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#aiuto 'li comunisti
sikomoro · 7 years
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Da questo post: https://piximus.net/fun/these-people-picked-the-weirdest-places-to-sleep — del 2014 — pieno di foto carine di persone che dormono nei modi e nei posti più inconsueti, i nostri involontariamente comici amici ultra-nazionalisti di tumblr hanno ripubblicato da un loro fidato di twitter questa sopra ⬆ rappresentante, secondo loro, un immigrato. Questi tizi, nella loro strumentale xenofobia, vedono nell'immigrato senza averi o rifugiato che sia, quello facile da attaccare (la storia dei grandi demagoghi del ‘900 insegna) ma non disdegnano le merci provenienti dai loro ricchissimi e saccheggiatissimi paesi, che disprezzano, come se i loro e i nostri avi non provenissero da quelle parti (odierna Etiopia e dintorni) Quindi hanno scritto più o meno: ecco cosa fanno le risorse che ci dovrebbero pagare le pensioni. Cioè…se dovete spararle sempre queste cazzate per farci prendere paura o disgusto che sia… almeno verificate, no? Che vi costa, scansafatiche! Tra l'altro, come capire la provenienza del tale in questione? Non sarà che siamo tutti un po’ uguali? D'accordo che qualcuno di voi ha scoperto la propria umanità e fratellanza :D solo dopo che uno della temibile famiglia Spada ha dato una terribile testata ad un cronista che l'ha mandato all'ospedale. La simpatia, però, va al picchiatore! Ma come? Mi fa piacere (mafia e casa pound a parte) che qualcuno di voi abbia riscoperto quella cosa misteriosa chiamata empatia… che se uno poi ne ha poca se non è proprio stronzo la rinforza con un goccio di etica, che non fa schifo… e la Famiglia Spada è di origine Sinti… e questo va finalmente a vostro favore (casa pound e mafia a parte). Non faccio nomi per non farvi pubblicità. I tempi sono strani. Grazie a chi ha scoperto l'inghippo, Rido 😀 perchè voi eravate seri.
https://piximus.net/fun/these-people-picked-the-weirdest-places-to-sleep Perchè questa volta non avete linkato l'articolo de Il Giornale che parlava della famiglia Spada?
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toscanoirriverente · 3 years
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Gennaro Acquaviva, è stato capo della segreteria politica di Craxi dal 1976 e poi suo consigliere politico a Palazzo Chigi. È quindi uno dei testimoni privilegiati di quell'autentico passaggio d'epoca, il rapimento di Moro e la fine della Prima Repubblica, sul quale si continua a riflettere. È un uomo e un dirigente politico schietto e diretto nelle sue posizioni. Cattolico, socialista, oggi presiede la Fondazione Socialismo e dedica il suo lavoro alla ricostruzione, con preziosi volumi, della vicenda del suo partito in quegli anni cruciali.
Quando inizia per te la fine della Prima Repubblica?
«Dopo Moro, il crollo è la conseguenza quasi obbligata. La Prima Repubblica finisce perché finisce il sistema che l'ha ordinata e che non si riesce a cambiare: sempre al governo un partito di centro e sempre all'opposizione una forza rappresentativa, grande e democratica, ma che non poteva mai andare al governo perché rimaneva comunista; e con i socialisti che non riescono a prendere i voti che gli servono.
La realtà che si costruisce nel '45-'48, è decisiva. Il Partito comunista rimane condizionato dall'Unione Sovietica con tutti i vincoli e le paure che persino e nonostante Berlinguer permanevano. Era un dato oggettivo: esisteva una parte della classe dirigente comunista del Pci che era in un rapporto di filiazione, di amicizia e di fraternità con il sistema dell'Est. Questa cosa permane, inevitabilmente. La sostanza è che questo rapporto blocca il sistema, nel senso che la democrazia è un sistema complesso che senza alternanza non sta in piedi. Una realtà che alla fine produce anche corruzione, inevitabilmente».
La democrazia dell'alternanza era la vera Seconda Repubblica?
«Secondo me Craxi in qualche maniera è un sostituto-prosecutore dell'opera di Moro indirizzata a favorire l'evoluzione del sistema politico che doveva indirizzarsi verso una democrazia dell'alternanza. Uno dentro e uno fuori, io all'opposizione e tu in maggioranza. Uno schema bilanciato. Non ce la fa il Pci a trasformarsi aiutato da Moro, nella prima metà dei Settanta.
Moro viene ucciso anche per questo, per averci provato pur dentro una Guerra fredda che ritorna. E la mano passa a Craxi. Perché Craxi ha la fortuna di incrociare il cambiamento della politica estera americana con gli euromissili. La forza di Craxi nasce nel '79, con gli americani che scoprono l'Eni-Petromin, per fare fuori Andreotti; con il Preambolo nel febbraio '80 per far vincere la linea anticomunista nella Democrazia cristiana. Diventa così, un po' casualmente, ma anche intelligentemente, l'uomo degli americani e di conseguenza l'uomo decisivo per tutti gli anni 80».
Secondo te perché Moro viene rapito? Perché lui e perché quel giorno?
«Perché è l'uomo che può cambiare il sistema "convertendo" i comunisti e portandoli al governo. Lo avevano ammonito duramente a non farlo più volte nel 1975, e poi ancora a giugno del 1976 durante il vertice mondiale a Portorico, quasi nessuno lo ricorda. L'Italia, e personalmente Moro presidente del Consiglio, vengono lasciati fuori della porta mentre i grandi dell'Occidente discutono proprio del "pericolo Italia"».
Schmidt in particolare glielo disse, era un socialista...
«C'è un preannuncio, oggi potremmo dire drammatico. Moro, per gli americani e per gli equilibri del tempo, è un rompiscatole. La Guerra fredda non era uno scherzo, c'erano l'Alleanza Atlantica e il Patto di Varsavia. Il Pci dentro la Nato dava fastidio a tutti. Non so chi, non so come, ma sono certo che le Br sono state manovrate, prevalentemente dal Kgb. L'infiltrazione sovietica nell'area della protesta violenta era evidente. Nel gruppo romano non lo so, non credo. Ma nelle Br in genere penso di sì. Bisognerebbe chiedere a Moretti».
Tu allora cosa facevi?
«Ero il capo segreteria della direzione e lavoravo con Craxi».
Mi racconti del tentativo di Signorile e del Psi?
«Signorile sa le uniche cose serie e le ha raccontate».
Formica e Signorile nelle loro interviste mi hanno detto che avevate avvertito in quei giorni sia Cossiga che Leone.
«Craxi lo disse anche ad Andreotti. Ne sono certo».
Signorile dice di essere rimasto sorpreso dal fatto che nonostante tutti sapessero dei suoi contatti, nessuno fu pedinato. Tu che idea ti sei fatto di quei giorni?
«C'è un episodio che non posso dimenticare. Freato una mattina viene in Direzione e porta a Craxi una lettera di Moro. Mancano quindici giorni alla morte. Io rimango lì perché ero ansioso di sapere.
Lo vedo uscire. Mi chiama Craxi e lo trovo che sta piangendo, nella sua stanza, con la lettera in mano. Ha le lacrime agli occhi e quasi butta verso di me questa lettera dicendo: "Adesso arriva quello della polizia e la deve sequestrare. Fai una copia". Naturalmente non c'erano le fotocopiatrici all'epoca. Chiamiamo un fotografo di corsa e facciamo un'istantanea del testo.
Dopo dieci minuti arriva Spinella, che allora era a capo della Digos. Immagina: io con questa lettera in mano, Craxi che piangeva come un cavallo. Consegno il testo come se fosse sangue di Gesù Cristo. Ma rimango basito dalla reazione del capo della Digos: prende la lettera, neanche la guarda e se la mette in tasca. Rimane in piedi nella mia stanza, non vede l'ora di andarsene. Mi dice solo: "Ma che caspita! Ma perché ci state a far perdere tempo! Ma che è sta roba! Insomma è tutto deciso, non c'è niente da fare, smettetela di rompere le scatole, di far perdere tempo a tutti". Prende e se ne va. Era un bravo poliziotto, sia chiaro.
Ma era evidentemente impregnato del clima di quei giorni, del mondo in cui operava. Che probabilmente lo aveva dato per morto il giorno stesso in cui l'hanno preso. Ma come? Tutti sapevano che Signorile incontrava degli emissari dell'autonomia e nessuno segue lui o loro? E Gradoli, il rubinetto dell'acqua, il lago della Duchessa? Quel giorno, con il depistaggio eseguito dalla banda della Magliana, si vede chiaramente che c'è qualche cosa sotto.
Andreotti e Cossiga erano oggettivamente nella condizione di chi pensava o era costretto a pensare che la ragion di Stato, ammesso che tale fosse, dovesse prevalere sulla prospettiva della liberazione di Moro. Andreotti, che era più cinico e duro, va avanti come se niente fosse, Cossiga vive una autentica sofferenza. Cossiga assiste alla tragedia, al calvario. Perché avviene questo? Non posso saperlo. Forse perché c'era stato Portorico. C'è la rinascita della Guerra fredda, dietro».
Sia Moro che Berlinguer avevano, come dici tu, rotto le scatole agli americani e ai sovietici.
«Sì, anche Berlinguer era nel mirino dei sovietici. E la storia dell'attentato in Bulgaria è vera. È un tempo di nuove relazioni anche tra Pci e Psi sulla politica estera. A parte Sigonella c'è il dibattito parlamentare nel novembre dell'83 alla Camera sugli euromissili con Craxi che dà quasi ragione a Berlinguer, perché dichiara attenzione all'emendamento per tornare a trattare senza installare automaticamente.
