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#I sopravvissuti della città morta
mariocki · 8 months
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I sopravvissuti della città morta (The Ark of the Sun God, 1984)
"How do you do, Rick?"
"Not bad, it's a miracle I'm still alive. You could have warned me it was so risky. Roger Moore would have been better suited for such a mission."
"Oh, you're not too bad - but definitely not as strapping."
#I sopravvissuti della città morta#the ark of the sun god#italian cinema#1984#antonio margheriti#giovanni paolucci#giovanni simonelli#david warbeck#john steiner#susie sudlow#luciano pigozzi#ricardo palacios#achille brugnini#aytekin akkaya#süleyman turan#aldo tamborelli#alberto moriani#adventure film#had to use the above quote bc of the deliberate injoke (Warbeck famously spent the 70s on a retainer as a potential replacement for Moore#in the Bond series‚ should he drop out of the role or become in some way incapacitated). this is less Bond and more (much more) Indiana#Jones: yes it's another classic Italian ripoff of a wildly successful US commodity. director Margheriti secured regular Brits abroad#Warbeck and Steiner‚ flew out to Turkey and shot one of the handsomest films of his long career; the locations are stunning‚ the temple#sets ingeniously impressive‚ there's car and helicopter chases galore. ok so some of the car chases are shot using miniatures.. but if#anything that just adds to the unlikely charm. visually this may be a winner but scripting and plotting aren't quite so tight. tbh even#at just a little over 90 minutes this still somehow feels a bit strung out‚ taking an age to get to the temple business and with far too#much toing and froing before it. still‚ the Brits are on good form‚ and even better are Pigozzi and Palacios as supporting treasure hunters#who routinely steal their every scene (and quickly become the characters you actually care about once the bullets start flying in the#violent finále). a fun dumb adventure time but hardly an essential entry in the Italian genre canon
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ypsilonzeta1 · 1 year
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Essendo povera,
non butto niente,
cose che potrebbero venirmi utili,
ho un archivio,
molti cassetti,
ordinati per argomento,
forse dovrei fare alfabetico:
garantire la consultabilità.
Dice a che ti servono i romanzi.
Dice che te ne fai della poesia.
E le storie finite male,
quelle sono solo una spesa,
gl’intestardimenti, le leggerezze,
le dimenticanze, la tigna,
quando invece di prendere il battello
prendemmo il pullman,
perdemmo un giorno
e le balene non le vedemmo,
le storie dei pazienti,
le storie dei sopravvissuti,
le storie degli amici
la storia del tizio che suona leva calcistica del 58 sulla metro b
la nevrosi dell’impiegata alla posta,
l’indiano coi fazzolettini al semaforo di svolta a U,
che un giorno mi chiese una ricetta per l’antinfiammatorio,
la gelataia che sembra una maitresse,
la dirimpettaia che le sue raccomandate le ritiro io
e mi regala la cioccolata,
la professoressa col minuscolo bassotto feroce,
l’amico che da specializzando era magro e aveva una testa così di capelli neri ricci,
tanti anni fa.
Tengo quello che mi succede, mi porto dietro ogni filo di relazione,
ho una cassetta degli attrezzi in testa
una Santa Barbara di strumenti disparati, assurdi, apparentemente ciarpame,
mi servono per rispondere,
uso le narrazioni per altre narrazioni antalgiche
tesso le parole per dare senso, per toccare, per fare sesso con l’anima
e poi mi nascondo dalla paura
non so di che,
non posso sapere tutto,
e perciò trattengo i segni degli altri
me ne tatuo i neuroni
anche la voce di chiunque incrociato al supermercato.
Ogni accadimento avrà la sua collocazione
e sarà debitamente riutilizzato.
Lascerò un hangar di sguardi mai eliminati
nella delirante fantasia
che illuminino la città
anche dopo che sarò morta.
Anna Segre
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weirdesplinder · 4 years
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Lista di libri con tema a La bella e bestia dark paranormal
Ed ecco finalmente a voi la lista completa di romanzi con il tema: Lui mostro/creatura magica/cattivo + Lei buona e bella che lo salva/si innamora di lui/capisce che non è poi così cattivo/passa dalla sua parte + ambientazione dark in un altro mondo/paranormal/ fantastico e che richiamassero l’ambientazione e lo stile del videoclip “Dance with the dragon” del gruppo musicale Dark Sarah: https://youtu.be/dc3XcTcTjaw
 Inediti in italiano:
 - Wicked as they come, di Delilah S. Dawson
Serie: primo libro della quadrilogia Blud
Il più simile, fra i libri della lista, all’estetica e alla trama del video dei Dark Sarah
Trama: Ambientato nel fantastico mondo di Sang simile alla nostra epoca vittoriana, solo molto più sanguinario, nel senso che è pieno di vampiri. ll protagonista del libro, Criminy Stain, è appunto un vampiro, un bludman, che conosce un poco la magia e che dirige un circo itinerante, e che, dopo una delusione amorosa, ha fatto un patto con una strega per trovare il suo vero amore, incantando un ciondolo, che l’avrebbe condotta fino a lui. Il ciondolo ha fatto il suo dovere, ha cercato la donna adatta a lui, ma nel nostro mondo. Un’infermiera di nome Letitia, uscita da poco da una relazione abusiva, che ha anche perso un figlio, e che in realtà non è proprio pronta ad impegnarsi con qualcun altro. Teme l’amore, lo vede come una prigione, ma il ciondolo la porta a Sang e l’attrazione con Criminy è immediata.
 - The crown & key series, di Clay e Susan Griffith
Serie: si tratta di una trilogia già completa formata dai libri  
   1. The Shadow Revolution (2015)
  2. The Undying Legion (2015)
  3. The Conquering Dark (2015)
Trama: Simon Archer, nobile inglese, con fama di seduttore nullafacente, in realtà è un mago di rune, un tipo di magia molto rara. Lui non ha mai perseguito le sue doti, conoscendone i grandi rischi connessi, ma quando un branco di licantropi uccide una sua vecchia fiamma, capisce che è il momento che qualcuno si occupi degli esseri soprannaturali che la maggior parte della gente crede solo leggende. Da solo Simon non potrebbe mai fermarli, ma per fortuna sul suo cammino di vendetta incontrerà molti personaggi che si uniranno alla sua lotta: Kate Anstruther, una giovane nobildonna fuori dagli schemi che sa cavalcare, sparare, è brava con la spada e adora l’alchimia da cui è quasi ossessionata, e un cacciatore di mostri scozzese, Malcolm MacFarlane , uomo burbero  ma che dentro è un poeta, bravo nella lotta e con le armi da fuoco.
 - Land of the Beautiful Dead, di R. Lee Smith
Romanzo singolo inedito in italiano
Trama: Secoli fa fece la sua comparsa nel mondo un essere chiamato Azrael, con il potere di resuscitare i morti. Questa creatura con sembianze simili a quelle di un uomo non cercava la guerra, ma nemmeno voleva più nascondersi. Voleva un angolo di mondo tutto per lui dove poter esercitare i suoi poteri e vivere con i suoi morti rinati. Gli uomini però invidiavano e temevano il suo potere e cercarono di eliminarlo. Ne scoppiò una terribile conflitto. Azrael non poteva morire e aveva schiere di morti al suo servizio, gli umani giocarono la carta della bomba atomica, più e più volte, fino a cambiare il colore del cielo, fino a rendere inabitabile gran parte del pianeta e fino a riuscire ad uccidere i morti resuscitati più cari ad Azrael suscitandone l'ira. La sua rabbia creò gli Eaters, o zombie come li chiameremmo noi, morti senza più anima o consapevolezza tranne una enorme fame di carne umana. Azrael inoltre negò la morte all'umanità condannando ogni uomo una volta morto in qualunque modo a diventare un Eater e vinta così la guerra si rifugiò nel paese una volta chiamato Inghilterra, nella città una volta chiamata Londra nel castello una volta dimora dei monarchi britannici, e ribattezzò la città, Haven, la città bei bellissimi morti. E’ in questo sporco e brutto mondo che è sempre vissuta Lan, eppure nonostante tutte le difficoltà quotidiane, in lei è sempre stata viva la speranza che un giorno il mondo potesse tornare almeno in parte quello di una volta. Così una volta morta sua madre, l'unica persona cara che aveva al mondo senza più nulla da perdere decide di recarsi ad Haven e chiedere ad Azrael in persona di porre fine agli Eaters una volta per tutte.
 - Lord of the fading lands, di C.L.Wilson
Serie: Primo libro della serie di 5 libri Tairen Soul
by C.L. Wilson (Goodreads Author)
Trama: Un tempo lui sconfisse l’oscurità. Un tempo lui amò con tanta passione da diventare leggenda. Un tempo distrutto dal dolore per l’uccisione della sua amata, il monarca fey chiamato Rain Tairen Soul portò distruzione nel mondo prima di sparire nelle terre dimenticate. Ora migliaia di anni dopo, una nuova minaccia lo ha riportato nel nostro mondo e un nuovo amore ha risvegliato il cuore che credeva morto per sempre. Ellysetta, figlia di un falegname, risveglia in Rain sentimenti che non ha mai provato prima. La sua anima lo chiama come una canzone seducente e irresistibile e non importa il prezzo da pagare, il suo lato selvaggio non intende assopirsi di nuovo. Un antico e famigliare male sta riacquistando forza, minando alleanze centenarie e minacciando la fine di Rain e del suo popolo... Il re dovrà reclamare la sua vera compagna per abbracciare il destino tessuto per entrambi nelle nebbie del tempo.  
 Disponibili in italiano:
 -  Vampire Empire di Clay e Susan Griffith
Editore Sonzogno
Serie: Si tratta di una trilogia già completata, ma solo i primi due titoli sono disponibili in italiano ad oggi:
1.       Vampire Empire. Il principe di sangue nero
2.       Vampire Empire. La principessa geomante
3.       Vampire Empire. The kingmakers
Trama: ANNO 1870. I VAMPIRI HANNO CONQUISTATO LA PARTE SETTENTRIONALE DEL PIANETA, SEMINANDO MORTE E DEVASTAZIONE. Le grandi e sfarzose capitali dell'era industriale sono diventate cimiteri. I pochi sopravvissuti hanno dovuto cercare rifugio ai Tropici, il cui clima torrido è nocivo alle grigie creature della notte. Così, dall'Egitto al Centro America, fino ai templi immersi nelle foreste della Malesia, sono sorte nuove civiltà del vapore e del ferro, fondate sull'arte e la tecnologia. Anno 2020. Quello che resta del glorioso impero britannico è ora il regno di Equatoria, la cui erede al trono è la principessa Adele, un'intrepida guerriera, ma anche una ragazza colta e raffinata, che trascorre intere giornate immersa nella lettura nei silenziosi saloni della mitica Biblioteca di Alessandria. La sua intraprendenza e il suo spirito indomito risveglieranno però la crudeltà di un efferato clan di vampiri decisi a scatenare una nuova guerra. In questa lotta all'ultimo sangue, Adele troverà al proprio fianco il principe Greyfriar, affascinante signore delle tenebre dal volto mascherato. E il misterioso protettore le rivelerà la vera natura del conflitto tra gli uomini e i non-morti, combattendo con lei una battaglia epocale per la vita e per l'amore.
 - Black Friars di Virginia de Winter
Serie: trilogia italiana composta dai libri:
1. L’ordine della spada
2. L’ordine della penna
3. L’ordine della croce
Trama: La Vecchia Capitale si prepara alla Vigilia di Ognissanti e il coprifuoco è vicino perché il Presidio sta per aprire le sue porte. Il lento salmodiare delle orde di penitenti che si riversano per le vie, in cerca di anime da punire, è il segnale per gli abitanti di affrettarsi nelle proprie case, ma per Eloise Weiss è già troppo tardi. Scambiata per una vampira, cade vittima dell’irrazionalità di una fede che brucia ogni cosa al suo passaggio. In fin di vita esala una richiesta d’aiuto che giunge alle soglie della tomba dove Ashton Blackmore, un redivivo secolare, riposa protetto dalle ombre della Cattedrale di Black Friars. Il richiamo della ragazza è un sussurro che si trasforma in ordine, irrompe nella sua mente e lo riporta alla vita.
