Tumgik
#abbiate pietà e pazienza
omarfor-orchestra · 10 months
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Dici che gli altri hanno avuto problemi?
Raga per favore un pizzico di specificità in più con gli ask o non capisco a cosa state facendo riferimento posto più del normale lo so abbiate pietà e pazienza
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jordi-pilskog · 3 years
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Capitolo Due.
Eugene è un nome bellissimo, adatto a qualcuno dai tratti nobili. Basta dare un’occhiata all’etimologia su internet.
Ed il mio Eugene era bello, e buono.
“To calò o noùne òli.” si dice dalle mie parti, che vuol dire “Il bene lo conoscono tutti.”
E Eugene era tanto, tanto buono.
Non sto idealizzando la sua persona, lui davvero aveva un cuore grandissimo, pronto ad accogliere migliaia di persone problematiche nonostante lui stesso fosse sofferente. Ne usciva quasi sempre sanguinante, ed io e Riccardo cercavamo di esserci per curare le sue ferite.
Purtroppo però, per parlare di lui devo riaprire un capitolo della mia vita meglio lasciato chiuso, un ricordo orribile che ormai mi appartiene sempre meno. Abbiate pazienza.
In quel periodo mi chiamavo ancora Ilaria e piangevo abbastanza da potermi definire una persona triste di nuovo. La solitudine aveva preso piede nel mio territorio, dove le mie colpe erano nella mia stessa tristezza, nella mia insicurezza, nel mio non volermi bene, nello sbagliato che ho fatto e nel bello che ho bruciato di cui blateravano i miei famigliari. Capì quindi che il problema era ancora il mio corpo, io ero ancora io.
Avevo sofferto segretamente di anoressia tra i sedici e i diciotto anni, causa sconosciuta, sconfitta con successo, e ci stavo ricadendo a diciannove.
Avevo rinunciato alla vita.
Ogni tanto andavo in spiaggia con mia madre.
'Mi sta sul cazzo quella.'
'Chi?'
'La Santa Anoressica'
'Quella? Ma la conosci?'
'Veniva in palestra con me.'
'Perché anoressica?'
'Guardala.'
'Magari è così di costituzione, Ila... Non so, guarda, secondo me... Non è che tutte le persone più magre di te siano anoressiche... E anche se fosse dovresti compatirla.'
'Io non compatisco nessuno, per quel che mi riguarda, può anche morire. E poi, lasciatelo dire, 'ste stronzate sulla costituzione risparmiamele: nessuno ha la cassa toracica di fuori per costituzione.'
'Ma perché devi dire 'ste cose cattive... E se lasciavamo morire te?'
'Io non sarei mai morta!'
La Santa Anoressica la denominai così perché riusciva a farsi trattare come una povera martire. In palestra, alla domanda 'Come mai così magra?' rispondeva 'Costituzione. Cerco di farmi i muscoli infatti.'  Peccato però che poi gli attrezzi adatti allo scopo di metter massa non li toccava, e stava due ore buttata su cyclette e tapis roulant. Le frequentatrici più anziane della palestra quando la vedevano parlavano fra di loro del fatto che è evidentemente troppo magra, le chiedevano se mangiasse, se fosse vero che fosse effettivamente stata sempre così. L'istruttore ogni volta che la vedeva corrucciava le sopracciglia, ma non la cacciava, dopotutto pagava.
Un giorno la Santa Anoressica, dopo tre ore di palestra, camminava come se le sue gambe non fossero più sue, le ginocchia tremanti, si appoggiava ovunque. Ovviamente, attirò l'attenzione della gente e la sua amica le fece 'Hai mangiato oggi?'.
Questo è troppo, mi dissi io, e in palestra non ci tornai più.
Odiavo essere così. Odiavo fare pensieri inutili come Quando ero in quella condizione io, non mi era concesso andare in palestra. Non ci andavo a mare, stavo sempre nascosta come un verme. La Santa Anoressica aveva l'aria di una che credeva di essere completamente guarita solo perché si sforza di mangiare una fetta di pane in più. Andava in palestra con l'amica, andava a mare sculettando, ogni tanto si toccava le costole e le ossa del bacino come per controllare di non aver messo peso. Si vede che aveva deciso di essere una persona normale, ma non aveva accettato il fatto che avrebbe dovuto  metter peso. Si vede, che non era ancora stata messa alla prova. Ed era così serena, che mi faceva incazzare. Perché io ho dovetti rinunciare alla mia androginità e ho dovuto far finta e pretendere di piacermi in qualunque forma, il diritto di dire 'Questo non mi va, non lo mangio.' mi era stato tolto. Perché io in quel momento ero a dieta. E lei pure.. Lei salta le tappe e fa già le cose che farebbe una persona normale.
La invidiavo.
E odiavo me stesso. Era vero che ero cattivo, perché in quel momento, avrei goduto come un maiale se l’avessero internata davanti a me. Una in meno! avrei urlato di me. E non sarei stato più invidioso della sua vita facile.
L’anoressia è una brutta bestia.
Per tutta la vita, ho come avuto una coscienza frantumata, di cui molte parti rifiutavo e ignoravo. La mia parte maschile era spiccata dentro di me, e io la cacciavo via per la vergogna.
Volevo un corpo androgino, non femminile, e ogni giorno quando aprivo gli occhi e visualizzavo la mia realtà di giovane donna e come apparivo veramente, desideravo diventare insensibile. Insensibile agli sguardi altrui, alle critiche, ma soprattutto al fatto che tutti mi vedessero in maniera differente da come mi sentivo io. Volevo essere insensibile al mio riflesso nello specchio, ho odiato quello specchio e quel riflesso. La mia identità, sentivo, giaceva là dentro, nell’immagine titubante e dubbiosa di una ragazza bionda e allampanata mai soddisfatta di sé, e temevo di non potervi sfuggire mai nella mia vita.
Ero una persona debole, per me contavano tanto le parole altrui dette per definirmi con leggerezza, e continuavano a ronzarmi nella testa per giorni, a volte mesi. Mi spezzavo facilmente e mi sentivo inerme, e, pensavo, che il mio essere sempre fermo in un punto a rimuginare facesse sì che le persone riuscissero a tastare i miei punti deboli e a stuzzicarli per divertimento.
Lo sapevo che avrei dovuto muovermi. Volevo muovermi!
Ero così frantumato allora, però. Ma speravo che un giorno mi sarei riconciliato con me stesso e con il mondo.
Al ritorno dal mare mia madre guardava verso la mia figura con preoccupazione e così anche mio padre. Per loro ero solo una malata e volevo essere qualcosa di più, davvero, ma sentivo di essere stato così poco per una vita intera, una bambina da tenere sempre sotto controllo, per un motivo o per l'altro, ché non se la sa cavare sola.
‘Ecco qua, questa è la tua parte di pane, mangiala.’
Ecco... vedi mamma, piuttosto mi mangio le mani, che almeno contengono solo proteine. Però non le mangerei ora a cena, le proteine le mangio sempre a pranzo, ricordi? ‘Se una cosa mi va me la prendo sola grazie. Mangialo tu.’
Uno schiaffo doloroso.
‘Lasciatemi campare col mio fottuto piatto di spinaci fino al pranzo di domani!’
Non è che avessi una grande motivazione o che altro, per essere arrivato fin là. A pensarci bene, oggi ho realizzato che in realtà ero una persona parecchio frustrata, e se così non fosse non avrei scritto su un blog tutti i miei problemi in post giornalieri. Se avessi dovuto descrivere come mi sentivo, avrei detto che essere me era come essere in uno di quei spara-tutto americani, di quelli a quadri in cui sei armato di poche munizioni e sei senza compagni contro tutti, e quando muori scleri, 'che devi ricominciare daccapo. Mi sentivo un po' così nella mia lotta contro la bilancia.
Ero senza pietà, nei miei confronti, e non mento. Non compativo il mio povero corpo in amenorrea, che lottava per mantenersi in piedi, anzi lo martoriavo con sigarette, integratori alla senna, e giri in bici. Fingevo di non sentire le gambe intorpidite, lo stomaco gorgoglia, nessuna pietà. Era come cercare di sterminare gli zombie quando si è già stati morsi, con il virus che ti infetta sempre più. ‘Tic tac, tic tac, l'orologio scorre e il virus avanza, ma se ce la metto tutta non morirò, passerò anche questo quadro.’
Ero come del fottuto popcorn ipercalorico.
-Pop!-
Scoppiato. E non sei più nulla agli occhi degli altri, nulla, nulla se non quel numero... e quel mucchio d'ossa che ti piace tanto. Erano giorni che correvo e divoravo chilometri in bici e non sentivo neanche il minimo senso di fame. Perché tutto ciò che avevo ottenuto e costruito in quei giorni avrebbe potuto scomparire in una notte, chissà. Mi sentivo così inutile, che non ho trovato altro da fare. Ma ero anche incazzato, e mi sentivo qualcosa dentro che credo si avvicinasse abbastanza ad essere forte.
Avevo paura di dire a tutti cosa stavo vivendo. Di come non avessi più un'aspirazione o di come non vedessi un futuro per me stesso. Di quanto le parole offensive dei miei mi consumassero dentro, quanto odiassi me stesso per non avere il coraggio, e le capacità, di restare in piedi e lottare per me,me, di come non potessi più sentire una cazzo di emozione che non fosse frustrazione. Mi sentivo morto, intorpidito e amaro e vuoto dentro.
A volte mi sembrava che l'autolesionismo fosse l'unico modo con cui potessi affrontare la vita.
Quanto avrei voluto urlare contro i miei genitori, dirgli che era tutta colpa loro, se non reggevo il peso di niente, e io stesso ero un niente che contava calorie. Avrei detto una cosa così orribile se avessi saputo che avrebbe potuto scalfirli in qualche modo, ma non sarebbe stato così, vero?
Solo loro, conoscevano i tasti da premere per farmi rendere conto di quanto io sia negato quando si tratta del mio corpo. Mamma, papà, solo voi.
La rabbia saliva, e scesero le lacrime.
Mi portarono dallo psicologo.
Il fatto era semplicemente che le persone cercavano una persona che non c'era più.
Gliel'avrei spiegato volentieri, allo psicologo, ma avevo un nodo in gola. Dimenticai come si chiama e dubito fosse molto importante. Sulla scrivania aveva un pacco di Malboro Light, ma non ne ha fumate. Disse
'Parla, che non ti abbandoniamo'.
Ed io ho parlato.
Poi andò in vacanza e mi sentì abbandonato.
"Hai detto che accetti di uscire solo se i tui amici non hanno da fare."
No. Non io. Loro. Aspetto che loro si ricordino di me. "Detta così sembra che tu viva un pò al rimorchio degli altri." Fui diagnosticato con la distimia. Distimia... Suona un pò come distillato, o dislessico, che è?! E credo me l'avesse letto negli occhi, a fine seduta, che non avevo intenzione di collaborare. Persi altro peso dopo quella seduta. Perché tutto in questo mondo, tutto, sembrava essere lì con l'unico scopo di punirmi.
Quella notte, alle undici passate, ero sulla mia bicicletta nera, con settantaquattro chili alle spalle, i miei trentotto chili e uno zainetto contenente solo le mie Winston rosse, il cellulare dimenticato volutamente e una decina di altri chili da perdere, ero decisamente io anche se avevo perso la concezione di me.
Sapevo che i miei non mi avrebbero trovato, eppure pedalavo con forza. Il cibo non mi serviva.
Sentivo il bisogno di andare veloce, scappare, morire, tutto ma non quello. Ripensai all’incontro dallo psicologo, non ci voleva proprio. Volevo tornare a scuola bello e perfetto con i miei jeans taglia 36 e le mie magliette dei Sex Pistols e dei Ramones.
Lo psicologo che aveva riempito di questionari.
"...e non credevi che, così facendo... Non so, saresti potuta morire?"
Non so, francamente non me n'è mai fregato nulla.
"E di che cazzo ti nutri allora?"
Povera mamma.
Aumento di velocità, ero quasi arrivato. La casetta sul lago, che in teoria era chiuso, in pratica me ne sbattevo, mollai tutto a terra e scavalcai il cancello. Neanche un minuto ed ero già già entrato, nel buio pesto, perché manca la luce, ma riuscì non so come a trovare le scale e arrivai sul tetto. Quante sigarette di rimanevano? Dieci al massimo. Me ne accesi una lottando contro il vento.
Dopo, sulla bici, pedalando con tutta la forza che avevo nelle gambe, immaginai il grasso, la pelle, il mio corpo che si separava da me. Acquistavo velocità, diventai uno scheletro leggero come una piuma, e la mia carcassa giaceva abbandonata dietro di me.
Al mio ritorno fui sgridato aspramente e riempito di domande.
