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#Anton Sconosciuto
polaroidblog · 5 months
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“Memoria polaroid” – un blog alla radio S23E12
“I can’t believe we are here”, canta il leggendario J Mascis nel suo nuovo singolo, qui in apertura di scaletta. E devo ammettere che è un sentimento che condivido. Cioè: noi, qui, veramente? Ancora a mettere musica? E sono già dodici puntate? Beh, se anche voi siete abbastanza increduli ma non ne avete avuto abbastanza, ecco una nuova ora di novità indiepop e indie rock, senza trascurare gli…
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gianlucacrugnola · 5 months
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Anton Sconosciuto - Nonetheless
Nonetheless è il nuovo singolo di Anton Sconosciuto, indie rock vellutato in bilico tra entusiasmo e vulnerabilità, un avvertimento per ricordarsi che le oscillazioni sono parte integrante dell’esistenza umana.Si tratta del primo singolo pubblicato dopo l’uscita dell’Album d’esordio To Make Room uscito lo scorso 5 maggio 2023 per Pluma Dischi (Irma Records) e Coypu Records. Anton è tornato su…
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gcmmndn · 7 months
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Puntine #81 - Canzoni da ricordare questa settimana
https://www.dlso.it/site/2022/09/14/puntine-81-canzoni-da-ricordare/
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Un Bruckner semi-sconosciuto rilanciato a Berlino
Due sinfonie semi-sconosciute di Anton Bruckner sono state interpretate dai Berliner Philharmoniker diretti da Christian Thielemann, uno specialista nelle esecuzioni del compositore austriaco. Il concerto, eseguito il 29 febbraio a Berlino, si intitolava “Bruckner sconosciuto con Christian Thielemann”, come ha sottolineato il sito della Philharmonie berlinese definendo le due sinfonie “poco…
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gaiaitaliacom · 2 years
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“To Meet You”, un incontro per sfuggire al presente. Il singolo d’esordio di Anton Sconosciuto
Il singolo disponibile dal 9 settembre
di Redazione Musica “To Meet You”, singolo d’esordio del progetto Anton Sconosciuto, è una ciondolante confidenza indie folk, un brano che esprime la necessità di un incontro e la perenne ricerca del momento e del contesto perfetto, una sensazione sfuggente che rischia di allontanarci dal presente. Anton Sconosciuto, polistrumentista che nasce alla batteria, parte da una ritmica strascicata su…
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livornopress · 2 years
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Rock Contest, vince Anton Sconosciuto. L’artista anglo-italiano si aggiudica l’edizione 2021
Rock Contest, vince Anton Sconosciuto. L’artista anglo-italiano si aggiudica l’edizione 2021
Anton Sconosciuto vincitore Rock Contest 2021 19 dicembre 2021 È cresciuto tra Londra e Siena (adesso vive a Roma), a suon di Beatles e Beach Boys, Mac DeMarco e Andy Shauf, il suo presente è nel segno di un pop da camera e suoni canterburiani, dinamiche intime e testi in inglese. Anton Sconosciuto è il vincitore del Rock Contest 2021, concorso musicale nazionale che da 33 anni scova e promuove…
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collasgarba · 4 years
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adrianomaini · 4 years
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sciscianonotizie · 6 years
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pangeanews · 4 years
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Franca Valeri 100 anni! Ritratto di una donna geniale, dall’intelligenza sopraffina, autentico modello di femminilità (altro che Barbie…)
Iniziamo con un aneddoto. Alla morte di Alberto Sordi, nel giugno del 1990, fra le centinaia, migliaia di necrologi, spiccava quello, ironicamente sintetico, di Franca Valeri, che, dalle pagine del “Corriere della sera”, così salutava il collega di tanti set: Ciao, Cretinetti. Con quell’epiteto così sarcasticamente milanese, Elvira Almiraghi/Franca Valeri, l’imprenditrice co-protagonista de Il vedovo (1959), si rivolgeva al marito, interpretato appunto da Sordi, adultero maldestro, affarista di scarse fortune e di ancor più scarso intuito criminale. Ma, nella memoria collettiva, Elvira è solo una delle tante facce della “Franca nazionale” (all’anagrafe Franca Maria Norsa), che il 31 luglio compie cento anni.
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A questa presenza così incisiva nel panorama cinematografico, televisivo, ma anche teatrale (senza dimenticare che da molto tempo Franca Valeri si dedica con successo alla regia di opere liriche) Aldo Dalla Vecchia dedica Viva la Franca. Il secolo lieve della Signorina Snob (Graphe.it), agile volumetto che ripercorre le tappe della carriera di questa figura così poliedrica, a partire dall’infanzia, con la fascinazione precoce per la lirica: “I miei primi sei anni furono pieni di avvenimenti: cambiammo indirizzo e i miei mi portarono per la prima volta alla Scala a vedere Il Trovatore. L’opera mi piacque subito. Non capivo molto, ma vedere il sipario, le scene, i cantanti, e poi la musica ha sempre avuto su di me sempre un potere irreversibile: mi sembrava di aver varcato la soglia di un mondo migliore”.
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Riservata, educata, elegante e melomane fin da bambina, la piccola Franca ha già nell’infanzia il teatro nel sangue, e un mito sopra tutti: Ettore Petrolini, di cui la piccola conosce tutte le battute, e che una sera, dopo lo spettacolo, di fronte alla dichiarazione di ammirazione della giovanissima fan, la prende addirittura in braccio, per la gioia della bambina. Un incontro che segna, insomma. Dopo il liceo, e gli orrori della guerra, Franca si dedica al teatro: a conti fatti, fu forse una fortuna che, dopo aver sostenuto un provino nei panni di Elettra di Les Mouches di J.-P. Sartre per entrare nell’Accademia Silvio D’Amico, Franca non fosse stata ammessa. A questo punto, infatti, diventerà fondamentale l’esperienza del romano Teatro Arlecchino, dove la Valeri, lavorando insieme ad altri giovani artisti, prenderà sempre più coscienza dei suoi straordinari mezzi espressivi. Da lì verrà poi l’avventura parigina del Teatro dei Gobbi, in cui, insieme ad Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli, inaugurerà un tipo di spettacolo dal vivo ancora sconosciuto in Italia, fatto di sketch brevissimi, dialoghi fulminanti, battute a raffica, ritmo frenetico, grande uso di mimica ed espressività corporea: e, sullo sfondo, invece delle elaborate scenografie in auge nel teatro del tempo, un semplice fondale.
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E se poi pensiamo ai film, vediamo attuarsi l’assoluto paradosso che racchiude l’unicità di Franca Valeri: i film da lei interpretati si concentrano negli anni Cinquanta, con uno strascico nel 1961 e 1962 (in cui ella interpretò rispettivamente Leoni al Sole e Parigi o cara). Il suo anno d’oro è il 1955, in cui girò ben cinque pellicole, con il primo ruolo da protagonista in Piccola Posta, di Steno. Qui Franca Valeri compie un doppio salto mortale attoriale, nel ruolo della eccentrica baronessa Eva Bolasky, “polacca per parte di madre”, dall’incredibile chioma platinata, curatrice della rubrica di consulenza sentimentale di “Lady Eva” su un noto rotocalco, dalle cui pagine, dall’alto delle sue esotiche ascendenze nobiliari, consiglia le lettrici in ambasce per patemi amorosi. In realtà, la baronessa polacca si chiama Filomena Cangiullo e vive in una casetta della periferia romana in compagnia della madre, che la aiuta a smaltire la montagna di missive ricevute dalle lettrici. Nel film, le vicende dell’esotica e inesistente baronessa si intrecciano con quelle di Rodolfo Vanzino Castelfusano d’Arezzo, intrepretato da Alberto Sordi, che alla fine, nella classica scena risolutiva al commissariato, si scoprirà essere un millantatore e truffatore, specializzato in colpi ai danni di ingenue vecchine.
