredibile la cura dei dettagli dell'interno dei moduli spaziali e delle stazioni, compreso Hubble. << Quando uscite dal cinema guardate in cielo e pensate che tutte quelle cose esistono davvero nell'orbita terrestre. E lasciate che quel pensiero arrivi in profondità>>. E poi, come curiosità, elenca un po' ciò che è reale e ciò che non lo è. Per il resto, vi lascio al suo blog.
Altri articoli, come questo, sono invece l'approccio più sbagliato che si possa avere riguardo un film: la pretesa della realtà. Gli errori ci sono, è indubbio. Ma il cinema, per definizione, deve piegare la realtà a suo piacimento, deve poter plasmare un mondo che non può essere identico in tutto e per tutto al reale, altrimenti non ci sarebbe quasi mai pathos, suspence, colpi di scena, e soprattutto non noteremmo differenze tra un film e un filmino di un matrimonio. Quest'ultimo, infatti, non è che una pallida copia della realtà, che si propone solamente di immortalare un momento, registrando un fatto e imprigionando un ricordo. La sorgente, quindi, è la vita. Il cinema, al contrario, crea memoria. Non ricordi, ma memoria. La sorgente, nel cinema, è il cinema stesso, perché la vita non è riavvolta e rivista, ma plasmata e creata. La differenza tra un film e un filmato è proprio questa: la memoria in uno, il ricordo nell'altro; il viaggio e il souvenir, la vita e la cronaca. Pretendere la verità in un'arte che fa della bugia il suo talento, è una visione razionale che cozza con quello che lo spettatore deve proporsi entrando in sala: sospendere le proprie percezioni, ed entrare in un mondo che segue altra regole, altri dogmi. O meglio, un mondo senza regole e senza dogmi. Sia esso un film di fantascienza, un film drammatico, una commedia, un horror o un musical non c'entra, l'importante è che la realtà sia piegata a piacimento. Ogni schermo è una finestra, e nessuno di noi guardando da quella finestra dovrebbe mettere in dubbio le regole che governano quel mondo, utilizzando i paletti che governano questo mondo. Come sempre, e come il sito della Cristoforetti ci insegna, l'importante è l'approccio e il tono. A quel punto si può dire tutto.
P.S: non si può piangere nello spazio. O meglio: piangere si può, ma le lacrime non si staccherebbero dal viso. Evaporerebbero o scorrerebbero sulle guance espandendosi. La magia del cinema, e la magia del 3D, permettono di creare un mondo in cui le lacrime salpano dagli occhi e ci vengono incontro, e noi, sinceramente, ci emozioniamo senza chiederci nemmeno perché.
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keisersoze · 11 years
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keisersoze · 11 years
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Bling Ring
Che cos'è Bling Ring? Uno spaccato di vita adolescenziale? Una descrizione giornalistica di un fatto realmente accaduto? Oppure è una straordinaria opera di sottrazione, nella quale il vero nocciolo si trova nell'assenza? L'ultimo film di Sofia Coppola abbisogna del penultimo, di Somewhere, per avere un contraltare sul quale appoggiarsi e continuare l'opera coppoliana di declinazione della celebrità. Le gesta dei ragazzi del film, che sottraggono quasi 3 milioni di dollari in beni di lusso dalle case di alcune celebrità, oscurano ciò che il film realmente e mirabilmente inquadra: le celebrità stesse. In Somewhere ci trovavamo di fronte un attore famoso, annoiato e tecnicamente nullatenente: viveva in una camera d'albergo. Ciò che vedevamo era lui, circondato da nulla. Guidava solo una Ferrari, unico oggetto di sua proprietà. Tutto il resto era di qualcun altro. Compresa la camera d'albergo. In Bling Ring, Sofia Coppola decide di fare l'operazione esattamente opposta: toglie dalla scena la celebrità, e inquadra la proiezione che di essa ne danno gli oggetti in suo possesso. Quindi siamo di fronte all'esatto contrario di Somewhere, in una scelta diametralmente opposta che porta la persona descritta ad essere totalmente assente dalla scena. Per lei, o per lui, parlano le case, le auto, le borse, le scarpe, i gioielli.  