Tutte quelle domande evasive sui miei sentimenti, sulle mie intenzioni a notte fonda, non le reggevo. Se avessi potuto mostrare un cartello con su scritto “Non ho intenzione di fare un cazzo, perché più mi mobilito per una cosa, più mi va male”, o meglio ancora un bel coltellazzo da piantarmi nello stomaco, gesto con cui spiegare, una volta per tutte e con un bell’effetto splatter, come stavano le cose, per me. Che non c’era pericolo, perché ero come ibernato in una lastra di ghiaccio e neanche le migliori intenzioni, i migliori cori di sostenimento, neanche tutta la mia rabbia era capace di scogliere quella prigione.
Mi sentivo come una tovaglia piegata male. Quando si finisce di mangiare, mia madre mi diceva di piegare la tovaglia, e sbagliavo sempre qualcosa, come prenderla dall’angolo sbagliato e il risultato risultava un obbobrio. Prendevo comunque la tovaglia così come era e la mettevo in un cassetto nonostante le lamentele di mamma. In quella tovaglia piegata male, sentivo come fosse racchiusa tutta la mia fallacità.
La mia vita era costellata di fallimenti, a partire dalla bocciatura a scuola a causa di questa mia malattia. Sotto sotto, però, ancora non mi arrendevo, e in quei giorni avevo sparso le basi qua e là, le sparsi come i tozzi di pane della fiaba di Hansel e Gretel, ma ero convinto che nessuno avrebbe mangiato i miei, neanche gli uccellini più voraci. Ero in attesa.
Speravo tutte le notti.
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falcemartello · 5 years
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...
Mando quello che ha scritto il chirurgo Daniele Macchini che lavora in Humanitas Gavazzeni a Bergamo e descrive benissimo la situazione.
In una delle costanti mail che ricevo dalla mia direzione sanitaria a cadenza più che quotidiana ormai in questi giorni, c’era anche un paragrafo intitolato “fare social responsabilmente”, con alcune raccomandazioni che possono solo essere sostenute.
Dopo aver pensato a lungo se e cosa scrivere di ciò che ci sta accadendo, ho ritenuto che il silenzio non fosse affatto da responsabili. Cercherò quindi di trasmettere alle persone “non addette ai lavori” e più lontane alla nostra realtà, cosa stiamo vivendo a Bergamo in questi giorni di pandemia da Covid-19.
Capisco la necessità di non creare panico, ma quando il messaggio della pericolosità di ciò che sta accadendo non arriva alle persone e sento ancora chi se ne frega delle raccomandazioni e gente che si raggruppa lamentandosi di non poter andare in palestra o poter fare tornei di calcetto rabbrividisco.
Capisco anche il danno economico e sono anch’io preoccupato di quello. Dopo l’epidemia il dramma sarà ripartire. Però, a parte il fatto che stiamo letteralmente devastando anche dal punto di vista economico il nostro SSN, mi permetto di mettere più in alto l’importanza del danno sanitario che si rischia in tutto il paese e trovo a dir poco “agghiacciante” ad esempio che non si sia ancora istituita una zona rossa già richiesta dalla regione, per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro (tengo a precisare che trattasi di pura opinione personale).
Io stesso guardavo con un po’ di stupore le riorganizzazioni dell’intero ospedale nella settimana precedente, quando il nostro nemico attuale era ancora nell’ombra: i reparti piano piano letteralmente “svuotati”, le attività elettive interrotte, le terapie intensive liberate per creare quanti più posti letto possibili. I container in arrivo davanti al pronto soccorso per creare percorsi diversificati ed evitare eventuali contagi. Tutta questa rapida trasformazione portava nei corridoi dell’ospedale un’atmosfera di silenzio e vuoto surreale che ancora non comprendevamo, in attesa di una guerra che doveva ancora iniziare e che molti (tra cui me) non erano così certi sarebbe mai arrivata con tale ferocia.
(apro una parentesi: tutto ciò in silenzio e senza pubblicizzazioni, mentre diverse testate giornalistiche avevano il coraggio di dire che la sanità privata non stava facendo niente).
Ricordo ancora la mia guardia di notte di una settimana fa passata inutilmente senza chiudere occhio, in attesa di una chiamata dalla microbiologia del Sacco. Aspettavo l’esito di un tampone sul primo paziente sospetto del nostro ospedale, pensando a quali conseguenze ci sarebbero state per noi e per la clinica. Se ci ripenso mi sembra quasi ridicola e ingiustificata la mia agitazione per un solo possibile caso, ora che ho visto quello che sta accadendo.
Bene, la situazione ora è a dir poco drammatica. Non mi vengono altre parole in mente.
La guerra è letteralmente esplosa e le battaglie sono ininterrotte giorno e notte.
Uno dopo l’altro i poveri malcapitati si presentano in pronto soccorso. Hanno tutt’altro che le complicazioni di un’influenza. Piantiamola di dire che è una brutta influenza. In questi 2 anni ho imparato che i bergamaschi non vengono in pronto soccorso per niente. Si sono comportati bene anche stavolta. Hanno seguito tutte le indicazioni date: una settimana o dieci giorni a casa con la febbre senza uscire e rischiare di contagiare, ma ora non ce la fanno più. Non respirano abbastanza, hanno bisogno di ossigeno.
Le terapie farmacologiche per questo virus sono poche. Il decorso dipende prevalentemente dal nostro organismo. Noi possiamo solo supportarlo quando non ce la fa più. Si spera prevalentemente che il nostro organismo debelli il virus da solo, diciamola tutta. Le terapie antivirali sono sperimentali su questo virus e impariamo giorno dopo giorno il suo comportamento. Stare al domicilio sino a che peggiorano i sintomi non cambia la prognosi della malattia.
Ora però è arrivato quel bisogno di posti letto in tutta la sua drammaticità. Uno dopo l’altro i reparti che erano stati svuotati, si riempiono a un ritmo impressionante. I tabelloni con i nomi dei malati, di colori diversi a seconda dell’unità operativa di appartenenza, ora sono tutti rossi e al posto dell’intervento chirurgico c’è la diagnosi, che è sempre la stessa maledetta: polmonite interstiziale bilaterale.
Ora, spiegatemi quale virus influenzale causa un dramma così rapido. Perché quella è la differenza (ora scendo un po’ nel tecnico): nell’influenza classica, a parte contagiare molta meno popolazione nell’arco di più mesi, i casi si possono complicare meno frequentemente, solo quando il VIRUS distruggendo le barriere protettive delle nostre vie respiratorie permette ai BATTERI normalmente residenti nelle alte vie di invadere bronchi e polmoni provocando casi più gravi. Il Covid 19 causa una banale influenza in molte persone giovani, ma in tanti anziani (e non solo) una vera e propria SARS perché arriva direttamente negli alveoli dei polmoni e li infetta rendendoli incapaci di svolgere la loro funzione. L’insufficienza respiratoria che ne deriva è spesso grave e dopo pochi giorni di ricovero il semplice ossigeno che si può somministrare in un reparto può non bastare.
Scusate, ma a me come medico non tranquillizza affatto che i più gravi siano prevalentemente anziani con altre patologie. La popolazione anziana è la più rappresentata nel nostro paese e si fa fatica a trovare qualcuno che, sopra i 65 anni, non prenda almeno la pastiglia per la pressione o per il diabete. Vi assicuro poi che quando vedete gente giovane che finisce in terapia intensiva intubata, pronata o peggio in ECMO (una macchina per i casi peggiori, che estrae il sangue, lo ri-ossigena e lo restituisce al corpo, in attesa che l’organismo, si spera, guarisca i propri polmoni), tutta questa tranquillità per la vostra giovane età vi passa.
E mentre ci sono sui social ancora persone che si vantano di non aver paura ignorando le indicazioni, protestando perché le loro normali abitudini di vita sono messe “temporaneamente” in crisi, il disastro epidemiologico si va compiendo.
E non esistono più chirurghi, urologi, ortopedici, siamo unicamente medici che diventano improvvisamente parte di un unico team per fronteggiare questo tsunami che ci ha travolto. I casi si moltiplicano, arriviamo a ritmi di 15-20 ricoveri al giorno tutti per lo stesso motivo. I risultati dei tamponi ora arrivano uno dopo l’altro: positivo, positivo, positivo. Improvvisamente il pronto soccorso è al collasso. Le disposizioni di emergenza vengono emanate: serve aiuto in pronto soccorso. Una rapida riunione per imparare come funziona il software di gestione del pronto soccorso e pochi minuti dopo sono già di sotto, accanto ai guerrieri che stanno al fronte della guerra. La schermata del pc con i motivi degli accessi è sempre la stessa: febbre e difficoltà respiratoria, febbre e tosse, insufficienza respiratoria ecc… Gli esami, la radiologia sempre con la stessa sentenza: polmonite interstiziale bilaterale, polmonite interstiziale bilaterale, polmonite interstiziale bilaterale. Tutti da ricoverare. Qualcuno già da intubare e va in terapia intensiva. Per altri invece è tardi...
La terapia intensiva diventa satura, e dove finisce la terapia intensiva se ne creano altre. Ogni ventilatore diventa come oro: quelli delle sale operatorie che hanno ormai sospeso la loro attività non urgente diventano posti da terapia intensiva che prima non esistevano.
Ho trovato incredibile, o almeno posso parlare per l’HUMANITAS Gavazzeni (dove lavoro) come si sia riusciti a mettere in atto in così poco tempo un dispiego e una riorganizzazione di risorse così finemente architettata per prepararsi a un disastro di tale entità. E ogni riorganizzazione di letti, reparti, personale, turni di lavoro e mansioni viene costantemente rivista giorno dopo giorno per cercare di dare tutto e anche di più.
Quei reparti che prima sembravano fantasmi ora sono saturi, pronti a cercare di dare il meglio per i malati, ma esausti. Il personale è sfinito. Ho visto la stanchezza su volti che non sapevano cosa fosse nonostante i carichi di lavoro già massacranti che avevano. Ho visto le persone fermarsi ancora oltre gli orari a cui erano soliti fermarsi già, per straordinari che erano ormai abituali. Ho visto una solidarietà di tutti noi, che non abbiamo mai mancato di andare dai colleghi internisti per chiedere “cosa posso fare adesso per te?” oppure “lascia stare quel ricovero che ci penso io”. Medici che spostano letti e trasferiscono pazienti, che somministrano terapie al posto degli infermieri. Infermieri con le lacrime agli occhi perché non riusciamo a salvare tutti e i parametri vitali di più malati contemporaneamente rilevano un destino già segnato.
Non esistono più turni, orari. La vita sociale per noi è sospesa.
Io sono separato da alcuni mesi, e vi assicuro che ho sempre fatto il possibile per vedere costantemente mio figlio anche nelle giornate di smonto notte, senza dormire e rimandando il sonno a quando sono senza di lui, ma è da quasi 2 settimane che volontariamente non vedo né mio figlio né miei familiari per la paura di contagiarli e di contagiare a sua volta una nonna anziana o parenti con altri problemi di salute. Mi accontento di qualche foto di mio figlio che riguardo tra le lacrime e qualche videochiamata.
Perciò abbiate pazienza anche voi che non potete andare a teatro, nei musei o in palestra. Cercate di aver pietà per quella miriade di persone anziane che potreste sterminare. Non è colpa vostra, lo so, ma di chi vi mette in testa che si sta esagerando e anche questa testimonianza può sembrare proprio un’esagerazione per chi è lontano dall’epidemia, ma per favore, ascoltateci, cercate di uscire di casa solo per le cose indispensabili. Non andate in massa a fare scorte nei supermercati: è la cosa peggiore perché così vi concentrate ed è più alto il rischio di contatti con contagiati che non sanno di esserlo. Ci potete andare come fate di solito. Magari se avete una normale mascherina (anche quelle che si usano per fare certi lavori manuali) mettetevela. Non cercate le ffp2 o le ffp3. Quelle dovrebbero servire a noi e iniziamo a far fatica a reperirle. Ormai abbiamo dovuto ottimizzare il loro utilizzo anche noi solo in certe circostanze, come ha recentemente suggerito l’OMS in considerazione del loro depauperamento pressoché ubiquitario.
Eh sì, grazie allo scarseggiare di certi dispositivi io e tanti altri colleghi siamo sicuramente esposti nonostante tutti i mezzi di protezione che abbiamo. Alcuni di noi si sono già contagiati nonostante i protocolli. Alcuni colleghi contagiati hanno a loro volta familiari contagiati e alcuni dei loro familiari lottano già tra la vita e la morte.
Siamo dove le vostre paure vi potrebbero far stare lontani. Cercate di fare in modo di stare lontani. Dite ai vostri familiari anziani o con altre malattie di stare in casa. Portategliela voi la spesa per favore.
