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#Sebastiano Roson
personal-reporter · 1 year
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Custodi di arte e fede: Duomo di Modena
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Il Duomo di Modena è considerato uno dei più significativi esempi del Romanico europeo e fa parte del patrimonio dell’umanità Unesco. La sua storia cominciò quando il cantiere, affidato all’architetto Lanfranco, fu aperto nel 1099, per dare una nuova chiesa alla città ed una nuova sepoltura al patrono di Modena, San Geminiano. La proposta architettonica di Lanfranco era improntata alla campata di base quadrata, una delle strutture più significative dell’architettura romanica europea, infatti la pianta della chiesa è di tipo basilicale, a tre navate, senza transetto sporgente, mentre la facciata a salienti evidenzia i rapporti interni tra navata centrale e navate laterali, oltre a un motivo unificante per interno ed esterno, ovvero il triforio entro una grande arcata, donando eleganza all’insieme, dove la cripta in cui è deposto il sepolcro di Geminiano è sotterranea, mentre il presbiterio è sul modello di Cluny. Sulla struttura di Lanfranco si innestò, con straordinaria armonia, la scultura di Wiligelmo, che popola di motivi vegetali e di esseri fantastici i capitelli della loggia, le mensole dei sottostanti archetti e le lastre ornamentali, come nei Rilievi della Genesi e nei decori del Portale maggiore. Legati al cantiere del Duomo sono i maestri che decorarono la Porta dei Principi o del Battesimo e quella della Pescheria, a cui si unì il Maestro delle Metope e le opere da lui realizzate, unitamente ai reperti provenienti dalle chiese di Modena precedenti quella romanica,  sono custodite nel Museo del Duomo. Con gli anni Trenta del XII secolo si concluse la prima fase di costruzione e nel 1184 papa Lucio III consacra l’edificio. Dal 1190 subentrarono nei lavori i Maestri Campionesi che sopraelevarono l’area presbiteriale, aprirono il rosone in facciata e la Porta Regia, che è l’ingresso monumentale su Piazza Grande. L’impianto dell’edificio è suddiviso in tre navate con falsi matronei, dove pilastri cruciformi scandiscono le cinque campate della navata centrale alternati a colonne di marmo sormontate dai capitelli di Wiligelmo. Tra le varie opere custodite nella cattedrale ci sono il Presepio in terracotta opera del plasticatore modenese Antonio Begarelli (1527), l’affresco della cosiddetta Madonna delle Ortolane di un pittore locale (1345), l’Altare delle Statuine di Michele da Firenze (1440), la Cappella Bellincini di Cristoforo da Lendinara (1475), San Sebastiano fra i Santi Girolamo e Giovanni Battista, tavola di Dosso Dossi (1518-1522), il coro ligneo intarsiato (1465) e i quattro pannelli con gli Evangelisti (1477) di Cristoforo e Lorenzo Canozi da Lendinara, il Pulpito di Enrico da Campione (1322) oltre al Pontile con scene della Passione, opera dei Campionesi. Nel presbiterio si trova la cripta, a tre navate, sostenuta da colonnine con capitelli d’arte lombarda della fine dell’XI secolo, con il Sepolcro di San Geminiano e, nell’abside destra, il gruppo in terracotta policroma della Madonna della Pappa di Guido Mazzoni (1480-1485). Read the full article
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pietroalviti · 1 year
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Un rosone senza centro, in Piazza Municipio a Ceccano
Aveva la sua logica architettonica, poteva piacere o no, ma ora la striscia di asfalto stampato che ha interrotto il disegno geometrico di Piazza Municipio l’ha privato della sua ragione d’essere. Ci riferiamo al rosone che si trova sul sagrato della Chiesa cinquecentesca di S. Sebastiano: la striscia d’asfalto che unisce la via omonima con Piazza XXV Luglio, una curva scura in mezzo ai riquadri,…
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floweredalmond · 4 years