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Ma è Il segno di Venere, di Dino Risi, pure del 1955, a far brillare il genio peculiare di Franca Valeri, che, in questa pellicola interpreta Cesira, cugina di Agnese, interpretata da una ventunenne Sophia Loren. Le due ragazze vivono a Roma con il papà di Agnese, interpretato da Peppino De Filippo, e con una zia, una strepitosa Tina Pica. Intorno ad Agnese, bellissima e procace, ma anche attorno alla più dimessa Cesira si crea una girandola incredibile di situazioni imbarazzanti e grottesche, grazie anche a una serie di personaggi maschili molto caratterizzati, fra i quali Vittorio De Sica (il poeta truffatore), Raf Vallone (l’onesto vigile del fuoco) e Alberto Sordi (il faccendiere aduso a vivere di espedienti). La sceneggiatura, scritta quasi solo da Franca Valeri, con alcuni consigli di Edoardo Anton ed Ennio Flaiano, rivela tutto il genio di questa donna: Cesira, infatti, non è il solito personaggio di contorno, nonostante al suo fianco brilli la solare imponenza della Loren. Cesira, protagonista del film e “motore” di tutti gli incontri, è un’autentica romantica, ridimensionata dalla conoscenza dei propri limiti e dalle batoste a getto continuo: Cesira è rimasta al palo, ma, tuttavia, continua a provarci. Questo fa de Il segno di Venere il film che rivela la sommersa, cinica malinconia dell’attrice. Poi, venne Il Vedovo: e quale donna non vorrebbe avere l’intelligenza pragmatica, l’asciutta capacità di azione, la decisione di Elvira?
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Gli anni Sessanta si aprono invece con due grandi film: Leoni al sole (1961) e Parigi o cara (1962). Il primo, diretto da Vittorio Caprioli, che era allora compagno di Franca Valeri, interpretato da Caprioli stesso insieme a Carlo Giuffré e Philippe Leroy, riflette sui temi del cameratismo maschile, dello scollamento fra l’immagine ideale di eterno conquistatore che ogni uomo accarezza e l’impietoso passare del tempo, accennando anche – particolare temerario per l’epoca – la tema dell’impotenza. Nella seconda pellicola, la coppia Caprioli-Valeri si spinge anche più in là: Franca Valeri interpreta una donna eccentrica, Delia, che veste abiti incredibili e si acconcia con parrucche sempre diverse, la quale da Roma si trasferisce a Parigi per raggiungere il fratello. Ma i suoi sogni di gloria si infrangeranno contro la dura realtà della vita in una metropoli: Delia finirà per vivere in un appartamentino claustrofobico e con le finestre murate nella squallida periferia cittadina, e vedrà la Tour Eiffel solo quando starà sulla via del ritorno, accingendosi a rientrare in Italia con il pizzaiolo (interpretato da Vittorio Caprioli) da sempre innamorato di lei, ma rinunciando anche a tutti i suoi sogni di gloria. Il film è modernissimo, con dialoghi magnifici, e pervaso da un’estetica camp straordinaria, presenta anche, con le dovute cautele data l’epoca e la censura sempre in agguato, il tema dell’omosessualità, grazie alla figura del fratello di Delia, interpretato da Fiorenzo Fiorentini.
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Gli anni Settanta porteranno meno ruoli cinematografici, ma memorabile è la spassosa caricatura di una regista, chiaramente ravvisabile in Lina Wertmüller, che la Valeri offrirà in quel cult che è Ultimo tango a Zagarol (1973), in cui ella interpreta l’equivalente che nel film di Bertolucci è il giovane Jean-Pierre Léaud. L’ultimo suo ruolo al cinema è nel 1983, in una commedia all’italiana; ma nel frattempo Franca Valeri ha capito, con intelligenza sopraffina, il potere sempre crescente che ha la televisione: sul piccolo schermo ella aveva debuttato fin dal 1956, con Idillio villereccio di G. B. Shaw, diretta da A. Falqui e in coppia con Caprioli, e memorabile sarà nel 1968 il suo ritorno al teatro in TV con Felicita Colombo, commedia brillante di G. Adami. Ma nemmeno negli show veri e propri manca la zampata della Valeri, a partire da La regina e io (1957), curioso prototipo del salotto televisivo con Nilla Pizzi: e poi arriveranno Stasera Rita, Studio Uno, Sabato sera, sino a Magazine 3 e La posta del cuore negli anni Novanta, in cui Franca Valeri perfeziona e dipana il suo personale repertorio di personaggi, dalla Signorina Snob alla Sora Cecioni a Cesira la manicure. Per chi, come me, era adolescente negli anni Novanta, Franca Valeri poi è stata la presenza fissa di tante fiction (Norma e Felice, nel 1995, con Gino Bramieri; Caro Maestro e Caro Maestro 2; Linda e il Brigadiere nel 2000).
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Guardando all’intelligenza di questa donna così moderna sin da quando, negli anni Cinquanta, alle ragazze si proponeva quasi esclusivamente il modello femminile dell’Angelo del focolare, viene da chiedersi se un vero modello per la donna italiana del tempo – e anche di oggi – non sia proprio questa attrice dal talento proteiforme, capace di reinventarsi mille volte e di attraversare un secolo con la sua creatività. Certo, Franca Valeri, per nascita, educazione, gusti, non era propriamente un modello alla portata di tutti; ma magari le ragazze degli anni Venti del ventunesimo secolo, invece di correre dal tatuatore e dal chirurgo plastico per essere tutte uguali a un unico modello (Barbie?), pensassero a costruire se stesse come una opera d’arte frutto di creatività e intelligenza!
Silvia Stucchi
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Al via la stagione teatrale a Gavi Ligure
Il TEATRO CIVICO DI GAVI è pronto ad ospitare la nuova stagione teatrale 2017/18, organizzata dal COMUNE DI GAVI in collaborazione con la FONDAZIONE PIEMONTE DAL VIVO e con l’Associazione Commedia Community di Arquata Scrivia (TEATRO DELLA JUTA). La nuova stagione prenderà il via GIOVEDI’ 7 DICEMBRE e chiuderà a maggio, coinvolgendo il pubblico adulto e quello delle scuole. Questi gli appuntamenti che fanno parte del cartellone 2017-18: ¦ Giovedì 7 dicembre 2017 QUANDO LA MOGLIE E' IN VACANZA Di George Axelrod; traduzione di Edoardo Erba Produzione Ass.Commedia Community-Teatro della Juta. Un omaggio al film che ha reso immortale l'icona di Marylin Monroe, firmato al cinema dal regista Billy Wilder. Questo adattamento teatrale fa un uso narrativo delle immagini, che vivacizzano il tradizionale svolgimento delle "commedie da appartamento", modificando la narrazione classica in un racconto multimediale. La monotona estate di Richard Sherman, rimasto solo in città dopo la partenza della moglie per le vacanze, viene sconvolta dall'arrivo di una "frizzante" annunciatrice televisiva, che abita provvisoriamente al piano di sopra. La commedia gioca sul contrasto tra la volontà di essere fedele alla moglie e la tentazione di sedurre la bella vicina. Tra sogni e realtà, Richard immagina di conquistare la ragazza, ma anche di essere ripagato con la stessa moneta dalla moglie in vacanza. ¦ Sabato 20 gennaio 2018 FUORI CARTELLONE GLI ALLEGRI CHIRURGHI Compagnia Piccolo Palco. Il dott. Lorenzo Martini è un tranquillo chirurgo di fama mondiale ed è sposato da anni con Patrizia. Il dott. Paolo Bonomi vive ancora con la mamma, mentre il dott. Michele Colonna è un tranquillo chirurgo con atteggiamenti un po’ particolari. Tutti lavorano, tranquillamente, all’ospedale San Camillo di Roma, diretto dal prof. Adalberto Mantoni, ex primario, ora direttore sanitario, eminenza grigia con amicizie altolocate. Tutto è tranquillo... fino all’arrivo di Giulia Tosetti e sua figlia Alessia, che ha appena compiuto 18 anni e ha appreso che il suo vero padre, a lei sconosciuto, è un dottore che lavora al San Camillo, di cui ignora il nome. Infatti, diciotto anni fa, Giulia è stata infermiera ed amante del dott. Martini. Ora, la situazione comincia a complicarsi un po': Alessia vuole a tutti i costi sapere chi è suo padre...Situazioni, battute e personaggi sull’orlo della follia e della comicità esilarante. ¦ Sabato 24 febbraio 2018 FUORI CARTELLONE MELE PER EVA Compagnia dell’Ambra/I Pochi. Lo spettacolo è una riduzione di “Nove mele per Eva” di Gabriel