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#celeste appunti per natura
scienza-magia · 2 years
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Mostra l’altro Rinascimento. Ulisse Aldrovandi e le meraviglie del mondo
Mostre a Bologna. Aldrovandi e la scienza del Cinquecento. Due mostre per i 500 anni del naturalista Aldrovandi: piante, fossili, minerali. Un approccio empirico in cui permane il fascino medievale per il mostruoso. Proviamo a pensarlo ai nostri giorni un bambino di appena dodici anni che, da solo e senza un soldo, da Bologna se ne va a Roma. Lo definiremmo un piccolo scavezzacollo o come un giovane che abbandona tutto e tutti per il disagio vissuto in un ambiente familiare degradato. Invece Ulisse Aldrovandi (1522-1605) proviene da una famiglia benestante e in vista: suo padre è un notaio, segretario del Senato bolognese, e la madre è cugina di Ugo Boncompagni, che diviene papa Gregorio XIII.
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Globo celeste di Gerard e Leonard Valk, 1715 - - Dotato di una fervida intelligenza e precoce nell’apprendere, ancorché irrequieto e di spirito indipendente, a Roma diviene paggio del vescovo di Sardegna, ma ben presto si stanca di questa mansione e fa ritorno a Bologna dove si dedica agli studi di matematica, studi che mette a frutto quando, a quattordici anni, diviene contabile di un ricco mercante a Brescia. Anche questo impiego dura poco ed è di nuovo a Bologna, ma se ne va subito e, questa volta, verso Santiago di Compostela insieme a un pellegrino siciliano. Saltato il progetto di un viaggio a Gerusalemme, nel curriculum del giovanotto c’è anche un processo per eresia che si risolve in una assoluzione. Rieccolo finalmente nella città natale dove la sua vita comincia a prendere una piega diversa. Si dedica allo studio delle lettere umanistiche e al diritto, alla logica e alla filosofia, alla matematica e alla medicina. Nel 1553, dopo che da qualche anno ha intrapreso ricerche naturalistiche, consegue la laurea in filosofia e medicina e nel 1554 inizia la sua carriera di docente universitario, insegnando prima logica e quindi filosofia. Nel 1561 ottiene che venga istituita per lui la cattedra di filosofia naturale, vale a dire quella che può essere definita la prima cattedra bolognese di scienze naturali. Da questo momento inizia un’altra storia. Quella di Ulisse Aldrovandi, scienziato, di cui si conservano i manoscritti, gli appunti, le lettere, un tesoro d’informazioni. Partito da un giardino del Palazzo comunale, che ben presto diviene il primo orto botanico bolognese (il quinto in Italia), nel corso della sua lunga vita accumula manufatti e reperti minerali, vegetali e animali provenienti da tutto il mondo, realizzando il più ampio “microcosmo di natura” allora esistente. “Il teatro del mondo” è stata definita questa immensa dotazione, ovvero una pluralità delle cose e degli eventi che rendevano la storia naturale una trama densa di immagini, di storie, di rimandi antichissimi e insieme contemporanei, ovvero un patrimonio di ricerca di ben 18.000 esemplari naturalistici e di pezzi archeologici ed esotici, 7.000 piante essiccate, incollate in 15 volumi e altrettanti di acquerelli che rappresentano animali, piante, minerali e mostri, 14 armadi contenenti matrici xilografiche, 66 cassettiere con 4.500 cassetti dove sono depositati semi, frutti, fossili, oggetti vari.
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Ritratto di Ulisse Aldrovandi attribuito ad Agostino Carracci, 1585 circa Ad Aldrovandi, personaggio magari eccentrico e complicato, forse messo un po’ in ombra dai maestri della pittura e dell’architettura del suo tempo, ma uno dei massimi esponenti della cultura enciclopedica cinquecentesca, instancabile divulgatore e protagonista del risveglio delle scienze naturali in epoca rinascimentale, sono dedicate due mostre allestite a Bologna in occasione del cinquecentenario della sua nascita. A Palazzo Poggi, organizzata dall’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna, è allestita (fino al 10 aprile) la mostra L’altro Rinascimento. Ulisse Aldrovandi e le meraviglie del mondo. Curata da Giovanni Carrada, l’esposizione offre ai visitatori una vasta campionatura del materiale raccolto da Aldrovandi, in gran parte mai esposto prima, come il Codice Cospi, uno dei soli tredici codici precolombiani di cui si è a conoscenza, o come alcune delle più antiche mappe del mondo, poi volumi con le tavole illustrate fatte dipingere da Aldrovandi oltre, ovviamente, alla collezione naturalistica, l’unica arrivata sino a noi nella sua quasi interezza. Il percorso espositivo parte dallo shock culturale seguito alla scoperta del Nuovo Mondo. Racconta il passaggio dallo studio dei libri degli antichi allo studio empirico della natura, ma anche il permanere della fascinazione medievale e rinascimentale per il meraviglioso e il mostruoso. Presenta la nascita e le realizzazioni della prima stagione dell’illustrazione naturalistica e scientifica. Ricostruisce poi la casa-museo di Aldrovandi per seguire, infine, lo sviluppo delle rinate scienze della vita nei secoli seguenti attraverso una Wunderkammer con alcuni degli oggetti più straordinari conservati nelle collezioni dell’Università di Bologna. Al Centro Arti e Scienze Golinelli è montata (fino al 28 maggio) la mostra Oltre lo spazio, oltre il tempo. Il sogno di Ulisse Aldrovandi promossa dalla Fondazione Golinelli insieme al Sistema Museale di Ateneo e curata da Roberto Balzani, Luca Ciancabilla, Antonio Danieli e Andrea Zanotti. L’esposizione, che intende approfondire il rapporto tra arte e scienza quale chiave di lettura per interpretare il corso della storia, parte da un semplice quanto fondamentale assunto: Aldrovandi con le sue ricerche, catalogazioni, raccolte, si affacciò su un mondo nuovo, così come oggi guardiamo alla nuova dimensione dello spazio. Il progetto espositivo presenta un connubio tra reperti e oggetti delle collezioni museali dell’Ateneo bolognese, originali exhibit tecnico-scientifici immersivi e interattivi, quadri di Bartolomeo Passerotti, Giacomo Balla, Mattia Moreni e dipinti e sculture di Nicola Samorì che accolgono i visitatori lungo un percorso tra si snoda tra passato e scenari futuribili. Così che dopo numerose mirabilia come fossili risalenti a 47 milioni di anni fa, frammenti di meteoriti, uova di dinosauro e due delle opere più rilevanti di Aldrovandi, l’Erbario e il celebre Monstrorum Historia, ecco strumenti provenienti dalla Agenzia Spaziale Europea e la ricostruzione di scenari riferiti alle condizioni in cui l’umanità si troverà a vivere in un futuro non troppo lontano. Read the full article
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sguardimora · 5 years
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Celeste appunti per natura (2017) solo di Raffaella Giordano incipit e musiche per pianoforte Arturo Annecchino incontri straordinari, complicità e pensieri Danio Manfredini e Joelle Bouvier editing e composizioni astratte Lorenzo Brusci luci Luigi Biondi costume realizzato da Giovanna Buzzi, dipinto da Gianmaria Sposito esecuzione tecnica Piermarco Lunghi foto Andrea Macchia un ringraziamento a Filippo Barraco, Sandra Zabeo, Romana Walther primo studio aperto Complesso Santa Croce Prospettiva Nevskij, Bisceglie (BT) prima nazionale Autunno Danza Cagliari 2017 produzione Associazione Sosta Palmizi con il sostegno di MiBAC, Ministero per i Beni e le Attività Culturali/Direzione generale per lo spettacolo dal vivo; Regione Toscana/Sistema Regionale dello Spettacolo
La natura è spesso nascosta, qualche volta sopraffatta, molto raramente estinta. Francis Bacon
La scrittura compositiva declina per analogia frammenti del mondo naturale, il cammino si inscrive nel linguaggio del corpo, intraducibile altrimenti e l’io diventa solo il punto di origine della visione. Le prime radici di questo lavoro scivolano in un libro; l’Estate della collina, di J.A.Baker bizzarro e misterioso scrittore inglese che racconta e descrive unicamente la natura. Il suo sguardo è posato sulla più piccola manifestazione, fino alla vertiginosa grandezza che la comprende. Cosa è natura che ama creare, dove la morte. Simile al confine del mondo nel centro di un paesaggio inesistente, il desiderio di creare forme. Il silenzio è denso, leggere le note di un pianoforte, in lontananza. Come i fiori nel prato, fanno capolino i temi di sempre. Il vestito come un cielo o come una terra, la campitura di colore dai contorni imprecisi, il segno di una porosità dell’anima. Caro spettatore ti dono questo mio sentiero, specchio riflesso di un canto celeste.
Raffaella Giordano    
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fairybobsworld · 4 years
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Volpi da Salotto
<<Dottoressa,>> si rivolse l’uomo distintamente vestito alla donna d’innanzi a lui:  <<non so davvero cosa non vada in me.>>. La signora in questione: la sua strizzacervelli Linda Rizzi lo scrutava in volto, priva d’ombra di giudizio o che sia; come d’altronde richiedeva la professione. La psicologa prese il suo tempo per rispondergli; durante i loro incontri, che avvenivano a cadenza quasi settimanale, aveva avuto modo di osservare che il suo paziente non aveva la minima aspettativa sulla terapia e di conseguenza non si aspettava benefici utili o risposte. Non da lei, almeno; Ciò nonostante ascoltava quello che la donna gli diceva e se anche non lo faceva, lo dissimulava abilmente. Linda in ogni caso, preferiva riflettere prima di parlare.
<<Lei è un uomo di successo, é affascinante. Ha una moglie, due figli e perfino una giovane amante di cui nessuno sospetta. Ha la barca che sognava di possedere da bambino quando lei e la sua famiglia facevate fatica a sbarcare il lunario. Adesso non ha problemi di soldi: è ricco, pieno di denaro guadagnato con il suo lavoro. Con cui, tra le altre cose, non ha la benché più misera grana. I suoi genitori stanno bene e risiedono in un ospizio di ottima fama. C’è una domanda, la cui risposta desidero sentire da lei, Giacomo. - s’interruppe, come per ricapitolare a se stessa quanto detto - Perché pensa di essere qui?>>. 