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La Chiesa Inferiore della Basilica di Assisi venne costruita a partire dal 1228, sotto Papa Gregorio IX. L‘inizio dei lavori per la Chiesa Superiore si avviò circa nel 1239. Le due chiese furono consacrate da Papa Innocenzo IV nel 1253. In quell‘anno non era stata ancora innalzata la piazza antistante la facciata: una scalinata rampante conduceva al portale gotico gemino, sovrastato da un grande rosone contornato dai simboli dei quattro Evangelisti, a sua volta chiuso da un timpano con oculo centrale. I torrioni circolari laterali servono come pilastri di sostegno, quelli vicino al coro fungono anche da scala. La loggia da benedizione sul lato sinistro della facciata, al di sopra del muro di sostegno rampante, fu aggiunta nel 1754, quando la chiesa fu elevata a rango di basilica. Nella Chiesa Inferiore si accede per primo ad un transetto creato in una seconda fase della costruzione (1280-1300), in seguito ampliato con cappelle sul lato opposto all‘ingresso. Da questo si diparte la navata unica, coperta con volte a crociera, che finisce in un‘abside semicircolare, preceduto da un transetto con volta a botte (nei bracci laterali). Tra il 1300 e il 1350 lungo tutta la navata ed ai lati del transetto furono aperte delle cappelle, rovinando i dipinti di Giotto, Cimabue, Simone Martini e Pietro Lorenzetti che già ricoprivano le pareti del transetto. A metà della navata, delle scale conducono alla cripta contenente il sarcofago del Santo, scoperto solamente nel 1818. La cripta fu realizzata nel 1822, ristrutturata poi negli anni 1925-32 in forme romaniche. Il ciclo pittorico della navata, in gran parte a tempera, eseguito intorno al 1260 da un ignoto autore, chiamato in seguito Maestro di S. Francesco, contrappone delle scene della vita di S. Francesco (sul lato sinistro) a scene correlate della vita di Cristo (lato destro). La successiva apertura delle cappelle laterali ha tagliato diverse scene a metà. L‘altare maggiore risale al 1230, il baldacchino invece al XIV secolo. Originariamente era contorniato da 12 colonne, in evidente analogia con il Sacro Sepolcro di Gerusalemme, eliminate nel 1870. Le vele della volta raffigurano Apoteosi di S. Francesco e Allegorie dell‘obbedienza, della povertà, e della castità ad opera del cosiddetto Maestro delle Vele. Il ciclo pittorico del braccio destro del transetto (Infanzia di Cristo, Miracoli postumi di S. Francesco) è meno unitario, riconducibile in parte a Giotto. Il braccio destro del transetto rappresenta il tema iconografico della Passione di Cristo . Dai due lati del coro, delle scale salgono al terrazzo prospiciente il chiostro grande retrostante a due ordini, costruito nel 1476; da qui si accede alla Chiesa Superiore Lo schema della pianta della Chiesa Superiore ricalca esattamente quello originario della chiesa inferiore sottostante. La navata unica termina con due bracci laterali e un‘abside, qui poligonale. Ma mentre la chiesa inferiore con le sue architetture massicce da l‘idea di una cripta, la chiesa superiore, slanciata e luminosa, si presenta in uno stile gotico, influenzato da quello francese, però con una sua spiccata originalità italiana. Il soffitto dell‘intera chiesa è coperto da volte a crociera e una galleria la percorre per tutto il perimetro sotto le finestre a metà altezza. Salendo per le scale dalla chiesa inferiore, si accede a quella superiore all‘altezza del transetto e del coro. Le pareti della navata sono caratterizzati da un ciclo sopra alla galleria di 34 riquadri del Vecchio e del Nuovo Testamento (rispettivamenta a destra e a sinistra). Nelle pareti sotto alla galleria, 28 riquadri narrano la vita di S. Francesco. Le finestre policrome furono i primi elementi decorativi eseguiti nella chiesa. Mancando all‘epoca in Italia l‘esperienza di tale produzione, per quelle più antiche (del coro) ci si rivolse a una bottega tedesca, in seguito (per il braccio sinistro della crociera) ad una francese; quelle del braccio destro e della navata vengono attribuiti invece alla bottega del Maestro di S. Francesco.
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/27/sopravvive-parte-degli-affreschi-s-maria-dellumilta-parabita/
Sopravvive parte degli affreschi di S. Maria dell’Umiltà in Parabita
  di Marcello Gaballo
Sempre il 28 dicembre prossimo (ore 19, presso il salone dell’ex Seminario, in piazza Pio XI, di fronte alla Cattedrale di Nardò), tra le opere “ritrovate”, dallo storico dell’arte Dott. Paolo Giuri saranno presentati al pubblico gli affreschi di gran pregio recuperati dalla Soprintendenza negli anni ’50 del secolo scorso e provenienti dalla chiesa domenicana del Rosario in Parabita, già esposti nella sede di rappresentanza della Regione Puglia nella Capitale.