La celebrità, quindi, in realtà non esiste. E' un collage, un foglio bianco che prende corpo solo se viene composto da tutti i pezzi di cui sopra. Ma a questo punto, la proiezione, in un gioco di puzzle e composizioni, è, per assurdo, l'essere umano, e non gli oggetti che esso indossa. Loro, gli abiti, le scarpe e le borse, sono la vera essenza. L'essere umano viene messo da parte, e vive e respira grazie ad essi. Quindi, i ragazzi rubano davvero "pezzi" di Paris Hilton o di Orlando Bloom, in un'operazione criminale che punta dritta al fluido vitale. Ogni macchina ed ogni casa sono clorofilla. Ciò che risulta inaccessibile alla comprensione, però, è che questo perennemente inappagato desiderio di possesso da parte della celebrità non sia per nulla bilanciato dall'impegno nel difenderlo: tutte le case sono aperte, le auto non hanno l'antifurto, i gioielli sono dentro a casseforti senza combinazione. Come se l'importante non fosse l'oggetto in sé, ma l'accumulo di esso. Non l'avere, ma il potere, che casualmente è sia verbo sia sostantivo. Concludendo, l'assurdo di Bling Ring, il vero no-sense del film, è che il desiderio di essere un'opera grottesca viene tranquillamente appagato dalla realtà. Non c'è bisogno di spingere a fondo l'acceleratore ed inventare un'eventuale casa di Paris Hilton: la vera casa di Paris Hilton è già di per sé assurda. La realtà ha superato il grottesco, che non riesce più a starle dietro. Il vero dramma del film è proprio questo: ormai è impossibile esagerare il reale, perché il reale è ben oltre ogni immaginazione. E Paris Hilton ha davvero le chiavi sotto lo zerbino.
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keisersoze · 11 years
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L'intervallo
Un paesaggio di macerie. Un ex ospedale fatiscente, intriso di passato, immerso in un presente che scorre all’esterno sotto forma di automobili in coda, aerei in decollo e immensi grattacieli. La realtà è la fuori: artificiale, costruita, assemblata. Finta, senz’anima. Due ragazzi imprigionati tra le rovine dell’abbandono. Lui, il carceriere, obbligato a tenere d’occhio lei, la reclusa, costretta per una giornata dentro l’immenso edificio di cui sopra, aspettando l’arrivo di Bernardino, camorrista che deve farle cambiare idea. Riguardo a cosa? La colpa è quella di aver frequentato un ragazzo di un clan rivale. I due adolescenti, troppo cresciuti per la loro effettiva età, iniziano a conoscersi, a parlarsi, a confessarsi l’un l’altra, e in un attimo, quella che sembrava una giornata intrappolata nell’attesa di un ineluttabile e terribile dopo, diventa un intervallo dal reale. I due si raccontano storie, esplorano ogni anfratto, e attraverso una feconda e inesausta fantasia, tipica di chi ha troppi sogni inevasi, trasformano una prigione di rovine in un infinito di magia. L’intervallo, opera prima di Leonardo Di Costanzo, è un film apparentemente semplice e lineare, ma che a un’analisi più approfondita dimostra di essere molto di più: è complesso nella misura in cui travalica i confini della trama, proprio come fanno i due giovani protagonisti con la realtà. Ed è a questo punto che ci si accorge che non è solo un film su due ragazzi, sulla loro voglia di evadere da una vita che li ha spinti troppo presto a diventare adulti, ma è soprattutto un’opera che guarda dritto dentro di noi, in quell’angolo della nostra personalità che, da italiani, ci obbliga a schierarci come dei tifosi. Allora la camorra e la scelta della ragazza di non scegliere, di non schierarsi né dalla parte di un clan, né dalla parte del clan rivale, ma semplicemente di frequentare un ragazzo senza chiedersi che uniforme abbia, diventano una critica feroce verso un popolo superficiale e ignorante, che per malafede o suo malgrado, non riesce a porsi verso la realtà in modo razionale e ponderato, ma superficialmente si schiera come in uno stadio. E allora, chi “non vuole averci niente a che fare” diventa un vandalo del politicamente corretto, un guastatore di quella pace dei sensi causata dalla sicurezza di avere un nemico del colore opposto al proprio. L’intervallo, quindi, è un film ingannevolmente semplice, e per questo non distribuibile e non fruibile da un popolo ormai con gusti troppo televisionalizzati per poterne apprezzare le sfumature. È un film sbagliato per il nostro panorama cinematografico attuale ormai piattamente standardizzato, poco coraggioso e ancorato a certezze obsolete e anche un po’ rancide. Ma, in questo putrescente universo di commediole senza attori, in cui i nomi incollati ai volti sono più importanti delle espressioni, ogni anno il cinema italiano sforna questi piccoli gioielli, la cui brillantezza è doppia se li pensiamo calati in un contesto produttivo miope che produce scientemente certezze per occhi senza pupille. Proprio come la cucciolata che i due protagonisti scoprono in una scena del film: un cane che nel degrado e nell’abbandono dà la vita.