Noi non abbiamo alternativa. E’ il nostro lavoro. Anzi quello che faccio in questi giorni non è proprio il lavoro a cui sono abituato, ma lo faccio lo stesso e mi piacerà ugualmente finché risponderà agli stessi principi: cercare di far stare meglio e guarire alcuni malati, o anche solo alleviare le sofferenze e il dolore a chi non purtroppo non può guarire.
Non spendo invece molte parole riguardo alle persone che ci definiscono eroi in questi giorni e che fino a ieri erano pronti a insultarci e denunciarci. Tanto ritorneranno a insultare e a denunciare appena tutto sarà finito. La gente dimentica tutto in fretta.
E non siamo nemmeno eroi in questi giorni. E’ il nostro mestiere. Rischiavamo già prima tutti i giorni qualcosa di brutto: quando infiliamo le mani in una pancia piena di sangue di qualcuno che nemmeno sappiamo se ha l’HIV o l’epatite C; quando lo facciamo anche se lo sappiamo che ha l’HIV o l’epatite C; quando ci pungiamo con quello con l’HIV e ci prendiamo per un mese i farmaci che ci fanno vomitare dalla mattina alla sera. Quando apriamo con la solita angoscia gli esiti degli esami ai vari controlli dopo una puntura accidentale sperando di non esserci contagiati. Ci guadagniamo semplicemente da vivere con qualcosa che ci regala emozioni. Non importa se belle o brutte, basta portarle a casa.
Alla fine cerchiamo solo di renderci utili per tutti. Ora cercate di farlo anche voi però: noi con le nostre azioni influenziamo la vita e la morte di qualche decina di persone. Voi con le vostre, molte di più.
Per favore condividete e fate condividere il messaggio. Si deve spargere la voce per evitare che in tutta Italia succeda ciò che sta accadendo qua.
Dott. Daniele Macchini, chirurgo Humanitas Gavazzeni, Bergamo
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soldan56 · 5 years
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La vita in ospedale è complicata in questi giorni, lo sforzo e l’impegno richiesto ai medici dovrebbe corrispondere a un maggior senso di responsabilità da parte di tutti i cittadini: “Non esistono più turni, orari. La vita sociale per noi è sospesa. Io sono separato da alcuni mesi, e vi assicuro che ho sempre fatto il possibile per vedere costantemente mio figlio anche nelle giornate di smonto notte, senza dormire e rimandando il sonno a quando sono senza di lui, ma è da quasi 2 settimane che volontariamente non vedo né mio figlio né miei familiari per la paura di contagiarli e di contagiare a sua volta una nonna anziana o parenti con altri problemi di salute. Mi accontento di qualche foto di mio figlio che riguardo tra le lacrime e qualche videochiamata. Perciò abbiate pazienza anche voi che non potete andare a teatro, nei musei o in palestra. Cercate di aver pietà per quella miriade di persone anziane che potreste sterminare. Non è colpa vostra, lo so, ma di chi vi mette in testa che si sta esagerando e anche questa testimonianza può sembrare proprio un’esagerazione per chi è lontano dall’epidemia, ma per favore, ascoltateci, cercate di uscire di casa solo per le cose indispensabili. Non andate in massa a fare scorte nei supermercati: è la cosa peggiore perché così vi concentrate ed è più alto il rischio di contatti con contagiati che non sanno di esserlo. Ci potete andare come fate di solito. Magari se avete una normale mascherina (anche quelle che si usano per fare certi lavori manuali) mettetevela”
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waitthetimeyouneed · 5 years
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In a bad way
“Say something, I'm giving up on you I'm sorry that I couldn't get to you Anywhere, I would've followed you Say something, I'm giving up on you”
Say Something - A Great Big World feat Christina Aguilera
Di nuovo punto e a capo.
Avevo avvisato che nessuna azione resta impunita. Ed è quello che è appena successo. lo avevo detto, o no? Ed eccomi qua di nuovo a punto a capo. L’unica cosa che riesco a dire è mi dispiace, sul serio. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Non avrei dovuto. Scusa. Scusa. Scusa. Okay, sto impazzendo. Credo che oggi non sia proprio la mia giornata: abbiamo iniziato male, speriamo di non finire peggio. Il fatto è che quando tengo davvero ad una persona non riesco a fare finta di nulla. Proprio non ci riesco. Mi dispiace, sul serio. Dovrei smetterla di fare sciocchezze, dovrei smetterla. Chissà perché ma non accettiamo mai che le situazioni possano cambiare e che possano finire. Almeno, io personalmente, faccio fatica ad accettarle. Non riesco a tollerare il fatto che mi venga detto “le cose cambiano, può succedere”. Un piffero, detto sinceramente. Le cose che capitano per caso sono ben poche e hanno a che fare con cause di forza maggiore: il tempo, per esempio. Ma quando si tratta di persone, le cose non capitano per caso, se escludiamo ovviamente gli incontri. Le cose succedono perché c’è almeno una parte di volontà, una certa preterintenzionalità, quindi per favore, risparmiatevi il fatto che “ops, è successo, non importa.” Importa, eccome, invece. Prendiamoci una buona volta le nostre colpe. Siamo noi che facciamo accadere le cose, non è che ti crollando sulla testa in un bel giorno di sole. Ci pensi. Assimili. Decidi. Quindi, se dovete prendere delle decisioni, abbiate al meno il buon gusto di motivarle. Di chiarire. Altrimenti le persone resteranno nel limbo con mille domande che frullano nella testa. Abbiate il buon gusto di chiarire face-to-face che a fare i leoni dietro le tastiere, non ci guadagnate nulla. Abbiate il buon senso di guardare negli occhi la persona di cui condizionerete le vita. Abbiate la pazienza di chiedere e il coraggio di guardare i suoi occhi pieni di lacrime. Abbiate il buon senso di rispondere e mantenere le promesse fatte perché bisogna avere rispetto delle persone. Soltanto perché la questione è chiusa per voi, non significa sia realmente chiusa. Abbiate l’ardine di parlare ad alta voce, di prendere quel stramaledetto telefono e chiamarla, quella persona che al massimo, la vostra chiamata durerà dieci minuti e non sono quei dieci minuti che mi porteranno via l’intera vita ma potrete donare il resto della vita alla’altra persona che si sta struggendo. Abbiate la pietà di avere tatto. Di usare parole buone anche se sono crude. Datele una spiegazione che sia valida e non aggrappatevi sugli specchi. Siate persone coerenti. Le parole andrebbero usate con il dosatore perché posso fare male. Bisognerebbe pensare bene sul serio a quello che si dice perché una persona finisce con il crederci e dare scontato una persona perché tanto la si conosce, è la cosa più subdola e disgustosa che si possa fare. E le azioni sono anche peggio. Perché le situazioni sono così complicate? Perché i rapporti sono così complicati? 
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frenk-93 · 2 years
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Nelle Litanie del Sacro Cuore c'è quest'invocazione: Cuore di Gesù, paziente e di molta misericordia, abbiate pietà di noi! Dio ha tutte le perfezioni ed in grado infinito. Chi può misurare l'onnipotenza, la sapienza, la bellezza, la giustizia e la bontà divina? L'attributo più bello e più confortante, quello che più si addice alla Divinità e che il Figlio di Dio facendosi uomo ha voluto far risplendere di più, è l'attributo della bontà e della misericordia. Dio è buono in sé, sommamente buono, e manifesta la sua bontà amando le anime peccatrici, compatendole, perdonando tutto e perseguitando col suo amore i traviati, per tirarli a sé e renderli eternamente felici. Tutta la vita di Gesù fu una continua manifestazione di amore e di misericordia. Dio ha tutta l'eternità per attuare la sua giustizia; ha solo il tempo, per coloro che stanno nel mondo, per usare misericordia; e vuole usare misericordia. 
Il Sacro Cuore dimostra la sua immensa misericordia coll'aspettare pazientemente a penitenza le anime traviate. Una persona, desiderosa di piaceri, attaccata solo ai beni di questo mondo, dimentica dei doveri che la legano al Creatore, commette ogni giorno tanti gravi peccati. Gesù potrebbe farla morire e tuttavia non lo fa; preferisce aspettare; anzi conservandola in vita, la provvede del necessario; finge di non vedere i suoi peccati, nella speranza che un giorno o l'altro si ravveda e possa perdonarla e salvarla. 
Ma perché Gesù ha tanta pazienza con chi l'offende? Nella sua infinita bontà non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva.
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beppebort · 4 years
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Santa Chiara
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Nacque Chiara nell'anno 1193 da nobili e ricchi genitori in Assisi, e fin da giovanetta dimostrò una grande pietà e devozione. In quegli anni la fama del suo concittadino Francesco cominciava ad allargarsi, e Chiara, decisa di consacrarsi al suo Signore, si presentò a lui per comunicargli il suo ardente desiderio di ritirarsi dal mondo. Francesco riconobbe in questa piissima giovane la chiamata di Dio e perciò la confermò nel suo proposito di consacrare a Gesù Cristo la sua verginità.
Venuto il giorno stabilito, Chiara fuggì dalla casa paterna e si portò alla chiesa di S. Damiano ove Francesco, assistito dai suoi monaci, le tagliò i capelli e la rivestì del ruvido saio di penitenza di cui egli era già ricoperto.
I suoi parenti, oltremodo irritati per questa sua risoluzione, tentarono in vari modi, anche colla violenza, di sottrarla al sacro ritiro, ma Chiara, colla grazia del Signore, superò ogni ostacolo.
Poco dopo si unirono a lei numerose vergini, e perfino sua sorella Agnese: tutte si esercitavano nell'orazione e nelle mortificazioni quotidiane della vita comune, di cui Chiara dava un sì chiaro esempio. Dormiva sulla nuda terra, qualche volta tormentandosi ancora nelle brevi ore di riposo con sarmenti o con duro legno che usava per guanciale. Portava sempre ai fianchi un aspro cilicio, digiunava tre volte alla settimana a pane ed acqua.
Devotissima del SS. Sacramento, passava lunghe ore innanzi all'altare, assorta in profonda meditazione. E Gesù la ricompensò di questo suo affetto anche col dono dei miracoli. Infatti avendo una volta i Saraceni tentato di invadere il suo monastero, Chiara, animata da fiducia nel Signore, quantunque inferma, prese tra le mani l'ostensorio e fattasi portare alla finestra minacciata del monastero tracciò sugli infedeli un gran segno di croce dicendo: « Ecco, o mio Signore, vuoi tu forse consegnare nelle mani dei pagani le inermi tue serve, che ho allevato per il tuo amore? Proteggi, ti prego, Signore, queste tue serve, che io ora, da me sola, non posso salvare ». Subito una voce, come di bimbo, risuonò alle sue orecchie dal Tabernacolo: "Io vi custodirò sempre!". La vergine, con il volto bagnato di lacrime, rassicurò le sorelle: "Vi do garanzia, figlie, che nulla soffrirete di male; soltanto abbiate fede in Cristo!". Una luce vivissima investì gli assalitori accecandoli, mentre una forza arcana rovesciava le scale e precipitava a terra i predoni.
S. Chiara era pure devota della passione di Gesù Cristo, che meditava versando copiosissime lacrime. Da questa devozione attinse tanto amore alla santa povertà che ricusò perfino le proposte fattele dal Papa Gregorio IX di una povertà più mitigata, ed ottenne per sè e per le sue suore quello che chiamò « il privilegio della povertà ».
Negli ultimi anni di sua vita, Chiara fu molestata da continue infermità e patimenti corporali, ma colla sua preghiera fervente ottenne dal Celeste Sposo una pazienza invitta, e fra i suoi dolori si dimostrò sempre contenta e serena.
Prima di morire fece testamento: non per lasciare beni temporali, ma bensì per lasciare alle figliuole del suo cuore la santa povertà come loro divisa, come loro difesa e come loro gloria, e a 60 anni di età, piena di meriti, nell'anno 1253 rese la sua bell'anima a Dio.
PRATICA. Mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù Eucaristico e saremo liberati da ogni male, specie dal peccato.
PREGHIERA. Esaudiscici, o Dio nostro Salvatore, affinchè, come ci allietiamo della festa della tua beata vergine Chiara, così veniamo ammaestrati nella devozione.