Arout, al secolo Gabriel Aroutcheff, autore russo ma francese di adozione che compone l’opera adattando e rielaborando per il teatro i racconti umoristici giovanili di Anton Cechov. La versione della Compagnia dell’Ambra è divisa in cinque stoie che si sviluppano in un intreccio a puntate. St orie di coppie, dal tono brillante e farsesco che affrontano il tema della seduzione e delle diverse sfaccettature dell’essere femminile, che dai tempi dell'Eden non ha ancora soddisfatto la voglia di assaporare il frutto proibito. Donne di ogni età, di diversa estrazione sociale e culturale, ma che in comune hanno lo sguardo disincantato verso "questo strano animale" che è l'uomo. Nel girotondo dei sentimenti, quando tutti finiranno giù per terra, chi sopravviverà? A chi resterà in mano la mela tanto contesa? ¦ Giovedì 8 marzo 2018 IL BACIO di Ger Thijs. Con Barbara De Rossi e Francesco Branchetti. Il Bacio è un testo straordinariamente e profondamente intriso di umanità; è la storia di un incontro tra un uomo e una donna; una panchina, un bosco, dei sentieri, due vite segnate dall’infelicità, forse dalla paura ma che, in una sorta di magica “terra di mezzo”, arrivano a sfiorarsi, a toccarsi. Una donna che va alla ricerca del suo destino, un uomo che fa i conti con i suoi fallimenti e con la sua storia. I misteri dei sentieri e di un bosco fanno da sfondo all’incontro tra i due, la magia del mondo che li circonda ed una strana quiete, che talvolta guadagna il suo “spazio”, accompagnano l’avvicinarsi di queste due anime... ¦ sabato 17 marzo 2018 FUORI CARTELLONE I BRUCIAMONTI Compagnia del Barchì - Commedia dialettale in tre atti, Regia di Carlo Bassano La Famiglia Bruciamonti è apparentemente una famiglia normale, o almeno così vorrebbe il capofamiglia Giorgio Bruciamonti, ma ogni giorno, è costretto a sopportare le manie e le illusioni delle figlie. Norma crede di essere una cantante, Gioconda pensa solo alla pallavolo, entrambe sostenute dalla madre Aida. Il nonno è fissato per la Lirica e parla cantando arie operistiche. Quando arriva in casa un cronista RAI per registrare un'intervista per il programma “Le Belle Famiglie d’Italia", tutto precipita, e il peggio viene a galla... ¦ Venerdì 6 aprile 2018 MAI NESSUNO LA BACIO' SULLA BOCCA (infame destino della Bella Addormentata) di Ugo Dighero e Marco Melloni, con Ugo Dighero. Il nuovo lavoro teatrale di Ugo Dighero, dirà tutta la verità, solo la verità, nient'altro che la verità! Il pupazzo Gnappo ci racconterà perché nessun principe azzurro baciò mai la bella addormentata sulle labbra, come fu che Biancaneve scoprì ciò che si dice intorno ai nani e cosa trovò veramente il cacciatore di Cappuccetto rosso nello stomaco del lupo. Inoltre: perché la FIAT non ha mai costruito la 129? Parliamone con Sandro, esperto di donne e motori. I grandi misteri dell'uomo analizzati con sguardo ironico e comico dal bravissimo Ugo Dighero. ¦ Sabato 14 aprile 2018 FUORI CARTELLONE AMORE NON E' AMORE di Paolo Scepi. Cani da Compagnia. In un parco cittadino, come ce ne sono tanti, le persone passano, vanno, e il più delle volte non si incontrano, nemmeno con lo sguardo. Un barbone ne ha fatto la sua casa, una giovane il luogo per un pic-nic speciale, un inconsueto rapinatore il suo territorio di caccia, una giovane donna lo spazio di una resa dei conti. Anime che si incontrano, si conoscono, si scontrano, si abbandonano, insomma anime che si nutrono di sentimenti ed emozioni per crescere e per mutare. Lo spettacolo ha come filo conduttore la poetica di Shakespeare, dove l'amore diventa il presupposto per la trasformazione di ciascun personaggio... ¦ Sabato 5 Maggio 2018 MI ABBATTO E SONO FELICE Compagnia Mulino ad Arte. “Mi abbatto e sono felice” è un monologo a impatto ambientale “0”, autoironico, dissacrante, che vuole lanciare una provocazione importante: vuole far riflettere su come si possa essere felici abbattendo l’impatto che ognuno di noi ha nei confronti del pianeta sul quale abitiamo. “Mi abbatto e sono felice” non utilizza energia elettrica in maniera tradizionale. Si autoalimenta grazie allo sforzo fisico prodotto dall'attore protagonista in scena. Non sono presenti altri elementi scenici: i costumi sono essenziali e recuperati dal guardaroba di nonno Michele. Le musiche sono live. Un vero monologo eco-sostenibile! Per le scuole sono previsti due spettacoli, sempre a cura di Piemonte dal Vivo: Teatro del Buratto, con STRANIERO DUE VOLTE, per le scuole medie (5 aprile), spettacolo che ha per tema l'integrazione, e MOZTRI, per le scuole elementari (19 marzo), di Luna e Gnac Teatro. INIZIO SPETTACOLI SERALI ORE 21. INFOPOINT, PRENOTAZIONI e PREVENDITA: COMUNE DI GAVI 0143 642913 www.comune.gavi.al.it Biglietteria Biglietti spettacoli serali POSTO UNICO € 10 VENDITA DIRETTA LA SERA STESSA DELLO SPETTACOLO A PARTIRE DALLE ORE 20 PRESSO IL TEATRO CIVICO DI GAVI. TEATRO CIVICO DI GAVI - Via Garibaldi info e prenotazioni telefoniche ai numeri: 345 0604219 e 349 7823713 o via mmail a: [email protected] www.teatrodellajuta.com http://dlvr.it/PyqHx0
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pangeanews · 4 years
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“Non so che farmene di tale immortalità”. Sull’importanza di leggere Čechov. (Cominciamo con “La moglie del farmacista”)
Come si fa a leggere Čechov? O si prendono i due mattoncini della Garzanti e si prega la buona sorte che non siano stati esclusi dalla scelta antologica le cose piccole ma efficaci del russo; oppure si scappa in biblioteca, quando mai verrà riaperta, e si sfogliano le traduzioni storiche, più ‘risalenti’ e forse più poetiche di altre, svolte da Agostino Villa con Einaudi.
La seconda mossa richiede al lettore un alambicco. Prendere Čechov, trapiantarlo mentalmente in America e farlo reagire con Dostoevskij. Rilevare come ne viene fuori, giulivo, il vecchio Faulkner.
Oppure combinare Čechov con un’altra soluzione e ricavarne Salinger. Se non vi siete stufati, immergere Čechov in soluzione acida: avrete un minore (chissene: comunque si chiama Cheever).
Volete forse un cocktail più di moda? Fate incontrare Čechov con Carver e vedrete subito un sosia di infimo livello del russo. Nella sontuosa e pacchiana (fin dal titolo) edizione Einaudi Di cosa parliamo quando parliamo d’amore Carver se ne viene fuori con un raccontino che è un elogio sperticato del maestro. Fin dall’esordio: “Čechov. La sera del 22 marzo 1897 andò a cena, a Mosca, col suo amico e confidente Alexei Suvorin. Questo Suvorin era un ricchissimo editore di libri e di giornali, un reazionario, un uomo che si era fatto da sé. Suo padre aveva combattuto come soldato semplice nella battaglia di Borodino…”.
*
Siete un gocciolo curiosi, ora, di vedere un dialogo maestoso tra Čechov e, che so, Tolstoj? Continuate a leggere il raccontino fesso di Carver. A proposito, di là dalla tenue ironia esercitata sia da Čechov che da Carver sui loro materiali narrativi, io non riesco a vedere analogia tra i due, nonostante le fascette editoriali e gli avvisi di garanzia dei geriatrici gerarchi culturali. Pazienza, mi sarò perso qualcosa.
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Così Carver scolpisce il suo idolo: “Anche Lev Tolstoj si recò a fargli visita. Trovarsi di fronte al più grande scrittore del paese ispirò un reverente timore al personale della clinica. Non era forse l’uomo più famoso di tutta la Russia? Dovevano per forza permettergli di vedere Čechov, anche se i medici avevano proibito le visite ‘non essenziali’. Così, circondato dagli ossequi rispettosi delle infermiere e dei dottori, il vecchio dall’aspetto fiero e barbuto fu fatto entrare nella stanza di Čechov. Nonostante non avesse una grande opinione delle capacità drammaturgiche di Čechov (Tolstoj considerava i suoi drammi statici e privi di tensione morale. ‘Dove vi portano i vostri personaggi?’, chiese una volta a Čechov. ‘Dal divano al ripostiglio e viceversa’), Tolstoj ammirava i suoi racconti. E ancor di più, semplicemente, ammirava l’uomo”.
*
Chi vuole può saltare questo paragrafo.