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corallorosso · 6 years
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Hanno ucciso Olivia, la donna che proteggeva gli ultimi indigeni del Perù Sono rimasti in pochi, sopravvissuti alla crudeltà e alle ingiustizie. Massacrati dai Narcos, dai disboscatori illegali. Olivia era un'ambientalista, aveva 80 anni ma non si era mai arresa. L'hanno uccisa, senza pietà. Cinque spari, cinque colpi dritti al petto. Così è morta Olivia Arévalo Lomas, leader indigena di 80 anni, che difendeva in Perù i diritti culturali del popolo shipibo konibo. L'anziana donna, una preda facile per i criminali, è stata ammazzata ieri nella comunità 'Victoria Gracia' con cinque colpi di pistola al petto. Lo riporta il sito locale La Republica. La Federazione delle comunità indigene di Ucayali ed il Consiglio Shipibo Konibo Xetebo-Coshikox hanno condannato con fermezza l'omicidio e chiesto allo Stato di proteggere le popolazioni indigene e i loro leader che affrontano minacce da sempre. Il corpo della leader indigena ottantenne è stato trovato a terra a venti minuti dalla città di Yarinacocha. Le ragioni del crimine restano sconosciute, e i leader shipibo hanno chiesto alla polizia nazionale di trovare i responsabili. I media locali ricordano che molti leader indigeni del Perù sono stati minacciati per il fatto di difendere i diritti delle loro comunità. Il giorno in cui papa Francesco ha visitato Puerto Maldonado lo scorso gennaio, ha ascoltato la testimonianza straziante di un indigeno: "Siamo i sopravvissuti di molte crudeltà e ingiustizie", aveva detto Yesica Patiachi. Non è la prima volta che si verifica un crimine contro un leader indigeno nell'area di Coronel Portillo, a Ucayali. Nel 2014 sono stati uccisi quattro leader della comunità ashaninka di Saweto al confine con il Brasile. Del crimine sono stati sospettati i disboscatori illegali e trafficanti di droga che li avevano minacciati. globalist
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horrorteller72 · 7 years
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La Torre e le luci nella notte
La torre era famosa perché il panorama che si scorgeva da lì era rinomato in tutta la città.
Costruita per resistere al tempo in un medioevo lontano ma quanto mai attuale, era dotata dell’accesso ad una fonte autonoma di acqua e circondata dal proprio parco recintato.
Io lavoravo lì da tre mesi quando tutto andò all’inferno. Era aprile, il mese della primavera in tutto il suo splendore, quando la prima vittima arrivò in città. Uno starnuto fu la terribile sentenza di morte che portò con sé. Nel giro di tre giorni i contagiati erano almeno trenta e la prima vittima stava morendo all’ospedale centrale, quello col nome della suora morta di ebola in Africa.
Un ceppo sconosciuto di influenza bla bla bla dissero. Che cambiava la propria struttura in continuazione. Gli immuni sono il cinque o sei percento, pare, io ne ho visto solo uno ed ha cercato di uccidermi, quindi non so dirvi. Mi sono rinchiuso qui, nella mia torre. Fuori dal mondo e lontano dalla città che bruciava. Non hanno nemmeno fatto cose terribili tipo sganciare bombe a contenere il contagio. Non si poteva contenere, tutto qui.
La tv ha smesso di trasmettere comunicati, sono iniziati i messaggi registrati, poi manco quelli, solo le schermate fisse. Il terzo giorno la corrente ci ha salutati. Ma per allora io avevo già intuito come sarebbe andata a finire. Ho seppellito Alina nel parco, accanto al laghetto che le piaceva tanto. Un agente con la malattia allo stato terminale è morto mentre mi urlava che era vietato. Si è messo a sputare sangue tremando, poi ha cominciato a perdere sangue anche dagli occhi e dal naso. Due colpi di tosse convulsa, uno spasmo ed era andato. Lo ho coperto con il lenzuolo che avevo usato per trasportare lei. Ho fatto una bella sepoltura per la mia unica ragione di vita, con il vestito rosso che le piaceva tanto.
La cassa non sarebbe servita, Alina non era più in quel corpo, lì era rimasta solo la parte morta.
La ho adagiata dolcemente nella buca profonda che avevo scavato nella terra dal profumo di fresco, accanto all’albero sotto cui avevamo fatto l’amore un anno prima, di sera.
Era ancora bella, la ho coperta con il suo plaid preferito, quello con cui si addormentava in veranda guardando il mare insieme a me.
Il ricordo mi fa male, ma lo ho affrontato.
Senza di lei la morte non mi fa più paura, ed è stata una dei fortunati che ha lasciato il mondo durante la notte, mentre dormiva. La sera prima aveva la febbre. Il mattino seguente non aveva più nulla, riposava. Per sempre. Spero non si sia accorta di nulla ed ho sentito che in quei casi era così. Sonno e morte, nel giro di poche ore. La forma virale acutissima, la chiamavano. Ora non ci sono più forme virali, credo che finiti i poveri diavoli da uccidere la malattia si sia trovata a corto di diffusione e si sia rassegnata a morire a sua volta.
Ho come la sensazione di essere l’unico che non accetta il proprio destino. Credevo che vivere in una città di morti sarebbe stato il peggio, ma si è presentata un'altra variante del virus, l’ultima sorpresa dell’influenza h303 morente. Colpiva i soggetti con una febbre fortissima invece che con la morte ma faceva si che il loro cervello avesse danni permanenti. Il risultato è stato che in una prima fase le strade si sono riempite di tizi che barcollavano come deficienti, poi la loro mente è mutata.
Sono diventati aggressivi, sempre più veloci, affamati.
Non sono come gli zombie del cinema, no. Questi non vogliono la carne umana, in verità vogliono solo uccidere e smangiucchiare qualunque cosa sia calda e si muova. Cani, cavalli, persone, tutto.
I cani, meno fessi di noi e immuni al virus, si sono coalizzati in branchi che vagano per le rovine, combattendo per la vita. I morti (che non sono proprio morti ma manco proprio svegli, ecco) li attaccano, ma quelli li fanno a brandelli, quando possono.
E non sono più domestici, come se l’essere stati traditi dagli uomini li avesse liberati dalla schiavitù. Non ci odiano, non ci obbediscono, se non hanno troppa fame non ci attaccano.
Gli uccelli sono sempre là, indifferenti. Ogni tanto ne mangio qualcuno per sopravvivere ma non sono granchè buoni. Loro sono troppo lontani dalla vera vita del mondo per avere dei veri sconvolgimenti sostanziali nelle loro esistenze. E probabilmente non sono neppure in grado di capire.
Io so solo che mi sono ritirato nella mia vecchia torre, ho chiuso il parco, ho abbattuto, con un colpo di badile di taglio, il signor Polzapovich, il mio capo, che ha cercato di azzannarmi, ed ho ammassato provviste per giorni e giorni. Tutto ciò che è in scatola va bene. Tanto in molti casi i supermercati sono rimasti chiusi e sigillati, nessuno è andato ad aprirli ed i sopravvissuti sono davvero troppo pochi, ve lo dicevo prima.
Ho anche fregato una autocisterna di benzina vista per strada, il conducente era appeso alla portiera, morto mentre cercava di scendere per arrendersi alla malattia. Il cartellino sulla sua giacca diceva Alfredo. Grazie Alfredo. Infine ho ammassato quanta più roba potevo agli accessi, sigillandoli tutti, tranne uno piccolo sul retro, che potrebbe sempre servire in caso di emergenza. Una station vagon di candele mi assicura la luce di notte. Il bello è che l’interno della torre era un museo. Ora dormo nel netto di un re morto quattrocento anni fa, con lenzuola e materasso dell’ikea, leggo libri presi dalla biblioteca all’angolo a carriolate (letteralmente, ho preso la carriola di Igor, il manutentore, pace all’anima sua) e mangio fagioli in scatola. Ho anche saccheggiato un negozio di agraria  e seminato un orto.
Non che io ne capisca molto ma le piante sembra vogliano sopravvivere almeno quanto me.
Non fraintendetemi, la mia vita è finita mentre buttavo palate di terra sulla tomba improvvisata di Alina, ma vivere mi aiuta a passare il tempo, per capirci.
Non ho voglia di crepare, quindi campo.
In un certo senso stavo abituandomi a questa esistenza, avevo modificato una maschera nbc presa da un soldato a cui non serviva più con dei filtri profumati fatti in casa per non sentire l’odore terribile quando cambiava il vento e portato nel salotto del XVI secolo una meravigliosa Harley Davidson Softail con cui, in caso di emergenza, potermela dare a gambe (a ruote in quel caso) sulla via di fuga che mi ero organizzato. Fuori in trenta secondi, mi dicevo. Fattibile.
Cominciavo a credere di essere diventato paranoico quando li ho visti. I Morti comunicavano tra loro, avevano un barlume di conoscenza, si organizzavano per cacciare. Non arrivavano a usare armi, neppure rudimentali, ma attaccavano in branco e si coordinavano. Più o meno. Ho preso dalla strada una jeep con mitragliatrice e ho accumulato un po’ di armi varie e mi sono barricato dentro.
Non voglio uscire, ho cibo per mesi, anche birra, sigarette e alcolici, ma loro sono sempre più scaltri. Ieri ne ho crivellato di colpi uno che aveva cominciato a toccare le porte e lo ho lasciato lì come monito per gli altri.
Finchè resto qui va tutto bene.
Ma la notte ho scoperto che ci sono altre luci in città.
Altri sopravvissuti.
Magari delle donne, che vorrebbero condividere la torre con me. O anche un amico con cui parlare. Ieri mi sono messo a fare una mappa dei possibili rifugi dei sopravvissuti.
Tutta la notte in punta alla torre.
Ho preso freddo, spero.
Perché se non è un raffreddore allora il virus mi ha fregato mutando un'altra volta.
Il che spiegherebbe perché le luci di notte sono sempre meno.
Ho la tosse.
Sputo sang
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wonderwheeljdblog · 4 years
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the Mandalorian season 2 → episodi 13, 14, 15, 16
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Titolo originale: Chapter 13: The Jedi Diretto da: Dave Filoni Scritto da: Dave Filoni
Sul pianeta Corvus, la Jedi Ahsoka Tano sta cercando di liberare la città di Calodan, tenuta sotto il controllo del magistrato Morgan Elsbeth e dai suoi soldati. Ahsoka le dà un giorno per arrendersi e divulgare la posizione del suo padrone.
Mando e il Bambino, la mattina seguente, arrivano sul pianeta reso inospitale, arrivano al villaggio ed incontrano il magistrato offre al Mandaloriano una lancia in puro beskar se riuscirà ad uccidere la Jedi.
Mando e il Bambino si inoltrano nel bosco vicino e incontrano Ahsoka che lo attacca, credendo che sia venuto per ucciderla, ma Mando rivela di essere stato mandato da Bo-Katan e per farle vedere una cosa, il bambino. Dopo aver parlato telepaticamente con il Bambino grazie alla Forza, Ahsoka rivela che il suo nome è Grogu ed era nel Tempio dei Jedi su Coruscant, ma dopo le Guerre dei Cloni fu nascosto e per sopravvivere ha dovuto nascondere i suoi poteri.
Mando spiega che la sua missione è di portarlo ai suoi simili, i Jedi, ed Ahsoka decide di esaminarlo la mattina dopo. La Jedi non riesce a far usare la Forza a Grogu, invece Mando sì grazie al forte legame con il Bambino. Tuttavia Ahsoka dice di non poterlo addestrare, perché il forte legame con Mando ha reso Grogu vulnerabile alle sue paure e alla sua rabbia, sentimenti che hanno corrotto l’animo del precedente Maestro di Ahsoka (probabilmente Anakin Skywalker). Mando propone ad Ahsoka di aiutarla a sconfiggere il magistrato Elsbeth, a patto che lei addestri Grogu: la Jedi accetta.