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keisersoze · 11 years
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Killer Joe
Ci sono film che non finiscono con i titoli di coda. Continuano a lavorarti dentro, rosicchiando come le tarme le nostre convinzioni, i nostri luoghi comuni e le nostre certezze, persistendo nella loro opera di demolizione della realtà. Killer Joe è uno di quei film, scandalosamente sottovalutati, colpevolmente mal distribuiti. Non è un film che piace, o meglio: non è un film che vuole farsi piacere. Non ha bisogno di conquistarti. Lui sfonda, non bussa, ed è una di quelle opere così tanto necessarie da diventare fondamentali. Fondamentale nella misura in cui raschia dalle nostre arterie il colesterolo del politicamente corretto, ovvero quella patina occlusiva che rallentando il flusso della nostra immaginazione riduce i nostri punti vista ed aumenta la nostra pigrizia emotiva. In questa sua opera di pulizia interiore, Killer Joe si innalza a film politico. Non perché tratti di politica, al contrario. Ne acquista la valenza perché mette in discussione ogni cosa: l'amore, la famiglia, il denaro, la televisione, la lealtà, la religione, il sesso e perfino il cibo. Mettendo in scena una collezione di miserabili profondamente perduti nella loro condizione, Killer Joe ci sbatte in faccia senza troppa gentilezza il nostro lato più pietoso, fallimentare e vile. E quindi è politico nella misura in cui parla a noi e solo a noi, senza rassicurazioni. Personale e intimo, è un noir grottesco, a volte comico e a volte tragico, spesso raccapricciante, mai banale. Non va nella direzione che si immaginerebbe, evitando clichè e inutili rimandi tarantiniani, tratteggiando tutta la miseria senza tempo della condizione umana. C'è tanto in Killer Joe, ma un'assenza scomoda gratta come le unghie sulla lavagna: la pietà. Non c'è compassione, né indulgenza. Ed è proprio per questo motivo che è un film fondamentale: ci costringe ad amare od odiare dei personaggi completamente sprovvisti di mito, senza aure leggendarie che li avvolgano, senza fascinazione. E senza fascino, ci impone di andare più in profondità, costringendoci a scavare dentro di loro, alla ricerca di quella che non immaginiamo ancora essere la nostra ricerca, il nostro dentro. E come noi inseguiamo la nostra fine dentro di lui, allo stesso modo lui cerca la propria dentro di noi. Anche dopo i titoli di coda, perché Killer Joe non finisce.