Cito ancora Carver perché mi serve a far risaltare le differenze di scrittura con Čechov, alla fine. “Tolstoj si tolse la sciarpa di lana e la pelliccia d’orso e si sedette su una sedia accanto al letto di Čechov. Non si curò del fatto che l’infermo era sotto cura e che gli era stato addirittura proibito di aprire bocca, figurarsi quindi se poteva sostenere la fatica di una conversazione. Čechov si ritrovò ad ascoltare, con un certo stupore, le disquisizioni del conte sulle sue teorie dell’immortalità dell’anima. A proposito di quella visita, più tardi Čechov scrisse: ‘Tolstoj crede che tutti noi (uomini o animali, non importa) continueremo a vivere sotto forma di principio (come la ragione o l’amore) la cui essenza e i cui fini sono per noi un mistero. …Non so che farmene di una tale immortalità. Non la capisco e Lev Nicolaevič ne è rimasto molto stupito’”.
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Fine della carrellata.
Čechov è superiore: ha racconti che mi hanno fatto ballare il tango come Incubo, Un bacio, Ariadna, Dalle memorie di un uomo impulsivo, Una crisi di nervi e potrei dire altro ma saremmo sempre nel vago perché i suoi titoli sono, appunto, vaghi. Salvo rare eccezioni, dove comunque si vola sempre basso: Reparto n. 6. (Era medico, il grand’uomo…)
*
Volete un attacco alla Čechov? Eccolo servito: “Per ragioni di cui non è questo il momento di parlar minutamente, mi si rese necessario farmi assumere come cameriere in casa di un funzionario pietroburghese, certo Orlov. Aveva costui trentacinque anni circa, e aveva nome Gherorghij Ivanyc”. Il racconto di uno sconosciuto è qui, il tema è come in Karenina ma al confronto il capolavoro del conte Tolstoj è un algoritmo, un dolmen. Ma non è detto che a tutti piaccia l’arte primitiva…
*
Sciocchezze di lettore a parte, adesso obbligo voi a leggere questo racconto che tempo addietro, quand’ero giovane e bello, inserii in un libro di scuola per il biennio. Fu una scelta da minchione. La figura centrale, infatti, è molto bovaristica; all’epoca non conoscevo nemmeno il significato della parola.
*
La moglie del farmacista fu composta dal nostro divo da giovane, a 26 anni. Mi piacque per il titolo. Da tre lustri mi sta conficcata nella memoria questa immagine: a sinistra del bivio, mia madre a casa che legge due libri spaiati di Čechov; a diritta sta Sherlock Holmes, a destra non si va da nessuna parte mentre la via che mi sono lasciato alle spalle è il passato, cioè l’errore.
*
Entrate anche voi nella bottega del farmacista, senza farvi vedere dalla signora. Sempre che non vogliate cascare in trappola. Come ha scritto Stendhal – quasi anticipando Ĉechov, direbbe il comitato Adelphi – “una delle cause più comiche delle avventure amorose, sono i falsi colpi di fulmine. Una donna annoiata, ma priva di sensibilità, si crede durante tutta una sera innamorata per la vita. È orgogliosa d’aver finalmente trovato uno di quei grandi movimenti dell’anima che la sua immaginazione inseguiva. Il giorno dopo non sa più dove nascondersi, e soprattutto come evitare il disgraziato che il giorno prima adorò”. (Andrea Bianchi)
***
Anton Ĉechov, La moglie del farmacista
La cittaduzza di B., composta di due o tre vie storte, dorme d’un sonno durissimo. Nell’aria stagnante, silenzio. Si sente solo, in qualche posto lontano, probabilmente fuori di città, un cane che abbaia con fievole, arrochita voce tenorile. Presto sarà l’alba.
Tutto da un pezzo ormai si è chetato. Non dorme soltanto la giovane moglie dell’aiuto farmacista Cernomordik, titolare della farmacia di B. S’è coricata già tre volte, ma il sonno si ostina a non venire; e non si sa perché. Sta seduta presso la finestra aperta, in sola camicia, e guarda nella via. Soffoca, si annoia, è di cattivo umore… così cattivo che ha perfino voglia di piangere; ma perché, daccapo non si sa. Come un nodo le sta in petto e di continuo le sale alla gola… A tergo, a qualche passo dalla moglie del farmacista, rannicchiato contro la parete, ronfa dolcemente lo stesso Cernomordik. Un’avida pulce gli si è confitta alla radice del naso, ma egli non sente ciò e sorride perfino, poiché sogna che tutti in città tossiscono e ininterrottamente comprano da lui le gocce del re di Danimarca. Ora non lo sveglieresti né con le punture, né col cannone, né con carezze.
La farmacia si trova quasi all’estremo della città, così la farmacista in distanza può veder la campagna. Ella vede come a poco a poco imbianca il lembo orientale del cielo, come poi s’imporpora, quasi per un grosso incendio. Inaspettata, da dietro un lontano cespuglio, striscia fuori una luna grande, dall’ampia faccia. È rossa (in generale la luna, uscendo da dietro gli arbusti, è sempre, chi sa perché, enormemente confusa).
D’un tratto, in mezzo alla quiete notturna risuonano passi di qualcuno e un tintinnio di speroni. Si odono voci.
“Sono gli ufficiali che dalla casa del capo di polizia vanno al campo”, pensa la farmacista.
Dopo un po’ di attesa, compaiono due figure in bianche tuniche d’ufficiale: una grande e rossa, l’altra più piccola e sottile… pigramente, passo passo, si trascinano lungo la stecconata e discorrono forte di qualche cosa. Giunte a pari della farmacia, le due figure cominciano ad andare ancor più piano e guardano le finestre.
– Odora di farmacia… – dice lo smilzo. – Ed è la farmacia! Ah. rammento… La settimana scorsa fui qui, comprai dell’olio di ricino. C’è anche un farmacista con un viso acido e la mascella asinina. Quella, caro, è una mascella! Proprio con una così Sansone sconfiggeva i filistei.
– Ma sì… – dice il grosso con voce di basso. – Dorme la farmacia! Anche la moglie del farmacista dorme. C’è lì, Obtesov, una farmacista bellina.
– Ho visto. M’è piaciuta molto… Dite, dottore, possibile ch’ella sia in grado di amare quella mascella d’asino? Possibile?
– No, probabilmente non l’ama, – sospira il dottore con un’espressione come se gli dolesse pel farmacista. – Dorme ora la mammetta dietro la finestrella! Obtesov, eh? Si è distesa dal caldo… la boccuccia semiaperta e un piedino penzoloni dal letto. Quel babbeo del farmacista, penso, di questo ben di Dio non capisce nulla. Per lui, credo che sia una donna o che sia una damigiana d’acido fenico, fa lo stesso!
– Sapete che cosa, dottore? – dice l’ufficiale, fermandosi. – Su, entriamo in farmacia e compriamo qualcosa! Vedremo forse la farmacista.
– Che vi salta in mente; di notte!
– E che fa? Son ben tenuti a vendere anche di notte. Colombello, entriamo!
– E sia…
La moglie del farmacista, nascostasi dietro la tendina, ode una rauca scampanellata. Volta un’occhiata al marito, che russa come prima dolcemente e sorride, si getta addosso la veste, calza le babbucce sui piedi nudi e corre in farmacia.
Dietro la porta a vetri si vedono due ombre… La moglie del farmacista alza la fiamma e si affretta alla porta per aprire, e più non si annoia, e non è di cattivo umore, e non ha voglia di piangere, ma solo le batte forte il cuore. Entrano il dottore grassone e lo smilzo Obsetov. Ora li si può esaminare. Il panciuto dottore è abbronzato, barbuto e senza agilità. A ogni minimo movimento la tunica gli fruscia addosso, e sul viso gli spunta il sudore. L’ufficiale invece è roseo, senza baffi, femmineo e flessibile come un frustino inglese.
[I due avventori si fanno servire dalla moglie del farmacista. Dapprima chiedono delle pasticche di menta – dettaglio da tenere d’occhio – e poi del vino rosso, facendo i cascamorti. L’autore dà fondo alle sua abilità sceniche e teatrali.]
– Che civettina, però, siete voi! – ride piano il dottore, guardandola di sotto in su, con aria scaltra. – I vostri occhietti sparano a tutt’andare! Pif! Paf! Complimenti: avete vinto! Siamo battuti!
La farmacista guarda i loro visi coloriti, ascolta il loro chiacchierio e ben presto si anima ella stessa. Oh, si sente già così gaia! Entra in conversazione, ride, civetta e beve, perfino, dopo lunghe preghiere dei clienti, un paio d’once di vino rosso.
– Se voi, ufficiali, da campi veniste un po’ più spesso in città, – ella dice, – se no qui è tremendo, come ci si annoia. Io ci muoio, semplicemente.