Per qualche secondo, Giacomo Del Gaudio non diede altra risposta se non una nuvoletta di fumo che butto fuori dalle narici. Quest’ultima aveva confuso la sua espressione, altrimenti vuota e stentorea, perciò la dottoressa non avrebbe messo la mano sul fuoco sulla momentanea contrazione di quel viso in preda a chissà quale emozione, che le era parso di vedere dietro la cortina grigiastra.
<<Perché c’è qualcosa che non va.>> disse con decisione. 
<<Per quale motivo lo direbbe?>> Giacomo stentò a credere alle parole della donna: dopo varie sessioni, profumatamente pagate, non si aspettava certo di doverglielo dire lui. Le dita affusolate che tenevano la sigaretta guizzarono.
<<Non lo ha ancora capito?>> .La sicurezza di Linda non vacillò, nonostante potesse ben notare l’irritazione del suo affascinante interlocutore. Improvvisamente l’atmosfera si era fatta tesa. Il suo cliente possedeva l’impareggiabile capacità di fare il bello e il cattivo tempo ovunque andasse, talvolta senza la necessità di aprir bocca. Ciò aveva messo alla prova la sua obiettività durante le prime sedute. Si sentiva incapace di non farsi condizionare. Ma infine si era riavuta e aveva confermato l’appuntamento successivo.
<<Quello che io ho capito, non è rilevante. Voglio sentirlo da lei.>> proseguì sistemandosi più comodamente sulla poltrona rossa sulla quale sedeva tutto il giorno, e a testimoniarlo: i tacchi a terra. Li avrebbe calzati nuovamente solo una volta finiti tutti gli appuntamenti della giornata.
<<Ah, davvero?>>
<<Sì, davvero, Signor Del Gaudio.>>
<<Non provo niente, Dottoressa. Assolutamente niente.>>disse Giacomo, dopodiché prese  l’ennesimo tiro di sigaretta. <<Anzi, in realtà qualcosa la provo.>>si corresse, ma non diede ulteriori spiegazioni.
Linda credette ch’egli desiderasse fosse lei a chiederlo. Decise di non farlo e attese. Più tardi, esaurito il tempo, terminò la seduta e Del Gaudio prese congedo senza aver detto una parola.
                                                                                                                                             …
La professionista Linda Rizzi aveva delle regole. Sebbene le fosse capitato di peccare di disciplina nella sua vita, mai, da quando aveva cominciato ad esercitare il proprio mestiere, le aveva infrante. Inizialmente, quelle frasucce non erano altro che i primi consigli dei professori universitari scribacchiati tra gli appunti. Solo in seguito ne aveva compreso il valore: erano gli ultimi baluardi al confine tra la sua vita e quella altrui. Evitavano che perdesse il contatto con la sua realtà. I docenti avevano provato ad avvisare i loro studenti. Al solito, non c’era stato verso e infine molti tra i neo-diplomati psicologi e psichiatri erano finiti in terapia. Ma non Linda. La donna si era risparmiata i preziosi soldi che le sarebbero costate svariate sessioni con qualcuno dei suoi colleghi. Forse per una sua personale stranezza, magari per altro; investì i suddetti capitali  in scarpe. 
Uno dei comandamenti donati da quegli Dei, di natura decisamente poco celeste, agli studenti era il seguente: “sviluppate dei vostri rituali, qualcosa che segni il momento in cui cominciate a lavorare e staccate la sera: qualunque cosa va bene, l’importante è che lo abbiate e lo pratichiate religiosamente”. Linda lo aveva e le calzature erano alla base della sua routine.  
Ogni mattina si preparava per andare a lavoro indossando dei tacchi, oppure dei sandali, rigorosamente scomodi. Il cui marchio valeva sul mercato molto più della scarpa in se. 
Dopodiché, preso un caffellatte sulla via dello studio, camminava fino a destinazione. Ma solamente una volta entrata dentro la sua stanza e salutata la segretaria avrebbe avuto luogo il vero, immutabile rituale: togliersi i tacchi. Se poi Linda si sarebbe appollaiata sulla poltrona rossa o sullo sgabello nero, insieme ad altre variabili come ad esempio la scelta di un caffè invece del caffellatte (o anche nulla: poteva capitare) sarebbero dipese unicamente dal suo umore. Infine, conclusa la giornata lavorativa li avrebbe rimessi per andarsene. Ciò, che a molti potrebbe sembrare insignificante, scandiva il passaggio da una persona diversa da quella che lavorava nello studio. Il quale occupava l’intera palazzina al numero trentanove di Via dell’Olandese.
Un martedì di gennaio però, per l’esattezza a metà del pomeriggio, accade qualcosa a cui Linda non aveva scioccamente pensato. Di per sé era già inconsueto che la sua giornata lavorativa cominciasse così tardi. C’è da dire, che quando si segue una routine consolidata  non si pensa a una alternativa. Tanto meno ci si figura la possibilità di un cambiamento. Non è dunque troppo corretto dire, che fosse stata una sciocca totale nel farsi cogliere così di sorpresa. Tornando a noi. Il fattaccio fu il seguente: la prima paziente aveva fatto ingresso nello studio prima che lei avesse modo di completare il suo rituale. Mentre rimuoveva la seconda décolleté nera, l’altra era già a terra, Giulietta Croce le aveva dato il buongiorno. Era uso della giovanissima segretaria dello studio, Elisabetta diciannove anni, di far entrare il primo appuntamento della giornata non prima di dieci minuti dall’arrivo di Linda; invece quella volta non erano passati più di due minuti e mezzo. 
La dottoressa, che era rimasta bloccata con una gamba sollevata a mezz’aria e piagata a una scomoda angolazione, si plastificò sul volto un sorriso gioviale e ricambiò il saluto della paziente. Stava nascondendo la bizzarra sensazione che provava di fronte a quella sconcertante variabile. Nonostante per Giulietta non fosse il primo incontro con la sua psicologa, la scrutò attentamente. Naturalmente, non fu capace di cogliere nemmeno uno dei pensieri agitati della donna più grande. Ma niente le impedì di metterla in soggezione con il proprio sguardo. La dottoressa lo camuffò con un secondo sorriso, invitando la ragazzina a sedersi. Giulietta aveva diciassette anni, degli occhi neri talmente scuri da rendere difficile distinguere la pupilla dall’iride e soffriva di tanti malesseri che a Linda non pareva di vedere la fine. Ad ora, rappresentava uno dei suoi casi più complessi. Quel giorno, come gli altri, prese nota sul suo taccuino degli abiti che la giovane indossava. Allo stesso tempo, quella la aggiornava sulle ultime novità. Linda aveva osservato, dopo diverse sedute che il modo di vestire di Giulietta era il maggiore indicatore dell’aspetto della sua personalità che, all’occasione, prendeva il sopravvento su gli altri. Durante quel bizzarro incontro il suo look consisteva in un abbigliamento molto elegante, corredato di gioielli e tacchi alti,  con i capelli raccolti  in una coda bassa e ordinata.  Il suo comportamento era estremamente autoritario e controllato; totalmente diverso da quello che aveva tenuto durante la seduta precedente. Allora Giulietta si era presentata indossando un vestitino a fiori con un collo alto bianco sotto e una borsa di pelle marrone, tenendo i lunghi capelli sciolti; aveva l’aspetto e l’atteggiamento di una ragazzina qualunque. 
A lei, Linda, aveva dedicato un intera agendina, nel quale aveva già illustrato ben nove aspetti o personalità della paziente. Quest’ultima, appena trascritta, sarebbe stata la decima. D’altronde non era ancora sicura della diagnosi di personalità multipla e perciò aveva deciso di mantenere il riserbo anche con i signori Croce. Nel frattempo Giulietta aveva terminato di parlare e aspettava che la dottoressa le ponesse la domanda successiva. Le chiese come stesse. Le labbra della ragazza si tesero scoprendo i denti in un sorriso maniacale. 
<<Benissimo, Linda.>> La donna ricambiò senza problemi quell’ inquietante ghigno con un sorriso smagliante. 
<<Ah, sì?>> 
Giulietta era una superba bugiarda ed era capace di riconoscerne un’altra con certezza meccanica. Per quanto poco ortodosso fosse: era proprio quello il motivo per cui si ritrovava così a suo agio con la Dottoressa Rizzi. Una bugiarda che discuteva dei propri problemi con una sua pari. Inoltre mentire e riuscire a fregarla avrebbe richiesto un impegno insensato, vista e considerata la sua posizione. Dunque non si può certo credere che lei avesse tirato fuori quella gigantesca menzogna per essere presa sul serio. Durante una seduta qualunque la strizzacervelli le avrebbe dato più corda, ma proprio a causa della fastidiosa interruzione del suo rito: non si sentiva dell’umore. Era guardinga e giustamente diffidente.
<<Non dire puttanate, Giulietta.>> Oltretutto, come si può ben constatare, anche la donna si trovava più che a suo agio in compagnia della ragazza date certe licenze. In un secondo, il sorriso di Giulietta si spanse ancora, tanto da farle male. 
<<In sala d’attesa ho avuto modo di conoscere una signora adorabile.>>
E Linda sapeva esattamente chi fosse.
                                                          ***
Nel marzo dell’anno precedente era stata assunta Elisabetta. Un giorno, mentre la giovane si preparava una tazza di te nell’ angusta cucinetta dello studio, ricevette una chiamata al suo numero privato. Sulle prime stava per rispondere ma poi, dopo essersi chiesta se fosse il caso di intrattenersi al telefono durante l’orario lavorativo; aveva lasciato cadere la linea. La giovane segretaria era sicurissima di non voler perdere di serietà; dopo solo poche settimane dall’ inizio del suo primo lavoro tra l’altro! Per fortuna, la curiosità era sempre stata il suo punto debole e certamente non la sua più grande virtù. Fosse stato altrimenti molte delle cose avvenute in seguito non avrebbero avuto luogo. Stuzzicava la propria curiosità ipotizzando il motivo per cui l’avevano chiamata.  Passarono giusto un paio di minuti prima che cadesse in tentazione e richiamasse.