Non sono note le vicende della predetta chiesa, annessa al convento di Santa Maria dell’Umiltà, che si ritiene fondato agli inizi del XV secolo, per poi essere soppresso con le leggi eversive agli inizi del XIX secolo, quando fu acquisito dal Comune, che poi lo destinò a sede dei Regi Carabinieri, del Giudicato e della Cancelleria Comunale[1].
Gli inevitabili rimaneggiamenti hanno snaturato il complesso, sino a cancellare l’originario impianto, che si sviluppava anche su un piano superiore, adibito a dormitorio della fraternità, con il coro “di notte”.
L’antica chiesa che ospitò gli affreschi fu invece ceduta negli anni 30 del Novecento alla parrocchia di San Giovanni Battista, che nel 1954 la riadattò parzialmente per attività ricreative, con danni irreparabili e distruzione dei diversi cicli di affreschi, di gran parte degli elementi architettonici, tra cui ben dieci altari, sedici cenotafi[2] ed un fonte battesimale lapideo, probabilmente realizzati verso la metà del ‘500, essendo barone e feudatario Pirro Granai Castriota[3].
La mancanza di adeguata descrizione dell’importante complesso in qualificate pubblicazioni e le scarse notizie documentarie finora reperite impediscono di cogliere le varie espressioni artistiche che erano senz’altro presenti nell’unico ambiente chiesastico, le cui vicende forse potrebbero essere chiarite da uno studio attento su quanto è sopravvissuto sino ai nostri giorni. Non resta traccia del suo soffitto ligneo a cassettoni, di cui si tramanda il solo ricordo, mentre avanzano la facciata con il caratteristico rosone e le sculture raffiguranti la Crocifissione e una Annunciazione.
Pur trattandosi di frammenti, tuttavia quelli che saranno ospitati nel museo sono ben identificabili in alcune delle figure rappresentate: la Madonna della Coltura, un S. Antonio abate e due santi vescovi, forse realizzati da differenti frescanti ed inseriti in più cicli di epoche diverse.
Di essi senz’altro merita maggiore attenzione quello della Vergine con il Figlio, se non altro per essere attualmente (e sin dal 1847) la Protettrice di Parabita (da compatrone che era insieme a San Sebastiano e San Giovanni Battista).
In attesa di conoscere le valutazioni del Dott. Giuri, non è peregrino ipotizzare per questa una datazione intorno alla metà del ‘400[4]. Di lì a poco, nel 1456, la nostra chiesa sembra costituisse una delle tappe da raggiungere prima di concludere il pellegrinaggio sino a Finibus Terrae disposto dal re di Napoli Alfonso d’Aragona, che “mandao certi penitentiali, vestiti di bianco per tutte le perdonancie fieni (fino) a Santa Maria de Leuche per applicare (sedare) l’ira di Dio”[5].
Il nostro affresco della Madonna della Coltura sembra esser la copia dell’omonima immagine del celebre monolito parabitano (oggi nel santuario), copia di quella Madonna del tipo dell’Eleousa rappresentata nella basilica orsiniana di S. Caterina in Galatina (1435-1445) e nella chiesa di Santo Stefano a Soleto[6].
[1] A. D’Antico (a cura di), Parabita. Memorie e sue antichità di Giuseppe Serino, Il Laboratorio, Alezio 1998, p. 33.
[2] O. Seclì, Parabita nel ‘700. Dinamiche storiche di un secolo, Il Laboratorio, Parabita 2002, p. 93.
[3] Cfr. O. Seclì, Note e documenti sul culto della Madonna della Cultura, Il Laboratorio, Parabita 1992, p. 4.
[4] O. Seclì, Note e documenti sul culto della Madonna della Cultura, cit., p. 19.
[5] A. De Bernart, Iconografia della Madonna della Cultura nella storia di Parabita, Galatina 1998, p.19.