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keisersoze · 11 years
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Only God forgives - Solo Dio perdona
Due fratelli che nel rosso buio sono uno di fronte all’altro. Si guardano. La luce illumina solo i loro occhi, creando una fascia nera sulle due bocche. In Solo Dio perdona non saranno le parole ad essere mezzo espressivo, ma le immagini. Non il racconto, ma la proiezione visiva che ne creerà la forma. Oppressivamente rosso, girato in soffocanti interni, è un film che è volutamente fuori sincrono, come Valhalla Rising, ma all’opposto di Drive. Non ha ritmo Solo Dio perdona. Non ce l’ha perché è fluido prima ancora che sequenza. Un flusso emorragico di una mente ferita. La mente è quella di Julian. Figlio con un complesso edipico verso la madre, probabilmente assassino del padre (ordinatogli da lei?), per sempre schiavo della propria rabbia, per sempre incatenato nel suo rimorso. Si guarda ossessivamente le mani, Julian, inizio e fine di ogni atto violento che l’essere umano esercita. Le mani che premono un grilletto, che maneggiano una spada, che si immergono nelle viscere di un altro essere umano. Le mani, in Solo Dio perdona, sono la fine e l’inizio di tutto. Hanno una memoria, hanno occhi e bocca. Vivono, pulsano, sentono, muoiono. Non esisterebbe spada o pistola se non esistessero le mani. L’incubo del rimorso, che proietta sullo schermo la paura e il desiderio di una punizione, in un erotizzante miscela di eros e thanatos, è l’incubo e il desiderio di essere mutilato: la voglia, in fondo, di incontrare il proprio giudice e carnefice che ponga fine all’esistenza di quelle mani così rosse, innaffiate di sangue da un metafisico lavandino. “Ho le mani sporche”, diceva l’anonimo ragazzo di Drive. Ma qui non si trova nessun real hero, nessun salvifico romanticismo. Solo rimorsi, attraverso i quali la vendetta non è altro che la punizione dell’uomo sull’uomo. Da uno desiderata, e dall’altro inflitta senza pietà. Ma se da una parte, quella di Julian, si intuiscono i motivi di tanto dolore, dall’altra, quella di Chang, non se ne capiscono le ragioni. È male senza motivazioni, senza speranza di comprensione. C’è solo la volontà di essere Dio. Un Dio esecutore di condanne, un acceleratore di morte. Ma è quello che farebbe un Dio in terra, o quello che farebbe un uomo senza Dio? Solo Dio perdona è un film radicale. È un flusso di coscienza, senza tempo, immerso in uno spazio vuoto, caotico e immobile. Non si dimena, non si agita. Scorre. È la rappresentazione degli angoli più bui della nostra mente. Mente che, in tutti noi, è sospesa, galleggiante in un corpo traboccante di rosso. Sangue, ma anche vita, passione, emorragia. Ancora: eros e thanatos. Due. Come le mani.
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keisersoze · 11 years
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La grande bruttezza della critica italiana.
Dopo aver letto in giro per il web un po' di recensioni su La grande bellezza di Sorrentino, ci si fa una vaga idea dello stato in cui versa la critica cinematografica italiana. Come già ampiamente detto, il film è stato molto apprezzato all'estero, ma molto meno in Italia. Quando uscì Bella Addormentata di Bellocchio, e fu presentato a Venezia, furono riversate tonnellate di parole sui giornali/siti italiani che possiamo riassumere con: "Non siamo più in grado di raccontare storie universali", rei di aver presentato un film non compreso da Michael Mann e la sua giuria (come se i film, poi, si girassero per ingraziarsi le giurie). Con il film di Sorrentino le parti si sono ribaltate. Critiche entusiaste da parte di importanti e quotati media internazionali, sono state gratuitamente appiattite dai nostri giornalisti affermando che all'estero sarebbero molto affezionati alla dolce vita italiana, celebrata dall'omonimo film di Fellini, e che quindi La grande bellezza è un film abbastanza stereotipato da essere apprezzato. Delle due, l'una: o i nostri giornalisti sono bipolari, o sono delle maniche a vento. La sensazione, leggendo un po' di recensioni qua e là, è che ci sia chi, pochi e sparuti, nel delineare la propria analisi al film, abbiano argomentato un pensiero articolato e concettualmente denso, dentro il quale l'analisi prettamente contenutistica lascia il posto al senso, alla produzione di emozioni che il film provoca. Ma la maggior parte, e in questo caso la maggior parte si identifica con chi ha stroncato il film, ha deliberatamente analizzato la pellicola in maniera superficiale, contenutistica, cercando la realtà nella