<<Pronto?>> e si affrettò nell’aggiungere che stava lavorando, di fare in fretta. Sperava che qualcuno l’avesse sentita, più per paura di essere rimproverata in caso l’avessero sorpresa al telefono che per non perdere tempo. Erano ore che non aveva nulla da fare. 
Dall’altra parte della linea stava il suo fidanzato. 
<<Scusami, Eli, lo so. Avrei chiamato al numero dell’ufficio, ma dato che sei la mia ragazza ho pensato fosse indifferente.>>  Il tono del ragazzo era serio e pensieroso come poche volte lo aveva sentito.  Allora Elisabetta scherzò un po’ per alleggerire la situazione. 
<<Perchè? Vuoi andare in terapia? Oppure mandarci me?>> chiese e si rinfrancò nel sentirlo ridere.
<<In realtà, vorrei mandarci mia nonna Marzia.>> Ora fu il turno di Elisabetta di farsi una risata. Ovviamente non l’aveva preso sul serio. Ella pensò all’anziana signora dall’aria fragile e serena che aveva incontrato in occasione di un pranzo con la famiglia di Luigi. Appena presentate, le due avevano intavolato una bella chiacchierata di mezz’ora su i suoi cinque gatti. E avendo ormai lavorato allo studio per un po’ e osservato il via vai di pazienti, non sapeva proprio cosa potesse avere in comune con tutti quei malati quella simpatica donnina .
<<Elisabetta,>> la interruppe Luigi <<non ti sto prendendo in giro.>>.
La ragazza, stupita, emise un verso incomprensibile.
<<Per favore, potresti prendere appuntamento con uno dei professionisti del tuo studio? Non ti chiederei questo favore se non fosse necessario.>>. La segretaria acconsentì e dopo pochi minuti chiuse la telefonata con il ragazzo.  Ora non le restava che decidere a quale tra i suoi capi chiedere l’appuntamento. I dottori che lavoravano allo studio erano tre: Luca Fiesoli, Matilde Vasari e Linda. I tre andavano d’accordo tra loro, nonostante fosse raro che s’incontrassero tra una seduta e l’alta. Capitava spesso che mentre uno psicologo usciva da una stanza, l’altro si fosse appena chiuso la porta alle spalle. La loro era una convivenza estremamente silenziosa. In tutto questo, Elisabetta si sentiva spesso spettatrice del loro quieto vivere, tra the e tisane a tutte le ore del giorno e un flusso ininterrotto di pazienti. Tale sensazione la provava, in segreto, per una seconda ragione: origliava le sedute.  La curiosa Elisabetta non lo faceva intenzionalmente, per quanto assurdo sembri considerato quel suo viziaccio.  Per una bizzarra coincidenza, l’esatta ubicazione della sua scrivania, tra la sala d’attesa e le stanze dei medici, era l’unico punto in tutta la palazzina in cui era possibile sentire quanto accadeva negli altri punti della casa. Ebbene quel ventisette marzo, la neo-assunta segretaria origliò con maggiore attenzione del solito agli appuntamenti della giornata.
La scelta era infine ricaduta su Linda Rizzi. Elisabetta era sicura che la gioventù e intelligenza della Psicologa in questione, appena ventottenne, avrebbe fatto colpo su Nonna Marzia. Linda aveva accettato senza problemi. Ciò nonostante Eli restava un po’ nervosa, sperava di aver preso la decisione migliore. 
Il giorno della seduta tanto temuta, la ragazza non si sentì minimamente in colpa a tendere spudoratamente l’orecchio. Senza contare che il suo fidanzato non le aveva nemmeno accennato alla natura del problema. Per questo motivo Elisabetta rimase allibita da quanto sentì.
<<Buongiorno Signora. Io sono la sua nuova psicologa, Linda Rizzi.>>
<<Buongiorno a te cara, ti prego dammi del tu!>> poi <<chiamami Marzia.>>
Evidentemente Linda ignorò il la richiesta.
<<Allora mi dica qual è il problema. Elisabetta non mi ha dato alcun informazione specifica riguardo al motivo per cui è qui.>>
<<Ovvio, cara. Non ne conosci il motivo.>> <<Non sai cosa faccio.>>
<<E cosa fa?>>
<<Oh, cielo! Sono così eccitata. Non sono mai stata dallo psicologo in tutta la mia vita. Ci credi? Oh! Cosa devo dire adesso? Come cominciare…>>
<<Ehm. Ad esempio potrebbe rispondere alla domanda precedente.>>
<<Oh sì, sì. Cara hai assolutamente ragione.>> Dopodiché si udì solo silenzio per un paio di minuti.
<<Marzia.>>
<<Oh, giusto, anzi giustissimo. Quasi dimenticavo: pianifico omicidi.>>
A Elisabetta cadde la tazza dalle mani.
Ora il gentile lettore, si chiederà il perché non sia qui raccontata la bizzarra, primissima seduta dell’anziana Signora Marzia. É obbligo dell’autore precisare che ai fini di questo elaborato la trascrizione di quanto avvenuto nel resto di quell’ora e mezza è inutile. Dunque si passerà direttamente all’incontro tra le due donne, dopo l’appuntamento di Giulietta quel martedì otto gennaio. La cui restante parte rimane sconosciuta per la mancanza di ulteriori appunti.
                                                                   ****
Scostando con una mano le tende color terracotta, Linda osservava dalla finestra la ragazzina uscire dall’edificio. Nella stanza di Linda entrò a passo claudicante l’anziana donna. 
<<Buonasera.>> la salutò scostandosi dal vetro. Linda si sentiva esausta, quello era il suo ultimo incontro della giornata;  sperava passasse in fretta. 
La signora Marzia Lombardo era finita in terapia quando del suo passatempo preferito, ossia immaginare e pianificare la morte delle persone, era venuto a conoscenza il nipote Luigi. 
Per tutta la vita Marzia aveva, per così dire, tenuto sottochiave il suo segreto, trascrivendo le sue fantasie su quaderni e diari. L’idea di metterle per iscritto era stata della madre della donna. Sara Franceschini in Lombardo, dopo la prima volta che l’ adorabile pargola aveva descritto la sua fine nei minimi particolari, aveva provveduto ad educare la figlia Marzia a dissimulare questa peculiarità. 
Fu un’assurda casualità che, il più giovane dei nipoti della signora trovasse un intero scatolone con i suoi scritti mentre rimetteva in ordine il seminterrato. Lette un paio di pagine da ogni quaderno, l’uomo era rimasto a dir poco sconvolto. Infine con uno scopo abbastanza ridicolo, probabilmente quello di curare la Nonna, l’aveva spedita dallo psicologo.
 Ciò che lasciava Linda interdetta era il fatto che l’uomo pensasse davvero che un paio di sedute di psicanalisi avrebbero potuto far smettere la signora. La quale, per essere precisi, aveva scritto e riscritto uccisioni violente e pacifiche, cruente e meno, senza sosta per più di settant’anni. Nonostante, Linda riconoscesse che questo fosse un comportamento ben poco consueto,  era sicura che l’unica cosa che servisse alla vecchia signora fosse carta. Tanta, tantissima carta e una penna. Niente più, niente meno. Accomodatesi entrambe, con  la strizzacervelli appollaiata sulla sua poltrona rossa, la seduta ebbe inizio. 
<<Allora, che mi racconta?>> chiese. E Marzia, come se non aspettasse altro, si lanciò in un racconto dettagliato e noiosissimo su qualche eccezionale evento occorso durante la recita del rosario. La professionale Linda finse con gentilezza di interessarsi al discorso. Ogni tanto anche lei si meritava una pausa, pensò Elisabetta, sentendo involontariamente spezzoni dello sproloquio della nonna del suo fidanzato. Sebbene fosse toccato alla giovane segretaria sorbirsela per ben due ore, prima della seduta, dato che il suo fidanzato non avrebbe potuto accompagnarla più tardi.  Ahh, cosa non si fa per amore? 
Dopo all’incirca trenta minuti, Linda, annoiata oltremisura, decise che era venuto il momento di guadagnarsi i suoi ottanta euro di seduta.
<<Quindi che mi dice delle sue fantasie?>> interruppe. 
<<Oh sì! Mi ero dimenticata di raccontarle che ne ho avuto una nuova poco fa.>> esclamò la vecchina agitandosi sulla seduta, sembrava incapace di stare ferma.
<<Riguardava per caso una ragazza in sala d’attesa?>> Linda non era particolarmente entusiasta dell’incontro tra Marzia e Giulietta. Non era auspicabile che i pazienti s’incontrassero. L’altra confermò felice.
 <<Desidera carta e penna? Così poi me lo può raccontare.>> propose ugualmente cortese.
La Lombardo annuì febbrile. Linda l’armò di foglio, penna e un libro da usare come piano. La vecchia scribacchiò per dieci minuti. A ritmo batteva i piccoli piedi sul tappeto. Messa a punto la stesura del suo macabro scritto, Marzia, senza perdere tempo in riletture, le ripassò il foglio. Lo sguardo  di Linda scivolò lungo il fitto corsivo. Constatò tra sé che quella lettura fosse straordinariamente incalzante. Se la signora avesse sfruttato questo suo talento,  probabilmente avrebbe potuto fare concorrenza ai grandi miti del genere thriller, Linda ne era certa. 
Anche se, non era frequente che Linda avesse modo di leggere delle i racconti della donna, questa capì fin dalle prime righe, che qualcosa era differente. E pian piano che la narrazione si dipanava ne ebbe la certezza. Rimase un momento in silenzio, internando ciò che aveva letto. La storia riguardava Giulietta in tutt’altro modo.
<<Quindi la vittima non è lei.>> .
                                                           ***
Infine, aveva lasciato che Marzia divagasse in considerazioni e particolari per il resto della seduta. La psicologa aveva ascoltato, pensierosa. La stanchezza stava prendendo il sopravvento su Linda e lei non aveva le forze di combatterla. 