Anche se poi il movimento pacifista continua e si accentua. Napolitano in un convegno nostro sulla politica estera del 2002 lo ha ricordato come un grande momento di dialogo. Capisco che Craxi stava sulle scatole a tanta gente, che i socialisti apparivano dei supponenti e antipatici di natura loro, però quando erano in ballo gli interessi superiori, quelli della Nazione, ci si ritrovava».
Che ruolo ebbero i consulenti americani?
«A settembre del '79 vado negli Stati Uniti su invito del governo americano; mi fanno anche fare il solito giro degli uffici competenti. Il messaggio diretto per Craxi me lo dette un ambasciatore mentre mi salutava sulla porta, prima che partissi. "Dipende tutto da Craxi, glielo riferisca" mi disse.
Si chiamava George Vest, è stato un grande ambasciatore, ed allora era il capo dell'ufficio Europa del Dipartimento di Stato. Noi avevamo capito che non c'erano solo dei monoliti a Washington, c'erano dei partiti, nel potere, che prescindevano dalle presidenze democratiche o repubblicane. C'era continuità, comunque, nella gestione del rapporto con l'Urss, con l'Europa, con la Guerra fredda. Cossiga e Andreotti avevano delle entrature storiche di alto lignaggio ed erano visti da lì come interlocutori forti. Ma i loro universi di riferimento erano spesso diversificati.
Andreotti stava con un mondo più progressista, sembra assurdo ma era così. Ovviamente a parte Vernon Walters, il suo amico d'infanzia. Cossiga guardava dall'altra parte. E durante la vicenda Moro chiese un aiuto e gli mandarono quel tizio che sembrava preoccupato solo di gestire la morte di Moro, non di liberarlo. Perché?».
Il sacerdote Don Mennini andò da Moro ?
«Non ho prove ma probabilmente sì. Il canale vero della Santa Sede era però il cappellano delle carceri attraverso cui si cercò di imbastire una trattativa. E questi gli avevano quasi detto di sì, perché il canale era robusto. Erano più seri, più dentro e più discreti e probabilmente una parte di quelli che tenevano Moro con i soldi ci sarebbero stati. Anzi, sicuramente. E i soldi a Castel Gandolfo c'erano. Li hanno visti, non dico che li hanno contati, ma hanno visto la stanza piena».
L'incontro Craxi-Zaccagnini come fu? Tu c'eri?
«Ero fuori dalla porta, non sono entrato. Era domenica e Zaccagnini chissà perché venne quel giorno, non c'era nessuno. Craxi lo ricevette al Partito. Dovemmo passare dall'entrata posteriore, usare l'ascensore di riserva, perché non c'era il portiere. Zaccagnini era teso, provato.
Parlarono mezz' ora. Craxi illustrò la proposta dello scambio. Questo era il tema. Zaccagnini era andato a sentire, incuriosito e forse desideroso di agire. Quando esce, è commosso, quasi piangente, e quando siamo sulla porta io gli dico: "Tanti auguri e forza, ne usciremo". Gli do del tu, lui mi guarda: "È difficile, difficile".
C'è due giorni dopo un incontro formale. La Segreteria democristiana e la Segreteria socialista si incontrano a piazza del Gesù, stanno chiusi cinque ore anche perché Craxi vuole far vedere ai giornalisti che li tiene stretti, li tiene al tavolo. Finalmente escono tutti. Ma sono rabbuiati, incazzati, preoccupati. Cipellini, il presidente del gruppo Psi del Senato, quasi mi grida che si è rotto e aggiunge: "Dicevano in continuazione 'non si tratta, non si tratta'. E allora io gli ho ricordato la grazia a Moranino! Non vogliono assolutamente nessuno scambio"».
Pci e Psi, conflitto perenne ed eterno?
«C'è l'incontro delle Frattocchie nell'83. Fu un'occasione in cui i due partiti forse potevano recuperare un rapporto. Craxi non voleva farsi attaccare troppo in campagna elettorale, era già stato arrestato quello di Genova, Teardo. Il Pci, passato all'alternativa, non voleva litigare con i socialisti.
Stanno lì una giornata a discutere, fanno colazione insieme alle Frattocchie e durante la pausa poi si mettono a parlare più liberamente. Fanno un comunicato, alla fine, di rilancio del dialogo in cui si dice addirittura, dopo aver denunciato il concentrarsi di attacchi contro le giunte di sinistra: "Alcune delle iniziative giudiziarie in corso non possono non suscitare, in questo quadro, forti dubbi di strumentalizzazione.".
Craxi prende sottobraccio Reichlin e gli sussurra: "Perché non convinci Berlinguer a venire a Milano a trovarmi e lo porto io in giro un paio di giorni e gli faccio vedere come è davvero l'Italia di oggi? Come la gente sta bene, vive, lavora, sfrutta il prossimo, si arricchisce, stanno tutti come papi". Leggevano la società italiana in due modi molto diversi».
Quando morì Berlinguer Craxi come reagì?
«Siamo a Londra, una visita ufficiale alla Thatcher. Verso le dieci, dieci e mezzo di sera torniamo in albergo, nella hall ci sono tutti i giornalisti pronti a bloccare Craxi e lui si mette lì a parlare.
Da pochi giorni c'è stata la rottura sulla Scala mobile. Io me ne vado a letto perché non mi va di stare lì, ma immagino che abbia criticato duramente Berlinguer. Sono a letto, verso mezzanotte mi telefona con la voce strozzata dicendo: "Vieni qui, corri". Corro là pensando che stesse male. È ancora vestito e mi dice "Berlinguer sta per morire, ha avuto un malore mentre faceva un comizio, sto parlando col prefetto di Padova, mi sta richiamando per dirmi come sta.".
Era come impazzito, andava in giro per la stanza con le braccia alzate come un matto. Può darsi fosse anche preoccupato per quegli attacchi, ora sgradevoli. Ma era davvero addolorato, era uno come lui, della sua generazione, che se ne stava andando. Uno con cui aveva combattuto ma che stimava, sentiva dalla stessa parte. Craxi con la morte ha avuto sempre un rapporto difficile, si ritraeva nel giudizio. Anche quando doveva fare una commemorazione, per esempio di Nenni, quasi non riusciva a parlare, commosso e teso pensando al dopo».
I fischi a Verona. Condividesti la frase di Craxi che li rivendicò?
«Tecnicamente ha fatto una fesseria. Ha detto una cosa in cui credeva profondamente, anche con ragioni, che però era del tutto inopportuna. Su questo non c'è dubbio, io non l'avrei detta. Stiamo nella fase più brutta dei rapporti a sinistra. C'è lo scontro sulla Scala mobile, che divide anche la Cgil e quindi il Pci. Una cosa oggi incomprensibile perché poi, nel profondo, il Partito comunista era d'accordo sull'abbassare l'inflazione, come si faceva ad andare avanti col venti, venticinque per cento di aumento del costo della vita?
Era una situazione del Paese che il loro senso di responsabilità nazionale non poteva tollerare alla lunga e che avrebbe colpito i più poveri. Ma era Craxi a proporlo e Craxi era l'avversario. Craxi non avrebbe voluto mai rompere, fino all'ultimo tenta disperatamente di non rompere, non vuole rompere.
Quando, due anni dopo, De Michelis gli porta la legge sulle pensioni, che avrebbe anticipato la riforma di dieci anni dopo, lui non lo aiuta. Sai perché? Perché non vuole tornare a litigare».
Quando è che Craxi capisce con Tangentopoli che è finita?
«Agli inizi degli anni 90 Craxi è sempre meno lucido. I cinque anni dopo il 1987 sono stati per lui anni difficili, soprattutto perché ha scelto di aspettare il suo turno, dopo la Legislatura "riservata" alla Democrazia cristiana. Certo non gli mancavano vitalità, combattività ed anche lucidità ma contemporaneamente aumenta il suo pessimismo "naturaliter".
Lui ha visto il gioco del potere mondiale al di là del sipario: tutto, dentro e fuori, il buono il cattivo. Ed è anche la condizione degli uomini. Allora questa fragilità umana rispetto al potere quasi lo demoralizza, nel senso che lo rende ancora più perplesso, io dico pessimista. Ma dopo il 1992 si sente anche abbandonato e tradito. E questa condizione lo porta a chiudersi ulteriormente; apparentemente è sempre se stesso, il battagliero, il leader che ha capito tutto e tutto domina. Ma dentro di sé ha profonde incertezze. Alla fine perde lucidità di analisi, travolto dagli avvenimenti e anche abbandonato da chi lui credeva più vicino. È la fase finale».
L'autocritica che i socialisti possono fare guardando la loro storia quale è?
«Noi avevamo l'occasione un po' fortunosamente di cambiare il sistema negli anni 80 e non l'abbiamo colta. Perché c'era una fase di decadenza dei due maggiori partiti, soprattutto i comunisti, e nessuno ci ha veramente aiutato a prendere i loro voti, a partire dai preti. Il campo era potenzialmente sgombro e noi avevamo il leader migliore che c'era sulla piazza.
Ed eravamo anche il gruppo dirigente più intelligente e più moderno d'Italia. Ma non avevamo i voti. Alla fine i recinti democristiano e comunista in fondo tengono, anche se ammaccati. Per me il momento decisivo è dopo la crisi del 1987, il punto più alto della confusione democristiana e della autorevolezza di Craxi.