Quella sera i due entrano nella cittadina, dove riescono ad eliminare i soldati, Mando uccide il capo dei soldari, Lang e la Jedi riesce a sconfiggere anche la magistrata: dopo averla battuta in duello, Ahsoka chiede dove si trovi il suo padrone, ovvero il Grande Ammiraglio Thrawn.
Infine, dopo aver liberato il popolo, Ahsoka ripete di non poter addestrare Grogu, tuttavia consiglia a Mando di andare alle rovine di un Tempio Jedi su Tython con un forte legame con la Forza, dove Grogu potrà scegliere di espandersi nella Forza così che uno dei pochissimi Jedi rimasti possa sentirlo e andare ad aiutarlo. in cambio dell’aiuto nel salvare il villaggio gli dona la lancia Beskar che appartiene alla sua gente. Così il Mandaloriano e il Bambino ripartono sulla Razor Crest, verso la nuova destinazione.
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Titolo originale: Chapter 14: The Tragedy Diretto da: Robert Rodriguez Scritto da: Jon Favreau
Mando raggiunge il pianeta dove è situato il Tempio Jedi indicato da Ahsoka, pone il bambino su una "pietra veggente" con il quale entra in forte connessione con la Forza, tanto che appare uno scudo di forza a proteggerlo e invia un segnale nello spazio. 
ma il pianeta non rimane disabitato per molto tempo perchè atterra la Slave I, con a bordo Boba Fett e Fennec Shand, creduta morta in precedenza su Tatooine, come Boba stesso anni addietro (morto al tempo perchè mangiato da un verme della sabbia ). Dicendo di averlo seguito, e di essere un uomo libero da ogni credo diversamente da lui, Boba intima Mando di restituirgli la sua armatura trovata su Tatoine, mentre Fennec punta un fucile di precisione contro il bambino. I tre arrivano a un accordo senza sparare un colpo, ma successivamente atterrano due navette imperiali che seguono Mando attraverso un segnalatore inserito dal tecnici alla ultima riparazione della Crest, e nel frattempo Boba Fett recupera l'armatura (Mando lascia la nave aperta).
Mando, Boba e Fennec mettono in fuga gli assaltatori, ma Fett con un razzo distrugge le navi in fuga, ma improvvisamente un violento colpo di laser arrivato dall'incrociatore leggero imperiale di Moff Gideon disintegra completamente la Razor Crest di Mando (è questa la tragedia!). Tutto ciò che gli è rimasto adesso è solo la sua lancia in beskar.
Successivamente, Boba dimostra che l'armatura è codificata con il proprio nome e quello del padre Jango. Subito dopo, quattro Soldati Oscuri (Dark Trooper), usciti dall'incrociatore di Gideon volano giù e catturano il bambino, che si era addormentano dopo lo sforzo fatto per inviare il segnale, e lo riportano sull'incrociatore, che immediatamente fa il salto nell'iperspazio. Boba accetta di aiutare Mando, sentendosi in debito per il rapimento del bambino, e deducendo che l'Impero non è mai caduto del tutto. Senza una nave propria e senza il bambino, Mando ritorna su Navarro insieme a Boba e Fennec e chiede aiuto a Cara Dune per far evadere il criminale Mayfeld al fine di rintracciare Gideon e salvare Grogu.
Sull'incrociatore imperiale, Moff Gideon è stupito dalle abilità del bambino, che tiene testa a due soldati contemporaneamente e gli mostra brevemente la Spada oscura (Darksaber) e lo fa addormentare in attesa di arrivare al luogo dove il suo sangue sarà prelevato dal Dottor Pershing. 
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Titolo originale: Chapter 15: The Believer Diretto da: Rick Famuyiwa Scritto da: Rick Famuyiwa
Cara Dune prende in custodia il vecchio nemico del Mandaloriano, Migs Mayfeld, per acquisire le coordinate della nave di Moff Gideon. Mayfeld ha bisogno di un terminale per le coordinate, e li indirizza ad una raffineria imperiale nascosta, dove trasportano ridonio, su Morak, materiale volatile ed infiammabile. Quando arrivano, il Mandaloriano sceglie di accompagnare Mayfeld, perchè sia Dune che Fennech sono inserite nel registro imperiale.
Mayfeld e il Mandaloriano dirottano uno dei trasporti e si travestono da soldati. i trasporti contengono il ridonio, ma vengono attaccati dai pirati, che il Mandaloriano riesce a sconfiggere anche grazie all'aiuto di due caccia TIE. Raggiungono la struttura, l'unica spedizione sopravvissuta.
Il terminale di cui Mayfeld ha bisogno è nella sala mensa degli ufficiali, ma Mayfeld vede il suo ex comandante Valin Hess e teme di essere riconosciuto. Il Mandaloriano va invece, ma il terminale richiede una scansione facciale e si toglie l'elmo per acquisire i codici. Viene affrontato da Hess, perchè non lo conosce, ma Mayfeld interviene. Dopo aver preso un drink con Hess, Mayfeld si arrabbia per dei soldati morti inutilmente in un'operazione chiamata Cinder, dove sono stati uccisi migliaia di soldati solo per il creare il caos che l’impero sfrutta per essere poi il risolutore. Mayfeld adirato spara a Hess uccidendolo. Mayfeld e il Mandaloriano si fanno strada verso il tetto, mentre Fennec Shand e Dune forniscono fuoco di copertura e Boba Fett arriva a bordo della Slave I. Mayfeld distrugge la raffineria con un colpo di cecchino ben piazzato. La nave è inseguita da due caccia TIE, ma Fett li abbatte usando una carica sonica. Dune lascia Mayfeld libero come ringraziamento per il suo aiuto, e il Mandaloriano invia a Moff Gideon un messaggio minacciandolo e giura che salverà Grogu.
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Titolo originale: Chapter 16: The Rescue Diretto da: Peyton Reed Scritto da: Jon Favreau
Mando, Cara Dune, Boba Fett, Fennec Shand, riescono a sequestrare una navicella imperiale Lambda con a bordo il dottor Pershing, il tecnico incaricato di sfruttare il sangue di Grogu, prendendolo così in ostaggio. 
Il gruppo raggiunge su un pianeta Bo-Katan Kryze  e Koska convincendole ad unirsi a loro per organizzare una missione di salvataggio del piccolo Grogu sull'incrociatore Imperiale di Moff Gideon, avendone acquisito l'ubicazione usando come incentivo la possibilità di farle recuperare la spada oscura. 
Fingendo di essere attaccati da Boba (che subito dopo si da alla fuga) con la nave Lambda effettuano un atterraggio di emergenza sull’incrociatore di Gideon ma vengono attaccati dai soldati imperiali. Moff Gideon avvia l’attivazione del plotone di Soldati Oscuri, ma uno di loro riesce e Mando riesce a tenerli testa con difficoltà. 
Mentre il resto della squadra attende nella plancia dell'incrociatore, Mando riesce ad espellere il plotone di Soldati Oscuri nello spazio, usando una chiave gerarchica, dopodiché raggiunge la cella di Grogu, che è tenuto in ostaggio da Gideon, che sfida il Mandaloriano a duello usando la spada oscura. Mando riesce a disarmare Gideon e consegnarlo ammanettato a Bo-Katan, che tuttavia non può rivendicare il diritto di possesso della Spada Oscura perché non è stata lei a disarmare Gideon, il suo ultimo proprietario e quindi è Mando il legittimo re di Madalorian. Nel frattempo i quasi indistruttibili Soldati Oscuri precedentemente espulsi nello spazio ritornano sull'incrociatore (sono dei terminator) e tentano di fare breccia nella plancia, ma successivamente un caccia X-wing della Ribellione abborda e un Jedi disintegra tutti i Soldati Oscuri; nel mentre Gideon, vedendo i suoi soldati sterminati, raccoglie un blaster da terra e tenta di far fuoco prima su Mando poi sul bambino, ma viene accerchiato e successivamente stordito, dopo aver tentato di uccidersi puntandosi il blaster sotto il mento. 
Il Jedi si rivela essere Luke Skywalker, accompagnato dal droide R2-D2, che è accorso in aiuto di Grogu dopo che questo era entrato in connessione con la Forza. Il Jedi promette di occuparsi del bambino e di garantirgli un addestramento per le vie della Forza, Mando accetta a malincuore di affidare il bambino a Luke, e salutandolo per l'ultima volta si toglie l'elmo davanti a tutti. 
--- e con le lacrime agli occhi si conclude la seconda stagione di Mando --- 
JD
P.S. Dopo i titoli di coda, su Tatooine, vediamo il vecchio Palazzo di Jabba the Hutt, preso in possesso dai suoi vecchi seguaci sopravvissuti, incluso Bib Fortuna che è ora a capo dell'organizzazione criminale. Sopraggiungono Fennec Shand e Boba Fett che uccidono tutti i presenti e Fett siede sul vecchio trono di Jabba. --- THE BOOK OF BOBA
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davincialba · 5 years
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Articolo 21        Periodico d’informazione del Liceo Da Vinci-  N.4 A.S 2019/20
                                “Volate sopra i fili spinati” – Liliana Segre
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                      Frontespizio a cura di Chiara Montanaro
“ESSERE ANTIFASCISTI È IL PRIMO DOVERE DELLA MEMORIA CHE ABBIAMO”
Ogni anno, dal 2005, grazie alla decisione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si celebra il Giorno della Memoria. La data è il 27 gennaio, perché nello stesso giorno del 1945 le truppe dell’Armata Rossa aprirono i cancelli e liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. I ragazzi della redazione, prima della pausa natalizia, hanno manifestato il desiderio di dedicare un numero del nostro periodico a questo argomento, perché, se è vero che la scuola ed altre agenzie formative organizzano diverse iniziative per sensibilizzare i giovani, essi si ritrovano comunque a vivere in una società sempre più spesso contaminata da episodi di xenofobia, razzismo, discriminazione e violenza. Solo pochi giorni fa, a Mondovì, si è consumato un gesto vandalico privo di senso: sulla porta della casa di Lidia Beccaria Rolfi, scomparsa nel 1996 e attualmente abitata dal figlio, è stata scritta una frase che riecheggia i motti di un oscuro passato. “Juden hier”, ovvero “qui c’è un ebreo”, corollata dalla stella di David. Aldo Rolfi, figlio di Lidia, ha espresso profondo disappunto e ha sporto denuncia verso gli ignoti autori di questo deplorevole gesto, commentandolo così sul quotidiano LA REPUBBLICA: “è inquietante quello che è successo questa notte [...] ”. Anche lo storico Bruno Maida, che ha scritto insieme a Lidia Rolfi numerosi libri sul tema della Shoah, ha espresso parole di condanna: “Mi sembra un gesto molto grave, tanto più nella dimensione di Mondovì e per il ruolo di Lidia, una deportata politica [...] questo è uno dei molti segnali che ci dovrebbero fare alzare la voce per ricordare a tutti che essere antifascisti è il primo dovere della memoria che abbiamo”.Sfogliando questo numero, troverete un’intervista all’esimio Professor Maida, ma definirla lezione di storia è riduttivo, per noi. Le sue parole  sono una lezione di vita.
Chi era Lidia Rolfi? Non una donna ebrea, bensì una delle poche persone a comprendere che “la libertà è la facoltà di fare ciò che si deve, non ciò che si vuole”. Il suo esempio, insomma, insegna a lottare per la libertà universale, anche a sacrificio di quella personale. Lidia Beccaria Rolfi nacque a Mondovì l'8/04/1925, da una famiglia contadina. Era l'ultima di cinque figli, fu anche l’unica a studiare e dopo l’Istituto Magistrale divenne maestra. Durante gli anni di insegnamento, nel 1938 le leggi razziali imposero di strappare dai libri le pagine scritte da studiosi e autori ebrei e, inizialmente, Lidia si adeguò alle richieste, ma, dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, si rese conto della situazione e prese coscienza del vero volto di questo conflitto, che infliggeva continue atrocità alla popolazione civile. L’8 settembre del 1943 fu chiara anche la portata del disastro militare e iniziò la repressione tedesca favorita dai fascisti. Tra il settembre del ‘43 e il gennaio dell’anno successivo, assistette ai massacri dei nazisti a Boves, in provincia di Cuneo. Lidia decise, così, di intervenire concretamente e a diciotto anni diventò una staffetta partigiana della Brigata Garibaldi di Saluzzo. Per questo motivo fu fatta prigioniera, torturata, caricata su un treno bestiame il 26 giugno del ‘44. Fu condotta a Ravensbruck, lager nazista per sole donne. Costretta ai lavori forzati, a subire ogni sorta di privazione, a soffrire la fame e il freddo, Lidia riuscì a procurarsi dei taccuini e una matita per appuntare e documentare tutta la sua esperienza. Il 30 aprile 1945 i russi liberarono le prigioniere e le affidarono agli americani. Lidia recuperò i suoi appunti e li rielaborò, consegnando nei suoi scritti un’importantissima testimonianza, una voce che si unì a quella di altri sopravvissuti alle brutalità del Nazifascismo, come quella di Primo Levi, con cui strinse amicizia. Lidia è morta nel 1996. Nel 1997 è uscito postumo un libro scritto insieme a Bruno Maida, dedicato al destino dei bambini perseguitati dai nazisti.