Ormai erano passati almeno venti minuti da quando Elisabetta l’aveva lasciata sola nel suo studio. La ragazza doveva accompagnare Nonna Marzia a casa. Mentre i suoi colleghi avevano staccato almeno due ore prima. Avrebbe dovuto chiudere lei. 
Invece, era ancora seduta sulla sua poltrona rossa e guardava fuori dalla finestra. Si era fatto buio. La vecchia aveva dimenticato di portare via il foglio. O magari lo aveva fatto apposta. In ogni caso Linda  lo aveva ripiegato e infilato nella cartella della paziente. Aveva fatto tutto religiosamente senza scarpe: alzarsi, prendere la cartella dal cassetto della sua scrivania e riporla al proprio posto; poi era ritornata sulla poltrona. Nonostante fosse stremata da quella strana giornata, non si sentiva pronta ad abbandonare il personaggio. Scosse lentamente il capo e dei ciuffi biondi sfuggirono dalla coda, incorniciandole il viso. Linda lanciò uno sguardo alle décolleté  nere a terra. Non era ancora giunto il momento. Con i pensieri per aria, si diresse in cucina. Armeggiò con un pentolino e scaldò dell’acqua. Ultimamente, nella sua vita privata c’era stata calma piatta, e forse era per quello si disse, che ogni minima variazione avrebbe potuto sembrarle enorme. Ancora ci rimuginava su. Giulietta sarebbe dovuta entrare sette minuti e mezzo dopo e sarebbe dovuta essere la vittima. Eppure. Eppure… 
La strizzacervelli bevve la sua tazza di the e tornò nella propria stanza. Poco dopo infilò i tacchi e indossò il cappotto verde scuro. Uscendo spense tutte le luci. Per finire, Linda si chiuse la porta dietro le spalle e diede una doppia mandata con le chiavi argentate.
Parte 1 / Parte 2
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freedomtripitaly · 4 years
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Il Tempio Espiatorio della Sagrada Familia, in spagnolo Templo Expiatorio de la Sagrada Familia, è il monumento più visitato di tutta la Spagna e uno dei monumenti simbolo della città catalana di Barcellona. Una delle particolarità di questo affascinante edificio religioso, consacrato soltanto nel 2010, è quella di essere a tutt’oggi in via di ultimazione, come spesso avveniva per le grandi cattedrali erette nel Medioevo. La storia della Sagrada Familia, il capolavoro di Antoni Gaudì Il primo progetto, mai messo in opera, per erigere una grande chiesa nel quartiere allora ancora periferico dell’Eixample nasce nel 1881 e doveva prendere come modello il santuario italiano di Loreto, nelle Marche. I lavori, cominciati l’anno dopo, vengono affidati all’architetto Francisco de Paula del Villar y Lozano (1828-1901), che subito modifica il progetto originale in favore di una chiesa in stile neogotico. A causa di forti divergenze interne, Lozano abbandona il progetto nel 1883: neanche un anno dopo la posa della prima pietra. Al suo posto viene scelto un giovane architetto di nome Antoni Gaudì, che rivede completamente il progetto e vi si dedica per oltre 40 anni fino alla sua morte, nel 1926. Negli ultimi 15 anni della vita si dedica esclusivamente alla costruzione di questa grande chiesa. La sua presenza nel cantiere era quotidiana, tuttavia i lavori procedevano a rilento, in parte per l’irregolare flusso delle donazioni necessarie alla realizzazione e in parte perché numerosi dettagli del progetto Gaudì li ha definiti man mano che si procedeva con la costruzione. Consapevole del fatto che i lavori avrebbero proseguito anche dopo la sua morte per decenni, e forse per secoli, l’architetto catalano preferì completare intere sezioni dell’edificio, anziché esaurire tutte le risorse a disposizione per impostarne il perimetro, per lasciare un’idea tangibile del progetto originale a chi si sarebbe fatto carico di proseguire. Gaudì muore all’improvviso travolto da un tram a Barcellona nel 1926 riuscendo a realizzare soltanto la facciata della Natività e la torre di San Barnaba. Dieci anni dopo esplode la guerra civile spagnola e un gruppo di anarchici catalani danno fuoco alla cripta distruggendo il laboratorio di Gaudì, i suoi disegni, i suoi appunti e alcuni modelli in scala delle future sezioni della chiesa. Soltanto dopo a un lungo lavoro di recupero e di restauro di questi modelli, dal 1944, terminata la guerra, è stato possibile riprendere i lavori, la cui fine è prevista per il 2026. Scoprire la Sagrada Familia Man mano che la costruzione si innalza, il modernismo naturale di Gaudì si arricchisce sempre di più di particolari fantastici. Un grandioso superamento del neogotico in favore di linee e forme sempre più organiche e ispirate a quelle della natura. Una concezione che è cambiata nel corso degli anni, adattandosi alla sensibilità del suo creatore e alla sua costante ricerca di nuove soluzioni, paradossalmente aiutata dalle periodiche interruzioni dovute alla mancanza di fondi. La pianta della Sagrada Familia è a croce latina. Al di sopra della cripta si trova l’altare maggiore attorniato da sette cappelle; poi il transetto a tre navate con le rispettive facciate laterali della Natività e della Passione, mentre il corpo centrale di ben cinque navate terminerà con la facciata della Gloria, ancora in costruzione. La Sagrada Familia, una volta ultimata, potrà contenere circa 14 mila persone. La Sagrada Familia: le facciate e le torri L’esterno del complesso della Sagrada Familia è impreziosito da una complessa e a dir poco vertiginosa iconografia legata ai culti e alle festività connesse alla religione cattolica attraverso gli Apostoli, gli Evangelisti, la Vergine Maria e Gesù. Gran parte delle sculture dell’esterno sono state disegnate da Gaudì in persona, realizzando prima dei modellini e poi dei calchi in gesso, sui quali adattava le proporzioni che avrebbero dovuto avere una volta scolpite nella pietra. Più in alto si trovano le figure, più aumentano le loro dimensioni. Dal complesso si innalzeranno in totale diciotto torri dal profilo parabolico: quattro per ogni facciata, una torre-cupola posta sopra all’abside dedicata alla Vergine e un’altra al centro intitolata a Gesù, alta 170 m. e attorniata a sua volta dalle quattro torri degli Evengelisti. Le torri hanno altezze differenti secondo la posizione gerarchica del personaggio da ciascuna rappresentato. La torre del Cristo sarà a sua volta sormontata da una croce a sei bracci alta 15 m., mentre quella della Madonna avrà al suo apice una grande stella a dodici punte: la stella di San Martino. L’edificio nel suo complesso però non supererà una volta terminato l’altezza della celebre collina cittadina di Barcellona, il Montjuic, perché come lo stesso Gaudì sosteneva: “l’opera dell’uomo non deve in nessun modo superare quella di Dio”. Si consiglia, ancora prima di entrare a visitare l’interno, di trovare un posto tranquillo, dove sedersi comodamente e ammirare, proprio come si farebbe con un dipinto, le grandi e meravigliose facciate della chiesa: Facciata della Natività (nord-est) Il suo aspetto neogotico è movimentato dai portali decorati con motivi vegetali e dedicati alle virtù teologali (Speranza, Fede e Carità). Il portale della Carità, al centro, è sovrastata da un’immenso Albero della Vita. Decorazioni di giubilo evocano gli episodi della vita di Gesù, esaltandone la componente umana e famigliare. La facciata, costruita tra il 1894 e il 1930, è sovrastata da quattro torri campanarie decorate con parole come Hosanna, Excelsis e Sanctus, e dedicate rispettivamente ai santi Mattia, Giuda, Simone e Barnaba. Le sculture sono state terminate soltanto nel 2000 dall’artista giapponese Etsurō Sotoo (1953). Una curiosità legata a queste sculture è il fatto che Gaudì, nel realizzare i calchi in gesso, prese a modello cittadini barcellonesi vivi e morti, ritratti direttamente presso l’obitorio locale. Facciata della Passione (sud-ovest) Del tutto differente dalla precedente, questa facciata non comunica gioia bensì terrore, per riflettere al meglio l’agonia del Cristo durante la crocifissione. L’effetto drammatico è cupamente sottolineato dalle sculture dell’artista barcellonese Josep Maria Subirachs (1927-2014). Sei pilastri obliqui incorniciano le porte d’accesso alla chiesa, sovrastate da un frontone piramidale con colonne a forma di osso, bordato in alto da una corona di spine. Tra le decorazioni spuntano parole tratte dalla Bibbia in svariate lingue, tra cui ovviamente il catalano. Anche qui i portali sono dedicati rispettivamente a Fede, Speranza e Carità, mentre nella parte terminale della facciata si allungano quattro torri dedicate ai santi Giacomo il Minore, Tommaso, Filippo e Bartolomeo. Facciata della Gloria (sud-est) I lavori di questa facciata sono iniziati soltanto nel 2002 e sarà la più grande di tutto il complesso e verrà dedicata alla gloria celeste di Gesù. Darà accesso alla navata centrale e rappresenterà la Morte, il Giudizio Finale, la Gloria e, per contrappasso, all’Inferno. Solamente abbozzata da Gaudì, sapendo che non avrebbe potuto vederla realizzata, sarà quella sulla quale gli architetti avranno carta bianca per quanto riguarda l’esecuzione. Avrà un portico preceduto da una grande scalinata, rappresentando così l’apoteosi della Sagrada Familia. Se nel 2026 sarà completata come dicono, non resterà che venire a Barcellona per ammirarla in tutto il suo splendore. La Sagrada Familia: interno, cripta e abside Gaudì sosteneva che “nulla è arte se non proviene dalla natura”. L’interno della Sagrada Familia di Barcellona è stato infatti pensato come un bosco fatto di pietra e di luce. Le colonne ricordano la forma degli alberi, con i rami che si dividono sinuosi a sorreggere le volte intrecciate e iperboliche del soffitto. La luce che entra dalle vetrate multicolori muovono ed esaltano lo spazio, amplificando il connubio tra la natura e la spiritualità religiosa. Al di sotto dell’abside centrale si trova la cripta, la sezione più antica del complesso, modificata però da Gaudì sostanzialmente. I capitelli, per