Lui allora doveva avere la forza di dire: "Io sono il bene, questi sono il male. Io sono la nuova Repubblica, l'Italia moderna e ve l'ho dimostrato con il buon governo di quattro anni e questi mi vogliono mandare via". Purtroppo Craxi era innanzitutto un uomo di partito, nato nel partito e incapace di comprendere un'azione, una rivoluzione senza di esso. "Io contro i partiti! E come faccio? È la mia vita il mio partito"». Rinunciò ai voti, ma non a se stesso.
Sinistra DC + PCI --> PD Grandi motori autoinculanti, prima, durante e dopo Moro.
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augustonovali · 3 years
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“No, è tardi, troppa carne al fuoco. Te ne parlo un’altra volta. Adesso torniamo ai figli di papà. Allora, grosso modo si dividono in due tipi…” Sergio lo seguiva attento.
“Il primo tipo, quello che io definisco “genetico”, sono i figli di papà nati da figli di papà. Sono convinti delle stronzate che fanno. Li vedi subito. Loro non è che ti guardano in faccia e non ti salutano. No. Semplicemente non ti vedono. Ti passano davanti e non ti vedono. Vengono da una scuola antica, sono “educati”, si fa per dire, sin da piccoli in una certa atmosfera, sentono l’aroma del privilegio, respirano, come il caffè sottovuoto, in atmosfera modificata. Fanno discorsi tipo “questi comunisti del cazzo…” senza sapere nemmeno che significa comunismo o fascismo o altre stronzate del genere. Respirano il potere sin dalla culla, non hanno la più pallida idea del significato di termini come lavoro, economia, politica. Non gliene potrebbe fregare di meno, non hanno bisogno di saperlo. Spendono soldi che non si guadagnano, senza sapere nemmeno da dove arrivano, e mantenerli costa quanto può costare mantenere una famiglia di operai.  Per farti un esempio: se capita che hanno bisogno di te, in qualunque occasione, non hanno nessuna difficoltà a salutarti, a sorriderti e chiedere. Se sei allenato e li conosci, come me, allora noti le differenze. I figli di papà “genetici” se hanno bisogno di te, del tuo aiuto, non si fanno nessun problema. Vengono, ti salutano, accennano un sorriso, ottengono quello di cui hanno bisogno e poi ritorni a non esistere. Gli altri, quelli del secondo tipo, quelli che chiamo “di prima generazione”, bene, anche quelli ti vedono, ma non ti cagano. Ma nel momento in cui hanno bisogno, nonostante il sorriso, i modi cordiali, sono a disagio. Gli costa cambiare atteggiamento per necessità. Gli altri no. Quelli genetici, per dirti, ti guardano in faccia e ti passano davanti senza nemmeno salutare. Per loro non è un fatto di buona educazione, di anzianità, di chi viene da fuori o cose simili. No. E’ un fatto di soldi, di potere. “Papà ha la grana.” Oppure “Papà è un pezzo grosso, quindi tu che sei un morto di fame devi salutare per primo. Sempre. Comunque. Altrimenti io ti passo davanti, ti guardo in faccia e nemmeno ti cago.” Quelli di prima generazione, alla fin fine, sono i meno pericolosi, sono i più innocui perché, in fondo loro lo sanno di fare una cazzata. Però sono così smaniosi di cominciare a godere del privilegio di essere i figli del papà, che, anche se sanno di sbagliare, lo fanno lo stesso perché, appunto, “Io sono il figlio di papà.” Si era evidentemente infervorato e Sergio pensò che chissà, magari avesse avuto molte esperienze antipatiche lì al circolo e, giusto per fargli fare una pausa, per farlo rilassare un attimo, lo interruppe...
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Se uno con patologie renali a cui dottore dice BEVI TANTO arriva #asltorino e dice che 9 crodini 11 lattine (red bull e lemonsoda) E 20 bottiglie di acqua valmora, che non posso bere #acquapubblica Torino piena di CALCIO e io non sono calciatore, lo ero, insomma queste bevande secondo loro sono Accumulare (forse hanno scordato che lockdown gente esce poco e fa scorte, dimentica presto l'uomo) secondo me voi siete da ricoverare al reoartino esiste una patologia psichiatrica che si chiama MANIACI DELL 'ORDINE dovete trasferirvi in Germania est li si che sareste a vostri agio ma qui siamo in Italia non ancora in Cina.... Se credete di zittirmi o intimorirrmi eheheh venite e sparatemi, DIRÒ SEMPRE SUI SOCIAL CIÒ CHE PENSO QUANDO A SBAGLIARE È DESTRA O SINISTRA O QUALSIASI RELIGIOSO O ATEO, restate sempre dei comunisti anti italiani, VEDETE, se io vedo all'estero un comunista italiano in difficoltà lo aiuto perché io sono mosso da amore, voi mettete prima la appartenenza religiosa o politica quindi siete mossi dall'odio mi dispiace ma oltre a essere malvagi siete come vostro capo satana dei perdenti e poveretti. ...... DON VITO IL RAPPER PIÙ VELOCE D'ITALIA...™ ® Emi music Italy © (presso Don Vito's Cats Bar Home) https://www.instagram.com/p/CWuRgxIoma5/?utm_medium=tumblr
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pangeanews · 6 years
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La verità – e i depistaggi e le omissioni – sulla morte di Aldo Moro. Il reportage (prima puntata)
Ho studiato a lungo le carte processuali del caso Moro e letto quasi tutti i libri in commercio. Ho parlato con i figli dello statista e con il giudice Fernando Imposimato. Sono andato sui luoghi della strage e della detenzione dello statista. Ho appuntato tutte le distorsioni di ciò che avvenne dal 16 marzo 1978 fino al 9 maggio: incongruenze, illogicità, depistaggi, omertà, omissioni.
*
Sul Tg2 un giornalista (era il bravo Giuseppe Marrazzo) intervistò i primi testimoni: una ragazza descrisse un uomo un pochino più alto di Moro che prendeva lo statista per un braccio. I terroristi erano molto calmi, non correvano, fu detto. La cosa strana è che sembrava di essere telespettatori di uno sceneggiato televisivo, di un poliziesco. Allora non si usavano termini come fiction o thriller.
Il 16 marzo 1978 cambiò il corso della Repubblica. Niente fu come prima. Niente poteva essere equiparato alla strage di via Fani. Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, unico caso per un uomo di Stato nell’Europa del dopoguerra, ha indirizzato la sorte della società internazionale in piena Guerra Fredda. Moro fu ucciso mentre era impegnato in una controversa fase politica che vedeva convergere forze democratiche diverse per assicurare al Paese un governo in grado di uscire dall’instabilità. I comunisti avrebbero votato la fiducia all’esecutivo presieduto da Giulio Andreotti. Il voto parlamentare era atteso proprio il 16 marzo 1978, lo stesso giorno della strage. E’ stato accertato che si trattò di un caso, eppure la coincidenza appare incredibile.
Ho rivisto più volte, nei filmati, il servizio di Paolo Frajese, come altri estrapolati dai telegiornali. Ho sempre avuto l’impressione che via Fani, seppure poco frequentata, fosse pur sempre un quartiere residenziale scomodo, disagevole per la fuga. Per quanto l’agguato fosse stato teso con una dimestichezza e una capacità organizzative fuori dal comune, le ricostruzioni non sono sembrate attendibili, stando a quanto riportato nei verbali degli inquirenti. Nel cuore di Roma non c’erano ancora telecamere e cellulari che potessero immortalare il momento esatto in cui i brigatisti spararono, ma emerse ben poco, come se ci fosse la volontà di dimenticare una pagina triste e assurda, di occultare la verità. Si venne a sapere ben presto che il giorno precedente il rapimento, la Sip fu stranamente allertata. Alle 9 del mattino del 16 marzo, una squadra di specialisti venne mandata in via Fani perché le linee telefoniche erano completamente interrotte. Nessuno sarebbe riuscito a telefonare tra gli abitanti del quartiere o tra i passanti in mezzo alla strada che videro l’agguato. La Sip ha sempre smentito, tanto che si è arrivati ad ipotizzare l’esistenza di una struttura alternativa, segreta, che determinò il blackout dei telefoni di Roma nell’ora in cui Moro fu sequestrato e la scorta freddata.
Interessante il rilievo che è stato fatto, in proposito, da Stefano Grassi nel libro Il caso Moro. Un dizionario italiano (Mondadori 2008), il quale conferma lo strano episodio: “La mattina del 16 marzo 1978 un improvviso blackout impedisce le comunicazioni telefoniche in tutta via Fani e via Stresa, favorendo la fuga del commando. Secondo il Procuratore della Repubblica, Giovanni De Matteo, l’interruzione sarebbe stata volutamente provocata. Durante i 55 giorni del sequestro alcuni comportamenti della Sip danno adito a sospetti. Il capo della Digos Domenico Spinella, sottolinea l’estrema inefficienza della Sip e la sua ostruzionistica passività durante il sequestro”.
Resta la mancata identificazione di alcune persone nel luogo della strage. Questa impressione venne avallata dal Pietro Lalli, che si trovava a circa 100 metri di distanza dai protagonisti della carneficina.