MARTIROLOGIO ROMANO. Memoria di santa Chiara, vergine, che, primo virgulto delle Povere Signore dell’Ordine dei Minori, seguì san Francesco, conducendo ad Assisi in Umbria una vita aspra, ma ricca di opere di carità e di pietà; insigne amante della povertà, da essa mai, neppure nell’estrema indigenza e infermità, permise di essere separata.
https://www.santodelgiorno.it/santa-chiara/
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cirifletto · 5 years
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RisiKo: Curiosità E Segreti Del Gioco In Scatola Più Famoso
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Semplicità, longevità, smania di conquista, adrenalina, fato, strategia, allegria. Questo caleidoscopio di emozioni è RisiKo!. Visto il protrarsi di questo isolamento domiciliare urge la riscoperta dei famigerati giochi da tavolo. Per farveli conoscere meglio, o per aiutarvi a riscoprirli, ogni 2-3 giorni pubblicheremo un articolo dedicato ad un gioco in scatola. In modo che la riapertura di questi contenitori ludici ci riporti allegria, vicinanza e anche una sana voglia di vincere. Siate sinceri. Se dico Kamchatka (pronunciato Kamciacca), quale è la prima cosa a cui pensate? Scommetto che è il RisiKo, il piu famoso gioco di strategia da posizionare sul tavolo. Attaccare la lontanissima Kamchatka (o conquistare la Cina) era un rito, per chi come me ha giocato tanto a Risiko, e tuttora continua. Era il momento che tutti aspettavano, l'apice della tensione, l'obiettivo nell'obiettivo, il simbolo di un gioco che a colpi di dado è entrato nell'immaginario di intere generazioni. LEGGI ANCHE... Perchè Giocare Alle Lego Con Mio Figlio Mi Ha Aiutato Come Imprenditore La forza del RisiKo sta nell’essere uno dei pochi giochi in cui chi vince ha ragione nel dire di essere stato il più bravo e chi perde ha ragione nel dire che è stato sfortunato. Ognuno imputa ai dadi la propria sconfitta e alla strategia la propria vittoria. È una sfida in perfetto equilibrio tra fato e intelligenza, che trova la sua energia nella relazione tra le persone: si è coinvolti sempre, perché ogni mossa può influire sull’esito finale. Risiko non è altro che un gioco di strategia bellica in cui dobbiamo conquistare dei territori su un planisfero mondiale, usano il lancio di dadi: 3 a disposizione dell'attacco e 3 a disposizione della difesa. Regole semplici e tattiche degne di un Metternich. Ma ecco qui una serie di curiosità su questo meraviglioso gioco in scatola.
Risiko è un'invenzione Made in Italy
Nasce come prototipo in Francia verso la metà del 1900 con il nome di 'Le balon rouge' e arriva in Italia alla fine degli Anni 60. Sbarca sulle nostre tavole nel 1977 grazie a Editrice Giochi. In Italia viene arricchito da regole rivedute e da una geniale intuizione: l’introduzione dei piccoli carri armati colorati. Un’invenzione made in Italy che non esiste in nessuna delle edizioni internazionali. I carrarmatini ormai sono diventati imprescindibili per un vero amante del RisiKo e la loro assenza può creare fenomeni di isteria o depressione ludica. Ci sono persone che, se non possono usare il loro colore preferito, si disperano e difficilmente vincono: non riescono a seguire la partita, perdono la visione globale del gioco. È un aspetto psicologico divertente e che dice tanto di quanto i carrarmatini siano un elemento ludico fondamentale.
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Un curriculum di straordinaria eccellenza
Pur se la prima versione internazionale, chiamata Risk, è del 1965, in Italia RisiKo lo conosciamo dal 1977. Per questo nel 2017 questo gioco ha compiuto i suoi primi 40 anni di onorata carriera e fama. Vanta l'invidiabile palmares di 100 mila pezzi venduti ogni anno e un'affezionatissima community online con più di 15mila iscritti. Senza parlare delle decine di club ufficiali sparsi per il paese, dei numerosi tornei organizzati e dell'enorme, ma impossibile da censire, numero di amici che si ritrovano per cimentarsi nell'arte della guerra.
RisiKo vanta il più alto numero di varianti
Negli anni del suo sviluppo, questo gioco ha mutato molte volte le sue regole. Prima su tutte la comparsa dei carrarmatini, ma anche la conformazione del planisfero, l'utilizzo delle carte e perfino l'importanza dei dadi che, negli anni hanno spostato sempre più l'equilibrio dall'attacco verso la difesa. Ma, cosa più curiosa, è che ogni giocatore, almeno una volta nella vita, ha apportato una sua variante personale, e temporanea. Ci sono quelli che vedono i verdi come alieni, con movimenti tutti loro che devono conquistare il Pianeta, e gli altri si devono difendere. Oppure quelli che, in barba agli obiettivi, stabiliscono che il solo obiettivo è conquistare il mondo (come'era il gioco prima dell'introduzione delle carte obiettivo). D'altronde chi non ha bramato, almeno una volta nella vita, di pronunciare 'Il Mondo è Miooooo!'. Con RisiKo è possibile. Fatene tesoro.
Un nome che mette KO
Il nome di questo gioco in scatola nasconde molti segreti. Nella sua accezione tedesca Risiko significa "Rischio" e non è complicato capire il legame. Ma il corretto modo di scriverlo è con la K maiuscola e con il punto esclamativo finale. Perchè, in quel modo, rappresenta una vera e propria dichiarazione programmatica: mandare KO gli avversari e con l'enfasi esclamativa finale. Anche nel dialetto toscano 'risico' rimanda a 'rischio'. E da qui il famoso proverbio "Chi non risica, non rosica".
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RisiKo è ormai diventata una parola del nostro vocabolario
La parola 'RisiKo', che in italiano non ha nessun particolar significato, entra sempre di più nel gergo delle analisi geopolitiche, a dimostrazione di quanto questo gioco sia penetrato nell'immaginario collettivo e sia capace di attivare variabili e riflessioni per niente banali. In fondo è un gioco che ti fa pensare, studiare il tavolo e le mosse da fare e da preparare nella testa; ti spinge a reagire alle tattiche degli altri e alle sconfitte. Infine ti fa analizzare il planisfero del mondo, dando le adeguate considerazioni ai paesi coinvolti. E senza accorgertene poi trasli queste elucubrazioni ludiche, nell'attualità del mondo. Bellissimo!
Imparare la geografia non è mai stato così facile
Mi rivolgo ai patiti di questo gioco. Quanto vi ha aiutato questo gioco a studiare e capire la geografia? Io credo, per me è stato così, che RisiKo ci abbia reso più facile affrontare la geografia. Dove sta il Congo? Oppure la Jacuzia? La Nuova Guinea? Ecc.... Le risposte a queste domande, talvolta, arrivavano, dopo ragionamenti rabberciati, grazie alle nostre partite di RisiKo, perchè conoscevamo bene il planisfero dei carrarmatini. E poi abbiamo imparato che la Cina è un paese molto grande e potente, perchè il suo territorio, sul gioco, confina con tanti stati, deve difendersi su tanti lati ma può attaccare in tante posizioni. Si imparavano i confini degli stati e i confini dei continenti. Insomma una speciale scatola di contenuti geografici di cui fare tesoro! Si può scoprire di più su una persona in un'ora di gioco, che in un anno di conversazionePlatone
Il gergo segreto da conoscere assolutamente
Non poteva mancare un dizionario segreto, spesso riservato ai giocatori più esperti. Una serie di termini in risikese che servono a descrivere alcune situazioni di gioco e alcuni trucchi per vincere la partita. Le alleanze non sarebbero consentite, ma neanche vietate, per cui tutto va nel senso sella vittoria! Fare il panda. E' quando un giocatore, praticamente prossimo a lasciare la partita, viene mantenuto in gioco da altri giocatori in maniera tale da non favorire altri o per ostacolare le loro mosse.L'eliminazione del maiale. Quando si pianifica l’eliminazione di un giocatore dopo una serie di turni.Gioco della carta. Anche chiamato Mutanda, Paradiso della Carta, Stato Cuscinetto e Terra di Nessuno. Due o più giocatori si alleano in maniera implicita o esplicita per conquistare a turno uno stesso territorio fra loro confinante. Così possono aumentare le loro possibilità di rinforzare le loro armate pescando più carte.Teste di ponte. Chiamati anche chiave di volta, stato cardine. Sono quei territori cardine che bloccano l’accesso ad un dato continente e nel contempo permettono di pianificare una strategia di conquista o di ostacolo.
Parola d'ordine: essere spietati
I trucchi, le strategie, le eventuali alleanze vanno tutte nella direzione del vincere a tutti i costi. E per vincere a questo gioco non c'è spazio per la bontà, la misericordia. Dobbiamo essere spietati prima che gli avversari lo siano con noi. Esempio: se un concorrente è in punto di morte, a meno di tattiche condivise, deve essere finito perchè così avrai le sue carte rinforzo; oppure se qualcuno ha conquistato un continente, è vostro dovere 'rompergli le uova nel paniere dei carrarmati' e conquistargli almeno un territorio di quel continente, così lui non beneficerà dei rinforzi relativi. E il tutto, anche se non è nei vostri piani! Idem vale per l'occupazione di Oceania e Nord America. Sono una miniera di carrarmatini e vale la pena di prenderli anche se non è nel vostro obiettivo. Ed infine.... non abbiate furia, non mirate subito al vostro scopo finale, prima rafforzatevi con calma e poi colpite implacabilmente, senza pietà. A RisiKo la pazienza è la virtù dei forti. Accompagnata dalla spietatezza verso tutti, amici, parenti, moglie e figli. E VOI... Avete un vostro gioco da tavolo preferito?Scrivetecelo nei commenti in fondo alla pagina Risiko! è uno dei giochi classici da tavolo più duraturi e questo suo successo è dovuto, oltre che alla semplicità delle regole, al fatto che stimola in noi profonde emozioni: smania di conquista, adrenalina, risentimento e compassione. Questo può talvolta portare a qualche discussione tra partecipanti ma non preoccupatevi..... basta una spaghettata del dopo gioco e tutto si aggiusta. Come ai vecchi tempi!! Ciao da Tommaso! Vieni a visitarci sulla nostra pagina Facebook e Metti il tuo MiPiace! Read the full article
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È in corso attualmente uno sforzo concertato, ad opera di un frammento della Mia chiesa, per mettere a tacere te.
È in corso attualmente uno sforzo concertato, ad opera di un frammento della Mia chiesa, per mettere a tacere te.
Figli Miei sono questi i tempi in cui la fede dei Miei seguaci più ardenti, compresi i membri della Mia chiesa, sarà messa alla prova in un modo mai visto, dai tempi della Mia crocifissione.
Proprio come Io sono stato brutalmente trattato e condannato a morte per aver osato dire la verità, quando sono venuto la prima volta, così, anche, lo stesso trattamento è riservato ai Miei profeti nell’attesa della Mia Seconda Venuta.
Saranno scherniti, derisi e fatti apparire sciocchi quando diffonderanno la Mia parola.
Saranno accusati di eresia da parte di coloro che proclamano i Miei insegnamenti, ma che non riescono a riconoscere la Mia parola data al mondo di oggi.
Abbiate paura quelli di voi che tentano di bloccare il percorso che Io ora stabilisco davanti a te per salvare l’umanità.
Sarete puniti.
Dovrete rispondere a Me per l’ingiustizia che infliggete a quelli inviati per proclamare la parola di Dio in questi ultimi tempi.
Rifiutate i profeti del Signore e rifiutate la parola del Signore.
13 Marzo 2012 – È in corso attualmente uno sforzo concertato, ad opera di un frammento della Mia chiesa, per mettere a tacere te.
Mia amata figlia prediletta, oggi finalmente ti sei resa conto di quanto la Mia Santissima Parola non è solamente osteggiata ma anche respinta da alcuni membri della Mia Chiesa.
Coloro che non sono idonei a cadere ai Miei piedi e implorare pietà, si proclamano adatti a giudicare le Mie Sacre Parole date all’umanità per salvare le loro anime.
Io sono un Dio pieno di misericordia, pieno di desiderio di salvare tutti i Miei figli e sono lento all’ira.
Oggi, la Mia pazienza è stata testata poiché un altro attacco è stato fatto per minare questi messaggi, questa volta da parte di un uomo che professa di parlare in Mio nome.
Tu, figlia Mia non puoi, da oggi in avanti, impegnarti con tali rappresentanti senza prima chiedere il Mio permesso.
È in corso attualmente uno sforzo concertato, ad opera di un frammento della Mia chiesa, per mettere a tacere te.
Figli Miei sono questi i tempi in cui la fede dei Miei seguaci più ardenti, compresi i membri della Mia chiesa, sarà messa alla prova in un modo mai visto, dai tempi della Mia crocifissione.
Proprio come Io sono stato brutalmente trattato e condannato a morte per aver osato dire la verità, quando sono venuto la prima volta, così, anche, lo stesso trattamento è riservato ai Miei profeti nell’attesa della Mia Seconda Venuta.
Saranno scherniti, derisi e fatti apparire sciocchi quando diffonderanno la Mia parola.