esempio, dai motivi classici hanno assunto le attuali forme vegetali, mentre la volta è stata enormemente rialzata. Gaudì circonda inoltre la cripta da un fossato, utile per la luce e la ventilazione. Al di sotto della volta sono disposte a semicerchio sette cappelle dedicate alla sacra famiglia di Gesù (il Sacro Cuore, l’Immacolata Concezione, San Giuseppe, San Gioacchino, Sant’Anna, Sant’Elisabetta e San Zaccaria). Di fronte a queste in linea retta vi sono altre cinque cappelle, tra le quali, al centro, quella dedicata alla Sacra Famiglia con l’altare e quella di Nostra Signora del Carmelo con la tomba di Gaudì. Al centro dell’abside sovrastante la cripta merita attenzione la cappella dell’Assunta: una lettiera di pietra che una volta ultimata sarà impreziosita da una lanterna alta 30 m. e un mosaico nella cupola con la Santissima Trinità. Tutte e sette le cappelle che circondano l’abside maggiore sono alte 35 m., finemente decorate e hanno la cupola decorata a mosaico. L’abside invece è impreziosito da un tripudio di decorazioni scultoree: i santi fondatori dei principali ordini religiosi, le iniziali della Sacra Famiglia, elementi della natura che fanno parte della simbologia religiosa e animali al posto dei gotici gargoyles. Visitare la Sagrada Familia: prezzo dei biglietti L’ingresso alla Sagrada Familia di Barcellona ha un prezzo accessibile e sarebbe un vero peccato perderselo, senza godere della magnifica atmosfera che pervade i visitatori di tutto il mondo una volta entrati. La Sagrada Familia ha davvero qualcosa di magico e il suggestivo bosco di pietra pervaso di luce che costituisce l’interno non ha rivali al mondo, per bellezza e suggestione. Una spiritualità del tutto moderna, in sintonia con il nostro presente, che cresce direttamente nel futuro e, per una volta, non nel passato. L’ingresso costa 17€ per gli adulti (33 se si abbina la salita alle torri e l’eccezionale panorama che si vede da esse), è gratuito per i bambini, ridotto per studenti e pensionati (rispettivamente 13 e 11€. Per chi non vuole perdersi nessun dettaglio delle magnifiche strutture che adornano l’esterno e l’interno della chiesa si consiglia inoltre la visita guidata, che costa 47€. Si ricorda infine che il biglietto per la visita della Sagrada Familia non è compreso nella Barcellona Card. https://ift.tt/2UySmjQ Visita alla Sagrada Familia di Barcellona Il Tempio Espiatorio della Sagrada Familia, in spagnolo Templo Expiatorio de la Sagrada Familia, è il monumento più visitato di tutta la Spagna e uno dei monumenti simbolo della città catalana di Barcellona. Una delle particolarità di questo affascinante edificio religioso, consacrato soltanto nel 2010, è quella di essere a tutt’oggi in via di ultimazione, come spesso avveniva per le grandi cattedrali erette nel Medioevo. La storia della Sagrada Familia, il capolavoro di Antoni Gaudì Il primo progetto, mai messo in opera, per erigere una grande chiesa nel quartiere allora ancora periferico dell’Eixample nasce nel 1881 e doveva prendere come modello il santuario italiano di Loreto, nelle Marche. I lavori, cominciati l’anno dopo, vengono affidati all’architetto Francisco de Paula del Villar y Lozano (1828-1901), che subito modifica il progetto originale in favore di una chiesa in stile neogotico. A causa di forti divergenze interne, Lozano abbandona il progetto nel 1883: neanche un anno dopo la posa della prima pietra. Al suo posto viene scelto un giovane architetto di nome Antoni Gaudì, che rivede completamente il progetto e vi si dedica per oltre 40 anni fino alla sua morte, nel 1926. Negli ultimi 15 anni della vita si dedica esclusivamente alla costruzione di questa grande chiesa. La sua presenza nel cantiere era quotidiana, tuttavia i lavori procedevano a rilento, in parte per l’irregolare flusso delle donazioni necessarie alla realizzazione e in parte perché numerosi dettagli del progetto Gaudì li ha definiti man mano che si procedeva con la costruzione. Consapevole del fatto che i lavori avrebbero proseguito anche dopo la sua morte per decenni, e forse per secoli, l’architetto catalano preferì completare intere sezioni dell’edificio, anziché esaurire tutte le risorse a disposizione per impostarne il perimetro, per lasciare un’idea tangibile del progetto originale a chi si sarebbe fatto carico di proseguire. Gaudì muore all’improvviso travolto da un tram a Barcellona nel 1926 riuscendo a realizzare soltanto la facciata della Natività e la torre di San Barnaba. Dieci anni dopo esplode la guerra civile spagnola e un gruppo di anarchici catalani danno fuoco alla cripta distruggendo il laboratorio di Gaudì, i suoi disegni, i suoi appunti e alcuni modelli in scala delle future sezioni della chiesa. Soltanto dopo a un lungo lavoro di recupero e di restauro di questi modelli, dal 1944, terminata la guerra, è stato possibile riprendere i lavori, la cui fine è prevista per il 2026. Scoprire la Sagrada Familia Man mano che la costruzione si innalza, il modernismo naturale di Gaudì si arricchisce sempre di più di particolari fantastici. Un grandioso superamento del neogotico in favore di linee e forme sempre più organiche e ispirate a quelle della natura. Una concezione che è cambiata nel corso degli anni, adattandosi alla sensibilità del suo creatore e alla sua costante ricerca di nuove soluzioni, paradossalmente aiutata dalle periodiche interruzioni dovute alla mancanza di fondi. La pianta della Sagrada Familia è a croce latina. Al di sopra della cripta si trova l’altare maggiore attorniato da sette cappelle; poi il transetto a tre navate con le rispettive facciate laterali della Natività e della Passione, mentre il corpo centrale di ben cinque navate terminerà con la facciata della Gloria, ancora in costruzione. La Sagrada Familia, una volta ultimata, potrà contenere circa 14 mila persone. La Sagrada Familia: le facciate e le torri L’esterno del complesso della Sagrada Familia è impreziosito da una complessa e a dir poco vertiginosa iconografia legata ai culti e alle festività connesse alla religione cattolica attraverso gli Apostoli, gli Evangelisti, la Vergine Maria e Gesù. Gran parte delle sculture dell’esterno sono state disegnate da Gaudì in persona, realizzando prima dei modellini e poi dei calchi in gesso, sui quali adattava le proporzioni che avrebbero dovuto avere una volta scolpite nella pietra. Più in alto si trovano le figure, più aumentano le loro dimensioni. Dal complesso si innalzeranno in totale diciotto torri dal profilo parabolico: quattro per ogni facciata, una torre-cupola posta sopra all’abside dedicata alla Vergine e un’altra al centro intitolata a Gesù, alta 170 m. e attorniata a sua volta dalle quattro torri degli Evengelisti. Le torri hanno altezze differenti secondo la posizione gerarchica del personaggio da ciascuna rappresentato. La torre del Cristo sarà a sua volta sormontata da una croce a sei bracci alta 15 m., mentre quella della Madonna avrà al suo apice una grande stella a dodici punte: la stella di San Martino. L’edificio nel suo complesso però non supererà una volta terminato l’altezza della celebre collina cittadina di Barcellona, il Montjuic, perché come lo stesso Gaudì sosteneva: “l’opera dell’uomo non deve in nessun modo superare quella di Dio”. Si consiglia, ancora prima di entrare a visitare l’interno, di trovare un posto tranquillo, dove sedersi comodamente e ammirare, proprio come si farebbe con un dipinto, le grandi e meravigliose facciate della chiesa: Facciata della Natività (nord-est) Il suo aspetto neogotico è movimentato dai portali decorati con motivi vegetali e dedicati alle virtù teologali (Speranza, Fede e Carità). Il portale della Carità, al centro, è sovrastata da un’immenso Albero della Vita. Decorazioni di giubilo evocano gli episodi della vita di Gesù, esaltandone la componente umana e famigliare. La facciata, costruita tra il 1894 e il 1930, è sovrastata da quattro torri campanarie decorate con parole come Hosanna, Excelsis e Sanctus, e dedicate rispettivamente ai santi Mattia, Giuda, Simone e Barnaba. Le sculture sono state terminate soltanto nel 2000 dall’artista giapponese Etsurō Sotoo (1953). Una curiosità legata a queste sculture è il fatto che Gaudì, nel realizzare i calchi in gesso, prese a modello cittadini barcellonesi vivi e morti, ritratti direttamente presso l’obitorio locale. Facciata della Passione (sud-ovest) Del tutto differente dalla precedente, questa facciata non comunica gioia bensì terrore, per riflettere al meglio l’agonia del Cristo durante la crocifissione. L’effetto drammatico è cupamente sottolineato dalle sculture dell’artista barcellonese Josep Maria Subirachs (1927-2014). Sei pilastri obliqui incorniciano le porte d’accesso alla chiesa, sovrastate da un frontone piramidale con colonne a forma di osso, bordato in alto da una corona di spine. Tra le decorazioni spuntano parole tratte dalla Bibbia in svariate lingue, tra cui ovviamente il catalano. Anche qui i portali sono dedicati rispettivamente a Fede, Speranza e Carità, mentre nella parte terminale della facciata si allungano quattro torri dedicate ai santi Giacomo il Minore, Tommaso, Filippo e Bartolomeo. Facciata della Gloria (sud-est) I lavori di questa facciata sono iniziati soltanto nel 2002 e sarà la più grande di tutto il complesso e verrà dedicata alla gloria celeste di Gesù. Darà accesso alla navata centrale e rappresenterà la Morte, il Giudizio Finale, la Gloria e, per contrappasso, all’Inferno. Solamente abbozzata da Gaudì, sapendo che non avrebbe potuto vederla realizzata, sarà quella sulla quale gli architetti avranno carta bianca per quanto riguarda l’esecuzione. Avrà un portico preceduto da una grande scalinata, rappresentando così l’apoteosi della Sagrada Familia. Se nel 2026 sarà completata come dicono, non resterà che venire a Barcellona per ammirarla in tutto il suo splendore. La Sagrada Familia: interno, cripta e abside Gaudì