Scrive Sergio Flamigni, membro delle Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, nel libro La tela del ragno (Kaos 2003): “La presenza in via Fani, durante l’attentato, di due individui armati i quali, appena sterminata la scorta e catturato l’ostaggio, fuggirono a bordo di una moto Honda seguendo le auto dei brigatisti, è una certezza processuale. La Honda venne vista dal testimone Luca Moschini prima della sparatoria, vicina a due individui in divisa da avieri (e indossavano la divisa da avieri almeno quattro dei terroristi). Venne vista da un secondo testimone, l’ingegner Alessandro Marini, al momento del sequestro. Uno dei due motociclisti sparò proprio in direzione del Marini (infatti i brigatisti verranno condannati all’ergastolo per la strage e il delitto Moro, e per il tentato omicidio di Marini). Un terzo testimone, Giovanni Intervado, vide la Honda al momento della fuga del commando, e notò il caricatore di un mitra spuntare da sotto l’ascella di uno dei due motociclisti. Una moto Honda era stata notata, due, tre giorni prima della strage, parcheggiata in via Savoia, nei pressi dello studio privato dell’onorevole Moro, vicina a un furgone colore avana chiaro, fermo in posizione favorevole per osservare l’ingresso dello stabile. L’uso dell’autofurgone, dotato di sofisticate attrezzature spionistiche, rientra nel modus operandi dei servizi segreti”.
Oggi sembra certa la presenza in via Fani di un tiratore scelto. Mi sono promesso di ispezionare il luogo del delitto dopo più di un trentennio. Vedere i posti non è come prenderne visione attraverso il filtro dei giornali, dei libri e delle dichiarazioni. Le cose le si sedimenta nella propria esperienza visiva e cognitiva. Anche le ricostruzioni filmiche conservano una regia e un’ottica impresse, registrate da un altro sguardo. I luoghi preservano sempre qualcosa di inedito, come i palazzi, per chi li descrive. Una strada secondaria, anonima, è stata il palcoscenico temerario e più misterioso della Repubblica italiana. Ne ha scosso le coscienze e le ha modificate. Ha modificato anche la cronaca giornalistica, perché la verifica sul posto dell’accaduto, da quell’evento, è diventata un’usanza. Basti pensare alla diretta di Vermicino, dal 10 giugno 1981, con il piccolo Alfredo Rampi che cadde in un pozzo artesiano a Selvotta, una piccola frazione vicino a Frascati che collega Roma sud a Frascati nord.
Via Fani è un luogo banale e si lega ad un presente per nulla rappresentativo. Lo stesso vale per via Gradoli, il covo della Brigate Rosse, più volte citato durante i 55 giorni di prigionia di Moro, così come per via Montalcini, dove era stato ricavato il vano, strettissimo, nel quale il presidente della Democrazia Cristiana veniva tenuto prigioniero. E quindi via Monte Nevoso a Milano, dove in due fasi distinte è stato ritrovato il memoriale di quei giorni, con ogni probabilità autentico ma ancora incompleto. La storia dell’Italia è dunque anche la storia di ambienti abitudinari, non istituzionali. La prigione del popolo di via Montalcini è forse l’esempio più stupefacente, e in ultimo via Caetani, per l’epilogo alla detenzione al quale fece seguito l’esecuzione della sentenza.
Il luogo del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, nel giugno del 2013, è balzato di nuovo sulle pagine dei giornali per le rivelazioni di Vito Antonio Raso, l’antisabotatore che arrivò sul posto e che ha dichiarato che la sua opera fu richiesta ben prima delle 11 del 9 maggio 1978, e che si posizionò davanti alla Renault 4 rossa poco dopo quell’ora. La questione è decisiva, perché la telefonata delle Brigate Rosse che avvertiva di Moro chiuso nel bagagliaio, è delle 12.13. Dunque oltre un’ora dopo l’intervento.
Il notiziario dei 55 giorni, secondo la versione ufficiale, è pieno di contraddizioni. La cronaca e la storia, quindi, rimangono in bilico, attraversate da decine di versioni che ogni volta sono state messe in discussione, rilette, reinterpretate, smentite, avallate, riproposte, sconfessate. Loggia P2, Gladio, servizi segreti italiani e stranieri (in particolare inglesi e tedeschi) sono stati tirati in ballo innumerevoli volte.
La toponomastica ci insegna molto, per questo i luoghi bisogna visitarli. Un reportage è sempre un’analisi strutturale. Si lega all’attualità e aggiunge la descrizione e la riflessione. Credo che il caso Moro abbia bisogno di essere reimpostato a partire da un’idea di realismo inconfutabile.
La trasmissione “La notte della Repubblica” di Sergio Zavoli (dal quale è nato l’omonimo libro pubblicato da Rai-Eri – Mondadori 1992), mi è stata di aiuto. In quella messa in onda non c’è una sfasatura, un azzardo, un’avventata considerazione. Parlano i fatti nella loro crudeltà, le immagini più delle parole. Andò in onda in tre puntate culminate con l’intervista a Mario Moretti trasmessa il 28 febbraio 1990.
La prima puntata si apre con un uomo in bicicletta che trasporta il pane in una cesta. È l’alba di una giornata ventosa, a Roma. Un’alba in cui la città, lentamente, riprende il tamtam quotidiano. Si accendono le prime luci nei bar, nelle cliniche. Si aprono le prime finestre e si intravede, maestoso, il Cupolone svettare dai balconi più alti della città eterna. Sono gli anni di piombo che attanagliano la vita pubblica e privata dell’Italia. Siamo un paese occidentale sotto la tutela degli Stati Uniti, ma anche la nazione con un grande partito di sinistra che contende la supremazia elettorale alla tradizione cattolica impressa nello scudo crociato di Moro, Fanfani, Andreotti e Cossiga. C’è una crisi allarmante, politica ed economica. L’ideologia impone un’umanità più impegnata nella sfera sociale, ma il paese non sembra coraggioso né solidale.
Aldo Moro viene rapito e Giulio Andreotti è pronto a ricevere la fiducia al suo IV governo. Il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga alle ore 10.45 presiede al Viminale la prima riunione del comitato tecnico-politico-operativo e viene creato un nuovo comitato per la gestione della crisi costituito da un gruppo di esperti. Si diffondono le schede segnaletiche di presunti terroristi ricercati. Qualcuno risulterà in carcere, uno di essi è un informatore dei servizi di sicurezza e si è rifugiato all’estero. Un altro è a Bolzano da amici ed estraneo alla lotta armata. Un altro ancora risiede a Parigi. I posti di blocco, a Roma, sono disposti confusamente. Alla fine risulteranno essere 72.460, di cui 6.296 solo a Roma. Furono fatte 37.702 perquisizioni e controllate 6.413.713 persone, durante i 55 giorni del sequestro.
Si viene a sapere che Aldo Moro temeva per la sua vita e che era stato invitato a lasciare la politica, dopo il rapimento del figlio di Francesco De Martino, ex segretario socialista. Lo stesso collaboratore del presidente, Francesco Tritto, docente universitario, disse che Moro era ansioso in quanto temeva di poter essere oggetto di un attentato. Fece mettere i vetri anti-proiettili nel suo studio di via Savoia.
Prende strada la cosiddetta linea della fermezza. Il 16 marzo ci sono dichiarazioni parlamentari di tutti i segretari dei maggiori partiti.
Il brigatista Franco Bonisoli dirà, anni dopo, che le Brigate Rosse erano mosse solo dall’idea di promuovere un contro processo allo Stato, un contro altare nei confronti dello stesso gruppo eversivo. I militanti della colonna romana e il comitato esecutivo, durante la gestione del sequestro, volevano rivendicare la considerazione di essere un partito armato. La loro iniziativa, quindi, virava verso intenzioni politiche di stampo eversivo. Ma nessuno, a priori, aveva scartato l’ipotesi della trattativa, specie se ci fosse stata un’irruzione delle forze dell’ordine nell’appartamento di via Montalcini.
Il 18 marzo 1978 Franco Bonisoli aveva sceso una scalinata, preso un autobus. Era salito sul treno che da stazione Termini lo avrebbe riportato a Milano. La missione era compiuta. L’azione cruenta e la guerra civile giunsero al loro culmine. Su quel treno Bonisoli pensava che il gruppo aveva vinto la sua battaglia. Sentiva le sirene della automobili della polizia e il rombo degli elicotteri, mentre giungeva trafelato alla stazione. Poi più niente, se non la cantilena del treno. Voleva arrivare il più in fretta possibile a casa. Eppure il ricordo di Moro lo toccava, perché aveva constatato la dignità dell’uomo, la grande religiosità, quando chiese una Bibbia e di poter ascoltare la messa. Nell’agguato di via Fani Bonisoli faceva parte del commando travestito da aviere insieme a Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Prospero Gallinari. Teneva in mano un mitra che serviva per neutralizzare l’Alfa di scorta. Dopo aver sparato un caricatore, utilizzò anche una pistola Beretta 51 contro l’agente Iozzino che tentava di reagire. Pur non essendo un esperto di armi da fuoco, la sua azione in via Fani risultò perfetta. Il primo ottobre 1978 fu arrestato con Nadia Mantovani, Lauro Azzolini e Antonio Savino nel noto covo terrorista di via Monte Nevoso a Milano. Condannato all’ergastolo, si dissociò dalla lotta armata e attualmente usufruisce di un regime di semilibertà. Franco Bonisoli diventò amico di Indro Montanelli, tanto che fu l’ultimo a lasciare la camera ardente ai funerali, scrivendo alcune parole sul registro delle partecipazioni.