Fonte: http://enciclopediadelledonne.it
                                  INVITO ALLA LETTURA
“Questa è la storia di Bruno e della sua famiglia. Tutto questo è accaduto tanto tempo fa e non dovrebbe più accadere. Non oggi”. (p. 211)
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La scelta di una lettura che ha per protagonisti due bambini, a mio avviso, mostra la faccia più crudele della Shoah, che, col suo sistematico e freddo metodo di procedere, non solo non ha risparmiato nessuno tra gli individui più fragili, ma ha colpito più o meno consapevolmente anche i carnefici. Il pensiero va anche al padre di Bruno, ufficiale delle SS, che si ritrova condannato al più crudele contrappasso. “Il bambino con il pigiama a righe” di John Boyne è, comunque, una delle storie più conosciute sul  tema dell’Olocausto anche grazie al noto film tratto dall’omonimo romanzo. La sua lettura mi ha sempre portata a considerare quanto i bambini siano ingenui, puri e desiderosi di stringere amicizia, senza pregiudizi. Il romanzo racconta la vicenda di Bruno e Shmuel, provenienti da due famiglie completamente diverse, che diventano grandi amici in un contesto di odio e razzismo. I personaggi fanno riaffiorare il dramma di un periodo triste della storia dell’umanità. Essi restano fino all'ultima pagina ignari della cattiveria che aleggia intorno a loro. Bruno ha otto anni e, come già detto, è il figlio di un ufficiale tedesco e vive a Berlino . Un giorno è costretto a trasferirsi, a causa di un nuovo incarico del padre. Così va a vivere in campagna, e, qualche giorno dopo, scopre casualmente che la sua abitazione sorge vicino ad un  campo di concentramento che egli crede sia una qualunque fattoria. I giorni passano, si sente solo e comincia ad esplorare il terreno che circonda la villa: la curiosità lo spinge fino ai confini del campo di concentramento delimitato dal filo spinato. Si imbatte in un altro bambino, Shmuel, un piccolo ebreo che si trova oltre la rete. Tra i due nasce una profonda  amicizia, un sentimento estraneo a ciò che il nazismo cercava di “insegnare” alle giovani generazioni: Bruno inizia a correre, appena possibile, dal suo coetaneo, cercando di giocare con lui, nonostante il filo spinato rappresenti un ostacolo al loro desiderio di stare insieme. Un giorno, il padre comunica a Bruno un nuovo imminente trasferimento: il bambino corre subito dal suo amico. Decidono assieme di abbattere la barriera che li divide, infatti scavano una buca sotto la rete per permettere a Bruno di passare dall’altra parte. Il piccolo bambino tedesco si traveste con abiti giudaici e assieme vanno a cercare il padre di Shmuel, scomparso, forse ucciso; così vengono catturati, in un rastrellamento dei nazisti, e portati in una camera a gas. Tutto avviene velocemente e i due bambini non si rendono conto di andare incontro alla morte. Ritengo che questa lettura contenga un messaggio implicito: per sconfiggere i pregiudizi, l'intolleranza, il razzismo e l’odio dovremmo tutti tornare un po’ bambini.
Martina Borgogno
                                 INVITO ALL’ASCOLTO
“Respingete il vento gelido dell'indifferenza” – L. Segre
Questo invito è innanzitutto rivolto ai miei coetanei ai quali, in onore della Giornata della Memoria, suggerisco l’ascolto della toccante colonna sonora, composta dall’illustre direttore d’orchestra John Williams, di uno dei più celebri e commoventi film sull’Olocausto: “Schindler’s List”, capolavoro di Steven Spielberg. D’accordo con quelle frasi indignate, anche se talvolta oltremodo comode e sbrigative, che spesso si sentono, come: “Non ci sono parole per descrivere l’orrore della Shoah”, ho scelto di proporre una musica e non una canzone.
Dico schiettamente che, oggigiorno, molti, troppi giovani sono desensibilizzati, il livello d’intelligenza emotiva è scarso, non sono avvezzi al pensare, immersi, come noi tutti, in un mondo accelerato e nichilista che brucia gli spazi di riflessione e avvilisce l’attenzione verso tutto ciò che richieda un minimo di impegno emotivo o intellettuale.
Il silenzio è divenuto, ossimoricamente, una voce troppo fastidiosa che occorre soffocare, con canzoni sparate nelle orecchie, ad esempio (talvolta esse stesse veri e propri inni alla violenza).
E, quindi, in questo caso, sostengo sia preferibile solo musica, senza parole, senza testo, ma con quel dolce violino che pare voler piangere.
Auguro, perciò , di non limitarsi a SENTIRE, ma di provare ad ASCOLTARE, con partecipazione e tenerezza, tenendo in vita la fiamma della memoria, senza spegnerla con il “gelido soffio dell’indifferenza” emotiva che in parte già conosciamo.
Alberto Esposito
                                INVITO AL CINEMA
Anne Frank, vite parallele
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Il 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, mi sono recata insieme a tutte le classi del triennio presso il cinema Cityplex della nostra città, per poter assistere alla proiezione, in esclusiva, del film “Anne Frank, vite parallele”, realizzato da Sabina Fedeli e Anna Migotto e interpretato da Helen Mirren e Martina Gatti.
Dal campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania, dove si trovano le tombe di Anne Frank e di sua sorella Margot, Katerine, una ragazza intraprendente e desiderosa di conoscere, documenta, tramite foto e brevi didascalie sui social network, il suo viaggio in solitaria che toccherà i luoghi della memoria ebraica e alcune capitali d’Europa. Durante la narrazione si intrecciano varie testimonianze di donne sopravvissute e la lettura, interpretata dal premio Oscar Helen Mirren, delle pagine più significative del diario di Anne Frank, al quale si rivolge con l’appellativo di Kitty.
Dopo la visione di questo film, ci siamo confrontati sulla questione trattata. L’essere umano, come tale, è dotato di memoria, un archivio che, purtroppo, non consente il ricordo permanente di ogni esperienza passata e, pertanto, necessita di essere alimentato, in modo che i ricordi non sbiadiscano come vecchie fotografie, con il trascorrere del tempo. Per questo motivo, secondo noi, l’esperienza che ci è stata messa a disposizione dalla scuola è stata molto utile per rinforzare cose di cui eravamo già a conoscenza, ma su cui non si finisce mai d’imparare. Gli errori commessi in passato, che hanno causato molte sofferenze, devono farci riflettere, in modo che in futuro non si possano più verificare.                                                                                                                            Marta Caffa
                                LA PAROLA AGLI ESPERTI
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Con l’avvicinarsi della Giornata della memoria, in data 23 gennaio, la redazione del giornalino, autorizzata dal professor Vinci e guidata dalle docenti referenti del progetto, si è riunita alle ore 12 nell’aula della 1Cs per intervistare, telefonicamente in vivavoce, il Professor Bruno Maida, docente di Storia Contemporanea presso l’Università di Torino e autore di numerose pubblicazioni sulla Shoah, in particolare del libro “La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia (1938-1945)”. L’esperto ha risposto in modo esauriente ai quesiti posti dai ragazzi, dimostrando grande sensibilità e disponibilità. Speriamo di poter organizzare in futuro un incontro dal vivo per poter fruire ancora del suo patrimonio di conoscenze e della sua capacità di divulgazione.
L’orrore nazista non ha risparmiato nessuno. All’interno dei lager anche i bambini ebrei erano costretti ai lavori forzati?
No, ragazzi, devo immediatamente informarvi che i bambini ebrei erano destinati ai campi di sterminio e quindi alla morte; qualche bambino poteva sopravvivere per sporadici episodi di carità da parte dei militari tedeschi che, anche se raramente, potevano riconoscere nella fisionomia di alcuni di loro quella dei propri figli. Oppure, i bambini che sopravvivevano erano quelli un po’ più robusti o alti di statura che apparivano più grandi rispetto alla reale età anagrafica e venivano ritenuti idonei a lavorare nelle fabbriche. Sopravvissero, inoltre, i bimbi destinati ad esperimenti scientifici e tutti quei piccoli che riuscirono a nascondersi per evitare di essere deportati. Di tutti i bambini ebrei italiani deportati, comunque, solo 14 sopravvissero.
Pertanto, di tutti i bambini ebrei anche non italiani sopravvissuti, che ne fu dopo la liberazione?
Bisogna precisare che i più piccoli non ricordavano né il loro nome né la loro provenienza; erano destinati a luoghi di accoglienza o strutture, in attesa di individuare eventuali superstiti della loro famiglia d’origine. I più grandi, ormai praticamente adulti, cercarono di costruire il proprio futuro, consapevoli di non poter dimenticare. Tra i vari documenti fotografici resta impressa un’immagine di bambini liberati da Auschwitz che mostrano il braccio.
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A quali fonti ha attinto per scrivere “La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia (1938-1945)”?
Al di là della storiografia ufficiale, le fonti principali a cui ho attinto sono essenzialmente due: i resoconti di adulti che avevano vissuto la Shoah da bambini e le interviste ai deportati nell’Archivio centrale di Stato che raccoglie testimonianze audiovisive dei sopravvissuti. 433 di queste interviste sono in italiano. L’Archivio centrale dello Stato mette a disposizione questo materiale sia presso la sua sede di Roma che attraverso registrazione al sito. È possibile individuare, attraverso il loro ascolto, delle vere e proprie parole-chiave della Shoah e alcuni testimoni l’hanno voluta raccontare proprio con gli occhi dei bambini.
Lei ha conosciuto personalmente qualcuno dei 14 bambini italiani sopravvissuti?
Sì, certo, conosco da vent’anni la senatrice a vita Liliana Segreche mi ha raccontato di essersi salvata grazie alla sua elevata statura. Inoltre, ricordo anche Pietro Terracina, che fu deportato all’età di 14 anni ed è recentemente scomparso (8 dicembre 2019, n. d. r.).
Professor Maida, ha da consigliarci qualche film che ritiene particolarmente significativo e attendibile dal punto di vista della ricostruzione storica?
Sì, ritengo importanti due film: il primo è “Arrivederci ragazzi” (Au revoir les enfants) di Louis Malle che racconta la storia di un'amicizia speciale tra Julien e Jean che si ritrovano, nel 1944 per motivi e con modalità differenti, all'interno di un collegio religioso gestito da Carmelitani scalzi e “Monsieur Batignole” di Gérard Jugnot che porta in scena la vicenda di un padre di famiglia, un macellaio francese che decide di proteggere tre bambini ebrei, conducendoli verso la Svizzera.
Secondo lei, oggi le istituzioni s’impegnano abbastanza in termini di sensibilizzazione su questi argomenti?