Saranno accusati di eresia da parte di coloro che proclamano i Miei insegnamenti, ma che non riescono a riconoscere la Mia parola data al mondo di oggi.
Abbiate paura quelli di voi che tentano di bloccare il percorso che Io ora stabilisco davanti a te per salvare l’umanità.
Sarete puniti.
Dovrete rispondere a Me per l’ingiustizia che infliggete a quelli inviati per proclamare la parola di Dio in questi ultimi tempi.
Rifiutate i profeti del Signore e rifiutate la parola del Signore.
La vostra arroganza vi rende ciechi alla verità e non avete il diritto di rappresentarmi.
Voi mi offendete grandemente e il vostro rifiuto della Mia santa parola mi ferisce profondamente.
Io piango per il vostro crudele rifiuto della Mia persona, mentre, allo stesso tempo, predicate una versione annacquata della verità dei Miei insegnamenti.
Dovete dedicare del tempo all’adorazione Eucaristica prima di poter comunicare con Me per permettermi di guidarvi sulla via del discernimento.
Esaminate le vostre ragioni di rifiuto delle Mie parole.
Forse perché non volete ascoltare la verità dello scisma che sta per attanagliare la Chiesa cattolica?
Forse perché non accettate che la Chiesa è stata infestata dalla ingannatore?
Non capite che tutto questo è stato predetto?
Dovete pregare in modo che voi vedrete la verità e venite da me affinché vi guidi prima che sia troppo tardi.
Il vostro Gesù
Redentore di tutta l’umanità
http://gesuallumanita.blogspot.it/2012/03/13-marzo-2012-e-in-corso-attualmente.html
Promemoria  - Crociata di Preghiere (77) Per la Gran BretagnaO Padre Celeste, Dio Creatore dell’uomo, ascolta la mia preghiera.Ti supplico di salvare la Gran Bretagna dalle grinfie del male e della dittatura.Ti chiedo di unirci tutti, di tutte le religioni, credo e razze come una sola famiglia ai Tuoi Occhi.Dacci la forza di unirci sfidando tutte le leggi introdotte per eliminare i Tuoi Insegnamenti. Dacci la forza e il coraggio di mai abbandonarTi e di aiutarTi a salvare tutti i Tuoi figli con le nostre preghiere. Raccogli tutti i miei fratelli e le mie sorelle in unione per rendere omaggio alla Tua promessa di concederci la vita eterna e l’ingresso nel Tuo Paradiso. Amen
- OGNUNO SALVA 5050 ANIME RECITANDO 50 VOLTE LA CROCIATA 104 tutti i giovedì,qua
- Novena della Salvezza (quarto giorno), qua
 - Catena di preghiera per proteggere l’Europa, 13 Luglio, qua
- TERZA GUERRA MONDIALE STA PER CONSUMARSI NEL MONDO...INIZIERÀ IN EUROPA, qua
- Tentativi di introdurre una moneta mondiale in Europa, qua
- Dio Padre: l’Europa sarà il primo obiettivo del Dragone Rosso, in seguito sarà la volta degli USA, qua
- SACRAMENTALI, Per completare questa informazione si consiglia di vedere questo video, qua 
- Rivolta araba provocherà disordini globali – l’Italia innescherà l’accadimento, qua
- Luglio, il mese dedicato al preziosissimo sangue di Gesù, qua
- L’amore e l’adorazione in abbondanza vi rendono più forti e più calmi, qua
-I favori concessi quando ricevete il Corpo di Mio Figlio, qua.
-  Le nostre pagine, qua  (in particolare vi aspettiamo per pregare insieme su questa pagina dove ci sono appuntamenti di preghiera )
-Preghiera per l'immunità data da Dio Padre, da recitarsi per un mese, qua
- Preparatevi sempre, ogni giorno, come se l’Avvertimento fosse domani, perché scenderà su di voi improvvisamente, qua
- Libro della Verità- Mini webcast parte 9-  ,Lotta al male, qua
- "Il Mio amato Papa Benedetto XVI è stato perseguitato ed è fuggito, come era stato predetto. Io non ho designato questa persona che sostiene di venire nel Mio Nome.Egli, Papa Benedetto, guiderà i Miei seguaci verso la Verità. Io non l’ho abbandonato e lo tengo vicino al Mio Cuore e gli offro il conforto di cui ha bisogno in questo momento terribile. Il suo Trono è stato rubato. Ma non il suo potere", qua
- L’anticristo verrà da Oriente, non da Occidente , qua
- Come assicurarvi che la vostra famiglia e i vostri amici possano entrare in Paradiso, qua
- Dice Gesù: Pregate, pregate la Mia Divina Misericordia alle 15 di tutti i giorni e potrete salvare il mondo. (Libro delle Verità, 30 aprile 2011), qua
-  Cerchiamo 100 persone che recitino 3 Rosari al giorno per salvare l'Italia, qua 
- Applicazione per Android:"Crociata di preghiera" ed Ebooks Programma di Preghiera in formato ePUB per per tablet e smartphone, qua 
- "Figlia Mia, i figli di Dio saranno in grado di proteggere la loro fede, il loro coraggio e la loro sicurezza durante tutte le guerre, se continueranno a pregare la Crociata di Preghiera del Sigillo del Dio Vivente. Questo è uno degli ultimi e il più grande Sigillo di Protezione inviato dal Cielo, di tutte le preghiere date all’umanità", qua
- Siete tutti calorosamente invitati a seguire il programma di preghiera del nostro gruppo qua e qua
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ray-just-ray-thanks · 4 years
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Parte 2
La queerphobia, o detta all’italiano, la paura, il timore, l’avversione e il pregiudizio di tutto ciò che riguarda l’orientamento sessuale (e/o romantico) e/o identità di genere che non siano percepiti come “normali”.
Detto in parole ancora più spiccie, avversione per il diverso.
Nel mio caso è più una certa recalcitranza a riconoscere che la mia vita sarebbe stata molto più facile in un mondo perfetto, che lentamente passo per passo attivisti, autori e ricercatori del campo stanno costruendo.
Sapere che fra vent’anni nessuno potrebbe più subire discriminazione, dovrebbe farmi piacere ed invece, sono una persona di merda, quindi mi riempie di irritazione che io sia dovuto crescere in questo modo e quelli che verranno potranno vivere più tranquilli.
Faccio ulteriore chiarezza, perchè quando dico di essere un’orribile persona, la gente mi prende sul ridere e pensa che io stia scherzando. Non è vero, ve lo posso assicurare, ma sto cercando di crescere. Un percorso a zig-zag e che amo rendere più complicato, ma è pur sempre una strada. Fino al mio traguardo, però, lasciatemi definire una persona dalla dubbia moralità e principi, poi si vedrà. Preferisco mettere le mani avanti e dire che sono una persona di merda per i posteri.
Cosa significa?
Prima di tutto: mi identifico come Asessuale (non inizio neanche a parlare della fatica che ho fatto ad accettare questo termine), non amo pensare al mio orientamento romantico, perchè sarebbe un passo che ancora non sono pronto a fare. (Suona talmente petulante che mi chiuderei il post in faccia da solo, ma abbiate solo ancora un po’ di pazienza.)
Il mio genere è sicuro, ma siamo su internet e l’anonimato è comunque una buona cosa, specialmente perchè sono un codardo e non amo metterci la faccia.
Non sono un attivista e questo mi pareva abbastanza chiaro. Non amo parlare al grande pubblico, perchè non amo i conflitti. Il covo di vipere che mi attende, lì fuori, è sufficiente per farmi rimanere nella mia piccola bolla protetta.
Tornando alla domanda: cosa significa il mio post?
Significa che sono acephobico e queerphobico, pur essendo parte di almeno una di queste due comunità. Non seguitemi se volete delle sicurezze, perchè la mia sanità mentale è piuttosto labile, così come la mia capacità decisionale.
Ma cosa significa?
Significa che sono cresciuto in una società strutturata in un certo modo (no, non voglio la pietà di nessuno, amo il genere umano), mi sono convinto che ci sia un’unica possibilità per essere felici, essere coiugati con qualcuno, essere normali, non attirare l’attenzione per le strade e la vita. Studiare le materie serie, quelle scientifiche e non quella carriera a fondo chiuso che è la letteratura o, il cielo si apra, scienze umane più in generale. Lo psicologo è solo per i matti, solo per i deboli, si deve solo scherzare sulla depressione, ma se si accenna qualcosa il tavolo da pranzo piomba nel silenzio e si viene guardati con rimprovero. Suona così petulante da risultare quasi comico ed è divertente, in effetti, come non sia adolescente, ma la mia maturità con tutta probabilità si è fermata a quello stadio.
Credo davvero a tutto ciò?
La risposta è complessa, come tutto, del resto, in questa esistenza,in breve è: sì, a volte.
A volte, ci credo.
A volte, mi dimentico e giudico ancora il mondo in questo modo.
A volte, mi piacerebbe tornare normale, beato nella mia ignoranza.
A volte leggo post (LGBT+, ma anche altri) che non capisco e li catalogo direttamente come menzogne, fatti per attirare l’attenzione, una nuova etichetta alla tumblr.
A volte, mi sale la bile, leggendo i tentativi di rendere la lingua italiana genere neutra, la lingua che amo, con la quale più so esprimermi, deturbata con segni casuali e illeggibili.
Poi, faccio un respiro e...ne faccio un altro, per maggior misura. Mi sento come mia madre che ancora non capisce la differenza fra Drag Queen e Transessualità, nonostante le abbia spiegato più e più volte, portando illustri esempi all’italiana. Una sensanzione orribile, se devo essere sincero. 
Non è facile. Non voglio pietà, non voglio suonare erudito o con la verità in tasca, l’essere che sa e che vede attraverso tutto in un secondo. Non so neanche controllare me stesso. So che suona patetico e in realtà lo è, perchè spero che un giorno potrò guardare questo post e ridere, ridere forte fino alle lacrime.
Dire che è tutto alle spalle...
Fino ad allora, però, sono una persona di merda. Sono queerphobico e acephobico, mi piacerebbe dire nei momenti di debolezza (ed è soprattutto in quelli), ma, più in generale, anche in tutti quei momenti in cui mi sento attratto da un concetto che diverge dalla “norma” e mi convinco che non debba esistere.
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becomixdatabase · 5 years
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[Sfighe e privilegi: Paolo Cattaneo su Non mi posso lamentare](https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/ "https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/")
Una premessa veramente sincera.
Compilo questa specie di testamento scrivendo sul cell, seduto su una comodissima poltrona in velluto marron di un treno veloce giapponese, a 500km/h, durante un viaggio nel Sud del paese, che ha delle regole molto precise, ma che purtroppo non posso elencarvi qui.
Questo significa che sarò particolarmente sensibile, probabilmente prolisso e quasi sicuramente sconclusionato, abbiate la pietà e la pazienza di leggerle come se fossero il diario segreto di una fricchettona rimasta incinta durante una vacanza nel terzo mondo.
Mi sarò indulgente, permettendomi deviazioni e sincerismi, perché credo in modo speciale nelle persone che hanno messo su questa stamberga (Le Fauci, mi hanno detto che si chiama, e che sono il primo a saperlo).
Credo soprattutto nel grande bisogno di occhi acuti, laser attenti che scrutino il panorama della narrazione a fumetti come uno spietato rapace scruta il fumo di un incendio, in attesa che i topini, fuggendo dalle fiamme, abbandonino i loro nascondigli, per avventarvicisi sopra, ad artigli sguainati.
Questa che segue sarà la più sincera testimonianza che concederò per iscritto a internet, grazie per l’attenzione che vorrete forse concedermi, ciao.
Il Ponte di Brooklyn italiano.
Non mi posso lamentare (da qui in avanti NMPL) è ambientato nella periferia dove sono cresciuto, il quartiere di Coronata (GE).
Coronata è un quartiere con un passato contadino, prima che i vigneti degenerassero in boschi di rovi, preservativi e ceres lanciate. Vi si faceva un vino bianco che sa di zolfo (viene citato anche dal videogioco The Witcher 3, quindi è famoso).
Poi sono arrivati i palazzi dell’INA-Casa e il presente popolare, i meridionali per lavorare nelle acciaierie del porto industriale che ha cancellato le spiagge, la collina è stata sventrata dalle gallerie dell’Autostrada, hanno costruito l’ex Ponte Morandi di fronte alle finestre dei miei, il panorama delle nostre adolescenze di periferia: coi culi dell’Adidas seduti sulla sella di un SR 50, una Punto GT con le portiere aperte e il pianale che spara Franchino.