Il 14 marzo 1998 rilasciò un’intervista a Giorgio Bocca su “la Repubblica”, nella quale, riguardo l’agguato, disse: “Fu lo scontro frontale di due forme di mitizzazione. Noi pensavamo ai carabinieri, alla polizia politica come a dei corpi monolitici, addestratissimi. Loro pensavano a noi come alla potenza geometrica di cui si disse. La realtà stava a mezza strada. La nostra preparazione militare era modesta, qualche esercitazione nei covi o in montagna, ma la coesione del gruppo e la determinazione erano superiori a quelle di un normale commando. È vero, molti dei mitra impiegati nell’attacco si incepparono, ma la rapidità della esecuzione, la complessità della operazione furono notevoli”.
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Il comunicato numero 7 era un falso e fu preceduto da una telefonata al “Messaggero” che annunciò l’arrivo di un messaggio delle Brigate Rosse e la conclusione del periodo dittatoriale della Democrazia Cristiana che per ben trent’anni aveva tristemente dominato con la logica del sopruso. In concomitanza con questa data si comunicava l’avvenuta esecuzione del Presidente Aldo Moro, mediante suicidio. Si consentiva il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giaceva. La salma di Aldo Moro era immersa nei fondali limacciosi del lago Duchessa, altezza metri 1.800 circa, località Cartore, zona confinante tra Abruzzo e Lazio. Questo, stando al comunicato, sarebbe stato soltanto l’inizio di una lunga serie di suicidi.
Dopo cinque anni si scoprì che l’autore era stato Toni Chicchiarelli, falsario romano legato agli ambienti della Banda della Magliana e confidente dei servizi segreti, che verrà assassinato nel 1984 in circostanze mai del tutto chiarite. Si disse che il comunicato gli era stato commissionato per verificare quali effetti avrebbe suscitato nel Paese.
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Le Brigate Rosse proposero, attraverso il comunicato n. 8, di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi in quel momento in carcere, il cosiddetto fronte delle carceri, accettando di rilasciare Moro per un solo brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter aprire trattative alla pari con lo Stato. Un riconoscimento venne comunque ottenuto quando Paolo VI, il 22 aprile, rivolse un drammatico appello pubblico con il quale supplicava in ginocchio gli uomini delle Brigate Rosse di rendere Moro alla sua famiglia ed ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò doveva avvenire “senza condizioni”. Quel “senza condizioni” fu probabilmente fatto inserire in un secondo momento. Per Moro equivaleva alla condanna a morte.
Di grande impatto nell’opinione pubblica fu il messaggio precedente, appunto il numero 7. Il lago fu ispezionato, ma era ghiacciato e poteva essere raggiunto solo con gli elicotteri. A 1.800 metri di altezza, presso la località Carlore in provincia di Rieti, non poteva esserci nulla. Eppure, per effettuare il sopralluogo, fu mobilitato un ingente spiegamento di forze dell’ordine. Si apprese in seguito che sia la Democrazia Cristiana che il Partito Comunista avevano già pronti i manifesti di commemorazione e si attendeva solo il ritrovamento del cadavere per dare il via alle cerimonie funebri.
Un altro stucchevole episodio dei 55 giorni di prigionia, si rivelò il covo di via Gradoli. La polizia vi si presenta per la prima volta il 18 marzo 1978. Cinque poliziotti vi vengono inviati dalla Direzione generale di pubblica sicurezza ma si limitano a bussare alla porta, andandosene dopo la mancata risposta degli inquilini.
Il secondo episodio avviene il 2 aprile 1978, e attiene alla famosa seduta spiritica officiata da Romano Prodi nella campagna bolognese, nella residenza dell’economista Alberto Clò, durante la quale alcuni commensali attorno a un tavolo invocano gli spiriti di La Pira e don Sturzo, facendo muovere un piattino su un tavolo alfabetico e ricavandone le parole “Gradoli, via Cassia, Viterbo, 6, 11”. Prodi, solo dopo due giorni dalla rivelazione, riferì l’informazione alla segreteria della Democrazia Cristiana, la quale la trasmise al ministero dell’Interno. Iniziarono le perquisizioni nel paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo, senza trovare alcuna traccia. A nessuno verrà in mente di perquisire via Gradoli sulla Cassia. La moglie di Aldo Moro scoprì l’esistenza della via consultando le Pagine Gialle, mentre le era stato detto che non esisteva alcuna via Gradoli in tutta Roma. Il 18 aprile il covo viene scoperto dai vigili del fuoco che intervengono su richiesta dell’inquilino sottostante per una perdita d’acqua che filtra attraverso il soffitto, e certamente voluta. Si viene a sapere che nel covo di via Gradoli è stato trovato un piano di attentati della colonna romana delle Brigate Rosse: nomi, indirizzi, fotografie, elenchi di alti funzionari, industriali e uomini politici. Altri elenchi raccolgono le generalità di esponenti della Democrazia Cristiana senza specificarne la mansione.
Un altro episodio di rilievo fu l’appello lanciato da Lotta Continua e sollecitato dal gruppo “Febbraio ‘74”, sottoscritto da Davide Maria Turoldo, Gianni Baget Bozzo, Italo Mancini, Raniero La Valle, Heinrich Böll e altri. Turoldo dichiarò che non sapeva che farsene di uno Stato incapace di difendere Moro. Fu uno dei rari casi in cui si guardò all’uomo Moro e non allo statista, alla tortura morale nei confronti della persona, come ebbe a dire il direttore Pio Baldelli. Si metteva in luce la dolcezza apparente di Moro, il suo profilo di individuo. Parole che potevano essere accostate a quelle di Paolo VI che definiva lo statista “uomo buono e onesto”.
Quindi fu la volta del segretario dell’Onu, Kurt Walheim, che suscitò sconcerto. Chiese la liberazione del prigioniero a titolo personale e urgente. Era il 22 aprile, e il segretario parlò da New York. Walheim era disponibile a venire in Italia, a far sentire la sua presenza. Il messaggio fu trasmesso via satellite dalla televisione italiana.
Infine la posizione del Presidente della Repubblica Giovanni Leone, secondo la quale aveva già la penna in mano per firmare la grazia purché gli fosse proposta, come spesso ha dichiarato lo stesso Craxi. L’atto di clemenza era l’unica via percorribile per salvare l’onorevole Moro. Leone voleva firmare, come disse ad Eleonora Moro che gli aveva chiesto un intervento in extremis. Era nel suo studio con Cossiga. Gli disse che stava per telefonare a Zaccagnini. Cossiga bloccò la cornetta, confidando che tutto era registrato e che bisognava valutare bene il peso della telefonata. C’era il rischio che il Quirinale fosse criticato per interferenze.La campagna contro Leone divenne martellante. A combatterla furono giornalisti e politici, con i radicali in prima fila, cui si aggiunsero i comunisti.
Si arrivò all’epilogo. Il 6 maggio le Brigate Rosse fecero pervenire il comunicato numero 9 in cui si concludeva la battaglia eseguendo la sentenza a cui Moro era stato condannato. Amintore Fanfani si recò a trovare la famiglia Moro. Il vescovo di Ivrea, monsignor Luigi Bettazzi voleva offrirsi in cambio di Moro, ma la sua proposta venne respinta dal Vaticano.
Da Eseguendo la sentenza di Giovanni Bianconi (Einaudi 2008): “Quando il telefono si libera, Matteo (Valerio Morucci) entra e compone il numero di casa di Saverio Fortuna, l’assistente di Moro. Hanno scelto lui perché la consegna delle lettere di dieci giorni prima è andata bene. Il nome non è uscito, è possibile che la sua linea non sia sotto controllo. Per volontà di Moro devono provare ad avvisare la famiglia evitando la polizia. Il telefono squilla, ma l’assistente di Moro non risponde. Né lui né altri. Matteo torna da Alessandra, riprovano dopo un po’. Ancora niente. Per l’ora di pranzo, pensano, qualcuno tornerà in quella casa. Ma può essere troppo tardi. Si muovono con circospezione da una cabina all’altra, sempre attenti alle facce e alle macchine che incontrano. Oltre un certo limite non si può attendere, c’è il rischio che qualcuno si accorga della Renault, nella quale solo una coperta impedisce di vedere il corpo di Aldo Moro. Poco dopo mezzogiorno Matteo fa l’ultimo tentativo. Non risponde nessuno. Decide che il tempo è scaduto e chiama un altro assistente del presidente democristiano. Avrà certamente il telefono sotto controllo, ma non si può fare altrimenti. Alessandra guarda a distanza, e aspetta. Uno squillo, due squilli, tre. Stavolta qualcuno risponde”.
Alessandro Moscè
(continua)
L'articolo La verità – e i depistaggi e le omissioni – sulla morte di Aldo Moro. Il reportage (prima puntata) proviene da Pangea.
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fotopadova · 7 years
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Ben Shahn, pittura e fotografia, fotografia e pittura
di Carlo Maccà
 --- Non si vuole disquisire sul rapporto fra pittura a fotografia, al giorno d'oggi. Anche perché bisognerebbe prima definire che cos'é, al giorno d'oggi, pittura e ... che cos'è fotografia. Almeno nel mondo dell'arte. Dove comincia l'una e dove finisce l'altra. Un serpente che si morde la coda? Qual è poi la coda, e quale la testa?