– Sfido! – dice inorridito il dottore. – Un ananasso simile… un miracolo della natura, e in un sito sperduto! Benissimo si espresse Griboiedov: “In un sito perduto! a Saratov!”. È ora che andiamo, però. Molto lieto della conoscenza… lietissimo! Quanto dobbiamo?
La moglie del farmacista leva gli occhi al soffitto e muove a lungo le labbra.
– Dodici rubli e quarantotto copeche! – dice.
Obtesov cava di tasca un grosso portafogli, rovista a lungo in un fascio di biglietti e regola il conto.
– Vostro marito dorme soavemente… sogna! – egli sussurra, stringendo a commiato la mano della farmacista.
– Non mi piace ascoltare sciocchezze…
– Ma quali sciocchezze? Al contrario, non son punto sciocchezze… Perfino Shakespeare disse: “Beato chi da giovane fu giovane!”.
– Lasciate andare la mano!
Infine i compratori, dopo lunghi discorsi, baciano alla farmacista la manina e irresoluti, come dubbiosi di aver scordato qualche cosa, escono dalla farmacia.
E lei corre rapida nella stanza da letto e siede a quella stessa finestra. Vede come il dottore e il tenente, usciti dalla farmacia, pigramente se ne scostano una ventina di passi, poi si fermano e cominciano a bisbigliarsi qualcosa. Che cosa? Il cuore le batte, le tempie pure le pulsano, e il perché ella stessa non sa… Forte palpita il cuore, come se quei due, bisbigliando laggiù, decidessero la sua sorte.
Di lì a un cinque minuti il dottore si stacca da Obsetov e va oltre, e Obsetov ritorna. Egli passa davanti alla farmacia una volta, un’altra… Ora si ferma accanto alla porta, ora da capo cammina a gran passi… Infine il campanello tintinna cautamente.
– Chi c’è? Chi è là? – ode la farmacista d’un tratto la voce del marito. – Suonano, e tu non senti! – dice severo il farmacista. – Che disordini son questi!
Egli si alza, indossa la veste da camera e, tentennando nel dormiveglia, ciabattando, va in farmacia.
– Che cosa… volete? – domanda ad Obsetov.
– Date… datemi quindici copeche di pastiglie di menta.
Con un ronfare interminabile, sbadigliando sonnacchioso, e dando nei ginocchi contro il banco, il farmacista sale al palchetto e raggiunge il barattolo.
Dopo due minuti la moglie del farmacista vede come Obsetov esce dalla farmacia e, fatti pochi passi, scaglia sulla strada polverosa le pasticche di menta. Da dietro l’angolo gli viene incontro il dottore. I due si riuniscono e, gesticolando con le braccia, scompaiono nella nebbia mattutina.
– Come sono infelice! – dice la farmacista, guardando con astio il marito che si sveste rapidamente, per rimettersi giù a dormire. – Oh, come sono infelice! – ripete, sciogliendosi in un tratto in amare lacrime. – E nessuno, nessuno sa…
– Ho dimenticato le quindici copeche sul banco, – borbotta il farmacista, coprendosi con la coperta. –Riponile, per favore, nella scrivania.
E subito si addormenta.
Anton Čechov
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pangeanews · 4 years
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“M’inoltro, meravigliato, nei suoi libri…”. Mircea Eliade candidò al Nobel Piero Scanziani. Dialogo con la moglie di uno scrittore di genio, da riscoprire
Scopro per caso – non ho l’ambizione di organizzare il diario a chi trasmuta il caos in disegno – in una bancarella bolognese il Diario di Mircea Eliade. Lo apro. 28 giugno 1984. “Ieri sera con gli Ionesco e Cioran abbiamo cenato da Colette e Claude Gallimard. Ero di cattivo umore, apatico e, infine, depresso. La conversazione generale: si è parlato soprattutto di malattie… Ho ricevuto oggi, per espresso aereo, tre volumi di Piero Scanziani. Tutti con la stessa dedica: ‘A frate Mircea, frate Piero’. Apro a caso il Libro bianco. Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. Il testo mi sorprende: di Piero Scanziani so nulla. Come mai? Lo immagino, quel giorno di giugno di 35 anni fa, nella testa di Eliade, tra Cioran, Ionesco, Gallimard. Il “nuovo scrittore” cui allude Eliade è in realtà quasi un coetaneo: Scanziani è nato a Chiasso nel 1908, il grande storico delle religioni è più vecchio di un anno. Di certo, sarà la sua ultima ‘scoperta’: Eliade muore nell’aprile del 1986, negli anni che gli restano farà di tutto per promuovere la conoscenza degli scritti di quello che ritiene un grande scrittore. Sarà Eliade, infatti, a candidare, per due volte, lo scrittore svizzero al Nobel per la letteratura. Scanziani, scomparso nel 2003, è effettivamente un personaggio affascinante. Cresciuto tra Losanna, Como e Milano, pratica, giovanissimo, il giornalismo, nella “Gazzetta Ticinese”; a Roma lavora presso l’Ismeo e diventa amico del filosofo Massimo Scaligero. In Svizzera dal 1938, aiuta i fuoriusciti – da Indro Montanelli a Sem Benelli e Alberto Mondadori –, è il primo giornalista a dare la notizia della caduta del governo fascista. Scrive libri importanti – da Le chiavi del mondo a Libro bianco –; soprattutto, è un uomo in ricerca. I suoi viaggi sfrenati, in tutti i continenti, lo portano a scoprire gli Entronauti – così il libro del 1969 – cioè quegli uomini che, al contrario dei ‘cosmonauti’, hanno compiuto un viaggio dentro e non fuori di sé. Tra questi “cercatori di Dio” – emozionante il viaggio all’Athos – instaura un rapporto particolare con Sri Aurobindo, di cui, nel 1973, per Elvetica Edizioni – editrice che ha pubblicato la quasi totalità della sua opera – scrive una biografia narrativamente efficace. “L’uomo, una transizione. Da dove a dove? Cosa siamo, adesso? Una coscienza serrata in sé, staccata dagli altri, ostili. Siamo una coscienza ansiosa di felicità e ne trova solo parvenze: piaceri brevi che, al rovescio, sono lunghi dolori. Siamo un ego piccino, talvolta fanfarone, più spesso intimidito. Non possediamo neanche il corpo fisico, non è nostro l’animo (avido), non la mente (ragionevole)”, scrive Scanziani. Grazie all’avvocato Andrea Mascetti, instancabile cultore di terre incognite e di uomini anomali, entro in contatto con la moglie di Scanziani, Magì, che ne custodisce l’opera e la memoria. Leggere una lettera di Mircea Eliade, in francese (“Cher Piero Scanziani, comment vous remercier?”), dalla grafia screziata dagli anni, è stata una inattesa emozione. “Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri. (Una cataratta, per ora inoperabile, limita la mia lettura a tre, quattro ore al giorno). Dopo Aurobindo, l’appassionante Avventura dell’uomo, poi I cinque continenti e gli straordinari incontri di Entronauti! M’inoltro, adesso, meravigliato in Libro bianco… Vorrei parlarle più a lungo. Ahimé! Scrivo con fatica (artrite reumatoide) e non sono capace di dettare (ho provato il dittafono, ma i risultati mi deprimono!) Ancora una volta, grazie! In tutta sincerità e amicizia, il suo Mircea Eliade”. Era il 21 luglio 1984, Eliade scriveva da Eygalières, in Provenza. Fu l’inizio di una amicizia. Da una testimonianza di Tommaso Romano sappiamo che anche Ernst Jünger conosceva il lavoro di Scanziani (“Sorprendentemente conosceva l’opera di Vittorio Vettori, di Elémire Zolla e di Piero Scanziani”), per altro tradotto in diverse lingue. A noi il compito, ora, di sbucciare la patina di oblio che lo cela. (d.b.)
Parto dalla fine. Scanziani candidato al Nobel per la letteratura. Oggi, in Italia, la sua opera è quasi introvabile: cosa è accaduto?
È molto semplice: la Casa Editrice che lo pubblicava, l’Elvetica Edizioni di Chiasso è scomparsa dal mercato e contemporaneamente il mercato editoriale in crisi, ha finora impedito che una Casa Editrice con le carte in regola s’interessasse della sua opera. Anche il fatto che io abiti alla periferia dell’italianità, a Lugano, con scarse possibilità di contatti importanti ha contribuito. È un vero peccato che un tale scrittore con migliaia di lettori innamorati dei suoi libri non sia presente in libreria.