Il fatto stesso che voi oggi, a scuola con le vostre insegnanti, vi stiate facendo delle domande e manifestiate curiosità verso queste tematiche significa che c’è sensibilizzazione. È stata istituita una Giornata della Memoria che si celebra il 27 gennaio, ma io credo che sia importante comprendere che ricordare non significa soltanto retoricamente commemorare. Una giornata dedicata, dalle Istituzioni, alla memoria di un terribile evento passato non deve, erroneamente, essere considerata una sorta di escamotage per tranquillizzare la nostra coscienza. La lezione della storia deve veramente, e non solo a parole, servire ad interpretare il nostro presente e ad assumerci le  responsabilità negli impegni quotidiani. Infatti, anche oggi, di fronte a chi soffre, possiamo scegliere se restare indifferenti o darci da fare con piccoli, ma concreti interventi di aiuto.
Intervista realizzata da Jasmine Hijji, Marta Caffa, Alberto Esposito, Matilde Ruffa, Alice Silvestro, Chiara Montanaro, Chiara Calissano, Eleonora Gianotti, Monica Grillo, Alice Guastini e Vanessa Deidda.
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        LA FUCINA DELLE IDEE
In classe, durante le lezioni di italiano, ho avuto la possibilità di “conoscere” il poeta Umberto Saba.
Umberto Saba nacque a Trieste nel 1883, fu colpito dalle leggi razziali, essendo il ramo materno della sua famiglia di origine ebrea.
Saba fu costretto a lasciare l'Italia e a trasferirsi a Parigi. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, tornò a Roma e si salvò grazie alla protezione di Ungaretti prima e di Montale poi. Nascosto nella casa fiorentina di Montale, scrisse alcune poesie che riflettono i sentimenti provati durante la dominazione nazista.
Una delle più note è “Teatro degli artigianelli”.
Personalmente, invece, mi sono soffermata su un altro testo: “Quando nacqui mia madre ne piangeva”.
Nella prima quartina ci sono dei versi toccanti “... per me per lei che il dolore struggeva/trafficavano i suoi cari nel ghetto”; poi nella seconda quartina prosegue:
“da sé il più vecchio le spese faceva/per risparmio e più forse per diletto...”.
Mi è parso di vedere la sua famiglia lavorare nel ghetto, mentre il più anziano faceva la spesa per portare qualcosa da mangiare per il piccolo e la madre (abbandonata dal marito).
Queste parole e quelle sentite durante questi ultimi giorni, in occasione della Giornata della Memoria, mi hanno fatto riflettere molto.
Sia nelle scuole che alla TV si è commemorato il terribile accaduto affinché non ricapiti più.
Ho poi fissato lo sguardo su una foto che ritrae il grigio cancello di Auschwitz con la scritta “Il lavoro rende liberi” e ho pensato che questa iscrizione si possa considerare sia come una grande menzogna che come una grande verità: menzogna, perché il lavoro dovrebbe essere dignità ed essa fu negata e calpestata oltre quel cancello, verità perché le persone sottoposte a lavoro forzato, al freddo, senza sosta, senza cibo, andavano incontro alla morte, che, forse, in quel frangente, se non altro consentiva almeno alle loro anime di tornare libere, lontane da questi orrori e queste torture.
Ringrazio, comunque, il cielo che ci siano stati coloro che, essendo sopravvissuti, abbiano potuto riconquistare anche la libertà terrena ed abbiano testimoniato, come Saba, Levi e tanti altri questo triste capitolo della storia.
Sofia Drocco sotto la guida degli insegnanti
       LA FUCINA DELLE IDEE (2)
Risiede nel profondo del genere umano diffondere paura per l’oscuro e il diverso. Ci comportiamo come piccoli organismi che si spostano in massa, masse dominate dal terrore, dagli stereotipi. Il panico scatenato da un individuo singolo terrorizza interi gruppi. Questo però, quando gli si aggiunge odio, disprezzo, una carenza di empatia, rispetto e quando vengono dimenticati principi per cui intere generazioni hanno lottato provoca una sola cosa: il razzismo. È giusto ricordare ma paradossalmente questi episodi si sono sempre diffusi dall’Olocausto in poi. Pensiamo ai gulag, alle condizioni paragonabili ai lager, in cui oppositori politici, omosessuali, lesbiche, credenti, zingari o criminali venivano schiavizzati fino alla morte. Tutto ciò accadeva nel blocco sovietico. E chi li conosce i campi di concentramento americani contro soldati giapponesi? Eppure esistevano. Se raccontassi le condizioni dei detenuti dei lager presenti in Libia, direste che somigliano a quelli nazisti. Anche in Cina, negli angoli più oscuri del mondo comunista, esistono campi di tortura contro musulmani o, anche qui, oppositori del Partito. Episodi come la persecuzione nazista accadono dai tempi dei romani, se non addirittura da prima. Siamo una società fragile, una società modellabile quando ricorriamo a paura, propaganda del terrore e odio. L’indifferenza è sempre stata una sorta di rifugio. Siamo chiamati a ricordare; ma perché, nonostante ciò, malgrado idee, progetti, leggi europee e associazioni che sostengono la memoria dell’Olocausto ancora nel 2020 si verificano episodi di vandalismo alimentato da razzismo e antisemitismo? Assurdo come ciò che noi, come razza, l’unica esistente, abbiamo fatto si ripeta. Forse è nel nostro DNA ritenere che ciò che accade nel presente non sia così pericoloso come ciò che è accaduto in passato. Perché i telegiornali parlano in modo esaustivo dell’Olocausto degli anni 30/40 del ‘900, ma ignorano letteralmente l’emergenza dei campi di lavoro in Libia? Forse quando si parla di episodi drammatici che non alimentano paura “globale” non importa a nessuno. Siamo la prima generazione al mondo a vivere in un’epoca di inarrestabile cambiamento, emergenze terribili ed una globalizzazione che come un’altalena abbatte e alza muri contro e grazie agli stereotipi. Siamo la prima generazione che deve lottare contro il collasso ambientale della nostra “CASA”. Guerre, epidemie, rivoluzioni, tensioni politiche, una rinascita dalle proprie ceneri dell’odio. La storia si ripete ma gli errori dobbiamo evitarli, dobbiamo crescere come società, ma soprattutto non dobbiamo restare indifferenti.
Stefan Huru
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                   Calligramma di Alice Silvestro e Chiara Calissano
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commissario-tanzi · 5 years
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I sopravvissuti della città morta (1984)
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Il Viaggio della Memoria: testimoniare ciò che è stato
Si dice che la violenza sia insita nell'uomo, che sia parte imperfetta dell'umanità ma, quei fatti accaduti tra il 1939 e il 1945, corrispondenti allo sterminio denominato Shoah o Olocausto, sono oltre a ciò che è umano e i sopravvissuti hanno dato le loro testimonianze che sottoscrivo per il dovere che mi è stato dato ed è stato ricevuto a chi ha affrontato quest'oggi il viaggio della memoria: testimoniare ciò che è stato. Il principio del disastro furono i ghetti: uno dei primi fu quello di Cracovia (in Polonia). Delimitato dalla città da due barriere naturali, che sono il fiume Vistola e uno strapiombo vicino a un asilo, costudisce l'inizio drammatico testimoniato dalle molteplici storie. Il ghetto appare come un quartiere normalissimo di una qualunque grande città, palazzi, negozi e famiglie che trascorrono la loro quotidianità, eppure quelle mura, quelle costruzioni non trasmettono quiete né serenità bensì una sensazione di pesantezza, di una malinconia percepita dall'anima. Come un carcere, gli ebrei che vivevano lì non avevano possibilità di uscire, erano prigionieri senza colpe quando passeggiavamo per le loro familiari strade dovevano guardarsi le spalle, tenere lo sguardo basso perché i generali nazisti, spesso, sparavano e uccidevano uomini di cui non conoscevano il nome né le colpe solo perché gli era stato ordinato, poiché non avevano coscienza ma solo malignità. Nonostante ciò, nel ghetto lavorava il primo Giusto fra le nazioni, un farmacista, Tadeusz Pankiewic, che aveva deciso di rimanere nel ghetto per lavorare nella sua farmacia con l'intento di poter aiutare gli ebrei portando loro medicine, cibo e cercando di farli uscire, usando la scusa del «gli Ebrei mi rovinano il business» abbindolando le SS per poter rimanere senza indurre sospetti. La farmacia si trova dove ora c'è la Piazza delle Sedie, chiamata così poiché sono allestite delle sculture in piombo, appunto, a forma di sedie: l'artista si è ispirato a una fotografia la quale raffigurava una bambina che portava con sé una sedia della sua scuola, ubbidendo agli insegnanti che avevamo ordinato di portarsi nel ghetto le sedie e i banchi della scuola così da costruire una nuova aula, gli insegnanti non hanno fatto altro che rassicurare i bambini, ricreando un ambiente familiare e affinché non perdessero lo studio, la conoscenza che è coscienza e coraggio. Nel ghetto c'era un asilo che è stato, purtroppo, anche ospite di una delle più grandi tragedie, ovvero l'uccisione dell'innocenza: la fine della speranza; una sera, i soldati nazisti andarono in quell'asilo per prelevare tutti i bambini (i genitori molto giovani li lasciavano all'asilo durante la giornata mentre erano a lavorare) per portarli nel bosco dietro dove c'era lo strapiombo, uno dei confini del ghetto, e lì compirono una delle più atroci azioni: li fucilarono. La morte di quegli innocenti era stata decisa per il bieco motivo che la loro perdita potesse limitare la volontà degli Ebrei di combattere, di vivere e sperare. Era oppressione, togliere tutto anche i bambini per non avere più nessun affetto a cui aggrapparsi. Quel luogo ora è un parco giochi circondato da uno strapiombo che pare voler caderti addosso. È surreale e mostruoso e io ho posto i miei passi lì, in quella quiete che era stata eco degli spari omicidi. Il ghetto si poteva considerare la prima stazione di quel treno che ha condotto migliaia di innocenti alla fine, ai campi di concentramento. Questi si dividono in tre tipologie: campi di lavoro, campi di concentramento e di sterminio (quest'ultimi presenti solo in Polonia). Il sistema di campi di Auschwitz (Auschwitz 1, Auschwitz 2 o Birkenau, Auschwitz 3 o Monowitz) è di quest'ultima tipologia. Auschwitz 2 o Birkenau, 120 ettari di sciagura delimitato dal filo spinato (elettrificato a 40 Volt), è uno dei più vasti campi di concentramento e di sterminio. Gli Ebrei, i criminali politici, i Testimoni di Geova, i Rom e i Sinti, omosessuali e asociali venivano deportati, come è risaputo, per la ferrovia che si estende oltre l'entrata del campo ammassati dentro i vagoni merci. Ce ne hanno mostrato uno: più che una vagone pare una grossa scatola di legno, ammuffito, senza aperture se non qualche foro. Lì dentro ci avrebbero dovuto trasportare merci come cibo o pacchi postali invece venivano ammassati decine di persone, senza cibo e acqua. Anche non entrandoci. Osservandolo dall'esterno si percepisce il senso di claustrofobia, l'istinto di sgomitare per recuperare il proprio spazio, per respirare, per vivere erge dalla ragione, la sensazione si perdere il respiro sembra reale. Birkenau è impressionante anche solo osservando l'entrata: immenso nella nebbia perenne, pare che la luce non lo abbia mai illuminato, il grigiore che aleggia in quella zona è il dolore immenso di tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini e quegli anziani che hanno patito e che ancora adesso percepiscono nel cuore, come i sopravvissuti Sami Modiano, Tatiana Bucci e Piero Terracina, che troppo giovani hanno conosciuto tutto il male dell'umanità. Birkenau diviene l'inferno in terra, non tanto per come si mostra ma per i racconti di chi ci è stato che sembrano materializzarsi in quei luoghi. Sami che a quattordici anni ha dovuto vedere il padre sottostare alle violenze dei nazisti, che ha dovuto patire il freddo, la fame, il lutto per la morte di suo padre e della sorella. Tatiana che ancora bambina ha visto tutto il suo mondo crollare, la sua infanzia andarsene via e di dover crescere troppo in fretta. Piero che ha visto tutta la sua famiglia andarsene poco a poco, essere ripudiato dal proprio Paese e dalle persone che conosceva per poi ritornare solo e senza nulla. Toglievano tutto: i propri beni, la propria identità, il proprio nome e la dignità e chi non era abbastanza forte o necessario (anziani, malati e donne incinte) per divertire il sadismo di quegli uomini che uomini non sono, veniva direttamente ucciso nelle camere a gas. Chi invece lo era, veniva portato alla Sauna, un edificio in cui levavano tutto e i deportati venivano registrati. Di legno erano le baracche dove dormivano gli uomini, nel lato destro, di muratura quelle delle donne, nel lato sinistro. 