Ma fra la metà dell'Ottocento e la metà del Novecento non era così. Ai tempi del realismo naturalistico, Il FOTOGRAFO catturava immagini dalla realtà mediante uno strumento ottico-chimico; il PITTORE invece la ricreava con colori, pennelli e tela. Per circa mezzo secolo i rapporti vennero spesso descritti in termini conflittuali. In realtà, chi se ne giovò di più, fu la pittura. Mentre molti fotografi si persero nell'imitazione della pittura, sperando così di "fare arte", pittori d'avanguardia usarono la fotografia, talvolta facendosi essi stessi (di nascosto?) fotografi, per fissare situazioni che volevano riprodurre su tela. Qualche esempio: Degas che per alcuni nudi [www.fotopadova.org/post/147600705508/] e ballerine mise in posa e fotografò le sue modelle  ma che, per puro diletto, fotografava anche se stesso, amici e amiche, tutto in interni, al lume di candele; Michetti i suoi modelli li fotografava anche in gruppo e che, nel suo quadro più famoso, tagliò, come in un'istantanea, la testa d'un personaggio e il fianco d'un altro; Utrillo più tardi copierà i suoi paesaggi parigini da fotografie in cartolina. [Nota 1]
Ma all'inizio del nuovo secolo i fotografi cominciarono a nausearsi del pittoricismo mentre i pittori, sconfitti dalla fotografia sul piano del grezzo naturalismo, presero un'altra strada e si dedicarono a rappresentare un diverso tipo di realtà, grossolanamente definibile come realtà mentale, e divennero cubisti, metafisici, espressionisti, surrealisti, e via dicendo. Anche chi poteva in qualche modo rientrare ancora nel "realismo" preferiva interpretare, piuttosto che riprodurre, le forme della natura. Per alcuni movimenti fu il cinema, più che la fotografia, fonte d'ispirazione.
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Figura 1. Ben Shahn, Bartolomeo Vanzetti and Nicola Sacco, 1931-32, tempera su carta,  27.6 x 37.1 cm (The Museum of Modern Art - MoMA, N.Y.))
Nella linea del realismo Ben Shahn (1898 - 1969) rappresenta un caso eccezionale. Oltre a trarre fin dall'inizio ispirazione dalla fotografia per i suoi quadri, esercitò per qualche tempo la fotografia come professione, e nella fotografia di reportage (e nell'arte fotografica) lasciò una traccia profonda. Dopo una iniziale attività professionale come litografo s'era dedicato alla grafica e alla pittura a tempera. Aveva acquistato grande notorietà  con una serie di tempere sul martirio di Sacco e Vanzetti, i lavoratori italiani di sentimenti anarchici ingiustamente condannati alla sedia elettrica per omicidio (https://www.khanacademy.org/humanities/art-1010/art-between-wars/american-art-wwii/a/shahn-the-passion-of-sacco-and-vanzetti/).
I soggetti dei dipinti (Figura 1) erano ricavati da fotografie apparse sulla stampa. Per il realismo sociale della sua pittura fu chiamato da Diego Rivera come assistente nella lavorazione d'un grande murale al Rockefeller Center di New York, opera che fu subito distrutta perché Rivera, noto comunista, rifiutò di cancellare il ritratto di Lenin che vi aveva dipinto (Figura 2).
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Figura 2. Dettaglio del murale di Diega Rivera al Rockefeller Center di New York, poi distrutto, col ritratto di Lenin.
Come poi sia diventato fotografo, lo racconta lui stesso in una intervista del 1965 [http://www.americansuburbx.com/2009/03/interview-interview-with-ben-shahn-1965.html/], che vale la pena di riassumere. In quegli anni, condividevo lo studio con Walker Evans [che già cominciava ad affermarsi come fotografo]. Desideravo dipingere l'immagine di tre musicanti ciechi che andavano su e giù per la 14th Street, e ne facevo degli schizzi seguendoli assieme alla gente, senza ottenere il dettaglio che mi serviva, e che avrei potuto memorizzare soltanto con fotografie. Chiesi a Walker di insegnarmi ad usare l'apparecchio fotografico. Tutto quello che dopo molte insistenze ottenni, mentre stava per partire per una crociera nei Mari del Sud, ospite sullo yacht d'un amico, fu : " f45 verso il lato in luce, f9 verso il lato in ombra, 1/20 di secondo, e tieni l'apparecchio ben fermo".  Mi comprai una Leica con 25 dollari chiesti in prestito a mio fratello, che faceva l'avvocato. "Se col primo rullino non riesco a pubblicare almeno una foto, ti restituisco la macchina." Ero presuntuoso, ma ... ci riuscii, su una rivista di teatro.
Se all'inizio B.S aveva usato la fotografia al servizio della pittura, ben presto, come dichiarò la seconda moglie, "ogni sua fotografia divenne fine a se stessa:.......nel fare fotografico imparò un nuovo modo di vedere". Al rapido scoppio della grande crisi economica e della conseguente depressione la vita era diventata  grama per B.S. come per tutti gli artisti. Quando per porre rimedio alla situazione avviò il New Deal, il Presidente F.D. Roosvelt, che non era sordo e cieco nei confronti della cultura (anche se, come da noi, non è cosa che si mangia), vi incluse programmi di aiuto agli intellettuali e agli artisti, offrendo commesse di lavoro da parte di enti statali che permisero a molti, e fra questi B.S., almeno di sopravvivere.
Ben presto la siccità devastò gli stati centrali e rese ancor più miserabile la vita dei lavoratori dell'agricoltura. Fu allora che, nel 1935, B.S. fece il grande salto alla professione di fotografo. Evans, che stimava le fotografie dell'amico, vicine al suo stile di fotografo di strada, ne propose l'arruolamento fra i fotografi della Farm Security Administration   (http://www.fotopadova.org/post/165979490898/), che avevano il compito di documentare e presentare al pubblico e ai politici le terribili condizioni di quelle popolazioni.
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Figura 3. Raccoglitori di cotone, Arkansas, 1935
Per Ben Shan, fino ad allora stanziato a New York, fu un'esperienza sconvolgente, in un'America che neppure immaginava. "Alle 5.30 i braccianti stavano raggruppati vicino alla bottega dei padroni, cantando spirituals, in attesa dei "caporali" che li avrebbero avviati su dei camion ad una piantagione, pagati a 5 cent all'ora per 12 ore lavorative. Un tizio armato stava a sorvegliare perché non arrivassero caporali di altre piantagioni offrendo 6 cent all'ora. Per potersi dissetare caricavano sui cassoni taniche d'acqua, che dopo due ore sarebbero stata calde come il piscio [alla lettera]. I 60 cent ricevuti sarebbero stati appena sufficienti per comprare, alla bottega dell'azienda, al ritorno, tre CocaCola con cui ristorarsi." [Nota 2]
La campagna di Ben Shahn per la FSA durò dall'estate del 1935 al 1938, e fruttò numerosissime fotografie, 909 delle quali molte sono accessibili e rese di pubblico dominio sul sito http://photogrammar.yale.edu/ [Nota 3]. Molte furono pubblicate sulla stampa statunitense per lo scopo sociale e politico per cui erano state prodotte; in parte raggiunsero anche l'Europa, e in Italia under the high time of Mussolini servirono a mostrare quanto brutta sia la democrazia.
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Figura 4. Paesaggio italiano, 1944
Terminato l'ingaggio colla FSA Ben Shahn abbandonò l'impegno professionale nella fotografia per ritornare alla pittura e alla grafica, anche al servizio di enti sociali, come uffici governativi di propaganda sociale e bellica nei primi anni della guerra, poi di organizzazioni sindacali in cui ebbe anche compiti dirigenziali. Ma le opere pittoriche di quegli anni, come di quelli postbellici, i più fertili artisticamente, dimostrano che l'immagine fotografica era entrata profondamente nella sua visione e nel suo stile. Due dei suoi quadri più intensi e famosi, scelti fra quelli dedicati ai segni lasciati in Europa dal passaggio della guerra, sono qui riprodotti in monocromia per meglio evidenziare l'ispirazione fotografica. Si può pensare che i soggetti siano stati suggeriti da fotografie riprese da reporter americani e apparse sulla stampa nazionale, ma anche dai ricordi dei suoi soggiorni in Francia e dei viaggi in Italia alla fine degli anni '20, ripassati mentalmente coll'occhio fotografico acquisito e affinato nel frattempo. Paesaggio italiano, figure nere contro il bianco e sfondamento della prospettiva: forse il pittore in gioventù era passato per Scanno? o Mario Giacommelli aveva sostato nella sala dedicata al pittore americano nella Biennale veneziana del 1954? (che, in me come in molti, lasciò un'impressione duratura).
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Figura 5. Liberazione, (Parigi), 1945
Più tardi, Ben Shahn s'allontanò dal realismo sociale, forse per la stanchezza dell'età, forse perché sopraffatto dalle nuove mode nell'arte americana, ma sospetto anche per non attizzare ulteriori sospetti da parte dei "cacciatori di streghe" capeggiati dal senatore McCarthy, dati i suoi trascorsi giovanili come collaboratore di "pericolosi Comunisti" come Diego Rivera. Concentrò infine la sua attività sulla grafica soprattutto con soggetti legati all'ebraismo con esiti più decorativi.
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Figura 6. In senso orario: Ohio, 1938; Ohio, 1938; Mississipi, 1935; Sunday in Omar, West Virginia,  1935.
Ma l'opera fotografica del nostro, per quanto concentrata in pochi anni, rimane un punto fermo nella storia della fotografia. Molto prima di autori pur giustamente celebrati, e assieme a Walker Evans, suo coetaneo, collega, amico ed inizialmente ispiratore, Ben Shahn può essere considerato il vero iniziatore della Street Photography americana, attento più a sorprendere le situazioni e gli atteggiamenti delle persone che a caratterizzare l'ambiente, incisivo nella forma  sebbene apparentemente incurante della perfezione. Come l'amico, aveva dotato la Leica di un mirino angolare, mediante il quale fotografava rivolto apparentemente in altra direzione rispetto ai soggetti: vere foto rubate. Si veda (Figura 7) riflessa nella vetrata del negozio, l'immagine di BS che sta riprendendo i due soggetti inconsapevoli e spontanei seduti lì davanti.