sosteneva che “nulla è arte se non proviene dalla natura”. L’interno della Sagrada Familia di Barcellona è stato infatti pensato come un bosco fatto di pietra e di luce. Le colonne ricordano la forma degli alberi, con i rami che si dividono sinuosi a sorreggere le volte intrecciate e iperboliche del soffitto. La luce che entra dalle vetrate multicolori muovono ed esaltano lo spazio, amplificando il connubio tra la natura e la spiritualità religiosa. Al di sotto dell’abside centrale si trova la cripta, la sezione più antica del complesso, modificata però da Gaudì sostanzialmente. I capitelli, per esempio, dai motivi classici hanno assunto le attuali forme vegetali, mentre la volta è stata enormemente rialzata. Gaudì circonda inoltre la cripta da un fossato, utile per la luce e la ventilazione. Al di sotto della volta sono disposte a semicerchio sette cappelle dedicate alla sacra famiglia di Gesù (il Sacro Cuore, l’Immacolata Concezione, San Giuseppe, San Gioacchino, Sant’Anna, Sant’Elisabetta e San Zaccaria). Di fronte a queste in linea retta vi sono altre cinque cappelle, tra le quali, al centro, quella dedicata alla Sacra Famiglia con l’altare e quella di Nostra Signora del Carmelo con la tomba di Gaudì. Al centro dell’abside sovrastante la cripta merita attenzione la cappella dell’Assunta: una lettiera di pietra che una volta ultimata sarà impreziosita da una lanterna alta 30 m. e un mosaico nella cupola con la Santissima Trinità. Tutte e sette le cappelle che circondano l’abside maggiore sono alte 35 m., finemente decorate e hanno la cupola decorata a mosaico. L’abside invece è impreziosito da un tripudio di decorazioni scultoree: i santi fondatori dei principali ordini religiosi, le iniziali della Sacra Famiglia, elementi della natura che fanno parte della simbologia religiosa e animali al posto dei gotici gargoyles. Visitare la Sagrada Familia: prezzo dei biglietti L’ingresso alla Sagrada Familia di Barcellona ha un prezzo accessibile e sarebbe un vero peccato perderselo, senza godere della magnifica atmosfera che pervade i visitatori di tutto il mondo una volta entrati. La Sagrada Familia ha davvero qualcosa di magico e il suggestivo bosco di pietra pervaso di luce che costituisce l’interno non ha rivali al mondo, per bellezza e suggestione. Una spiritualità del tutto moderna, in sintonia con il nostro presente, che cresce direttamente nel futuro e, per una volta, non nel passato. L’ingresso costa 17€ per gli adulti (33 se si abbina la salita alle torri e l’eccezionale panorama che si vede da esse), è gratuito per i bambini, ridotto per studenti e pensionati (rispettivamente 13 e 11€. Per chi non vuole perdersi nessun dettaglio delle magnifiche strutture che adornano l’esterno e l’interno della chiesa si consiglia inoltre la visita guidata, che costa 47€. Si ricorda infine che il biglietto per la visita della Sagrada Familia non è compreso nella Barcellona Card. La Sagrada Familia è una delle più grandi opere di tutti i tempi, nonché simbolo della Spagna e, grazie alle sua maestosità, affascina davvero tutti.
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sguardimora · 5 years
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Stasera alle 21 al Teatro Dimora di Mondaino, nell’ambito di E’ BAL – palcoscenici romagnoli per la danza contemporanea, si potrà assistere a Celeste appunti per Natura, ultimo lavoro della danzatrice e coreografa Raffaella Giordano. Il lavoro, prodotto da Associazione Sosta Palmizi, con il sostegno del MiBAC e della Regione Toscana, è un solo della Giordano, che affonda le proprie radici in un libro, L’Estate della collina di J. A. Baker, misterioso scrittore inglese che racconta e descrive unicamente la natura, con uno sguardo attentissimo ai suoi caratteri biologici e poetici, dalla manifestazione più minuscola alla vertiginosa grandezza che la comprende.
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pangeanews · 4 years
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“Egli, il Potente, è presente in ogni parte dello spazio”. Per i 250 anni dalla nascita di Beethoven. Abbiamo bisogno dell’implacabile meraviglia dell’artista
Era il 1809, Vienna veniva invasa dalle truppe francesi e mentre la corte e la nobiltà trovava rifugio nei castelli ungheresi Ludwig van Beethoven restava in città, nella cantina del fratello, con la testa fra i cuscini per non sentire le cannonate che gli tormentavano le orecchie malate. In quello stesso anno annoterà un’ode: «Ciò che è libero da qualsiasi passione e desiderio, ciò è Potenza. Lui solo. Nessuno è più grande di lui. [Brahma], il suo spirito basta a se stesso. Egli, il Potente, è presente in ogni parte dello spazio […] Tu sei il sostegno di tutte le cose. Sole, etere, Brahma». Visione riposta insieme ad alcune lettere nel suo scrittoio realizzato in radica di noce. L’unico mobile perennemente invaso da partiture, appunti, libri che l’autore portava con sé durante i suoi trasferimenti viennesi. Si tratta di un commento molto sentito al Rigveda, il “Veda degli Inni”, uno dei testi fondamentali della metafisica induista. A duecentocinquanta anni dalla nascita di Beethoven quelle parole esprimono un avanzamento verso una meta irraggiungibile designata dalla Natura. Il salto dal reale nel “pensiero magico” è il nuovo comportamento che Beethoven propone al musicista del futuro.
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Che avresti mai pensato, nostro diletto Ludwig, se avessi saputo che la tua opera interpretata da Liszt e da lui trascritta (nove sinfonie di Beethoven S.464) più nobile frutto del tuo amore e della tua fede in ogni forma di vita inviolabile che popola questa terra, sarebbe stata distorta e usata da uomini assetati di denaro? Di certo Franz Liszt aveva faticato moltissimo per far conoscere l’arte di un profeta della ribellione a quelle creature asservite ai superbi duchi che non avevano un’orchestra privata pronta a suonare per loro. L’arte è magia vivida, libera dalla menzogna dell’essere verità. Dagli antichi scrittori alchimisti, dai mistici, Beethoven aveva appreso l’immaginazione come prima emanazione della divinità, traendo una conclusione: la consonanza con tutti gli esseri viventi, con gli animali e la Natura che le arti immaginative risvegliano, ci separano dalla mortalità con l’immortalità della bellezza e ci vincolano aprendo le porte segrete di tutti i cuori. «Tutto ciò che vive è santo e non c’è niente di sacrilego tranne le cose che non vivono» ecco il mistero, trasfigurato nella visione di William Bulter Yates per William Blake (Magia, Adelphi 2019). Ci sono rivoluzioni che non hanno bisogno di fucili e sono quelle che penetrano negli uomini. Con un’opera come l’Eroica, il più grande rivoluzionario della storia della musica romantica, celebra una sorta di speranza, una forza; immagina una società nuova e all’epoca impensabile; e allo stesso tempo mette una bomba nelle strutture della musica tonale. Per non parlare dei suoi famosi ultimi quartetti: quasi ineseguibili all’epoca, restano una traccia fondamentale della nostra civiltà.
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Non credo ai secoli, mi fanno ridere. Sono delle convenzioni: ci avviciniamo ad un’altra cultura e troviamo un calendario completamente diverso. È soltanto il contesto a dare una ragione alla musica, alle arti, ed è per questo che esse resistono al tempo. Torna in mente la stagione di Parigi del 1913 quando i “Balletti russi” diretti da Sergej Diaghilev inaugurarono il Théâtre des Champs-Élysées. Il Sacre du printemps composta da Igor Stravinskij andò in scena la sera del 28 maggio. Dello “scandalo” che provocò se ne parlò troppo. Oggi l’opera ha una funzione diversa che aveva quando apparve e questo potrebbe insegnarci cosa sia lo “scandalo”. La pluralità dei sensi possibili aiuta ogni linguaggio artistico a superare le tappe. Un meccanismo, però, resta attuale nel mercato dell’arte: ridurre tutto ad un valore economico o di effimera visibilità. È nel passato il futuro. Lo sapeva bene Stravinskij, svilito dalla brama di un cronista magniloquente: «Mi chiese un’intervista che gli accordai con piacere. Purtroppo la fece apparire sotto forma di una dichiarazione sul Sacre ingenua. Una tale deformazione delle mie parole mi addolorò molto, anche perché lo scandalo del Sacre aveva contribuito ad aumentare le vendite del foglio e tutti consideravano autentica la dichiarazione […] Caddi seriamente ammalato di una febbre tifoide che mi costrinse a rimanere sei settimane in clinica.» (Cronache della mia vita, Feltrinelli 2013). Il mercato resta una forza davvero imponente per certi aspetti e pericolosa per altri, tanto da surclassare valori che dovrebbero essere presenti. Ma non c’è spazio per una malinconia che contempla macerie. Bisogna trovare una strada attraverso di esse. Giorgio Gaslini nel suo libro Musica Totale (Feltrinelli 1975) proclamava: «Il musicista non è più spettatore o agente superfluo […] Il suo essere e il suo divenire sono una vera necessità storica». Suona dunque nelle fabbriche occupate, nel famoso ospedale psichiatrico di Trieste condividendo l’idea di Franco Basaglia dei manicomi aperti, all’interno di scuole ed atenei, in occasioni di manifestazioni e nei più importanti festival jazz italiani ed internazionali. Non si può concepire una società senza musica, arte, poesia, priva di quella dimensione utopica così importante nella vita. Ecco perché l’artista che crea opere indimenticabili costituisce una presenza essenziale nella vita sociale. Nel nostro ordinamento esiste la legge Bacchelli che tutela in piccola parte gli artisti viventi, ma un artista è patrimonio da vivo. L’artista vivente va quindi sostenuto e protetto prima di tutto garantendo una casa, il luogo dove lavora. Non bisogna dimenticare che ogni artista è tutte le potenziali opere che in condizioni di vita e di lavoro adeguate potrà produrre.