52 cavalli avrebbero dovuto stare nelle baracche invece dormivano oltre 209 persone! I bambini rimanevano soli assieme una donna che se ne occupava circondati dai disegni realizzati dagli adulti per allietare quei lunghi giorni senza sole e quelle lunghe notti su letti di cemento o legno senza sogni. Gli uomini che cercavano fra le donne, in lontananza, un viso familiare, la propria madre, moglie, figlia, sorella, le donne che cercavano il proprio padre, marito, figlio, fratello e resistevano semplicemente per ricordarsi di essere persone e non bestie come erano trattati. Chi si faceva forza o chi si abbandonava, chi si ripeteva la Divina Commedia (come Primo Levi) per ricordarsi di avere dignità e ragione o chi si lasciava trasportare dall'istinto. Così tante persone che non ci si rende conto di quante sono state dai numeri stampati sui libri ma dai ricordi che hanno lasciato, dei loro resti, dei loro vestiti. Ad Auschwitz 1, infatti, sono state allestite delle teche contenenti i beni dei deportati contenuti, allora, nella baracca Canada (il nome rimandava alla ricchezza come lo era, appunto, quel Paese). Questo secondo campo differisce da Birkenau per le strutture ma non diverse le sofferenze; è più piccolo (sono circa 12 ettari) e precedentemente era stato una caserma infatti lo si può notare dagli edifici a due o tre piani di muratura nei quali dormivano i deportati. Ora all'interno ci sono delle mostre dei beni ritrovati, camere intere che raccolgono occhiali, valigie con le firme dei proprietari, scarpe, abiti, creme, spazzole e persino capelli ancora pettinati o intrecciati con i nastri. Centinaia, migliaia, ogni oggetto rappresenta una persona viva o morta che è stata lì dentro e a me sembrava che per ogni di quegli oggetti si materializzasse chi la possedeva, ed erano così tante. C'erano anche fotografie: ragazzi e ragazze che sorridevano, famiglie in posa e ritratti delle persone care. Persone normalissime che hanno vissuto, amato, gioito e pianto, che hanno avuto una loro storia, le proprie idee e memorie che ora sono svanite perché qualcuno aveva deciso che doveva essere così. Qualcuno di così marcio si è preso il diritto di decidere chi doveva vivere o morire di malattie o di fame, fuciliate o nelle camere a gas. Camere a gas che non avevano parvenze di una doccia piuttosto di un magazzino, un parallelepipedo di cemento dove quando si entra non si riesce a respirare, non c'è luce se non dalle lampade o da quella filtrata dai fori di uscita nei quali veniva inserito il gas Zyklon B, sassolini grigio-verde dalla parvenza innocua che venivano fatte riscaldare per trasformarle in sassolini mortali. Un corridoio dalle pareti grigie che raccoglieva centinaia di persone ammassate addosso l'un l'altra, che a malapena riuscivano a dilatare i polmoni. Non sembra però una doccia, come viene spesso raccontato, i soffioni ci sono ma si scorgono a malapena e sono ossidati e l'atrio con il pavimento di legno marcio incute timore. Si comincia a tremare solo stando dinnanzi l'entrata, anche l'odore dell'aria è diversa, pesante e acida come lo è il cielo, smorto e incolore. Incolore è anche la stanza dei forni crematori, dall'altra parte, nel quale si trovano tre forni crematori piccoli e poco profondi e arrugginiti, il muro sovrastante è ancora nero per il fumo. È in questi luoghi che ci si rende conto della violenza e la pericolosità dell'indifferenza, di ciò che comporta il non sapere e il non denunciare, il silenzio e il cinismo. Questi viaggi sono organizzati non solo per conoscenza di nuovi fatti storici o per comprendere il dolore dei deportati ma per capire il dovere di non stare in silenzio di fronte alle violenze, di non sottostare a regimi oppressivi credendo a ogni cosa che viene detta, senza criticare e indagare. I sopravvissuti ci hanno passato il testimone, ci hanno dato la responsabilità di portare avanti e rendere eterni quei ricordi, quelle storie, non solo per noi ma per un futuro il migliore possibile. Un futuro in cui non deve succedere MAI PIÙ! Viviana Rizzo @ilbiancodellefarfalle https://www.bombagiu.it/il-viaggio-della-memoria-testimoniare-cio-che-e-stato/
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tmnotizie · 4 years
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di Tonino Armata, presidente onorario associazione Città dei Bambini
Egregio direttore,
il 9 maggio è stata la festa dell’Europa. E attraverso la quale si celebra la pace e l’unità in Europa. La data è l’anniversario della storica dichiarazione di Schuman. In occasione di un discorso a Parigi, nel 1950, l’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman ha esposto la sua idea di una nuova forma di cooperazione politica per l’Europa, la quale, avrebbe reso impensabile una guerra tra le nazioni europee.
La sua ambizione era creare un’istituzione europea che avrebbe messo in comune e gestito la produzione del carbone e dell’acciaio. Un trattato che dava vita ad una simile istituzione è stato firmato appena un anno dopo. La proposta di Schuman è considerata l’atto di nascita dell’Unione europea.
Detto ciò, invito le ragazze e i ragazzi ad unirsi per salvare la nostra Europa. Un sambenedettese innescato racconta con grande pathos lo sgretolarsi di un sogno bellissimo, quello di un Continente solidale: i populisti sono in agguato per sfruttare le paure da virus mentre tutti gli Stati danno il peggio. Ci restano solo i giovanissimi
Sono salito sulla terrazza del mio palazzo e da qui ho straordinarie visioni. In un solo colpo d’occhio I monti sibillini, il mare verde/blu dell’Adriatico, il Centro Europa, le Terre del tramonto portatrici dei venti atlantici, la Cortina di ferro, il fronte della Grande guerra, l’inizio dell’Eurasia sul ciglione carsico. In questi giorni, con la Danza della Morte in Europa, questa percezione “a grandangolo” si è fatta ancora più nitida. Specialmente quando il vento soffia forte. Come stanotte.
Una nottataccia quasi insonne. Ma era da giorni che avevo la sensazione di essere ininterrottamente sveglio. Scrivevo anche di notte, anche in sogno. Ma stanotte in particolare ho sentito tutta la mia Europa col fiato sospeso, dai villaggi irlandesi battuti dall’Atlantico alle isole estreme delle Cicladi, dalle valli più segrete dei Carpazi al lento fluire della Neva a Pietroburgo. Milioni di persone vegliavano, incerte sul loro futuro.
Sì, stanotte il sismografo ballava più del solito. Sentiva arrivare un’onda d’urto enorme, qualcosa che andava oltre Covid, i bollettini della Protezione civile e la paura animale di restare senza cibo o ammalarsi. Era l’Europa che si sgretolava, a velocità impressionante, come la torre di Babele. I ricchi del Nord che abbandonavano al loro destino il Sud, tagliavano fuori il Mediterraneo.
La filiera alimentare che si interrompeva. Cina, America e Russia che si fregavano le mani per il dissolversi del più grande mercato del mondo. Il trionfo del Grande Fratello sulla solidarietà. Vedevo masse ondeggiare, prive di punti di riferimento, in balia di fake news propalate da tv a caccia di audience, e pronte ad affidarsi a uomini della provvidenza o al dominio di remote intelligenze artificiali.
Vedevo Paesi interi distrutti moralmente ed eticamente, resi afoni dalla dittatura del consumo. La fine di un magnifico sogno, di un’alleanza che aveva tentato di costruire la convivenza sulle regole e la democrazia, non sulla potenza prevaricatrice.
Mi ero illuso che i fascisti fossero spariti. In fondo Covid aveva sbugiardato le loro frontiere, come le aveva ignorate il recente sterminio dei boschi alpini causa tornado. Dimostrava che i migranti non erano solo gli altri e che l’impoverimento ci trasformava tutti in potenziali migranti. La porta che noi sbattevamo in faccia ad altri ora era sbattuta in faccia a noi.
Anche gli amiconi di Salvini ce la sbattevano: anche Orbán che, da bravo ex comunista, si era già rimesso nelle mani del Cremlino. Perché la conseguenza del sovranismo è esattamente il suo contrario, la perdita della sovranità. Con l’Italia ridotta a un Paese dell’America latina col suo Pinochet di turno, o, nel migliore dei casi, a un parco dei divertimenti per turisti cinesi. La Jugoslavia insegna, con le visite guidate alle macerie di un mondo che fu. Tutto smentiva i sovranisti e io mi illudevo che fossero rimasti ammutoliti nelle loro tane.
La loro sembrava una sconfitta totale. Invece no. Essi tacevano e tacciono semplicemente perché aspettano il momento. Si preparano senza fretta, come gli avvoltoi attorno a una pecora morente. Aspettano, perché in queste ore siamo proprio noi, uomini ancora liberi, a fare il lavoro per loro, a spianargli non una strada, ma un’autostrada per il potere. Noi europei, gli stessi che fino a ieri erano educatamente seduti in un emiciclo a Strasburgo.
Abbiamo alzato muri e reticolati e, dopo aver distrutto l’educazione civica e il senso dello Stato, abbiamo instaurato quasi ovunque stati di polizia, senza che si fosse levata quasi nessuna voce di dissenso. Abbiamo lasciato fare Orbán, e ora costui, ottenuti i pieni poteri, ha inoculato il virus dell’assolutismo nel cuore di un corpo democratico. Ma il bello deve ancora arrivare, quando “loro” usciranno dalle catacombe.
Non è più tempo di lambiccarsi con le percentuali di Pil. Abbiamo il dovere del pessimismo, di ipotizzare il peggiore degli scenari per preparare meglio le difese. Perché siamo già alla conta dei morti. Sarà questa conta a determinare la spaccatura o meno dell’edificio comune. I ricchi del Nord scenderanno a più miti consigli solo se avranno una percentuale di morti simile a quella del Sud.
Se così non sarà, essi, da bravi protestanti, vi leggeranno la controprova divina della loro efficienza di formiche e della sconsideratezza delle cicale mediterranee, da punire come imprevidenti scialacquatrici. Ed è tristissimo dover tifare per il virus, sperare che la pandemia punisca l’arroganza di Johnson o l’avarizia di Bundesbank, per impedire che questo secondo scenario diventi realtà. Ed è ancora più triste ammettere che l’esistenza dell’Unione dipenderà, nei prossimi dieci giorni (tanti il Nord ne ha dati al Sud per «darsi una regolata»), più dai morti e che dai vivi. Uno scenario da film horror.
Vorrei urlare queste cose nelle strade vuote con un megafono, per mettere paura a chi sta barricato in casa, dire che stiamo per finire come Pinocchio nella pancia della balena, che senza Europa e senza un comune piano Marshall siamo fregati, tutti, anche il Nord che si troverà senza il mercato del Sud. È ora di fare rete sul serio invece di chattare, per generare un effetto a catena.
Questa inerzia imbambolata fa spavento e se continua di questo passo non c’è futuro se non la guerra, e quella economica non è meno atroce di quella guerreggiata. Bisogna dirlo, così come lo dicono gli ultimi sopravvissuti della Shoah e della Resistenza, o come avrebbe fatto l’immensa Ágnes Heller se non fossa morta da poco, ebrea ungherese sopravvissuta a tre dittature e spina nel fianco dell’assolutismo magiaro. Certo, posso urlare perché sono vecchio, ed essendo vecchio non ho paura di niente.
È uno dei lussi dell’età ora definita “a rischio”. Ma mi ripugna lo sfogo fine a se stesso. Non mi importa niente dire, come in Jurassic Park, alla comparsa del Tirannosauro, «quanto mi secca avere sempre ragione». Quelli della mia generazione possono al massimo suggerire le parole, la memoria, la rabbia, la visione. Ma il resto è giusto che lo facciano i giovani, che il megafono passi a loro.