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Figura 7. Circleville, Ohio, 1938. Dettaglio.
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Nota 1. Si veda per esempio, in rete: "Degas photographer" e "Michetti fotografo".
Nota 2. Da noi queste cose .... non succederebbero mai!.
Nota 3. Si veda anche: http://www.shorpy.com/image/tid/125
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giuliocavalli · 7 years
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Il virus che contagia la sinistra
Il virus che contagia la sinistra Un grido d'indignazione di Tonino Pena per la cecità di chi, anche a "sinistra", dimentica che chi fugge oggi  lo fa perché, per raggiungere il nostro benessere, abbiamo razziato le loro risorse, creando i deserti dove vogliamo respingerli. il manifesto, 29 luglio 2017 «Aiutiamoli a casa loro». E dopo averli "aiutati» per secoli a casa loro, in Africa, schiavizzandoli e depredando le loro risorse, una generazione "ingrata" vuole venire a casa nostra. Deportiamoli, si dice anche a sinistra» Adesso sono tutti d’accordo, compreso il segretario del Pd che ha sposato in pieno questo slogan che coniò per primo Salvini. Per la verità, la prima volta che ho sentito dire con convinzione «aiutiamoli a casa loro» è stato nel giugno del 2001. Durante una conversazione con il presidente del Parco delle Cinque Terre, allora attivista del Pds e poi europarlamentare. Un presidente di Parco molto capace che ha trovato un modo intelligente per recuperare i vigneti ed i terrazzamenti nelle stupende colline delle Cinque Terre, cercando di promuovere un turismo sostenibile in un ambiente molto fragile. Un uomo innamorato della sua terra e convinto oppositore della globalizzazione capitalistica. Ad un certo punto della discussione venne fuori la questione dell’immigrazione e lui mi raccontò di cinque albanesi che avevano accolto con entusiasmo alle Cinque Terre ed erano stati ricambiati con furti e violenze varie. Da qui la sua profonda avversione al fenomeno migratorio e il suo profondo convincimento: «Aiutiamoli a casa loro». Poco tempo fa mentre attraversavo lo Stretto ho incontrato un amico magistrato, un democratico convinto e conseguente, cattolico socialmente impegnato, da sempre persona sensibile ai temi sociali. Mentre l’aliscafo saltellava sulle onde, in una giornata da montagne russe, sono sbalzato via dalla poltrona, non per il mal di mare ma quando gli ho sentito dire: «Aiutiamoli a casa loro…qui non possiamo continuare ad accoglierli…anzi dovremmo far star male quelli che ci sono in modo tale che quando telefonano a casa sconsiglino altri a partire…» . Me lo diceva con sofferenza, vera, con rammarico ma anche con la convinzione che se non vogliamo far vincere Salvini dobbiamo porre un argine a questi flussi migratori. Se li lasciamo a bighellonare tutto il giorno, ospiti di buoni alberghi- sosteneva- questi giovanissimi africani che hanno tutti un telefonino manderanno a casa delle belle immagini e il flusso diventerà una valanga e saremo sommersi. Come ha lucidamente ribadito ribadito Guido Viale su questo giornale con 180mila profughi o 200mila non si dovrebbe parlare di invasione in un paese con 60 milioni di abitanti. Cosa avrebbe dovuto dire il popolo libanese quando sono arrivati un milione e mezzo di siriani in un paese di cinque milioni di abitanti? Inoltre, e spesso lo dimentichiamo, abbiamo un saldo demografico negativo di circa 50mila unità l’anno e un saldo migratorio nazionale negativo per oltre 100 mila unità (soprattutto dovuto a giovani italiani studenti e laureati che emigrano in vari paesi del mondo). Inoltre, negli ultimi anni per via della crisi economica del nostro paese gli stranieri che ritornano nel loro paese sono superiori a quelli che arrivano, in particolare gli albanesi, i marocchini, rumeni, filippini, ecc. Quindi non c’è nessuna esplosione demografica e non c’è nessun pericolo di invasione se gli immigrati sono ancora oggi l’8,5% della popolazione a fronte di percentuali ben maggiori in diversi paesi europei, dall’Austria all’Irlanda per non parlare della Svizzera. Malgrado queste evidenze statistiche è entrato nella pelle italica questo virus dell’invasione che porta ogni giorno persone insospettabili a chiedere di respingere i barconi e magari affondarli. Uno degli ultimi casi riguarda un noto intellettuale siciliano, Antonio Presti, l’ideatore di «Fiumara d’arte» famosa a livello internazionale, organizzatore di eventi artistici di assoluto rilievo. Ebbene proprio lui, in una conferenza stampa che annunciava a Taormina il progetto di riqualificazione del Villaggio Le Rocce di Mazzarò, ad un certo punto denuncia l’arrivo nel paese di una trentina di migranti dicendo testualmente : «Meno italiani più immigrati, è iniziata la sostituzione di popolo»». Ed aggiungendo che «« non è razzismo, ci opponiamo all’invasione di altre culture e alla perdita della nostra identità». Ho voluto citare questi casi concreti di intellettuali, di persone che hanno operato bene in diversi campi, non di operai disoccupati che temono la concorrenza di chi è costretto a lavorare a salari da fame – come avviene nell’edilizia e in agricoltura – né di persone ideologicamente di destra. Ho voluto citarli perché dovremmo prendere atto che viviamo in un paese che sta diventando profondamente razzista nella sua stragrande maggioranza. A differenza degli anni ’30 del secolo scorso, oggi nessuno si dichiara apertamente razzista, o parla di razze superiori, ma di diritto a difendersi da una invasione distruttiva, sia sul piano culturale che su quello economico (i soldi ai migranti anziché ai nostri poveri!!). E sono tutti convinti che «non possiamo accoglierli tutti» e quindi dobbiamo fermarli con ogni mezzo. E, siccome siamo buoni, l’unica cosa che possiamo fare è di «aiutarli a casa loro»». Come? Semplice: con lo sviluppo economico. Se i popoli dell’Africa subsahariana si svilupperanno come abbiamo fatto noi si fermerà l’emigrazione. Peccato che abbiamo dimenticato o non vogliamo fare i conti con la storia. Le prime grandi ondate migratorie dall’Europa verso altri continenti sono iniziate nei paesi in cui avveniva la rivoluzione industriale, a cominciare dall’Inghilterra, ovvero iniziava quello che chiamiamo sviluppo economico capitalista. Anche in Italia, nell’ultimo quarto del XIX secolo, le prime ondate migratorie hanno interessato il Piemonte, la Liguria e la Lombardia, cioè le regioni dove è nata la prima rivoluzione industriale italiana. Prima che lo sviluppo economico porti ad un blocco dell’emigrazione possono passare decenni o secoli, come dimostra, tra l’altro il caso emblematico del nostro Mezzogiorno. E noi italiani che non siamo riusciti in centocinquanta anni a risolvere la questione meridionale, che abbiamo milioni di giovani meridionali precari e/o disoccupati malgrado le politiche di sviluppo adottate nel corso di decenni, gli investimenti a valanga, i poli di sviluppo industriale, il sostegno alle start-up, vorremmo risolvere la «questione africana» esportando il nostro modello di sviluppo?! E quale aiuto a casa loro vorremmo portare dopo che abbiamo tagliato le poche risorse che c’erano per la cooperazione popolare, quelle delle ong, che in qualche caso aveva dato buoni frutti quando non era caduta nella logica dell’economicismo o dello sviluppismo esasperato. La cooperazione per garantire un minimo di welfare come scuole, sanità, case, questo sì che serve. Ma, se volessimo veramente «aiutarli a casa loro» ci sarebbe un mezzo immediato: un reddito minimo vitale per tutte le famiglie povere africane. Si potrebbe cominciare dai paesi dove in questo momento partono il maggior numero di migranti come la Nigeria, Niger, Etiopia, Eritrea, ecc. Ipotizziamo che si riuscisse a dare a tutti i giovani tra i 16 ed i 32 anni un minimo vitale di 200 euro al mese, che mediamente in Africa consentono ad una famiglia di sopravvivere. E ipotizziamo sempre che un primo bacino di utenza sia di circa 100 milioni di giovani. Il costo mensile sarebbe di 20 miliardi di euro al mese, un terzo di quello che Draghi ha elargito mensilmente al sistema creditizio europeo oberato da titoli spazzatura e crediti inesigibili. Immaginiamo che a Bruxelles passi una decisione del genere, quale sarebbe la reazione? Scandalo! Aiutiamo i giovani africani mentre i nostri sono precari, disoccupati e impoveriti? Morale della favola: quando diciamo «aiutiamoli a casa loro» vogliamo dire ben altro. Basa un breve excursus storico per rendercene conto. Sono secoli che come europei ««aiutiamo a casa loro»» i popoli africani , latino-americani ed asiatici. Soprattutto gli africani sono stati oggetto delle nostre attenzioni, premure, affetto. Prima di tutto portandogli la civiltà e facendoli uscire da una condizione di uomini semiselvaggi, animisti e antropofagi, trasportandoli a nostre spese nel mondo civile (quello che i comunisti un tempo chiamavano «tratta degli schiavi»). Poi con l’installazione delle nostre tecniche agricole, delle monoculture più moderne che hanno prodotto un notevole flusso di esportazioni, nonché la valorizzazione delle loro miniere che erano state ignorate per secoli come fonte di ricchezza. Ed ancora gli abbiamo insegnato l’uso delle moderne tecniche militari, li abbiamo fatti passare dall’arco e le lance ai carri armati e agli aerei, li abbiamo aiutati a combattersi nel modo più moderno ed avanzato possibile offrendogli consiglieri militari e le armi più sofisticate. Infine gli abbiamo insegnato l’uso del denaro e come sia facile prenderlo in prestito e poi doverlo restituire con buoni tassi di interesse, ovvero quella che è la nostra libertà più grande e bella: la libertà di indebitarsi fino al collo. E dopo aver operato per secoli a casa loro, per il loro benessere, adesso questa generazione ingrata vuole venire a casa nostra con tutti i problemi che già abbiamo… Non è possibile…riportiamoli a casa loro , anzi deportiamoli.