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La nostra società necessita di una verità morale che sia accecante, inclusiva. E invece sotto i nostri occhi continua a spalancarsi una piaga: siamo testimoni di un grande male che continua a prodursi, e per prima cosa siamo tenuti a precisare in che misura ne siamo partecipi. Questo bisogno sempre di calcare la mano nella ferocia e nell’assurdo. «Uomini civili, anzi superiori, accorrono ad assistere alla morte straziante del maiale (vero essere sudicio!). Facciamo ciò com’è giusto, sulle nazioni inferiori, da parte dell’unica nazione superiore esistente. Nazione non di assassini (o di ladri di vita) Davvero? Ho i miei dubbi […] Insegnerei poi nelle scuole cos’è veramente (nei suoi lati immondi) il celeste impero umano e com’è notturna, ma sacra, dolorosa ma spesso così dolce, l’oscura e umile nazione degli animali». Scriveva Anna Maria Ortese (Le piccole Persone, Adelphi, 2016). Al mondo non vi è nulla di rigido, nulla che viva per sé solo. Queste mie parole invocano la magia di cui è dotato lo sguardo che erompe dall’anima di voi Artisti, Poeti. Siamo pronti ad amarvi come un fiore raccolto ai margini del minimo esistenziale nel quale ci troviamo: pochissimi eletti, siete un fiore esplosivo, meraviglioso, feroce, implacabile che deve continuare ad insegnarci la rivoluzione della bellezza mille miglia lontana dal seme dell’odio.
Maria Giovanna Barletta
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pangeanews · 4 years
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Bruce Chatwin, l’esteta irrequieto (…e gli incontri con Malraux, Jünger, Klaus Kinski, Nadežda Mandel’stam)
Bruce Chatwin aveva gli scarponi al collo e la faccia da angelo in ceramica. “Bruce è un nome di cane in Inghilterra (non in Australia), ed era anche il cognome dei nostri cugini scozzesi. L’etimologia di ‘Chatwin’ è oscura, ma lo zio Robin, suonatore di fagotto, sosteneva che in anglosassone chette-wynde voleva dire ‘sentiero tortuoso’. Il nostro ramo della famiglia risale a un fabbricante di bottoni di Birmingham, ma in un angolo remoto dello Utah esiste una dinastia di Chatwin mormoni, e di recente ho avuto notizia di un signor Chatwin e signora, trapezisti”, scrive, declinando l’oro della sua stirpe, nel documento autobiografico Ho sempre desiderato andare in Patagonia. Tra gli avi nobili, Chatwin, figlio di buona famiglia – padre avvocato e impegnato nella Royal Navy – nato il 13 maggio del 1940, cita uno “zio Geoffrey, arabista e viaggiatore del deserto, che al pari di T.E. Lawrence ebbe in dono dall’emiro Feisal un aureo copricapo (poi venduto), e morì povero al Cairo”. Ecco: Chatwin fu l’opposto di T.E. Lawrence. All’avventura spiritata preferì l’ordinario nomadismo; alla dissipazione lo spirito ironico; alle vaste campiture narrative con aggettivi magnetici una scrittura lucida, con dedizione all’intarsio. Mi è sempre parso che Chatwin proponga un’irrequietezza da sorbirsi in cottage, in sedentaria solidarietà; d’altronde, le Moleskine si comprano immaginando un fittizio Capo Horn, decrittando le imprese che non condurremmo mai.
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A proposito. In Patagonia è ritenuto il libro più bello di Chatwin: inizia con “un pezzo di brontosauro” e fonda una breve azienda turistica. Pubblicato nel 1977, è ‘di culto’ da quando Chatwin vaga nella Patagonia celeste, era il 1989. Nello stesso tempo, Chatwin fa qualcosa di antico – piglia l’acutezza di Ruskin e di Walter Pater – e di moderno – viaggia on the road. E viceversa. Per me, il libro più bello è Le Vie dei Canti (1987) – l’idea che l’identità aborigena coincida con il poema di un sognatore, che annodi nel canto le storie di tutti, mi affascinò a lungo. Chatwin segue il filo del racconto più che il criterio dello studio, per questo ci incanta. Porzioni di libro sono la – fittizia – trascrizione dei propri appunti. “Nella Muqaddima di Ibn Khaldun, filosofo che considerò la condizione umana dal punto di vista del nomade si legge: ‘Il popolo del deserto è più vicino dei popoli stanziali alla bontà, perché è più vicino al Primo Stato e più lontano da tutte le cattive abitudini che hanno corrotto i cuori di chi ha lasciato la vita nomade’”. Chatwin insegna, insomma, che il miglior modo di viaggiare è leggere i viaggi altrui – oggi, d’altronde, non potremmo fare altro. E che viaggiare è seguire le tracce di altri, fare i segugi.
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La dinamica proposta da Chatwin funziona. Deserto contro città; tenda contro casa; nomadi contro stanziali; cacciatori contro operai. In verità, l’uomo è il culmine di un contraddittorio: è un nomade stanziale. Ci muoviamo per lavoro ma vogliamo una casa a cui tornare; se siamo reclusi in casa vaghiamo svagandoci, tentando l’ascesi o l’ascesa del divano, mentre il nostro destino è umettato di fiction. Ogni uomo si muove per trovare una sede: Alessandro Magno viaggia tra Macedonia e India per porre il proprio palazzo a Babilonia. Anche Dio, infine, vuole casa in un Tempio.
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Chatwin viaggia con la perizia del gemmologo: non è mai ‘sporco’ né estasiato. Gli scarponi li tiene intorno al collo. Per primo, ha portato la scrivania vittoriana in Dahomey: anche l’efferato, in Chatwin, è afferrabile con la ragione, scomposto in aggettivi, vaporizzato nel racconto. La follia di Klaus Kinski – protagonista di Cobra verde, film di Werner Herzog tratto dal Viceré di Ouidah di Chatwin – è anestetizzata in una descrizione che pare giungere per angelologia da Dickens: “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli. Non corrisponde esattamente all’idea che ho io di uno schiavista brasiliano, ma lasciamo correre”. Chatwin emerge dalla polvere fredda di Punta Arenas come appare da Sotheby’s, con la stessa, attenta eleganza. Per questo, adorava gli scriteriati.
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Con scriteriati intendo quegli uomini che non si adattano ai criteri di questo mondo. Dovrei dire, genio, se è genio la capacità di sdraiarsi sulla cresta della Storia, stabilirsi nella fortuna, fecondi senza caparbietà, audaci per dote e per dono, spietati eppure puri, certi del rispetto che si concede ai toccati dalla grazia. In Che ci faccio qui? Bruce Chatwin pretende l’incontro con due nomadi molto diversi da lui, per statura e scrittura: André Malraux e Ernst Jünger. Di questi, ama l’infallibile, il pudore che nessuno valica, lo spudorato carisma – non saprei come altro dire. “Malraux ha il tempismo di un opportunista di razza ed è stato testimone e partecipe di grandi eventi della storia moderna. Lui solo può raccontare che Stalin considerava Robinson Crusoe ‘il primo romanzo socialista’, e che la mano di Mao Tse-tung è ‘rosa come se l’avessero bollita’, e che la pelle bianca e gli occhi spiritati di Trotckij lo facevano somigliare a un idolo sumero di alabastro”. L’ironia ingabbia di quel tanto l’ammirazione: Malraux è il romanziere narciso, l’esistenzialista corrusco, il brigante dionisiaco, l’esteta mentitore, per cui “le persone di oggi si dissolvono nel mito” e “Mao Tse-tung, ‘il grande imperatore di bronzo’ delle Antimemorie è intercambiabile, in un certo senso, con la statua rilucente di un antico re-sacerdote mesopotamico”. Il dialogo si svolge nel 1974, Malraux morirà due anni dopo. “Concludemmo la conversazione parlando dell’Afghanistan, con i suoi fiumi verde pallido e i suoi monasteri buddhisti, dove le aquile volteggiano sopra le foreste di cedri deodara e gli uomini delle tribù portano asce da combattimento di rame…”. Allora, Malraux, pronto all’ennesima avventura, mai domo, sussurra, “e c’è sempre il Tibet…”.
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Beh, Chatwin sa fronteggiare questi personaggi – ci vuole lignaggio oltre a leggerezza per farlo. Jünger resta ai suoi occhi un implacabile enigma. Il pezzo, del 1981, è un piccolo gioiello, fin dall’incipit: “Il 18 giugno 1940 Winston Churchill concluse il suo discorso alla Camera dei Comuni con le parole: ‘Questa è stata la loro ora più bella!’, e quella sera stessa un personaggio molto diverso, con l’uniforme grigia di ufficiale della Wehrmacht, si sedette nello studio della duchessa de la Rochefoucauld al castello di Montmirail. Quell’ospite non invitato era un uomo di quarantacinque anni, basso di statura ma atletico, con la bocca fissa in un’espressione di stima per se stesso e con gli occhi azzurri di una tonalità particolarmente artica. Sfogliava i libri della duchessa col tocco sapiente del bibliomane e notò che molti recavano la dedica di famosi scrittori. Da un volume scivolò e cadde a terra una lettera…”. Chatwin è uno scrittore che ama le armonie e le superfici ben levigate – “particolarmente artica” –, la “prosa dura e lucida… imperturbabile” di Jünger e “la fermezza incrollabile delle sue idee” lo soggioga e abbaglia. Che, durante una esecuzione in un bosco francese, Jünger descriva i tremiti del bosco e dell’uomo e “una mosca che danzava in un raggio di sole”, lo repelle e lo inietta nell’apollineo. L’incontro con Jünger si rivelerà inutile – il tedesco è chiuso all’ingordigia di pettegolezzi dell’inglese. Gli concede però, “dato che Montherlant m’interessava”, di studiare una copia del foglio che stava sulla scrivania del francese, quando questi si è ammazzato. “Il suicidio fa parte del capitale dell’umanità”, è scritto, in francese. L’aforisma è di Jünger, “risale agli anni Trenta”, la calligrafia di Montherlant. Il foglio è chiazzato. “Le macchie erano fotocopie del sangue”.