La candidatura al Nobel coincide con il rapporto con Mircea Eliade, che scrive parole di elogio altissimo sul suo lavoro. Come nasce e si articola il rapporto tra i due?
Il rapporto nacque grazie a un critico letterario amico di entrambi: Vittorio Vettori che li fece conoscere ed incontrare. Piero era un lettore appassionato di Mircea e Mircea lo divenne rapidamente di lui, tanto da presiedere il Comitato che lo propose al Nobel per due anni di seguito.
Tra i nomi decisivi nella vita di Scanziani, spicca Sri Aurobindo, di cui scrive una biografia narrativamente assai convincente, per altro. Che rapporto ha avuto Scanziani con Aurobindo? So che è un legame testimoniato da una messe di lettere…
Scanziani era in quel momento a Berna, responsabile del Servizio italiano dell’Agenzia telegrafica svizzera, l’equivalente alla nostra ANSA. Il mondo era in subbuglio. Era il 1939. La ricerca sembrava essersi inaridita. L’11 aprile 1939 diceva: «Non v’è certezza da nessuna parte, né al Nord né al Sud, né in Occidente né in Oriente. L’esistere è puro orrore, tanto vale uccidersi, unica prova di se stesso». Il giorno dopo tutto cambiò. Lo scrittore ha narrato in quattro versioni l’evento del 12 aprile 1939: nel 1978 autobiograficamente in Corrispondenza con Nata, nel 1941 e 1983 tramite John protagonista del romanzo I cinque continenti, nel 1969 tramite il narratore (che è l’autore stesso) in Entronauti e nel 1995 ne Il fiume dalla foce alla fonte. Le prime tre versioni sono analoghe, ma non identiche. La mattina del 12 aprile si svegliò e il libraio, che ne conosceva i gusti, gli aveva fatto avere in casa in visione un pacchetto di libri. Due attirarrono la sua attenzione: Aphorismes et pensées, La mère, autore uno sconosciuto Aurobindo. Chi era costui? Altri pensieri, altre madonne, che noia! Stava già per scartarli, quando la curiosità gli fece aprire una pagina, lesse una frase ed ecco cosa accadde. Qui (aggiungendo qualche frase da I cinque continenti) diamo la versione di Entronauti, che è seguita da indicazioni chiarificatrici. “Istantaneo, sovra il mio capo un confine si apre, una chiusa si solleva, un argine si rompe e dall’alto impetuosa su di me scroscia la gioia: una cascata diamantina sulle mie angustie, inebriante impeto di grazia, evidenza lampante, soavità sfavillante, presenza gloriosa, irrompere incontenibile d’una forza sublime, intenzionale, amorevole nella mia esiguità, onde ignorate e pur non nuove si spargono giubilanti fin nelle membra, nel sangue, nel respiro. L’anima è inebriata dalla prossimità divina. Non reggo in piedi, mi sdraio, immobile, attonito, ammutolito dal miracolo, incredulo che a me immeritevole sia dato tale prodigio, impossibile e irrefutabile. Chiudo gli occhi e liquefatto m’abbandono alla voluttà soverchiante, m’abbandono alla certezza, finalmente finalmente. Come dirlo e come tacerlo? È una testimonianza. Durò una settimana, decrescendo. La mente intanto aveva ripreso a discorrere, a ragionare, a rinvenire spiegazioni plausibili, ad ammucchiare tutto entro i suoi limiti. Questo suo esagitarsi m’era penoso.»
Chi era colui che aveva provocato tutto questo? Trovò carta e penna e gli scrisse una lettera in italiano, chiedendo spiegazioni. Aurobindo rispose tramite il suo segretario di lingua francese P. Barbier-Saint-Hilaire, nome di ashramita: Pavitra. Vi fu uno scambio di lettere e un viaggio in India molti anni più tardi: Sri Aurobindo non c’era più, ma Piero incontrò Mère e tante persone che in seguito divennero amiche e amici fraterni. Aurobindo lo accolse come suo discepolo e, cosa incredibile, tutto ciò lo riavvicinò alla sua religione d’origine, il cristianesimo. Racconto tutto questo in un articolo pubblicato su Letture, qualche anno fa.
L’amicizia con Massimo Scaligero, legami fuggevoli con il fascismo, il trasferimento in Svizzera alla promulgazione delle leggi razziali. Come vive Scanziani gli anni terminali del Ventennio, la Seconda guerra, il rapporto con Scaligero?
Scanziani giunse a Roma nel 1929 dopo il fallimento di un’impresa editoriale paterna in cui era stato coinvolto. Aveva una lettera di raccomandazione del padre a un suo amico, Piero Parini, alto funzionario del Ministero degli esteri. Dopo un mese di anticamera, quando era finanziariamente alla canna del gas, fu finalmente ricevuto e gli fu offerto di lavorare come impaginatore per mettere insieme uno dei primi settimanali a rotocalco intitolato Il legionario e destinato agli italiani all’estero. Conobbe nel frattempo, tramite Edoardo Anton, compagno di liceo e figlio del celebre drammaturgo Luigi Antonelli, Massimo Scaligero che diverrà amico, maestro e ispiratore, nonostante fossero praticamente coetanei.  Racconta egli stesso quegli anni in parecchi testi. A un certo punto si accorsero che Scanziani faceva il giornalista in Italia senza essere italiano e gli si pose il dilemma se diventarlo, rinunciando alla propria originaria cittadinanza svizzera, oppure essere licenziato. Secondo la legge nessuno poteva fare il giornalista, se non fosse stato cittadino italiano. Non accettò di abbandonare la propria cittadinanza e si trovò disoccupato. Gli fu però offerto di andare in Svizzera dove un neonato “fascismo svizzero” aveva bisogno di un giornalista per mandare avanti un proprio settimanale. Siamo al 1934. La terribile esperienza è ben descritta in Gaia Grimani, Piero Scanziani: la vita come frontiera. Ne riporto le pagine essenziali: “Tuttavia Parini aggiunge che vi sarebbe una possibilità di lavoro a Lugano, avendo egli fatto il nome di Piero agli esponenti di un neonato “fascismo svizzero”: erano un certo Nino Rezzonico e un colonnello della Svizzera francese, tale Arthur Fonjallaz. Piero non li aveva mai sentiti nominare. Siamo nel 1934, egli era lontano dal Ticino dal 1929, non aveva nessun interesse per la politica, anzi la teneva in sospetto, dopo l’esperienza alla Gazzetta ticinese. (…) Scanziani rimane perplesso alle parole di Parini, tuttavia la sua disastrosa condizione economica non ammette scelte. Da tre mesi non paga l’affitto dell’ap­partamentino nel sottoscala d’una villetta in viale Gorizia 17, dove vive con la moglie incinta e il primogenito d’un paio d’anni. (…) Dopo l’iniziativa di Parini, incominciano a farsi notare attorno a Scanziani i fascisti luganesi, primo fra tutti il “duce” Nino Rezzonico. L’intento è di convincerlo ad andare a Lugano a metter ordine nel caotico settimanale Il fascista svizzero e svolgervi lo stesso lavoro d’impaginazione e di coordinamento fatto per Gazzetta ticinese e per Il legionario. Rezzonico fa vita straricca e segue il capo svizzero, il colonnello Fonjallaz, che poi risulterà sovvenzionato dal fascismo italiano. Intanto comincia a Roma una nuova azione per convincerlo. Se accetterà di andare a Lugano, lo rassicura Parini, non solo riceverà uno stipendio dall’editore svizzero, ma il Parini gli garantisce che Il legionario gli darà l’incarico d’una collaborazione regolare per articoli sui problemi degli emigranti italiani nella Confederazione. Le promesse non saranno mai mantenute: arrivato a Lugano il settimanale di Rezzonico, Il fascista svizzero, aveva cessato le pubblicazioni e Il legionario, pur sollecitato, dimenticò i suoi impegni. Il Rezzonico finirà per picchiarsi per la strada con un suo rivale, l’avvocato Alberto Rossi, a frustate e pugni. Il Fonjallaz, intervenuto come proprietario della testata, aveva espulso il Rezzonico e il Rossi ne aveva preso il posto. Il settimanale riapparì e Piero riprese la sua ormai abituale fatica di factotum d’una pubblicazione che pagava male, quando pagava. Fonjallaz espulse ad un certo punto anche il Rossi e assicurò a Piero di versargli gli stipendi arretrati. Il Rossi affermava d’essere lui il proprietario della testata Il fascista svizzero e il Fonjallaz ne prese allora il sottotitolo “A noi”, incaricando Piero di curarne l’edizione. Egli accettò alla condizione che A noi non fosse più organo ufficiale del movimento fascista del Fonjallaz, ma si occupasse solo dei problemi del Ticino e ne difendesse l’italianità. Intanto Fonjallaz non pagava la tipografia né il redattore, Piero indebitatissimo era gravemente malato di ulcera duodenale. Aveva ventisei anni e, lasciando Lugano per Milano con moglie e figli alla fine del 1935, era alla disperazione. L’aspettavano a Milano diciotto mesi di disoccupazione e nel 1936 un’emorragia interna quasi mortale che lo tenne a letto per tre mesi in un appartamentino di viale Abruzzi”.