Come sempre nei miei fumetti, ho inserito i luoghi e le cose che conosco bene, ma ho comunque dovuto fare delle perlustrazioni apposta in motorino (quando pioveva invece con Maps) perché volevo sentirmi un Danilo e perché quel tipo di esplorazione marcia che fa lui nella storia è una delle MIE attività preferite, che svolgo regolarmente e con gusto. Queste volte però ho provato a guardare i MIEI luoghi della MIA vita, con i SUOI occhi (azzurri) e ho provato a immaginarli come SUOI luoghi della SUA vita.
Il quartiere di Coronata con l’Ilva sullo sfondoUn mio compare (uno che c’aveva l’Aprilia SR bordeaux metallizzato) mi faceva notare che:
Danilo è un romantico, come Paolo, guarda su internet i nomi dei fiori, come Paolo, celebra i modelli dei motorini, come Paolo, apprezza esageratamente la propria automobile, come Paolo. Siamo pure coetanei. Io gli ho risposto che forse è la prassi normale, quando nasce un personaggio, che ci finisca dentro un po’ di chi lo inventa.
Sempre lo stesso compare mi diceva che i veri Danili non sono poeti, che i veri Danili se ne extra-sbattono dei fiori e delle prugne sugli alberi. Invece io credo che sì, o meglio credo nella possibilità di cambiare punto di vista in qualsiasi momento, ma serve un motivo, nel caso di Danilo è la questione di voler lasciare qualcosa qui, al mondo dei vivi, i suoi quaderni con dentro lui e i suoi ricordi e i suoi amici e le cose che gli piacciono. Allora Danilo accende finalmente il macchinario impolverato della sua immaginazione, forse per la prima volta nei suoi quasi 38 anni e dunque sì, in quel momento un po’ poeta lo diventa pure lui. Anzi, la fantasia prende proprio il sopravvento, modificando la realtà in modo tangibile, anche salvandolo un po’, mettendo a posto quelle cose che un posto non ce l’hanno, a meno che non te lo inventi.
Per la prima volta ho voluto scrivere una storia ambientata nel Presente, oggi, e non nei ‘90 o nei primi 2000, e metterci dentro il nuovo iPhone, l’ultima edizione di FIFA, CR7 alla Juventus, YouTube, Wikipedia, Google Maps e quelle cose mi che rendono il presente -a tratti- quasi accettabile.
Una pagina dello storyboard di NMPLDanilo rimane comunque un ragazzo ben fermo nel ‘900, e i suoi racconti sono sempre lì, piantati orgogliosamente in quello squallido periodo tra il primo e il secondo millennio, come i miei, appunto.
Raccontare il Presente mi ha aiutato ad uscire da quella ricetta nostalgica che nei miei fumetti ormai preparavo con una certa dose di maniera.
Infatti mi ci sono gasato, e siccome non mi piace la retromarcia, sto pensando di teletrasportare una storia (su cui sto facendo finta di lavorare da almeno 5 anni) ambientata nel 1998 nell’Adesso: con gli smartphone invece che i 3310, con le macchine brutte di ora, invece che le Alfa 33 o le Tipo, per capirci, con i motorini nuovi, deprimenti, a ruota alta tipo l’Honda SH o quelli nerboruti come il T-Max.
Rimango comunque convinto che un motivo ci sia se la Nike ha rifatto proprio le nostre di scarpe, e la Adidas ha rifatto persino i pantaloni coi bottoni di lato, no?
La Classe Operaia fuma di merda.
C’è un mio vecchio amico (adesso non ci becchiamo più tanto, ma ci siamo beccati di brutto prima), lui lavora in fabbrica, veramente di notte, da praticamente sempre, ovvero da quando avevamo meno di 20 anni, e in fabbrica ci lavorava pure suo padre, che era venuto apposta a Genova da giù, per lavorarci, perché forse ci lavorava già suo fratello, o qualche altro parente, sempre da giù. Nel suo capannone fanno palette per turbine, cose giganti che servono per delle cose importanti.
Un altro dei miei amici più cari (amico anche di quello sopra) ha dovuto prendere il posto in una fabbrica di pezzi di motori per navi quando il suo patrigno è morto, e ha lasciato la scuola per andare a lavorare, così, mentre noi eravamo ancora lì a disegnarci i bambulè sugli astucci. Poi ha lavorato sulle autostrade, a pulire i catarifrangenti con uno spruzzo, per più di 10 anni, di notte pure lui, con una tuta evidenziatore, a schivare i TIR per tirare su i birilli tra le carreggiate, insieme al suo collega Xavier e a qualche marocchino.
Negli anni, ci siamo sempre beccati per giocare a tutti i videogames e a fumare e guardarci le cose da ridere sul computer e ordinare dei McNuggets, le cose normali degli amici.
Gli interni della Panda di DaniloOvviamente gli ho fatto centomila domande sui loro lavori, e mi hanno sempre risposto, forse divertiti, forse infastiditi, senza capire perché mi interessasse scendere così a fondo nei dettagli del funzionamento delle mense, degli scherzi, delle battute sui froci, degli stipendi e dei buoni pasto. Ho ascoltato ottimi aneddoti sui colleghi, figure mitologiche e di riferimento, storie da ridere ma dopo diventare subito anche preoccupati.
Loro due (e altri, ma loro due proprio da vicino e durevolmente) mi hanno insegnato delle cose senza manco spiegarmele, avendo la cortesia di non sputarmi in faccia quasi mai e di ascoltare con pazienza (e la giusta ironia) ogni mia cazzata controcorrente di ragazzino e poi di adulto.
Loro andavano a dormire alle 7 del mattino, dopo il turno, io mi svegliavo ore più tardi, dopo la serata, per andare in Accademia a pitturare delle tette; anche se vengo da una famiglia operaia, in un quartiere di periferia, che si affaccia da una parte sull’ILVA e dall’altra sull’Ansaldo, confrontarmi direttamente con il dovere dei coetanei mi ha fatto provare un pochino più di vergogna ai vernissage, dove ho sempre cercato di fottere almeno una bottiglia, per una questione di rispetto e di estrazione sociale. E mi sono accorto, mentre lo scrivevo, che Danilo è un po’ me, ma forse è soprattutto loro.
Una pagina dello storyboard di NMPLNaturalmente non ho avuto tra le mie frequentazioni solo eroi del proletariato, ho bazzicato anche della gente che poteva comprarsi lo scitto più buono con i soldini di mammà.
I più lungimiranti ci caricavano la piastra da spacciare, pregio da 10 euro al grammo, erba dalla Svizzera, da Milano, non dalla Calabria o dall’Albania come eravamo abituati noi della Val Polcevera.
Persone che quando ci andavi in casa a comprargli due canne, dovevi suonare ad un citofono di avvocato e salire con l’ascensore all’ultimo piano, dove si vedeva il mare e il tramonto sul porto.
Ma poi sono sempre tornato a fumarmi il ciocco di merda coi miei, quello che ti fa solamente venire quel misto di sonno e mal di testa, con la vista sul ponte della ferrovia di ferro marcio, nello stesso palazzo che ho messo in “Manuelone” e ogni tanto magari portavo due cannine di quell’erba super dei ricchi.
Ora: dato che tengo molto a non fare la figura del Piccolo Lord con la paghetta dello zio schiavista, che si dedica allo studio delle arti mentre gli altri intorno a lui si sgobbano il salario, vi accenno che nella mia esistenza ho avuto (e avrò) delle sfortune del cazzo, ma che fortunatamente queste sfortune del cazzo mi hanno causato dei privilegi benedetti, questi privilegi benedetti mi hanno permesso di non lavorare tanto come gli altri, permettendomi per esempio di dedicarmi ai romanzi a fumetti, cosa che, come ben saprete, altrimenti sarebbe economicamente insostenibile, senza avere gli attici a reddito.
Sfighe e privilegi che scambierei con chiunque di voi, adesso, se esistesse la magia nera (o quella grigia), capiamoci, nulla di vagamente invidiabile.
Questo non significa che mi conceda di lavorare a gratis, anzi, il mio tariffario è da pochissimo triplicato dopo che sono stato pubblicato in Francia e che “L’Etè Dernier” è entrato nella Sélection Officielle di Angoulême.
Mi pare sia logico che giusto, no?
Le mani dell’Artista.
Dei precedenti lavori mi sono portato dietro solo la consapevolezza degli errori fatti e la voglia di non ripeterli, infatti ho deciso di cambiare tutto, tranne quello che non sono proprio riuscito, neanche volendo.
In questo è stata NECESSARIA la fiducia delle persone che hanno lavorato al libro con me: Simone Romani, Pasquale La Forgia, e Roberto La Forgia.
Ovvero la La Paziente Triade che mi ha sostenuto come si fa con un ubriaco che non riesce a camminare e che si è vomitato tutti i pantaloni e forse se li è anche pisciati.
Scrivere per me è una cosa veramente seria, giuro che ogni giorno mi guardo allo specchio e mi dico: ”ma che momento storico deprimente è se tu, che sei un pirla, con quella faccia da pirla, scrivi delle storie che alcune persone si prendono il tempo di leggere? Tu, arrogante coglionazzo, come ti permetti? Io adesso vengo di là e ti spacco il culo!”.
Anche stamattina, nello specchio di un hotel di merda, a Sukumo.
Ecco, giuro che io alla mia riflessione non ho il coraggio di rispondere.
So che questa cosa ha un nome che c’entra con l’inadeguatezza, ne ho parlato una volta con Tonetto, forse la stessa notte che abbiamo litigato per colpa di Cavazzano lungo i viali deserti di Torino.
Quella stessa volta in un locale una signora scalza ci aveva leccato i palmi delle mani perché le nostre (diceva) erano mani d’artista, non so chi le avesse spifferato questa cavolata, forse fu colpa di Tonetto che faceva i suoi disegnini ingarbugliati sui tovagliolini di carta, forse di Cavazzano, che purtroppo non era presente, ma fu un elogio vischioso ed indimenticabile.
Quindi, nonostante i miei turbamenti da Sirenetto, le persone che sono dietro a questo libro mi hanno sostenuto e mi hanno portato a casa a spalle, anche se gli ho vomitato tutti i sedili.
Ho l’idea che NMPL debba essere un fumetto di apertura ad un pubblico più ampio, un lavoro meno ostico da fruire, semplice in senso positivo: la storia di un genitore (o quasi) che lascia qualcosa a un figlio non l’ho inventata di certo io, anzi.
Ma proprio per questo è una storia che parla ai più, non servono troppi requisiti o un palato troppo raffinato per entrarci, almeno spero, era il mio obiettivo: riuscire a tirare dentro sia i fissati (come me) di certi elementi che sono sempre stati nei miei lavori, sia quelli che legittimamente se ne stra-sbattono della poesia dei motorini e dei citofoni bruciati e vogliono godersi una bella storia, emozionarsi, piangere, ridere e magari ricordarsela per un pochino.
Non mi posso lamentare.
Cambiare editore è stata per me una scommessa, sia per legami personali, sia per visione, per patemi e altre menate, ma è stato anche un grande stimolo che mi ha dato le forze per fare un salto nel buio e cambiare registro il più possibile.
Ripeto che le persone di Rizzoli Lizard che hanno lavorato con me hanno avuto totale fiducia nel mio racconto, più di me a tratti.
Il digitale è una figata, e per digitale non intendo stare a casa davanti al mega-computer a fare il goblin nelle segrete, intendo l’iPad con la matita magica, che ficchi nello zaino e ti porti dove vuoi, intendo Procreate, che ha mille limiti ma è facile da usare anche per uno come me che non ha voglia di impararlo.
Questo fumetto l’ho disegnato in tanti posti diversi: prati, aerei, Puglie, Milano, bar marci, spiagge irlandesi, frutteti, fiumi, biblioteche, case di altri, metro, studi di altri. E per me questa è stata una cosa meravigliante e divertente, che ha alleggerito (e di molto) il compito di compilazione lungo ed esasperante che ogni tavola di qualsiasi fumetto richiede.
Ovviamente all’inizio ho avuto le mie paure, pensavo se le persone che seguono il mio lavoro di ex-matitinista si sarebbero sentite in qualche modo tradite o altre stupidaggini, ma ho subito deciso di sbattermene, e credo giustamente, dato che purtroppo non sono abbastanza popolare da temere un risvolto alla “Misery”.
Tutti si sono accorti dell’abbandono della matita (e del b/n), ma sono certo che i più attenti avranno notato anche l’abbandono della mia gabbia, ovvero quella griglia un poco variabile, a volte monca, che ho sempre usato per scandire sulla pagina lo scorrere del tempo nelle mie narrazioni.
Ho deciso di accantonarla in modo naturale: questa storia infatti aveva necessità diverse (le grandi didascalie testuali del diario hanno bisogno di tanto spazio sulla pagina) e il digitale che avevo in mente era spudorato, come quello del Super Nintendo, coi pixel che si vedono.