Quelli della mia età non possono farlo, perché sono quelli che hanno castrato il loro futuro, tenendoli al guinzaglio del consumismo e contrabbandando la precarietà con la parola “flessibilità”. Da che pulpito, potrebbero dire persino i miei figli. E allora perché non andiamo a stanarli questi ragazzi che grazie a Dio il virus sembra risparmiare, e che hanno riempito piazze intere contro il ritorno delle nazioni? Non possono essersi dissolti con la loro magnifica energia! Loro, gli europei che hanno seguito Greta, i giovani delle Sardine e gli Indignados, le opposizioni in Polonia, Ungheria, Gran Bretagna.
Non mi riconosco più in nessuno di questi funesti stati nazione che riemergono. Non nella Germania che dimentica di essere uscita dalle macerie grazie all’azzeramento del debito e all’aiuto di manodopera europea. Non nella Francia che ci ha snobbati fino a ieri. Non nella Spagna che ha ballato fino all’ultimo sul Titanic che affondava. Non nell’Inghilterra, in mano a una classe dirigente di dementi spocchiosi. Non nella Polonia che porta i suoi vescovi a benedire le frontiere.
Ma non mi riconosco nemmeno in questa mia Italia che oggi deve ricorrere a “eroi” fino a ieri vilipesi (medici, maestri, pubblici ufficiali) dopo aver spolpato un patrimonio nazionale per ingrassare dei ladri. Un’Italia che nell’emergenza costruisce più velocemente di chiunque reparti di terapia intensiva dopo averli smantellati fino a ieri, come dice l’epicentro stesso del disastro, la Lombardia.
Non credo a nessuna delle nazioni. Ma agli europei sì. Ai giovani europei, che saranno le prime vittime del crollo e che proprio per questo devono fare massa critica per rafforzare l’Europa subito, smantellando l’economia del saccheggio, partendo da un manifesto in tutte le lingue capace di dare una sberla ai nostri palazzi ridotti al sonnambulismo. Ragazzi, dovete uscire dal silenzio, muovervi per evitare la disgregazione, il si-salvi-chi-può, e che i ricchi diventino ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri.
Non voglio che diventiate, se vi va bene, lustrascarpe di oligarchi in crociera di lusso. Sta a voi evitare l’imbarbarimento, lo scontro sociale, il saccheggio dei negozi, l’assalto alla diligenza e di conseguenza la dittatura, come nel Togo o nella Sierra Leone.
E io rifiuto che quelli della mia età si ritrovino a piangere sulla vostra generazione, quando non abbiamo ancora smesso di piangere su quella del passato. Quella degli uomini e donne che hanno fatto l’Europa e che ora la peste si porta via senza nemmeno il conforto della famiglia.
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pangeanews · 6 years
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“La lingua brilla tra la gola e il mondo come un sismografo che conosca il giorno in cui gli angeli perderanno le ali”: il feuilleton tra gli estremi di Veronica Tomassini e Davide Brullo
Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera; qui la risposta di Nathan. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. Le prime puntate del carteggio le leggete: qui, qui, qui, qui.
*
Sebastopoli, 27 marzo 1950
Lei muove le mani come se stesse cogliendo dei fiori, appena sorti, nell’incavo dell’aria. Non ha parole e gesticola come se le dita fossero un vocabolario – afferro il braccio – è marcata – le nove stelle del Cigno sul polso sinistro – gliele ho incise con un ago vent’anni fa, forse – ma lei, è certo, ora mi afferra ed è un buco in fronte tutta la sua vita, vissuta per mettere massi intorno all’assenza. Ora Dina ha una figlia, una bellezza vigile ma esausta, il marito è il proprietario di una cartiera, tra le più grandi di Sebastopoli. Le ho scritto per vent’anni, con la costanza di chi sa quando è il momento di cogliere – prima di raggiungerti, Vera, devo sanare tutti i miei legami, reciderli fino a far scolare l’anima, azzurra, dal midollo, e berla come se fossi un dio che sa liquidare i ricordi e rendere olimpico il bisogno. “Non si può essere indulgenti, ma indurre una più proficua cattività”, le ho scritto, nell’ultima lettera, un mese fa. Lei mi ha risposto, implorandomi di prenderla e di predarla fino a quando si è sposata, otto anni fa. Da allora, ogni anno, mi invia, a Praga, un foglio di carta con le istruzioni per costruire un airone, un’aquila, un falco. Non parla. Come se con le mie lettere avessi esaurito le sue parole, come se fossi un cannibale di vocaboli. Ha paura di mostrarmi la figlia, e a me sembra che ogni città abbia una propria natura, occhi propri, un proprio odore e un proprio corpo di bestia e di Sebastopoli, ovunque, sento il nitrito.
Amori presunti, setacciati dal caso, scritti su una fibbia che qualcuno, un attimo dopo, levigherà fino a confondere le lettere, con un panno di ferro. So cosa vuole Dina e la prendo – l’isteria di un pettegolezzo da spartire con la vedova arricchita della casa di fronte – arroccarsi al corpo, ancora. Sul tavolo della cucina, dopo, l’ho inginocchiata, le ho chiesto la lingua, l’ho segnata con un coltello – la lingua brilla tra la gola e il mondo come un sismografo che conosca il giorno in cui gli angeli perderanno le ali. Dina ride, ora, come se la malia del corpo, bevuto per frammenti, l’abbia fatta tornare ragazza, ingioiellata di sangue. La sua risata è una grandine, e lei ora mi rivuole, ignara che sulle tende le ore sembrano ragni e che le voci, a grappoli, sulla via centrale, segnalano che il mondo non scompare mentre facciamo l’amore, che il mondo concima la sua granitica ostilità.
La tua gioia nel subire gli oltraggi, convertendoli in una richiesta di nozze, è affascinante, Vera. Ricorda che la compassione è un’ambasciata di ambiguità. Scrivi da sconsiderata, da sconnessa, per te l’amore è una punizione da espiare – per me è adorazione. Arriverò davanti a te, dopo molte, centellinate vite, per il puro gusto di guardarti – e tu ti distruggerai, cambierai i volti, ti sfracellerai con le pietre il naso, le labbra, il mento, pur di capire quale icona potrà farmi scattare, saprà indurmi a toccarti. Aspettami con un panno sul viso – come le spose, come i cadaveri.
Di sera
La virile ottusità di Sebastopoli non le impedisce di avere una biblioteca degna – la pioggia sega la statura della sera come ghepardi d’argento – Dina mi segue ovunque, con accanita fedeltà – vedi cos’è l’amore?, basta una parola, sfasare una promessa, un’ora scarsa, per inquinare un ventennio, per annegare nel buio di una vita immaginata. Vogliamo il labirinto e il mostro, questa è la verità – e a quel mostro diamo nome Dio, gli siamo dediti, sperando che l’indifferenza sia sangue, che l’assenza, assennata, sia forza. Ho scoperto una lettera di Aleksandr Puskin: il grande poeta scrive a una ignota Marija Z., nel 1825, le racconta che “secondo una leggenda armena la costellazione della Lucertola inizierà a mordere Pegaso, poi Cassiopea e Andromeda, e il cosmo precipiterà per un bisticcio, morirà per un solletico…”. In un passo successivo Puskin è in estro seduttivo, “solo ciò che è incorporeo uccide davvero: una reticenza, un ritardo, l’idea che rabbia e invidia abbiano una identità da condannare, che il rifiuto riesca a sradicare alberi e palazzi”. Posseggo la carta stellare consultata da Puskin – era quella del padre della moglie, Natal’ja Gončarova, dipinta a San Pietroburgo, con descrizioni in francese, nel 1787: questa lettera mi consentirà di vendere a miglior prezzo la carta, di scrivere qualche articolo su una rivista moscovita, magari di ottenere l’approvazione di Anna Achmatova. La pioggia continua a sbilanciare la visione delle cose, i passanti sono maciullati e ricomposti lì per lì con una colla inefficace – per questo, forse, non mi sei stata mai così vicina come ora.
Ancora
Vuoi sapere di tuo padre. L’ho visto a Sebastopoli. Abita non lontano dalla casa di Dina. Fermo. Rincuorato. Ha una donna. La tragedia ha il compito di decuplicare la forza della vita. C’è chi indovina la dottrina dei morti e chi pensa che si possa incontrare la stessa persona, a distanza di vent’anni, senza che affiori il giudizio, con una pericolante purezza. “O fai fare alla vita o gli metti la museruola”, l’ho sentito dire, spavaldo e sconvolto come lo sono i sopravvissuti – ti dirò.
Dare poca importanza alla cronologia ti farà invecchiare prima – ma mi sembra che tu viva come una morta, con clessidre nella laringe. Il sofferente non vuole una cura e, credimi, ho amato con una dedizione tale da costringere alla fuga. Ci si dedica a una persona finché le è insopportabile la vertigine, la virtù della trasfigurazione – il dono non è dare un nome, ma farne abominio, lasciarsi baciare.
Di fronte all’albergo in cui dormo c’è un piccolo lago – il cavallo era a terra, con le pupille divaricate come l’Odissea – alcuni corvi sono scesi a frantumarlo – la pancia si muoveva ancora, potevo immaginare il cuore, maestoso, a forma di cattedrale, te lo avrei regalato – ma i corvi non hanno concetti e con la perizia dell’esegeta hanno iniziato a scarnificare il corpo del cavallo. Il sauro si è mosso a scatti, per poco, come se fosse una balena, inopportuna, sulla spiaggia, mentre i corvi salivano e scendevano sul suo corpo generoso, come creature nate dalla carità. Un rospo è entrato nella bocca del cavallo, e ho pensato, per un attimo, che potesse uscirne edotto nell’arte della metamorfosi. Ho disposto una trama di tigri di vetro sulla scrivania. Ne sacrificherò qualcuna, per te – forse quella che mi ha regalato un maestro del vetro in Marocco. Non ti ho detto che ho imposto a Dina il pasto delle mie lettere. Prima ha preteso la carica della carne – come se ciò potesse retrodatare il tempo al primo bagliore verbale di un dio – poi ha mangiato le lettere, sminuzzate, con refoli di latte, per insaporirle. “Diventerò come te, sarò te, sarò te”, diceva, imbizzarrita, felice.