[6] Idem, p.19; AA.VV., Il santuario della Coltura e l’Ordine dei Frati Predicatori, Bari 1982, p.125.
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joaquimblog · 8 years
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Fondazione Teatro La Fenice RICHARD WAGNER, TANNHÄUSERDirettore Omer Meir Wellber Regia Calixto BieitoPhoto ©Michele Crosera
Fondazione Teatro La Fenice RICHARD WAGNER, TANNHÄUSERDirettore Omer Meir Wellber Regia Calixto BieitoPhoto ©Michele Crosera
Fondazione Teatro La Fenice RICHARD WAGNER, TANNHÄUSER Direttore Omer Meir Wellber Regia Calixto Bieito Photo ©Michele Crosera
Alguna vegada Bieito m’ha exasperat perquè la radicalitat de la seves propostes ha aconseguit el que estic segur que ell pretenia, en altres ocasions senzillament no m’ha agradat i en altres m’ha convençut plenament, sense objeccions possibles, però sempre he reconegut que en tots els seus treballs per l’escena operística hi ha un treball teatral intens, tot s’explica i encara que en moltes ocasions topa amb els inevitables anacronismes que suposa afrontar la modernitat del missatge pretès amb un llibret que l’encotilla, però quasi sempre aconsegueix rompre aquesta barrera i enfortir l’essència que mai traeix, malgrat que els que no accepten que la creativitat artística alteri les acotacions del llibret original, no l’acceptaran mai. És un debat permanent que una vegada més ha sorgit arran de la nova producció del Tannhäuser estrenada a La Fenice de Venècia en coproducció amb la Vlaamse Opera d’Anvers , el Teatro Carlo Felice de Gènova i el Konzert Theater Berna.
El cast no és un gran què, no hi ha grans figures i alguns cantants són massa discrets per  a una òpera de vocalitats rotundes, però el conjunt funciona perquè precisament al darrera hi ha dues direccions que garanteixen la solidesa musical i la dramàtica.
Omer Meir Wellber, el director israelià que va passar fugaçment per Les Arts amb l’encàrrec impossible de succeir a una figura com Lorin Maezel, va ser l’encarregat de la direcció musical. La versió utilitzada va ser la de París (1861) en el primer acte i la de Dresden (1843) per els altres dos, i la veritat és que no sé si això és més trencador o provocador que el controvertida cunnilinció  que Venus obliga a fer a Tannhaüser i que tants comentaris, queixes i protestes ha provocat en la parròquia més ortodoxa.
La direcció és solida, molt teatral i dramàtica, obtenint de l’orquestra del teatre venecià una resposta esplèndida, amb sonoritats corpòries, càlides, sempre preservant l’equilibri i la tensió entre el lirisme intimista de les solituds del tercer acte o l’exaltació sensual de tota la llarga escena inicial al Venusberg. És una direcció més eficaç que genial, però que mai enterboleix la representació i sobretot afavoreix als cantants i jo diria que fins i tot els potencia, ja que sense ser grans i rellevants noms, enforteix el conjunt amb la força que sap extraure des del fossar.
El tenor irlandès Paul McNammara va substituir el dia del streaming a Stefan Vinke, que segons he llegit no va està gaire reeixit en les primeres representacions. No és una veu bellíssima, ni un cantant molt expressiu, però la veu és solida, els aguts són segurs i la línia és resistent, garantint la tranquil·litat en el extenuant tercer acte.
El baríton alemany Cristoph Pohl interpreta un Wolfram von Eschenbach esplèndid, per a mi és el millor de tota la companyia,  mentre que el baix ucraïnès Pavlo Balakin em va semblar massa jove per interpretar el Landgrave i sobretot massa impersonal.
La vessant femenina va estar ben servida per dues cantants bàltiques la intensa Venus de la soprano lituana Ausrine Stundyte, potser massa gèlida ui mancada de la deguda sensualitat i la letona Liene Kinča com a virginal i mística Elisabeth.