Un grido d’indignazione di Tonino Pena per la cecità di chi, anche a “sinistra”, dimentica che chi fugge oggi  lo fa perché, per raggiungere il nostro benessere, abbiamo razziato le loro risorse, creando i deserti dove vogliamo respingerli. il manifesto, 29 luglio 2017 «Aiutiamoli a casa loro». E dopo averli “aiutati» per secoli a casa loro, in Africa, schiavizzandoli e depredando le loro…
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tourthailandiaelaos · 7 years
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27-11-2017 8° giorno Chiang Mai-Maetaman Campo di Addestramento Elefanti-Yapa-Fiume Mae Taeng-Luang Prabang (km 105)
Prima colazione. Partenza alle 07.15 con arrivo alle 08.25 al   Maetaman Elephant Camp, Campo di Addestramento degli Elefanti, sulle rive del fiume Mae Taeng. Mi tocca, per potervela raccontare meglio, una passeggiata a dorso d’elefante. Per questo ieri ho scambiato altra moneta (Baht 900 x 40'). Saliamo sui pachidermi da una comoda balconata e incolonnati scendiamo per attraversare il fiume Mae Taeng. Io sono solo sulla poltroncina-sella e devo centrare bene il sedile in modo da non sbilanciarlo. In breve mi adatto ai movimenti e trovo che la migliore soluzione è non poggiarmi alla spalliera, assecondando i movimenti della mia cavalcatura con il bacino -come si fa, “d'altronde”, sui dromedari-. Dopo i primi passi subentra l'euforia e continuo a scattare foto a ripetizione. Usciamo dall'acqua sull'altra sponda e proseguiamo per un sentiero lungo fiume immerso nel verde della foresta. Ogni tanto delle capanne ad altezza turista per vendergli banane per ringraziare l'elefante che con la proboscide se li pappa in un boccone. Ad un certo punto si fa dietrofront e si riattraversa il fiume per rientrare al campo. Alla fine della divertente e graditissima escursione ci presentano le foto ricordo (Baht 260) già incorniciate -dicono che la cornice, che sembra carta, sia ottenuta dalle feci di elefante (?)-. Stranamente la foto mi piace: da solo sulla portantina con il fantino seduto sul collo dell'elefante immerso nelle acque del fiume. Purtroppo sono squattrinato in moneta locale avendo speso tutto in the ieri sera. Mi vengono in aiuto i compagni di viaggio che accettano in cambio i miei euro. Ci aspettano i cuccioli Dumbo per le foto ricordo in varie posizioni. Infine ci sediamo per seguire un pachidermico spettacolo: l'alzabandiera; la presentazione; salita e discesa dell'istruttore con saluto; dimostrazione che il perimetro della pianta del piede moltiplicato per tre da come risultato la sua altezza; il riposo del guerriero; partita a calcio con rigore; il coraggioso domatore e il paziente elefante che tiene sospesa la zampa; e la cosa più sbalorditiva di tutte: quattro elefanti che prendono a pennellate una tela e dipingono, chi dei fiori, chi la sagoma di un pachiderma. I dipinti sono messi in vendita e nel negozio del campo si possono acquistare gli invenduti degli altri spettacoli. Ogni elefante ha imparato un soggetto e lo ripete uguale ad ogni spettacolo. -Certo ci si può sentire a disagio ad assistere a tanta maestria, ma ci spiegano che come quasi la totalità degli animali in cattività, essi sono incapaci di procacciarsi il cibo in libertà. La loro sopravvivenza dipende dalla simbiosi con l'uomo. Questo, però, genera un circolo vizioso.- Ci viene mostrato uno dei lavori di fatica, in questo caso l'accatastamento di tronchi di albero, per il quale erano usati gli elefanti in tempi non troppo lontani. Infine, con uguale maestria passano, selettivamente, a raccogliere con la proboscide, le mance in cartamoneta direttamente tra il pubblico. Lasciamo il campo di addestramento e con un pick-up indigeno raggiungiamo il villaggio di Yapa. Dopo un piccolo ponticello, le prime casette-capanne tra le risaie ospitano l'etnia Haka dagli abiti variopinti e dai denti neri -causa di un erba che masticano: il Metel. Poco oltre raggiungiamo le capanne che ospitano l'etnia Padaung delle famose Donne Giraffa. E' la seconda volta che le incontro -la prima in Myanmar chiamate Karen-. Questa volta non mi esimio dal fotografarle perché è casa loro e non chiedono alcunché in cambio. Torniamo indietro alle 11.05 e dopo un breve pisstop alle 11.30 ci imbarchiamo su una autentica zattera di bambù per un rafting -controllato da due manovratori- sul fiume Mae Taeng (Baht 500 x 25”). Alle 12.00 sbarchiamo e saliti sul nostro pulmino alle 12.08 raggiungiamo direttamente l'aeroporto di Chiang Mai. Arriviamo alle 13.10 e dopo un preliminare controllo di sicurezza all'ingresso iniziamo i saluti. Il gruppo si divide, molte coppie proseguono il viaggio con un soggiorno mare nelle numerose e soleggiate isole thailandesi. Mentre io con Ornella e Valerio -una coppia di felici pensionati di Lugano- ci imbarchiamo per Luang Prapang. Effettuato il check-in troviamo un provvidenziale Burger King per il pranzo (Baht 195). All'ora indicata per l'imbarco effettuiamo il controllo sicurezza, ma al gate il nostro volo e segnato “Delayed”. Partenza rinviata alle 16.40 (previsto 15.15-16.15). In effetti decolliamo alle 16.50 con un ATR 73 della Lao Airlines. Ci distribuiscono un cesto merenda -che conservo- e da bere. Atterriamo alle 17.45. Prima del controllo di sicurezza ottengo il visto necessario in Laos – per gli italiani $35 (+$1 per il servizio), una fototessera e la Visa compilata (fornita sul volo). Gli svizzeri entrano free anche se sono ancora presente sulla tabella delle nazioni che pagano-. Ritirata la valigia incontriamo Van (pronuncia Uan, come One in inglese, strane le traslitterazioni) la nostra nuova guida per il Laos e alle 18,27 ci trasferiamo in hotel. Durante il percorso ci telefona, tramite Van, il responsabile dell'agenzia locale, un gentile italiano trasferitosi in Laos anni or sono. -Van ha imparato l'italiano da lui senza frequentare scuole-. Gli chiediamo, vista la sua disponibilità, di modificare il programma: eliminare la visita ad un secondo campo di addestramento per elefanti e aggiungere un escursione alle Cascate Kuang Si. Ci chiede di primo acchito €50 in tre. Visti i prezzi correnti ci sembra troppo è glissiamo. Arriviamo alle 18.45 in hotel in collina dove ci vengono assegnate due lodge sparsi lungo il pendio. Vista l'ora ed il programma serale ci diamo appuntamento alle 19.15 per la cena, in tempo per prendere lo shuttle dell'hotel delle 20.00 -uno ogni ora- e scendere in città “in tempo per immergerci nel colorato mondo del mercato dei prodotti artigianali che al calar del sole si apre sulla via che corre tra il Phu Si e l’antico Palazzo Reale. Luang Prabang, o Louangphrabang, è una città del Laos centro-settentrionale, situata sulle sponde del Mekong, ed è anche la capitale della provincia omonimo. Chiamata anche "Città Reale del Piccolo Buddha". Prima della salita al potere dei comunisti, avvenuta nel 1975, era la capitale e sede del governo del Regno del Laos. Oggi la città è Patrimonio dell'Umanità dell'UNESCO.” Da subito ci accorgiamo della tranquillità dei laotiani rispetto al caos organizzato dei thailandese. Inaspettatamente, tra tessuti e artigianato vario del mercato, trovo tre bandierine-scudetto che mancano alla mia collezioni delle nazioni visitate (Kip 10.000. €1=Kip 9.800). Per due notti a pensione completa non pensavo di spendere alcunché, quindi non ho cambiato i aeroporto. Me li offre gentilmente Valerio che, al contrario di me, ha sbagliato i calcoli ed ha scambiato troppo. Alle 21.15 ritorniamo con lo shuttle in hotel. In camera tento diverse volte di telefonare a casa. Inutile. Faccio delle ricerche on-line, ma non ottengo risposte valide. Infine telefono alla lobby per avere ragguagli. Mi spiegano che è impossibile telefonare dai cellulari e dalla camera, ma è possibile ricevere. Alla fine mi offrono di chiamare andando da loro. Non mi resta che rivestirmi, ero in pigiama dopo la doccia, e recarmi alla hall. Gentilmente compongono il mio numero di casa e alla fine dei pochi secondi di telefonata non mi addebitano niente -pare che si paghi 2/4.000 Kip al minuto-.
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