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Iosif Brodskij venerava Nadežda, la moglie di Osip Mandel’stam. “Per decenni visse alla macchia, in fuga perpetua svolazzando tra gli angiporti e oscure città del grande impero, posandosi in un nuovo nido solo per riprendere il volo al primo segnale di pericolo. La condizione di ‘non persona’ divenne a poco a poco la sua seconda natura”, scrive il poeta in una memoria raccolta in Fuga da Bisanzio. Chatwin è da Nadežda nel 1978. Lei gli mostra un quadro di Weissberg. “Il quadro era tutto bianco, bianco su bianco, qualche bottiglia bianca su un fondo vuoto e bianco”. Poi fa, “è il nostro miglior pittore: che in Russia non si possa fare che questo, dipingere il bianco?”. In quel caso, il bianco non è opportunità ma prigionia, la gogna più che il giglio, non è l’innocenza ma l’assassinio, perché quel bianco è nero raddoppiato. (d.b.)
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pangeanews · 5 years
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Si viaggia soltanto per perdersi. Scegliete il vostro compagno: Melville, Kerouac o Chatwin?
L’esito del viaggio è lo smarrimento.
Che sia Ulisse nel fallito tentativo di tornare a casa, a Itaca, valicando il Mediterraneo o Leopold Bloom che esce di casa per vagare a Dublino, l’esito è lo stesso. Lo smarrimento. Se non ci si smarrisce, il viaggio non è viaggio ma gita turistica. Si viaggia perché c’è la possibilità di non tornare più, di morire – non si viaggia per capire chi si è, ma per perdersi del tutto, per azzerarsi.
La storia di Israele comincia da un esodo, da un viaggio da Egitto vero il poi, in forma di promessa, una premessa di massacri. Dio chiede sempre di “mettersi in cammino”. Non si stanzia, devi cercarlo.
La scrittura è l’equivalente del viaggio. Si scrive cancellandosi, si dà vita a un mondo che ci distruggerà, è il Verbo, sempre, a mangiarci, non noi a nutrirci di lui. Chi scrive sa che al termine di un romanzo o di una poesia riemerge analfabeta – deve costruirsi un nuovo vocabolario, cioè, una nuova nave, per dissiparla ancora e ancora nel nuovo libro-viaggio. Cosa si impara? Nulla. Se non il desiderio della catastrofe, la pretesa di quel linguaggio che ci sarchia la gola fino al deserto.
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La storia della letteratura moderna nasce in Italia con la narrazione di due viaggi: quello celeste di Dante e quello terrestre di Marco Polo.
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Bruce Chatwin, che pare essere il più viaggiatore tra gli scrittori, teorizza, piuttosto, il nomadismo come atteggiamento connaturato all’uomo e l’irrequietezza come motore di ogni gesto – un po’ come Leopardi fa nel Canto notturno del pastore dell’Asia, votandosi anche lui, in effetti, a una vita raminga. I suoi viaggi sono pretesti narrativi, un cestino di storie, ciascuna delle quali dà origine a un viaggio ulteriore. Chatwin ci insegna che la casa è una contraffazione della tenda, è una rottura dell’ordine che perfeziona l’uomo alla natura, che la mente umana non è salottiera, ma sconfinata. La casa incide in una forma unica e consueta la volubilità della tenda, la sua proprietà al cambiare.
Herman Melville, che è stato un grande narratore, in Moby Dick non racconta un viaggio ma un esodo, una maledizione. L’oceano è il deserto, al posto di Mosè la guida è Achab, che “Fece ciò che è male agli occhi del Signore… Servì Baal e si prostrò davanti a lui irritando il Signore, Dio d’Israele” (1 Re 22, 53-54), la rincorsa non è verso la terra promessa ma l’aggiogo della Balena Bianca, l’istinto non è obbedienza ma vendetta, non c’è norma che l’anormale. Il viaggio narrato da Melville è iniziatico, anche se non c’è altra rivelazione che navigare dentro il Giorno dei Giorni.
Jack Kerouac riprende la grande tradizione melvilliana del viaggio – il viaggio come disfatta senza assoluzione – mescolando il linguaggio della liturgia cristiana e buddhista – Gesù impone il vagare e una maestranza di mendicanti, al Tempio fisico sostituisce la Chiesa delle anime libere, dei discepoli; il Buddha va per cercare la ragione del dolore, fino a sconfinare nel senza confini – a quello jazz, al giovanilismo libertario, dove la macchina è una specie di Pequod. L’oceano sono gli Stati Uniti e il Messico, gli squali sono gli uomini, la Balena Bianca la propria sorridente sconfitta. In Kerouac si viaggia per recidere i rapporti con società, mondo, famiglia, il viaggio è mistico prima che fisico.
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In Melville si viaggia per inseguire Dio; per Chatwin si viaggia per scoprire il mondo; per Kerouac si viaggia per scoprire se stessi e perdersi.
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Tutti e tre – Melville Kerouac Chatwin – scrivono in prima persona (ma Melville attraverso l’ater ego, Ismaele) per rendere efficace la narrazione del viaggio.
Certo, uno scrittore può essere stanziale: ma è la lingua, allora, il viaggio, l’oceano da varcare, la pianura da pattugliare.
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In Melville tutta la tensione è mistica – d’altronde, in vecchiaia, scriverà un poema immenso, Clarel, che narra un simbolico “pellegrinaggio in Terra Santa”. Moby Dick è una specie di Gerusalemme celeste sull’oceano: Achab è il folle che vuole uccidere, il bianco, quell’Everest sospeso sulle acque. Vuole uccidere Dio. “Questo è un viaggio maledetto”, è detto, a più riprese, nel romanzo. La stessa pratica di catturare uccidere e scotennare le balene, a bordo, è mistica: nel corpo della balena è celata la preziosa “ambra grigia”, con cui si realizzano profumi di pregio, per cui Melville scrive, con sagacia, “Chi l’avrebbe mai detto che dame e gentiluomini così raffinati si delizino di un’essenza trovata nelle budella ingloriose di una balena ammalata? Eppure, è così”. L’ambra grigia, soprattutto, è detta “incorruttibile”, ha aggettivazione divina. D’altra parte, il capo dei capodogli è ricco di spermaceti, necessario per fare le candele e le lampade a olio. La balena dà la luce.
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In Kerouac, la tensione a dissiparsi è una liturgia di gioia. “Ai loro occhi sarei apparso strano e male in arnese e simile al Profeta che aveva camminato attraverso le terre per portare il Verbo oscuro, e l’unico Verbo che io avessi era ‘Evviva!’”. Viva significa vivere, evviva è un inno alla vita: chi è stanziale rovina in sé, atrofia dell’ego, chi viaggia vive, libra l’ego verso l’ignoto. L’Evviva, terso, immediato, di Kerouac è paragonabile all’Eccomi! di Abramo chiamato da Dio (Gen 22). Come si sa, la chiamata di Dio non è di vita, ma di morte: chiede ad Abramo di scannare per lui il figlio Isacco. L’esito, però, è una vita decuplicata, ricca di onori. Il viaggio di Kerouac, però, è anche la ricerca del padre, dopo aver scelto l’esilio dalla società. Dean Morarty, l’icona di Sulla strada, nell’ultima riga del romanzo, è detto “il padre che mai trovammo”. Il libro, dopo una evocazione divina – “e non sapete che Dio è l’Orsa Maggiore?” – finisce, sfinito, sull’unica sapienza che si ottiene dopo il viaggio: “e nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi”.
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Bruce Chatwin, piuttosto, è il teorico dell’irrequietezza – che coincide con la sostanza inquieta del cuore umano. L’uomo va nei luoghi insperati – poli, deserti, impervie montane – per cercare l’insperabile, a cui non osa dare nome ma ascolto, orecchio. La stanzialità lega l’uomo all’ossessione delle stesse cose più che alla visione, claustrofobia locale più che apertura, il ‘privato’ che priva d’aria più che lo sconfinato – oggi, poi, i viaggi interstellari si fanno via iPhone, ennesimo strabismo. L’impero più vasto, a suon di cavalli, fu creato da Gengis Khan, che preferiva la yurta mobile al palazzo visibile, assediabile. All’unico, preferiva il molteplice. Viaggiare davvero significa non avere nulla di cui avere paura, nessun legame o proprietà che ci lega, essere pronti al mutamento. “La cosa migliore è camminare. Dovremmo seguire il poeta cinese Li Po ‘nelle fatiche del viaggio e nelle molte diramazioni della via’. Infatti, la vita è un viaggio attraverso un deserto”. In una delle sue sgargianti descrizioni di luoghi e fatti, Chatwin racconta l’incontro con Werner Herzog, che dal suo Viceré di Ouidah trae nel 1987 il film Cobra verde. La descrizione di Klaus Kinski è statuaria: “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli”. In realtà, Heezog e Chatwin si conoscono qualche anno prima, sul set di Fitzcarraldo. Quello è davvero il viaggio terminale: il percorso folle di Brian Sweeny Fitzgerald, ‘Fitzcarraldo’, scozzese, nel cuore dell’Amazzonia è quello dentro il ventre dei ricordi. Vuole portare la musica classica, la quintessenza del genio europeo, in Amazzonia. Fitzcarraldo si dice “eroe dell’inutile… l’Eccesso e il Soprannumero. Io sono l’Ultima Battaglia. Io solo lo Spettacolo nella foresta vergine”, e ce la fa. Guizzano i musicisti sulle chiatte, nel Rio delle Amazzoni, il canto stordisce i coccodrilli, l’armonia sembra addomesticare il selvaggio: ogni viaggio è un ritorno in sé, il superamento supremo. (d.b.)
*Su questi appunti è costruita la piccola lezione tenuta nell’ambito di “Nostos. Festival del viaggio e dei viaggiatori” curato da Fulvia Toscano e svoltosi a Siracusa
**In copertina: Jack Kerouac
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