finzione e facendone ad essa una colpa, nel momento in cui la realtà non veniva trovata. Mi viene in mente l'articolo di Marco Giusti per Dagospia, in cui (tra tante cose buone) c'è una frase che dice, parlando della mondanità romana: "Ma dove ha visto queste cose Sorrentino? A Roma? Ma ne è sicuro?". Come se fosse cronaca. Come se fosse una fotografia. Ecco, questa visione del cinema così ancorata alla realtà (che, a memoria, stroncò anche Baarìa di Tornatore), vuole essere, come dire, vicina al pubblico. Che però non è quello che assiste alla proiezione a Cannes. Il pubblico, quello vero, è nelle sale dei multisala di tutta Italia, e se è vero che ogni mondo è paese, allora ci si sarebbe dovuti accorgere che nessuno, in una delle suddette sale italiche, sperdute e lontane da Cannes, quasi piena nel primo giorno di proiezione (martedì!) si è alzato annoiato dopo la visione de La grande bellezza. Anzi, dopo due ore e venti, tutti sono stati seduti a vedere i titoli di coda. I commenti carpiti da spezzoni di conversazioni qua e là raccontavano soddisfazione e meraviglia. La verità, come sempre, è in mezzo. Ciò che manca alla critica italiana è la passione. Riportare la gente al cinema, in questo momento, è ciò che dovrebbe stare a cuore a chiunque scriva di film, soprattutto se ha la fortuna di essere letto. Questo non significa non stroncare mai un'opera. Significa scrivere bene. La critica non dev'essere un rovesciare sul lettore le proprie conoscenze, né recensire negativamente un film con spocchia. Se è l'amore per il cinema che ti guida, bisognerebbe essere capaci di esprimere i propri giudizi legittimamente negativi con rispetto e pacatezza. Mai dall'alto in basso. Dai un voto, ma argomenta. Sui giornali è difficilissimo trovare tutto questo. Ed è difficilissimo trovare dei pezzi che trasmettano passione. Non trasmettendo passione, e quindi non possedendola mentre si scrive, non si analizza, ma si giudica, non si trasmette, ma si annienta. Se poi un film come La grande bellezza viene sdoganato come una pellicola sui salotti romani e nulla più, beh, vien da pensare che sì, forse i Flaiano e i Fellini non ci sono più, ma è altrettanto vero che non ci sono più nemmeno i Montanelli, che in barba a tutto e a tutti nel 1994 piazzavano Pulp Fiction in prima pagina.
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keisersoze · 11 years
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La grande bellezza
La morte irrompe grottesca sulla scena. Un turista giapponese ucciso da un infarto mentre scatta fotografie a Roma, vista dal Gianicolo. Ucciso dal proprio cuore, o forse dalla bellezza che si riflette nell’obiettivo della sua macchina fotografica. L’intro de La grande bellezza è un coacervo di cinema, inquadrature geometriche, movimenti di macchina di eccezionale bellezza ed eleganza, in un turbinio di comico e tragico, reale ed irreale. Poi, all’improvviso, un grido che sembra di dolore, di paura, e invece l’inquadratura stacca su un volto di donna, in una festa su una terrazza in bocca al Colosseo. Corpi in decomposizione che ballano, cantano, gridano, strofinandosi l’uno con l’altro nell’estremo tentativo di sentire ancora, davvero, del calore umano. La grande bellezza è un potente affresco cinematografico in cui coabitano spesso opposti che si attraggono come in simbiosi. La bellezza e la morte succhiano l’una dall’altra il fluido vitale, cercando di avere la meglio in un’agonia infinita di dolore ed estetica virtù. Il film di Sorrentino, infatti, è intriso di morte, sin dalla suddetta scena del turista giapponese. Come ne Il Divo, i personaggi vivono di notte, come vampiri. Nessuno di loro però è guardato dall’alto in basso, anzi, sono empatici, umani, e quindi deboli. Non c’è opportunismo o malafede. Spesso sono legati da vera amicizia. Sorrentino indica, ma non addita. Malinconicamente senza una direzione, rimbalzano nel film come palline di un flipper. Sono in un posto, ma non si sa perché o come ci siano arrivati. Falene che vagano senza meta, attratti da un buio silenzioso che non riesce ad essere riempito ed illuminato da nessuna luce. “La povertà si vive, non si racconta”. La povertà d’animo, alla quale nemmeno un cardinale sa dare una risposta. Ed è per questo che La grande bellezza fa dell’incontro, vero, contatto e non strofinamento, la sua trave portante. Gli incontri che farà Jep Gambardella cambieranno la sua vita impercettibilmente, ma quanto basta per virare di quel poco che nel corso degli anni diverrà tanto. Come la Costa Concordia incagliata per un cambiamento di rotta, così Jep riuscirà