Nathan
*In copertina: Elliott Erwitt, “The engagement party of Grace Kelly and Prince Rainer of Monaco at the Waldorf-Astoria Hotel”, New York, 1956; © Elliott Erwitt; Magnum Photos
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jxnhmxrphy · 6 years
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puntate
 2x01 ━ nel campo degli ex-100, John entra nella navicella dove vi è Raven, ferita dallo stesso. Lui cerca di aiutarla, dicendole che lo fa perché non vuole morire da solo. I due si confidano e Murphy dice la verità sulla sua storia: il padre è stato lanciato nello spazio per aver rubato delle medicine per il figlio malato, e più tardi la madre è morta alcolizzata ━ dicendo al piccolo John che è stato lui ad uccidere suo padre. Più tardi, Kane, Abby e gli altri raggiungono il campo e li salvano: Raven non dice loro che è stato Murphy a spararla. Bellamy invece cerca di arrivare alle mani con lui. Kane arresta i due giovani e riaccompagna tutti al nuovo campo, soprannominato "Campo Jaha". Murphy passa prima un po' di tempo in infermeria.  2x02 ━ Imprigionati, Bellamy e Murphy hanno un confronto e Murphy dice che ha rivelato informazioni ai terrestri dopo ben tre giorni di torture, nonostante i 100 l'abbiano picchiato e impiccato. All'improvviso vengono liberati per andare a cercare Clarke ed il resto dei ragazzi, e Murphy viene portato a stento con loro perché conosce l'accampamento dei terrestri dove è stato. Finn è contrario. Abby libera Bellamy e Murphy e li arma ( non Murphy ), per farli partire con Finn, Sterling e Monroe per cercare i sopravvissuti dei 100, contro il volere di Kane, che preferiva attendere.  2x03 ━ I ragazzi trovano un gruppo di terrestri che raccoglie le cose dei 100. Scoprono che uno di loro ha l'orologio del padre di Clarke, ed indagano catturandolo. Dopo la cattura e le minacce di Finn, non concludono niente. Discutono sull'ucciderlo o meno: è Murphy a proporlo, in quanto se il terrestre parlasse, loro potrebbero essere in pericolo più avanti. Il discorso diviene inutile perché Finn gli spara.  2x04 ━ Bellamy, Murphy ( è ferito ad una gamba e chiede di non correre ), Finn, Sterling e Monroe si imbattono in una stazione dell'arca schiantata, dove trovano una superstite amica di Sterling. Sterling non ci pensa due volte e cerca di salvarla, perdendo la vita. Tutti gli altri, incluso Murphy, si danno poi da fare per salvare la ragazza, pure sotto attacco dei terrestri ( frecce ) riuscendo nell'intento. Più tardi spunta Octavia, che li salva. Finn vuole andare a cercare Clarke nonostante i feriti, così parte: Bellamy, avendo ri-acquisito la fiducia in Murphy, lo manda con Finn munendolo di un fucile.  2x05 ━ Murphy e Finn sono ad un villaggio di terrestri. Finn è ostinato e crede che alcuni dei 100 siano in quel villaggio e vuole uccidere gli abitanti. Murphy si mostra apertamente contrario, ma lo segue. Di notte creano un diversivo ed incendiano le provviste del villaggio, per poi confrontare il capo: nessuno dei 100 si trova lì. La mattina dopo, Finn trova delle giacche appartenenti ai delinquenti ; Murphy continua a minacciare i terrestri, ma rimane contrario ad ucciderli. Parlano di Delano, il terrestre che avevano catturato giorni prima. Mentre Murphy lo incita ad andarsene, guarda Finn che assassina quelli che stanno cercando di fuggire. Poi Octavia, Bell e Clarke compaiono.  2x06 ━ Clarke e Finn parlano ad un tavolo, irrompe Murphy che annuncia loro che sono stati "graziati" dai loro crimini. Fa delle battute. Murphy non è graziato da Clarke ma non ne risente.  2x07 ━  2x08 ━ Murphy cerca di sollevare il morale di Finn, invano. Clarke incolpa Murphy per non aver fermato Finn dall'uccidere i 18 abitanti del villaggio. Murphy risponde che se proprio vuole incolpare qualcuno, quella è se stessa: Finn era alla ricerca di Clarke. Al vecchio accampamento dei 100, Raven e Bellamy escogitano un modo per salvare Finn: lei ha invitato Murphy, pensando che un fucile in più avrebbe fatto comodo. Lui la tranquillizza dicendo che Finn se la caverà. Più tardi arriva Clarke ferita e Murphy non esita ad aiutare Bellamy nel farla riprendere. Arrivano dei terrestri, Murphy propone di attaccarli subito, solo che viene ingannato: Raven lo ha invitato solo perché anche lui era al villaggio. Può consegnare lui con il nome di Finn, e lui le dice che è un’ “infame maledetta”. Raven dice che se vogliono un colpevole, consegneranno Murphy, gli punta il fucile e lui le si avvicina dicendo di andare al diavolo. Clarke lo difende dicendo che è uno di loro, e pure Finn. Murphy è ancora abbattuto, ma esegue gli ordini per difendere la navicella.  2x09 ━  2x10 ━ Murphy è mostrato durante la riunione fra skaikru e trikru, sta bevendo. Qualche attimo dopo, un guerriero lo minaccia facendogli notare che è stato a guardare quando il villaggio è stato massacrato. Murphy aggredisce il guerriero, ma vengono entrambi fermati da Markus, che gli intima di fermarsi; Murphy protesta perché non ha fatto niente, è stato solo provocato. Alla fine sembra lasciar perdere, ma il guerriero lo minaccia di nuovo, dicendo che brucerà. La sua rissa, ne scatena altre. John è stato punito e sta pulendo il pavimento, salvato da Jaha per non fare i lavori forzati. Dice apertamente che è contrario ai terrestri. Jaha rivela che l’ha salvato perché conosceva il figlio e vuole andare alla sua tomba ; Murphy inizialmente rifiuta, poi accetta perché può avere una pistola. Nel bosco, Jaha cerca di mostrarsi empatico verso John, ma lui gli fa notare che non è il figlio di nessuno proprio per colpa sua. In un altro momento, Murphy gli racconta quello che è successo a Wells, sempre per colpa del padre: aggiunge che niente di tutto ciò sarebbe successo se Jaha non li avesse mandati sulla Terra. “Camp “you” is that way” dice poi. “Nessuno da qualcosa aspettandosi di non avere nulla in cambio.” dice. Jaha gli dice che è cinico. Hanno una conversazione animata perché hanno idee diverse, e John dice che nonostante tutto viene ancora trattato come feccia. Jaha gli parla della città della luce, ma lui non gli crede. La mattina dopo, un gruppo di fedeli seguono Jaha: John è poco convinto all'inizio, ma poi si unisce a loro.  2x11 ━  2x12 ━  2x13 ━ Murphy si trova con jaha nella Dead Zone, ed al contrario di molti scettici lui decide di seguirlo. Incontrano Emori, che è a corto d'acqua ma può portarlo alla città della luce. Murphy bisticcia con uno che non vuole darle l'acqua. “Touch me again and i'll end you in a non criminal way” John le da l'acqua e sorride. Dopo, parlano durante la passeggiata e John le chiede come mai è lì. Lei gli rivela la mano deforme, e lui dice che è una cose piuttosto badass. Emori li tradisce, ma prima sussurra a John che la meta è a nord. John non ci pensa due volte e parte, dicendo che non si tratta di fede, ma che non ha ben altro da fare.  2x14 ━ Intanto, in mezzo al deserto, Jaha e i suoi proseguono la ricerca della Città della luce, seguendo un drone che li porta in riva ad un bacino d'acqua. John dice che Emori aveva ragione.  2x15 ━  2x16 ━ Jaha e i suoi sono sulla barca e vengono attaccati da un mostro quindi il comandante decide di sacrificare due uomini per salvarsi insieme a John e insieme raggiungono la terraferma. Continuando a seguire un drone, Jaha arriva in una casa dove incontra l'ologramma di una misteriosa donna, mentre John si rifugia in un faro con una dimora sotterranea disabitata.      3x01 ━ Nel frattempo, Murphy esce dal bunker in cui era rinchiuso e si reca nella villa in cui incontra Jaha e A.L.I.E. Murphy si rifiuta di prendere parte alla missione di Jaha, ma decide di lasciare l'isola insieme a lui quando scopre che Emori fa parte dell'equipaggio della nave.  3x02 ━ Frattanto, mentre Otan passeggia con Jaha, Emori e Murphy uccidono Gideon e rubano lo zaino di Jaha. Vengono tuttavia raggiunti da Jaha e Otan, che sembra aver subito un lavaggio del cervello, e decidono di fuggire in barca. Jaha e Otan recuperano lo zaino e si ritrovano nella Città della Luce, dove incontrano Gideon e A.L.I.E., che rivela loro che nessuno può morire nella Città della Luce.  3x03 ━  3x04 ━
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pangeanews · 6 years
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Voi occupatevi dei vivi, io mi curo dei morti: la Trenton abbandona 12 corpi in mare. L’indifferenza verso l’indifeso e il defunto è il segno che non siamo più umani
Se tutti si occupano dei vivi, io mi curo dei morti.
Di fronte al corpo di un morto mi assale una pietà vertiginosa. Anzi. Sbaglio. Il corpo del morto s’impone in me come una colpa, una dinamite di lame.
Chiunque, lo so, ne ha fatto esperienza. Il corpo addobbato con eleganza nella bara. Lo tocchi. Gelido. La pelle è quasi blu, nei giorni tra la morte e la tomba, come se nelle vene scorresse liquido angelico. Il paradosso della vita è che scopri di amare una creatura quando la vedi morta. La ami perché ti s’imprime come una colpa: quante cose non gli ho detto quante cose avrei dovuto fare quanto dolore avrei potuto alleviare. Di solito è ai morti che diciamo le cose indicibili – sappiamo che il morto sa sopportare tutto, ha una gola disumana. Può accudire la nostra insania. La nostra debolezza. Per i vivi, per i sopravvissuti, in fondo, finché c’è respiro, c’è gloria.
Nella laida vicenda dei migranti ostaggio della speranza e dell’insipienza, della fuga e del mare, del coraggio e della codardia di uomini che non sanno fare la storia ma ci riempiono la testa di storie, mi azzanna un evento laterale. La nave Trenton, della marina americana, “ha recuperato 40 persone in difficoltà”. Leggo – così evitiamo il tango delle fake news – il dispaccio divulgato dalla U.S. Naval Forces Europe-Africa. Anche nel dispaccio i cowboy fanno promozione, incredibile (“questo dimostra la capacità della marina statunitense in molteplici missioni, e la capacità di agire rapidamente per dare risposte”). Nella nota si fa riferimento a “12 corpi in acqua”, morti. Dopo aver dato soccorso ai vivi, la Trenton ha imbarcato i morti. Nonostante il dispaccio della U.S. Naval Forces ricordi che “se necessario, le navi della marina statunitense sono in grado di preservare i resti in depositi frigoriferi”, così non è stato. I 12 morti, infatti, sono stati restituiti al mare. Secondo la Repubblica “la Trenton della U.S. Navy… ha abbandonato i cadaveri alla deriva perché non ha celle frigorifere”. A proposito di fake: qui qualcuno mente. Ci sono o non ci sono le celle? La domanda sembra laterale – dobbiamo salvare i vivi, lasciamo i morti ai morti – ma a me non sembra.
L’essere umano è tale perché instaura un rapporto letale con la morte. L’uomo esiste quando capisce che muore – e decide di occuparsi dei morti. La letteratura mondiale nasce con un uomo, Gilgamesh, che si ribella alla certezza, biologica, della morte; intorno alla morte è sorta la civiltà, in forma di piramidi, di tumuli, di etruschi sorrisi, di libri dei morti e sulla morte. La religione nasce come risposta alla morte; gli sciamani percorrono gli altri mondi per consolare i morti; i cimiteri hanno uno splendore più clamoroso delle città. Sui sepolcri Ugo Foscolo ha scritto il suo poema fondamentale, d’altronde il Romanticismo inglese nasce grazie a un ispirato londinese, Thomas Gray, che nel 1750 scrive una elegia “in un cimitero di campagna”. Intorno alla morte e alla paura dei morti, la cultura tibetana ha partorito il Bardo Tödröl, il grande libro in cui si spiega come accompagnare il morto verso la beatitudine. Nella civiltà greca, trattare male i morti vuol dire evocare le Erinni, figlie della Notte, ispirate alla vendetta.
A volte mi scopro. Prego per i morti più che per i vivi. Pensatemi idiota. Con la morte non finisce, finalmente, tutto? I morti – lo diciamo come estrema difesa della ragione – non sono forse più felici dei vivi? Io indoro i morti nel pregare, li allineo nell’oro, dono loro parole, come un pasto. Forse è un modo per accudire i ricordi. Un modo per salvarmi – non sono giusto con i vivi, mi aggiusto con i morti e i moribondi. A volte penso che l’estremo sacrificio sia morire per i morti – ma rischio di essere un prestigiatore di astrazioni.
Questi 12 morti, ora, bendati dal mare, cibo per pesci – il Mediterraneo, con questa ziggurat di morti, ormai, è grasso, è spesso, come fosse olio, l’olio per i defunti – come farò a occuparmi di loro? Nessuno mi riferisce i loro nomi. Sono morti muti. Morti meno morti dei nostri morti censiti da epigrafi e da lapidi di marmo. Sono morti mai morti – la più tremenda delle condanne. Morti senza nome. Morti senza degna sepoltura. Come si ‘eliminano’ le formiche quando invadono casa, d’estate. Se non ci curiamo dei morti, con quale respiro sapremo salvare i vivi? Resterò io, oggi, allora, a piantonare i morti e ad arginare l’urlo delle Erinni, a pensare che le ossa possano disfarsi in atto di grazia e gli occhi esumare costellazioni. Chiediamo perdono ai morti. (d.b.)
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