Ho quindi rinunciato a mimetizzare il segno ed ho creato un pennello pixeloso che non imitasse nulla di reale (inchiostro o matita), poi ho lavorato usando solo 3 dimensioni fisse di punta e una palette di colori ridottissima (32), per non perdermi nel mondo delle infinite possibilità (e conseguenti dubbi eterni) proprio del mio nuovo mezzo.
Un altro fattore rilevante è stata la mia voglia di raccontare attraverso i COLORI.
A me il b/n mica mi piace, anzi, ogni volta che vedo del bianco e nero patisco perché non è a colori. Vado su Facebook a guardarmi gli album di foto storiche ricolorate, per capire meglio; da piccolo quando guardavamo le foto con mia nonna le chiedevo sempre di che colore erano i vestiti che indossava.
Ho sempre lavorato in toni di grigio solo per una questione di tempi. Sono visceralmente contro il bianco e nero, è un pacco e basta, come il bianco delle statue dell’Antica Grecia, che poi, guarda un po’, invece adesso sappiamo tutti che erano belle colorate, con gli occhioni con la pupilla dipinta per benino. Dovrebbero esistere delle associazioni di volontari appassionati che colorano i fumetti in bianco e nero: Associazione Volontaria Coloristi Bravi Fumetti Belli, magari potrebbero anche organizzare delle raccolte fondi per convincere l’autore a colorarlo, o per pagarsi i propri stipendi di coloristi.
Ovviamente ci sono delle eccezioni in cui il b/n funziona molto meglio del colore, ma non me ne viene in mente nemmeno una.
La banda dei ranocchi.
Solo l’uso del mio caro sfumatino marcio che avevo sempre utilizzato finora mi è mancato un pochino, specialmente nella gestione del rossore guanceo, ma fa parte del processo di abbandono proprio di ogni cambiamento.
Sul mio stile (per usare una parola che non mi piace affatto, di solito dico sintesi, ma non vorrei sembrare un genoano) è in corso una ricerca di soluzioni che va avanti da sempre e che non è ancora lontana dalla meta, se mai esiste.
Faccio un esempio: nel mio stile degli inizi la mia missione segreta era quella di ottenere una via di mezzo tra la raffigurazione di certe sculture in pietra medievali e un certo manga descrittivo alla Tsukasa Hōjō (City Hunter) o Taniguchi (con le dita spezzate, ovviamente).
Nel tempo il mio modo di inventare e disegnare le fisionomie personaggi è diventato più cartoonesco (meno realistico), questo mi è servito a differenziare i personaggi il più possibile, in modo che chi legge, e specialmente i non addetti (quella piccolissima porzione di “massa” che legge, della quale una piccolissima porzione legge anche i fumetti, della quale una piccolissima porzione legge pure i miei), almeno non debba fare fatica a riconoscere chi è chi.
Ora i personaggi si possono riconoscere anche sono dalla silhouette: hanno piedoni a forma di fagiolo, nasi a palloncino, dentoni che non esistono, teste triangolari o quadrate, alcuni sono alti più delle porte, altri larghi più di un divano, altri sono invece piccolissimi, questo credo arrivi da un crescente interesse per il manga comico (Doraemon, Shin-chan, Dash Kappei, Kochikame), anche se Tonetto dice che in NMPL c’è anche del Tom & Jerry e da quando me l’ha detto ce lo vedo pure io: Danilo somiglia a Tom il gatto mischiato con Demetan.
Ovviamente, seppur radicale, non è stato un cambiamento TOTALE, credo che ci siano ancora gli elementi per attribuire tutti i miei lavori alla stessa (mia) mano.
Nei fondali invece evidentemente l’arte medievale (la pittura in questo caso) è ancora un riferimento obbligatorio: in assenza di ambienti prospettici coerenti, continuo a preferire una sghemba assonometria, ma il mio riferimento sono ancora Giotto e certi pittori naif, Ligabue su tutti.
Poi Procreate ha un sistema di assistenza robotica per le linee dritte che mi sarei sentito fesso a non usare, ce l’ha anche per la prospettiva giusta ovviamente, l’Assistente Robo-Prospettico.
In generale trovo l’utilizzo della prospettiva molto inibente per me.
Le pagine di NMPL avevano bisogno di una dose di spazialità astratta anche, fatto di geometrie semplicissimi, aberrati e spesso bidimensionali.
Ammiro molto chi riesce a districarsi tra gli affilatissimi rovi della perspective propriis, i veri samurai del fumetto (come ad esempio Bacilieri e Filosa) ma al momento io mi sento più un ronin marcissimo che usa la sua katana come riesce, giusto per pararsi il culo contro i cani randagi di notte, sul sentiero per la mia baracca di merda dove tengo i miei 4 sacchetti di roba da lavare, un giaciglio di fieno e una piccola stufa rattoppata. Per adesso ci sto alla grande, ho pure rubato due mandarini e un daikon da un orto.
I clienti del Bar Miki.
Il lavoro di Michelangelo Setola è il vero motivo per il quale ho finalmente posato la matita.
Cerco di vendicarmi tempestandogli il cell di foto di buone pietanze a base di pesci crudi da qui. Gli ho appena mandato un video del brodo di miso con degli occhi grossi di orata grossa che ho mangiato in provincia di Kagoshima. Sembravano delle piccole prugne gelatinose. Ci ha patito, di invidia intendo.
Quando ho visto per la prima volta i lavori suoi (e quelli di Amanda Vähämäki) per me è stata una bella sberla, la prima di una lunga serie che non finisce mai. Le ultime me le hanno date Shin’ichi Abe, Italo e ho appena porto l’altra guancia proprio a Michelangelo Setola con il suo ultimo e grande: “Gli Sprecati”; Setola dovrebbe stare nei musei, mica nelle librerie.
Infatti ogni volta che lo incontro cerco di imparare da lui delle ricette di pietanze e anche la ricetta più difficile: quella della distanza dal proprio lavoro, una distanza precisissima regolata in modo da non diventare mai lontananza, molto simile ad una flemma soprannaturale tipo quella di Toki della Divina Scuola di Hokuto, il fratello adottivo di Kenshiro.
Ho il grandissimo privilegio di conoscere e frequentare praticamente tutti miei autori italiani di graphic novel preferiti, che sono pochissimi ma giganti e di poter parlare con loro di cibi o auto o videogames, come si fa tra veri colleghi e cercare di imparare sempre da ognuno qualcosa.
Una pagina dello storyboard di NMPLDa Tonetto sto imparando l’importanza di un pranzo o una cena dignitosa, in compagnia di persone molto selezionate, poche possibilmente, seguita magari da una fotografia di gruppo con il ristoratore e magari anche da un soggiorno in un albergo in quota, dove godere del fresco e poter parlare liberamente.
Da Filosa sto imparando il Bushido del fumetto, la temperanza e l’ostinazione che trasformano un fumettista in un autore ed un autore in una voce, oltre all’orgoglio di fare una cosa fighissima come i fumetti senza lagnarsi di quanto si deve stare seduti al tavolo da disegno (o appresso ad un iPad).
Da Mazzetti sto imparando che le idee chiare sono uno strumento micidiale per raggiungere i propri obiettivi, che si può essere disordinati e ordinati allo stesso tempo e una bella serie di canali YouTube decongestionanti, tipo uno di una giapponese che cucina e va a fare la spesa.
Da De Franco sto imparando la fame pazza di fare tutte le cose insieme e a cercare di trovare quella chiavina per riaprire la gabbia dell’immaginazione, che poi è anche quella delle possibilità.
Potrei continuare la lista dei talenti degli altri visti da me, ma non lo faccio.
Berto è ancora vivo.
Che io conosca solo la MIA di normalità è una cosa ovvia:
il bar-tabacchi a Coronata è un posto normale, con dentro la gente normale, che prende il 62/, che è un autobus normale, che si arrampica su per le curve di un quartiere di palazzi normali, dove le persone fanno dei lavori normali, scendendo giù dalle curve con delle macchine normali e che comprano ai figli motorini normali, vestiti normali e che quando si incontrano si dicono delle cose normali.
Adesso per esempio sono in Giappone e sto cercando di scoprire un Giappone più normale, cioè il corrispondente giapponese di Coronata: vado ai giardinetti, seguo un fiume, guardo bene la roba stesa nei poggioli, vado dietro all’ombra di un palazzo a vedere il parcheggio, e però mi sembra tutto straordinario lo stesso, perché, per fortuna, la normalità dicono che non esista più appena ci si sposta, anche di poco, anche non fisicamente.
“Umile” è un aggettivo che ho sempre affibbiato al ricordo di mio nonno, che era un Maradona in tutto, specialmente, dopo la pensione (Ansaldo), nella rapallizzazione del suo giardino a suon di colate di cemento, ma preferiva parlare di come facevano bene le cose gli altri.
Ricordo gli elogi alle fave che metteva Berto (quello dell’orto di fronte), come gli venivano bene a lui a nessun altro.
Senza autocommiserarsi (riguardo le proprie di fave), anzi, con sincera meraviglia e apprezzamento, immagino di aver ereditato da lui la curiosità per le questionucce delle altre persone, e che è anche lo scheletro del mondo che racconto e del modo in cui lo racconto.
Berto era anche quello che accoppava i ricci con la vanga perché una volta, a suo dire, spappolandosi sotto il peso della sua Ape 50 azzurra, gli avevano fatto lo sgarbo di forarne il pneumatico.
Sempre Berto aveva motosegato un pruno secolare che faceva delle prugne d’oro, perché, cadendo, creavano un pantano di marmellata d’oro che faceva slittare i sempre preziosi pneumatici dell’Ape 50. Berto era versione cattiva di Gargamella, però faceva le fave migliori
Come un ritardato.
La morbosità per il dettaglio è una mia peculiarità biografica, nel senso che sono il tipo (e non sono l’unico, anzi) che si fissa a fissare le storie.
Alla nostra categoria di persone capita di dover fingere (male, nel mio caso) di ascoltare il proprio interlocutore, in realtà tentando super-captare quei due tipi pazzeschi appoggiati al bancone che parlano del nuovo allenatore della Samp.
Ci succede anche di chiedere indicazioni e non ascoltarle perché subito rapiti dal ponte odontoiatrico della tizia che si sta prodigando per indicare dove sta il Postamat più vicino.
Ricordo che mia madre mi dava i coppini sul 62/ perché fissavo la gente, ma non ho smesso, guardo fisso ancora le persone come un ritardato.
Immagino che esistano dei medicinali per tamponare queste deviazioni dell’attenzione.
Non assumendoli, archivio la realtà in questo modo, osservandone le cesellature e questa passione entra nelle mie storie forzando la serratura.
Infatti ho sempre fatto un sacco di foto col cell di gente, di palazzi, di veicoli, di scritte negli ascensori, di cassette delle lettere nei portoni, di piante da appartamento fuori dagli appartamenti, di adesivi sui caschi, di lampioni rotti, di piante nei muri, di serrande, di tabaccai, di banconi di bar, di panini, di tramezzini, di pizzette, di vomiti sui marciapiedi, di scarpe, di merde, di fogli di giornale appallottolati, di cessi della stazione, di panchine, di sedie di plastica al circolo, di stoviglie belle, di cespugli, di posti ok e di cani. Già da quando era ancora strano fare le foto col cell io le facevo di brutto (ultimamente però faccio video col cell, che metto su Instagram: @audio_on_please).
Nell’ultimo anno invece ci sono molto sotto con Google Lens: sto imparando un sacco di piante nuove, vedo un’anatra strana, un frutto mai visto e vado subito a Lensarmelo, qui in Giappone per esempio ho scoperto che quegli affari rossi scuro, secchiti, appesi alle finestre in cordicine di spago precise, sono una varietà di caco particolarmente apprezzabile se essiccata, perché dentro rimane morbida ed effettivamente deliziosa. Secondo me Lens è la cosa più figa del mondo insieme a Maps a Wikipedia e ai cachi secchi, veramente, non mi viene in mente tanto di meglio.
L’utilizzo del dettaglio rimane uno strumento prettamente descrittivo, di solito faccio questo esempio: se un personaggio sta bevendo una birra generica è solo uno che beve una birra, se invece sta bevendo una Moretti, una Peroni o ancora di più una Ceres o una Tennent’s cambia tutto. Questo si applica ad ogni cosa, anche a come uno va in motorino: il modo di tenere il casco in testa, di aprire o chiudere le ginocchia secondo un certo codice posturale, l’angolazione della schiena e la posizione dei piedi, con la punta in dentro o all’infuori sono racconti di un carattere o di un atteggiamento specifico.