nel tentativo di evitare lo scoglio. Non per nulla la sua nostalgia per il passato, impersonata dalla ragazza amata tanti anni prima e ora morta, è rappresentato da un incontro sotto ad un faro, direzione ed aiuto per le navi lontane. Ma è un film costruito per produrre senso. Una sottile metafora dell’Italia (non solo di Roma, immobile scenografia del nulla), bella ma malata come Ramona, ancora capace di ispirare e stupire, ma che nel profondo di se stessa sa che dalla malattia non si salverà - è questo, certo, ma è anche un’opera cinematograficamente opulenta, con delle scene di un’estetica ambiziosa e mai frivola. Siamo dalle parti di Fellini, sì, ma anche di Malick. La grande bellezza è un film sulla morte, sugli incontri e sulla meraviglia. Sui trucchi che gli esseri umani hanno inventato per sconfiggere la prima, favorire i secondi e godere della terza. Il cinema di Sorrentino, e soprattutto questo suo ultimo film, è puro godimento cinematografico. Crea nuove forme, nuovi mondi, uscendo dal reale molto più spesso di quanto si creda, e tratteggiando un’opera enorme per inquadrature, divertente, tragica, malinconica, nostalgica e speranzosa. Due ore e venti di puro cinema che crea un universo senza una sua precisa linearità narrativa, ma che vive e si sostiene sul visibile, riportando il cinema ad essere causa e non effetto di meraviglia, visione e non riflesso, motore di magia e non semplice spettatore, raccontando per immagini e non per descrizioni. Immersi nella povertà, guardiamo e ci salviamo.
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keisersoze · 11 years
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Il grande Gatsby
In un periodo cinematografico colmo di remake, prequel, sequel e reboot, Il grande Gatsby di Baz Luhrmann è l’affermazione artistica del genere. Adattando il romanzo di Fitzgerald, il regista australiano cerca di ribaltare il concetto di originalità, chiedendosi cosa sia originale, cosa sia nativamente artistico e cosa sia l’arte al di fuori delle definizioni che la creano. Il suo Gatsby è esasperato, per certi versi grottesco (come lo intendeva Ejzenstejn: il raccapriccio causato dalla convivenza del comico con il tragico), intimamente personale. Più vicino ad una festa piccola, si nasconde nella moltitudine dei colori e delle straordinarie scenografie festanti e ballanti, rivelando un nocciolo profondamente intimo e scoperto. Un 3D al servizio non dei grandi party in casa Gatsby, né ad uso delle sfrenate corse in macchina o per gli emozionanti voli al di sopra di tutto, ma per le scene dei singoli, nelle quali i personaggi, più che uscire dallo schermo, diventano scultura, come fossero altorilievi. Stagliando Gatsby in primo piano, rendendolo tangibile, rendendo tangibile la sua vicinanza e allo stesso tempo lontananza da noi, Lurhmann costruisce un film che è la luce verde filmica del presente: tecnologicamente proiettato nel futuro, ma sempre e ossessivamente affascinato dal passato. La scelta di ricreare un’età del jazz senza quasi il jazz, ma colma di brani reinterpretati, dall’hip-hop di Jay-Z e Kanye West a Beyoncé che canta Amy Winehouse, si propone di costruire un artefatto filmico in bilico, in perenne tensione verso la luce verde della sua anima sospesa tra l’originale e il trasformato, tra la materia prima e il prodotto finito. Ciò che Il grande Gatsby di Luhrmann ci trasmette è che nulla è originale. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Nella scienza, come nella vita, fino al cinema, il quale maneggia parole per farne immagini in movimento. Niente di ciò che tocchiamo rimane intatto, senza trasformazioni, che si usuri o che si aggiusti. Lo stesso romanzo di Fitzgerald è un prodotto di vita vissuta, esperienza, influenze e arte. Non è un fatto storico che ha bisogno di essere riprodotto in copia per ricrearne la memoria. È liberamente aggiustabile: nulla di artistico può permettersi di essere intoccabile, tutto può passare di mano, e tutto può e deve sporcarsi e mescolarsi. Ma è un film che, soprattutto, ricalcando la trama del romanzo, inscena la rarità della sospensione del giudizio, la speranza atta a renderla possibile e l’estetica indispensabile perché sia sopportabile.
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keisersoze · 11 years
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Il Divo, Paolo Sorrentino (2008)
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keisersoze · 11 years
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David Lynch e Isabella Rossellini
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