Poi accadde un fatto tra imprevisto: morì improvvisamente il responsabile del Servizio italiano all’Agenzia telegrafica svizzera. Piero sottopose la propria candidatura: non voleva restare in Italia che aveva appena varato le leggi razziali e, dopo un periodo come dattilografo alla Bayer, desiderava riprendere la sua professione. Ma la Svizzera non lo voleva, soprattutto i giornali ticinesi legati ai servizi dell’agenzia, per i legami, pur fuggevoli e casuali, con il fascismo svizzero. Negli anni, fino alla sua morte, il Canton Ticino, in modo particolare, ma anche suoi invidiosi detrattori d’oltre Gottardo, usarono questo pretesto del fascismo per tagliarlo fuori da ogni posto interessante, da ogni riconoscimento della sua opera. Vergognosamente lo stesso Dizionario storico svizzero dedica, nella sua biografia, gran parte del testo a lui dedicato alla sua presunta adesione al fascismo: in una vita di 94 anni, lo spazio di 18 mesi. Basterebbe a qualcuno in buona fede leggere le sue opere e vedere se vi si trova una sola riga in cui Scanziani esprima un’idea politica o segua l’una o l’altra ideologia. Ma tant’è. Durante la seconda guerra mondiale, tuttavia, dal 1938 al 1946 Scanziani visse a Berna come responsabile del Servizio italiano dell’Agenzia telegrafica svizzera dove fu assunto dopo una visita, insieme al direttore generale dell’Agenzia Telegrafica svizzera, a tutti i direttori di giornale ticinesi a cui promise che mai più si sarebbe interessato di politica ed essi s’impegnarono ad accettarlo senza pregiudizi: egli mantenne la promessa, ma gli altri non lo fecero e sempre fu oggetto di persecuzioni e calunnie. A Berna divenne un grande giornalista internazionale; oltre ai servizi di stampa, diffondeva i servizi radiofonici di Radio Monte Ceneri, che insieme a Radio Londra divennero i punti di riferimento per chi voleva sapere notizie non inquinate dalla propaganda di regime. Collaborò con United Press, Reuter, New York Times, Bund, Basler Nachrichten, Suisse, Corriere del Ticino, Gazette de Lausanne, Illustré. Fu il primo giornalista al mondo a dare l’annuncio della caduta del fascismo e dell’imprigionamento di Mussolini. Nel 1946, alla fine della guerra, volle tornare in Italia per far crescere i propri figli nella civiltà e nella lingua italiana, malgrado, per restare gli fossero stati offerti molti benefici economici. Tornato a Roma, riprese il rapporto d’amicizia e collaborazione con Massimo Scaligero che durò fino alla morte di Scaligero nel 1980.
Poi i viaggi. Scanziani viaggia molto, ovunque: cosa cerca, cosa scopre? Qual è il viaggio che lo ‘forma’?
Scanziani viaggiava alla ricerca di Entronauti, parola inventata da lui stesso, cioè di coloro che in ogni tradizione religiosa affermano di aver incontrato Dio faccia a faccia. Viaggia dall’ Europa, all’America, all’Asia sino all’India e all’Estremo Oriente sempre immerso in questa ricerca. Tutto ciò è narrato nel suo romanzo Entronauti, vincitore nel 1970 del Premio Cattolico Maria Cristina. In questo senso il viaggio che lo forma è senza dubbio l’incontro con l’India e, in particolare con l’Ashram di Sri Aurobindo. Però anche a Londra, l’incontro con Maggie, regina dell’onnipotenza, a Teheran quello con i Sufi e al Monte Athos il ritrovamento delle radici cristiane così ben espresso nell’ultimo capitolo di Entronauti: “Forse vado all’Athos a causa d’un rito che si svolse tanti anni fa, in una cappella che non c’è più, in un villaggio che non c’è più, fra gente che non c’è più. La cappella è diventata una grande chiesa, il villaggio è diventato quasi una città. Era un battesimo, il mio battesimo. È morto il prete che pronunciò la formula, è morto il padrino che la ripeté, è morto mio padre che mi reggeva fra le braccia, morti tutti gli altri intorno, sorridenti. Nulla sembra più vivo di quel giorno, nulla vivo in me che non ne ho memoria, né mai ne ho sentito il vincolo. Eppure se vado all’Athos è perché quell’acqua, quella formula, quella gente m’hanno reso cristiano. Ho girato il globo alla ricerca d’entronauti, quelli che trovano la via nel nome di Maometto o di Krishna o di Budda o dei Tantra o d’Aurobindo o di nessuno o di se stessi. Deve pur esistere ancora da qualche parte chi ha l’incontro sacro in nome di Cristo”.
Le chiedo anche della sua passione per i cani, di cui è straordinaria esperto. Come nasce, come si sviluppa?
Si sviluppa fin dall’infanzia ed è raccontata in un testo che precede il più celebre dei suoi libri di cinologia (in tutto una decina): Il cane utile, intitolato Viaggio intorno al molosso, in cui oltre a questo, narra anche come nacque la ricostruzione del mastino napoletano, razza andata totalmente dispersa e ricreata da Scanziani dal ‘46 al ’60, nella gabbia delle giraffe, vuota dopo la guerra, del Giardino zoologico di Roma.
A suo dire, quali sono i libri fondamentali di Scanziani, da ripubblicare? Quali erano le sue fonti letterarie, le sue amicizie? Da dove provenivano le sue ispirazioni?
Un editore accorto che esamini la sua opera non potrà non essere ammaliato da Avventura dell’uomo, Entronauti e Libro bianco, che hanno creato lettori appassionati in tutta Italia. Per Entronauti, a Roma si erano addirittura creati spontaneamente gruppi di lettura che si rinnovavano di anno in anno. Negli anni ’80 però, all’uscita della trilogia su L’Arte della longevità, L’Arte della giovinezza e L’Arte della guarigione si creò un fenomeno analogo, grazie al forte coinvolgimento televisivo con le partecipazioni a “Domenica in”, Maurizio Costanzo Show e tante altre trasmissioni condotte da Frizzi, Magalli. Bonaccorti, D’Amato, Battaglia, il povero Enzo Tortora e tanti altri. Molto interessanti trovo anche i romanzi Felix, finalista al Viareggio e Il fiume dalla foce alla fonte, per non parlare dei tanti inediti. Le sue ispirazioni letterarie nacquero sempre in collegamento con la ricerca spirituale o con la grande passione di naturalista. Aveva come modello Marcel Proust per la ricerca affannosa della parola appropriata, ma il suo stile è asciutto, da giornalista. È saggista e narratore, ma il narratore prevale, anche nei saggi, perciò si leggono d’un fiato e affascinano i lettori. Tra i suoi amici ricordo Massimo Scaligero, Edoardo Anton, Lanza del Vasto, Vittorio Vettori, Mircea Eliade, Geno Pampaloni, Emerico Giachery, Aldo Capasso, Giovanni Pischedda, Elemire Zolla, Cristina Campo, Grytzko Mascioni, Franco Enna, Giorgio Albertazzi e Anna Proclemer, Giovanni D’Espinosa, Tommaso Romano, Fedele Mastroscusa e molti, molti altri.