Ogni mio tentativo di narrazione parte dalla voglia di ricreare delle immagini molto specifiche coerenti con un immaginario mooolto specifico, e con delle atmosfere mooolto specifiche,
Di solito scrivo una storia intorno a qualche immagine chiave che mi piace: dei bidoni della spazzatura in fiamme, un palazzo illuminato dai lampioni arancioni, una strada vista dall’alto, nottetempo, una navata dorata di una chiesa barocca durante una messa; intorno a questo rammendo le faccende che cooperano per costruire la storia.
Quindi ho bisogno di ricorrere all’aiuto dei dettagli, per raggiungere quella precisa specificità che mi permette di ricostruire una scenografia credibile e coerente, come si fa in un film in costume. Credo che abbiano anche un ruolo ritmico nel tempo di lettura, ma quello non lo so spiegare bene, ci vorrebbe un intellettuale.
Nel caso di NMPL è stato un po’ diverso perché avevo l’aiuto della voce narrante di Danilo, certe cose le raccontava lui con le SUE parole e io potevo essere un po’ più a margine e meno insistente nello spiegare proprio tutto-tutto con le immagini. Questo mi ha concesso di provare soluzioni grafiche (per me) nuove e divertenti, deviando un pochino da quel realismo marcio che finora aveva (secondo me) caratterizzato i miei fumetti.
La ricetta per la felicità.
Questo fumetto nasce con entusiasmo e gioia, nonostante le vicende di Danilo.
Era una storia che avevo annotato su un post-it e subito dopo perso in fondo alla tasca di una giacca, c’era finita anche se mi piaceva, chissà perché; poi, quando Pasquale mi ha chiesto una storia dove venisse fuori “la mia scrittura” mi è ritornata in mente quella che all’epoca avevo in mente che fosse una versione truce de “L’uomo che cammina” di Taniguchi (una grande rottura di palle ma poeticissima), allora sono andato a ripescarmela.
Ho scovato quell’appuntino tutto accartocciato, insieme a una banconota da 5 euro, ho stirato per bene entrambi i foglietti con le dita, e da lì ho iniziato a scrivere veramente, era Novembre. La storia definitiva l’ho scritta in pochissimo tempo, e sono stato abbastanza rapido a disegnarla (grazie all’iPad) da riuscire a non avere il tempo di annoiarmi. Durante la realizzazione il numero delle pagine previste è quasi raddoppiato (da 160 a 245), proprio perché il racconto si è preso gli spazi che gli parevano.
È stata una bella discesa, con dei salti, dei giri della morte, e degli ostacoli divertenti, tanto che avrei fatto ancora altre 100 pagine; un po’ Danilo mi manca, mi piaceva pensare come lui, inventarmi le sue storielle del cacchio e provare a disegnare come avrebbe disegnato.
In questo viaggio nel Giappone normale ho imparato che è praticamente quasi impossibile rimanere delusi se si cerca di non aspettarsi molto (meglio ancora niente), per esempio se hai fame di brutto e sai che nello zainetto hai solo una polpetta di riso ma aspetti di avere ancora più fame di mangiare, allora diventa buona di brutto anche quella polpetta di riso con un’alga intorno e manco niente dentro, e le cose buone fanno essere contenti.
Se per esempio è tutto il giorno che cammini lungo un fiume in secca, e dopo ore di terra impolverata e sassi, svolti un’ansa del fiume aspettandoti un’altra distesa di terra e pietre e invece c’è un gruppo di garzette bianche che pucciano le piume in un punto dove c’è finalmente dell’acqua, e allora, anche se ti fanno male le gambe, ti fai ancora due ore lungo la riva solo per godere dei riflessi degli alberi sull’acqua, che dopo tutti quei sassi sono fighissimi, e le piante che sono più verdi invece che gialle e puoi contare gli uccelli acquatici e un fiume nel niente diventa una cosa bella, e le cose belle fanno essere contenti.
Forse non me l’ha nemmeno insegnato il Giappone normale, forse me l’ha insegnato Danilo, anzi, forse lo sapevo già.
È la ricetta per la felicità più marcia che mi viene in mente e non funziona nemmeno sempre.
Grazie, ciao,
Paolo.
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Intervista a cura di Angelo D. Ascani
Editing di Matteo Contin
Fotografie e gif di Paolo Cattaneo
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/](https://blog.becomix.me/sfighe-e-privilegi-paolo-cattaneo-su-non-mi-posso-lamentare/ "Permalink")
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Empanadas: la ricetta perfetta
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Empanadas: la ricetta perfetta
Tutto è partito con le empanadas argentine.
Poi sono arrivate le domande. Origini, tratti distintivi, ingredienti, tecniche di cottura: anche se so che non me la caverò, sebbene alla fine abbia scelto lo strutto.
Essere un’empanadas
Essere un’empanadas cosa vuol dire? Quante volte ci hanno detto che sapersi presentare è importante e che la prima impressione conta? Ammetto di non eccellere in questa attività, ma provo a descriverti un’empanadas.
Pare un panzerotto, ma non so se quelli del Panzerotto Blues a Londra potrebbero gradire questo accostamento. Pugliesi sono e quindi son capaci di trovare mille e più differenze.
Il panzerotto candidabile a patrimonio dell’Unesco
Non mi azzardo a dire che le empanadas sono un po’ come i cjalsons friulani o i pierogi dell’Est europeo. Impasto diverso ed uso diverso.
Sì, tutti e tre si mangiano, ma le empanadas di certo non sono un primo piatto. Ricadono più facilmente nella sfera indefinita ed indefinibile dello street food, al pari dei panzerotti.
Ho sentito qualcuno dire che le empanadas sono dei fagottini di pane. Ammetto che neanche questa voce mi ha convinto. Il pane è sinonimo di lunga lievitazione, che qui non c’è. L’impasto deve riposare, ma nulla più.
Secondo taluni bisognerebbe anche specificare perché le empanadas non debbano confondersi con i tacos. Sai, questi nomi spagnoleggianti creano confusione. Ma in realtà è un falso problema. I tacos sono più tortillas che mimano le empanadas solo quando sono piegati a metà.
E se ci fosse un po’ di pie nelle empanadas? No, non ancora pie, tart, cake. Me lo voglio risparmiare questo discorso.
Ma… mannaggia ai ma! Esiste un libro dal titolo sottilmente provocatorio: Empanadas: The Hand-Held Pies of Latin America.
Genealogia di un’empanadas
Forse per chiarirci le idee ci vengono in aiuto le origini delle empanadas. Ah, illuso. Sono settimane che conduco una ricerca senza fine.
Mi fido giusto di Claudia Roden, foodwriter di origini egiziane, e forse ho visto le empanadas in Galicia, forse persino a Santiago de Compostela.
Però, poi vedo le empanadillas valenciane e delle isole Baleari e mi convinco che devo ancora viaggiare molto. Molto di più, tanto che le empanadillas vengono servite anche a Cuba.
E se son spagnole, poi sorge subito il sospetto che le empanadas abbiano origini arabe. Il cumino sembrerebbe confermarlo. Vogliamo, anche, parlare del senso dell’uvetta? Essenziale!
Ma poi, quanto di queste origini è arrivato nel Nuovo Mondo. Qui, Dissapore mi ha dato della Farina Molino Quaglia Petra Tipo 1 e mi ha mandato sulla strada delle empanadas argentine. Ancora mi domando: sapeva che avrei potuto utilizzare della farina di manioca, come fanno talvolta ai Caraibi?
Cuocila questa empanadas
Prima di cuocerla dimmi che cosa può finire dentro un’empanadas. Lo chiedo a te, perché tutti sembrano avere una loro opinione a riguardo. Dalla carne al pesce, passando per le verdure.
Abbiate pietà di me ecuadoregni: ho letto delle vostre empanadas de arroz (riso).
E pure a voi, della Costa Rica, chiedo un po’ di pazienza per non fare le empanadas de Platàno (banana). E poi, perché, non mi viene data l’opportunità di far giungere le empanadas al tavolo del dolce? Solo perché non ho il camote (patate americane)?
Ma non è vero. Ho le patate dolci. Saranno identiche a quelle messicane?
E ancora: le friggi o le getti nel forno queste empanadas? No, perché sai, io ho preferito infornare il tutto, prima di espormi alle intemperie dei commenti liberi. E per colpa degli stessi consigli, alla fine ho copiato un concorrente.
Se per lo strudel, la presenza dell’olio extra vergine d’oliva aveva fatto rizzare qualche antenna, ora lo strutto cosa farà nell’impasto delle empanadas?
Strudel di mele: la ricetta perfetta
Mentre il ripieno è un adattamento delle empanadas argentine di Bon Appetite. Ci tengo a sottolineare adattato, dato che ho seguito pure i consigli di una 83enne. Mai sentito parlare delle empanadas de Tucumàn? Quanto vorrei avere la ricetta custodita da Sara Figueroa, cuoca e campionessa di empanadas.
Sara, dall’altro dei suoi 80 e passa anni, consiglia di bollire il ripieno per 40 minuti e di friggere bene la cipolla senza ricorrere a grassi aggiunti. E ha pure svelato che spezie da utilizzare: pepe, cumino, peperoncino e sale.
Dici che un po’ di chicha, la bevanda fermentata, me la sono meritata con queste empanadas?
La ricetta perfetta
Ingredienti per l’impasto 300 g di Farina Molino Quaglia Petra Tipo 1 85 g di strutto a temperatura ambiente 2 g di sale 1/2 cucchiaio di pimenton agrodolce 85-95 ml acqua tiepida
Ingredienti per il ripieno 1-2 cucchiai di olio extra vergine d’oliva 1-2 scalogno (a seconda delle dimensioni) 2 peperoni (1 rosso ed 1 giallo) 360 grammi di carne macinata mista ¼ di cucchiaino di cumino in polvere pepe nero macinato sul momento 1 cucchiaino di scaglie di peperoncino 1 cucchiaino di sale 1 cucchiaio di zucchero di canna 30 grammi di uvetta sultanina
Preparazione dell’impasto Il giorno prima mescolare assieme la farina, il pimenton ed il sale. Impastare il tutto con lo strutto, aggiungendo man mano l’acqua. L’impasto finale deve risultare liscio ed elastico. Il pimenton lo colorerà ed il suo aroma ti distrarrà.
Avvolgere l’impasto nella pellicola alimentare e metterlo in frigo per una notte.
Preparazione del ripieno Preparare le verdure. Pelare gli scalogni e tagliarli prima a fette sottili e poi a dadini. Pulire i peperoni e tagliare anch’essi a dadini.
Versare l’olio extra vergine d’oliva in una padella Soffriggere gli scalogni su fiamma media per 5 minuti circa. Togliere dal fuoco.
In un’altra pentola versare poco olio extra vergine d’oliva ed aggiungere i peperoni. Cuocerli per 6-8 minuti. Poi unire la carne macinata e mescolare. Unire lo scalogno con il suo olio.
Mescolare. Insaporire con le spezie (cumino, pepe, peperoncino) ed il sale. Mescolare. Unire anche lo zucchero e l’uvetta. Continuare la cottura per 20-25 minuti avendo cura di mescolare e regolare la fiamma.
Non dovrebbe essere necessario aggiungere il brodo previsto da Bon Appetite. Ci tengo a rispettare il dettame di Sara Figueroa in merito al fatto che il tutto si deve cuocere nel suo grasso (con poco olio extra vergine d’oliva).
Terminata la cottura, trasferire il tutto, grasso incluso,in un contenitore adeguato per il frigorifero. Lasciar riposare almeno 3 ore.
Preparazione delle empanadas Preriscaldare il forno a 190-200°C.
Dividere a metà l’impasto e stenderlo fine con un mattarello. Questa operazione va ripetuta per ogni metà dell’impasto. Sarà utile infarinare il piano di lavoro.
Tagliare con un coppapasta delle empanadas di 12-15 cm circa di diametro. Se come succede a me, il coppapasta è più piccolo, una volta tagliate le empanadas stenderle ancora un po’ con un mattarello.
Porre al centro di ogni empanadas una bella cucchiaiata di ripieno. Piegare a metà l’impasto e chiuderlo su se stesso.
(PS. Sì, lo so, parliamo di quanto ripiano metterci…sono pronta ad abbondare ancora ed ancora.)
Solo per velocizzare l’operazione, bagnare i bordi interni con poca acqua. Schiacciati i bordi, sigillarli con i rebbi di una forchetta o arrotolandoli su se stessi.
Punzecchiare le empanadas sempre con i rebbi della forchetta.
Cuocere in forno caldo a 190-200°C per 20-25 minuti circa.
E ora, buon appetito!
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unwinthehart · 8 months
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e metti la storia, cancella la storia, rimetti la storia
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