Magnífics els cantors Cameron Becker (Walther) i Paolo Antognetti (Heinrich)
Bieito, com no podem imaginar d’altra manera, escenifica el Tannhäuser en una contemporaneïtat poc definida, enmig d’un Venusberg sorprenentment situat en un obscur entorn natural amb els arbres de cap per avall i sense els excesos sexuals d’una bacanal inexistent, que hom podria imaginar del director burgalès, o un saló de Landgrave que més aviat sembla el vestíbul d’una estació de tren o aeroport que una “Dich teure halle”, tot plegat per moure els seus personatges molt ben definits i que construeixen unes situacions dramàtiques ben treballades i millor explicades que no traeixen la dualitat espiritual i sensual de l’original.
Els aspirants cantors són sectaris violents que sotmeten als seus membres (Tannhäuser no se’n lliura) a estranys rituals de sang, Elisabeth és un esser gèlid, un obscur objecte del desig de façana immaculada, mentre que Venus és la creu de la mateixa moneda, tota ella sensualitat. Òbviament no hi ha peregrins en escena i només en el final més obert possible, apareixen com ànimes poc definides a la recerca d’un encontre en la tercera fase. Impossible no reflexionar sobre el que Bieito ens posa sobre l’escenari. Potser la reflexió no ens agradarà, però el que estic segur és que quan la darrera nota s’hagi esvaït no tindrem la sensació d’haver assistit a un espectacle d’entreteniment, sortosament no.
Richard Wagner TANNHÄUSER
Hermann, landgrave de Turíngia, senyor del Wartburg: Pavlo Balakin Heinrich Tannhäuser, un minnesinger, poeta i cantor de l’amor: Paul McNamara Wolfram von Eschenbach, un minnesinger, company de Tannhäuser: Christoph Pohl Walther von der Wogelveide: Cameron Becker Biterolf: Alessio Cacciamani Heinrich der Schreiber: Paolo Antognetti Reinmar von Zweter: Mattia Denti Elisabeth, neboda del Landgrave: Liene Kinča Venus, deessa de l’amor: Ausrine Stundyte Un jove pastor: Chiara Cattelan Patges: Anastasia Bregantin, Laila D’Ascenzio, Emma Formenti, Veronica Mielli, Gianluca Nordio, Francesca Pelizzaro, Matilde Preguerra, Sebastiano Roson, Edoardo Trevisan
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice Director del cor: Claudio Marino Moretti Solistes del Kolbe Children’s Choir du Centre Culturel p.M.Kolbe de Mestre-Venezia Director musical: Omer Meir Wellber
Director d’escena: Calixto Bieito Disseny de vestuari: Ingo Krügler Disseny de llums: Michael Bauer Escenografia: Rebecca Ringst
Teatro La Fenice, Venècia 28 de gener de 2017
Mentre es pugui:
Possiblement el Tannhäuser signat per Bieito no esdevindrà icònic com altres produccions seves, però com tot el que ens proposa i moltes de les seves produccions ja han passat per aquí amb el seu corresponent apunt, motiven sempre reflexions a l’entorn de la proposta i això no ho poden dir totes les produccions, ni molt menys aquelles que es queden amb la literalitat del llibret.
LA FENICE 2016/17:TANNHÄUSER (McNamara,Pohl,Balakin,Kinča,Stundyte;Bieito,Meir Wellber) Alguna vegada Bieito m'ha exasperat perquè la radicalitat de la seves propostes ha aconseguit el que estic segur que ell pretenia, en altres ocasions senzillament no m'ha agradat i en altres m'ha convençut plenament, sense objeccions possibles, però sempre he reconegut que en tots els seus treballs per l'escena operística hi ha un treball teatral intens, tot s'explica i encara que en moltes ocasions topa amb els inevitables anacronismes que suposa afrontar la modernitat del missatge pretès amb un llibret que l'encotilla, però quasi sempre aconsegueix rompre aquesta barrera i enfortir l'essència que mai traeix, malgrat que els que no accepten que la creativitat artística alteri les acotacions del llibret original, no l'acceptaran mai.
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pietroalviti · 1 year
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Ceccano, il fantasma dei panettoni
C’è un fantasma in Piazza Municipio: per ora si diverte a spostare i dissuasori di parcheggio davanti alla chiesa di S. Sebastiano. Li chiamano panettoni ma pesano molto, ma molto di più del dolce meneghino. Eppure, chi arriva in Piazza, al mattino, spesso li trova spostati. Pare che il fantasma giochi una specie di domino con i riquadri e le losanghe del rosone, ma che sia un po’ arrabbiato…
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