*In copertina: Piero Scanziani (1908-2003) con la moglie, Magì
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pangeanews · 6 years
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Maksim Gor’kij compie 150, ma non importa a nessuno. Ricordiamo il grande scrittore (e megafono di Lenin) pubblicando il diario dimenticato dell’incontro con Lev Tolstoj
Il caso di Maksim Gor’kij è emblematico riguardo alle sorti puttane della storia della letteratura e della politica. Fino a qualche decennio fa il fondatore del ‘realismo socialista’ e – di fatto – uno tra i massimi scrittori russi del secolo, ‘benedetto’ da Lev Tolstoj e amico di Anton Cechov, era proposto in tutte le solfe e in tutte le salse, era impensabile schivarlo. Ora, con la caduta del comunismo, Gor’kij, quasi ne fosse l’icona e il megafono, è precipitato nell’oblio. Ormai lo leggiamo spulciando tra piccoli editori (le Edizioni Clichy hanno riproposto Bassifondi, nel 2016) o tra opere periferiche (il Lenin edito da Castelvecchi lo scorso anno). Nato poveraccio esattamente 150 anni fa, il 28 marzo, Gor’kij, in effetti, è l’emblema dello scrittore ‘rivoluzionario’ e ‘popolare’, perfino pop. Autore baciato dal talento (si impone con Konovalov e La madre), è in piazza durante i subbugli del 1905 (“dobbiamo impugnare pistole e coltelli, colpire con forza per seminare il panico nella polizia, protettrice dell’odierno governo poliziesco”), tre anni dopo, si sa, è a Capri dove specula di rivoluzione con Lenin, tra una partita di scacchi e l’altra. Animatore culturale dall’efficienza assoluta, nel 1918 subisce la sonora sculacciata dell’amico, lo zar dei proletari. Lenin, infatti, da ordine di chiudere ‘La nuova vita’, rivista di Gor’kij particolarmente animata, dove pubblicavano poeti ostili alla Rivoluzione – o semplicemente indifferenti ad essa – come Osip Mandel’stam. Gor’kij s’incazza (“è un errore credere che con questo atto, che io definisco di viltà, si possa arrestare l’onda dei sentimenti ostili ai signori commissari e alla rivoluzione”, scrive), lascia la Russia per un po’, ma nel 1920 è già lì a gorgheggiare peana intorno al capo di Lenin (“Lo scopo fondamentale della vita di Lenin è la felicità degli uomini”).
Maksim Gor’kij discute con Stalin, negli anni Trenta
Vicino a Stalin, cantore dei successi del comunismo applicato in salsa Soviet – celandone gli orrori dietro un aggettivo – nel 1934 teorizza e propala il ‘realismo socialista’ come panacea estetica. L’intimità con il ‘capo’, comunque, lo distrugge. “Mi hanno circondato… accerchiato”, confessa, nel 1935, a un amico. Gor’kij muore nel 1936, in circostanze mai chiarite. L’“iniziatore della letteratura sovietica”, come lo censisce una enciclopedia del 1964, stampata in Urss, “doveva morire per diventare un mito” (Agnes Heller). La storia di Gor’kij, insieme a quella dei “poeti che fecero la Rivoluzione” sarà rievocata nello spettacolo teatrale La scienza dei commiati, in scena venerdì 9 marzo, ore 21, al Teatro degli Atti di Rimini (ingresso gratuito), con la presenza di Silvio Castiglioni, grande interprete della grande letteratura (memorabili gli spettacoli sulla Colonna infame di Alessandro Manzoni, su Silvio D’Arzo e Andrea Zanzotto, su Osip Mandel’stam e Vasilij Grossman), e con Davide Brullo a fare da cantastorie. Pangea ricorda Gor’kij riesumandone un testo nascosto, di alata bellezza. Il diario dell’incontro con Lev Tolstoj. Un incontro tra titani.
I
L’idea che, visibilmente, più spesso di tutte le altre tormenta il suo cuore è l’idea di Dio. A volte sembra che non si tratti neppure di un’idea, ma di una resistenza a qualcosa che egli sente sopra di sé. Ne parla meno di quanto vorrebbe, ma vi pensa di continuo. Non credo che sia un segno di vecchiezza, un presentimento della morte; no, credo che nasca in lui dalla sua fierezza umana. E un po’ da un senso di umiliazione, perché quando si è Lev Tolstoj è umiliante sottoporre la propria volontà a uno streptococco. Se fosse stato uno scienziato, avrebbe certamente avanzato geniali ipotesi e compiuto grandi scoperte.
  II
Le sue mani sono meravigliose: brutte, nodose per le vene gonfie, e tuttavia particolarmente espressive e ricche di forza creatrice. Forse anche Leonardo da Vinci aveva mani come le sue. Con simili mani si può far tutto. A volte, parlando, agita le dita, le stringe lentamente in pugno, poi d’improvviso schiude di nuovo la mano e pronuncia nello stesso tempo una parola bella, ricca di significato. È simile a un Dio, non certo a Sabaoth o a un Dio olimpico, ma al Dio russo che “siede su un tronco d’acero sotto un tiglio dorato” e che non ha un aspetto maestoso, ma è forse più scaltro di tutti gli altri dèi.
VI
“La minoranza ha bisogno di Dio perché ha tutto il resto, la maggioranza perché non ha niente”.
Mi esprimerei diversamente: la maggioranza crede in Dio per ignavia, e solo pochi per pienezza d’anima.
“Vi piacciono le fiabe di Andersen?”, mi domandò pensoso. “Non le avevo capite quando furono pubblicate, ma una decina d’anni dopo ripresi il volumetto, lo rilessi e d’un tratto sentii con grande chiarezza che Andersen era stato molto solo. Molto solo. Non conosco la sua vita; sembra che sia vissuto nella dissolutezza, che abbia molto viaggiato, ma questo non fa che confermare la mia idea: egli fu solo. Perciò si rivolge ai bambini, sebbene sia sbagliato credere che i bambini abbiano più compassione per l’uomo degli adulti. I bambini non hanno compassione, ne sono incapaci”.
  VII
Mi consigliò di leggere il catechismo buddista. È sempre sentimentale quando parla del buddismo e di Cristo; di Cristo soprattutto parla poveramente; nelle sue parole non c’è né entusiasmo né pathos, e neppure una scintilla che venga dal cuore. Credo che consideri Cristo un ingenuo degno di compassione e, sebbene – a volte – lo ammiri, certo non lo ama. Sembra quasi che lo tema: se Cristo arrivasse in un villaggio russo, le ragazze lo deriderebbero.
  XII
La malattia l’ha inaridito, ha bruciato in lui qualcosa; anche interiormente è diventato più leggero, più trasparente, più accessibile. Gli occhi sono ancora più acuti, lo sguardo più tagliente. Ascolta attentamente, come se cercasse di ricordare cose dimenticate o fosse sicuro di sentire un che di nuovo, di sconosciuto. A Jasnaia mi è sembrato un uomo che sa tutto e non vuole imparare più nulla, l’uomo dei problemi risolti.
XIII
Se fosse stato un pesce, avrebbe nuotato certamente solo nell’oceano, senza mai penetrare nei mari interni, e meno che mai nelle acque dolci dei fiumi. Attorno a lui si affolla e si agita la minutaglia, che non s’interessa a ciò che egli dice, non ne ha bisogno, e il silenzio di Tolstoj non la spaventa, non la commuove. Ma egli tace abilmente come un vero eremita. Sebbene dica molte cose sui soggetti d’obbligo, si sente che egli tace anche di più. Di certe cose non può parlare a nessuno. Senza dubbio ha delle idee che lui stesso teme.
  XVII
Nel suo diario, che mi ha fatto leggere, mi ha colpito soprattutto questo strano aforisma: “Dio è il mio desiderio”.
Oggi, restituendogli il diario, gli ho chiesto cosa intendesse dire. “È un pensiero incompiuto”, ha detto, guardando la pagina con gli occhi socchiusi. “Senza dubbio volevo dire che Dio è il mio desiderio di conoscerlo… no, nemmeno questo…”.
Rise e, arrotolando il quaderno, lo ripose nell’ampia tasca della giacca. I suoi rapporti con Dio sono molto vaghi, ma mi ricordano talvolta quelli di “due orsi nella stessa tana”.
XXVII
Gli piace porre domande difficili e perfide: “Che cosa pensate di voi stesso?”; “Amate vostra moglie?”; “Secondo voi, mio figlio ha talento?”; “Vi piace Sofia Andreevna?”. È impossibile mentirgli. Una volta mi ha domandato, “Mi volete bene?”. Sono le impertinenze di un gigante. Egli ‘sperimenta’, prova come se stesse per battervi con voi. È interessante, ma non mi va molto a genio. È il diavolo, e io sono un lattante, farebbe meglio a lasciarmi in pace.
(I primi appunti intitolati Lev Tolstoj sono stati presi in Crimea, nel 1901; gli ultimi risalgono alla morte di Tolstoj, nel 1910. In volume Lev Tolstoj è stato pubblicato in forma incompleta nel 1919 e in edizione definitiva nel 1923)
L'articolo Maksim Gor’kij compie 150, ma non importa a nessuno. Ricordiamo il grande scrittore (e megafono di Lenin) pubblicando il diario dimenticato dell’incontro con Lev Tolstoj proviene da Pangea.
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