#comunità empatica
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La consigliera Laura Adduce propone a Rivoli il corso “Pet First Aid” per formare cittadini al primo soccorso animale. Un progetto innovativo per la tutela degli animali. Scopri di più su Alessandria today.
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Il vuoto fertile: un processo creativo che nasce dal profondissimo vuoto interiore, fonte di guarigione dalle ferite esistenziali
Nel vasto e intricato paesaggio dell’esistenza umana, si celano intricati sentieri che conducono verso il vuoto fertile. Un’esperienza tanto misteriosa quanto universale, in cui ci si imbatte in dolori che sembrano torreggiare come imponenti montagne, radicati nel profondo della nostra psiche sin dall’infanzia. Sono ferite che, nonostante gli arditi tentativi di lenirle con balsami esterni,…

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#Accettazione emotiva#Amicizia duratura#Apertura mentale#Apprendimento integrato#Autodeterminazione emotiva#Autonomia emotiva#Autoreflessione personale#benessere psicologico#Compassione empatica#Comunità collaborativa#Condivisione empatica#Conoscenza interiore#consapevolezza emotiva#Creatività interiore#crescita personale#Curiosità esplorativa#Determinazione emotiva#Empatia consolatoria#equilibrio interiore#Esplorazione culturale#esplorazione emotiva#espressione artistica#ferite emotive#Fiducia interiore#Generosità interiore#Gestalt terapia#Gratitudine interiore#Gruppo di supporto#guarigione interiore#Motivazione interna
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Rhet: torna il romanzo fantascientifico

Era il 2021, quando noi di Vortici.it, abbiamo incontrato e portato alla vostra attenzione un romanzo molto particolare intitolato Elbrus, uscito a Ottobre 2020 per Armando Curcio Editore.
I due autori Marco Capocasa e Giuseppe Di Clemente riprendono ciò che noi definiamo sodalizio creativo e pubblicano la loro ultima fatica letteraria intitolata: Rhet, uscito recentemente per Edizioni Dialoghi – Gruppo Editoriale Utterson.
Rhet è il prequel(racconto, il cui contenuto intende proporre gli antefatti di una storia facente parte di un ciclo), di Elbrus. Parliamo di una nuova avventura fantascientifica ambientata prevalentemente sul pianeta extrasolare che dà il titolo al romanzo, dove prospera una civiltà aliena costituita da tre popoli: i , esploratori dello spazio, i , operosi e dediti all’economia di sussistenza e alle infrastrutture, e i , reietti esiliati in un’isola – continente dove vivono in condizioni tecnologiche e culturali arretrate. Il lettore di Rhet si troverà a seguire vicende che si sviluppano in un futuro remoto, scoprendo pagina dopo pagina le vite di tre personaggi, ciascuno appartenente ad uno dei tre popoli. Le loro vicissitudini un poco alla volta finiscono per intrecciarsi, divenendo indissolubilmente legate nel corso di un viaggio nello spazio profondo che li porterà in un sistema solare a loro ignoto, verso un destino comune, verso l’origine stessa della loro civiltà. Scegliamo di pubblicare la sinossi degli autori in versione integrale, per farvi scoprire quanto sia avvincente la trama: Al tempo della narrazione (Scisat) è una femmina appartenente alla comunità che, insofferente alle rigide tradizioni del suo popolo, vive un difficile rapporto con la sua famiglia. Più di tutto soffre a causa di , la persistente connessione empatica-telepatica fra gli individui e l’inevitabile controllo sulla propria esistenza che ne deriva. Per questo, dopo essere stata sanzionata per l’ennesimo episodio di insubordinazione sociale, sceglie di aderire ai programmi di esplorazione spaziale, grande caposaldo della tradizione finalizzato alla ricerca dei Fondatori, cioè coloro che provenendo da un altro mondo avrebbero fondato, secondo il mito, la civiltà sul pianeta . (Kazikaa) è una femmina , l’altro popolo di fortemente caratterizzato per l’operosità e la capacità organizzativa, ma retrocesso in ambito politico e compresso in quello sociale e culturale. Questi limiti hanno storicamente avuto ricadute pratiche sulla formazione culturale, sulle parziali restrizioni civili e sulle possibilità di carriera. (Kazikaa) è un’esobiologa ed un’esperta di intelligenza artificiale in attività su , una delle lune di , consapevole di aver conquistato un ruolo prestigioso e improbabile da ottenere per una femmina . Tuttavia è frustrata nel vedere periodicamente gruppi di giovani e aspiranti esploratori partire da alla volta di nuovi mondi da scoprire e colonizzare, una possibilità a lei negata, così come a tutti gli altri membri della sua comunità. (Gailmora) è un maschio , un popolo le cui origini affondano le radici in un remoto passato nel quale gli individui privi della capacità di comunicazione empatica-telepatica venivano esiliati dai e dai sul continente , oltreoceano. Qui i discendenti dei , che non ebbero in eredità alcuna traccia storica della deportazione e della quale non hanno serbato alcuna memoria, sopravvissero dando vita ad un mondo tecnologicamente e culturalmente arretrato e fondato sul potere, sul commercio, sulla religione e sulla superstizione. I ignorano l’esistenza del continente , loro ancestrale luogo di origine dove, invece, prosperano attualmente e . (Gailmora), dopo aver condotto un’esistenza itinerante e fatta d’espedienti, s’innamora di una femmina nomade. Nel tentativo di fuggire con lui dalla propria oppressiva e conservatrice famiglia nomade, la giovane perde la vita precipitando in mare da una scogliera. (Gailmora), invece, sopravvive alla caduta e viene recuperato in mare e venduto come schiavo ad una ricca matrona. Mentre è al suo servizio come maschio di piacere conosce un ministro del culto del Creatore, un , il quale lo indirizza verso le Porte del Cosmo, un luogo di frontiera immaginifico attraverso il quale è possibile oltrepassare i limiti del mondo conosciuto. (Gailmora), spinto dal dolore dell’amore perduto e dall’attuale condizione di schiavo, intraprende il viaggio e supera le Porte del Cosmo fino a raggiungere un’isola dove vede cose incomprensibili, ai suoi occhi un luogo dimora degli dèi: vede un mostro di metallo volteggiare e toccare il suolo vicino a una torre di vetro. Il mostro di metallo non è altro che l’astronave che ha fatto porto sull’isola di prima di dirigersi verso la luna di . (Gailmora) sale a bordo dell’astronave prima del suo decollo. Allo sbarco sulla luna (Gailmora) viene scoperto e trattenuto. È talmente sconcertante che un reietto (ovvero un discendente dei deportati) sia riuscito a lasciare , il continente oltre l’oceano, che la notizia della sua fuga e della sua presenza su viene tenuta segreta, anche e soprattutto perché solo una ristretta élite dei popoli di è a conoscenza che su esista tuttora una discendenza dei deportati ere or sono, poiché è pubblicamente noto che i deportati morirono tutti nel giro di poche generazioni. Invece la discendenza dei deportati si è articolata in popoli dalle variegate culture dimoranti in regni, città e porti. Ma la barbarie è stata tuttavia perpetrata dalle élite impedendo ad ogni nave, sempre grazie a quella rete di satelliti, di allontanarsi oltre un certo limite da . Nel frattempo, sulla luna , l’equipaggio che salirà sull’astronave è stato arricchito di nuovi membri provenienti da in vista di una missione che ha come scopo l’esplorazione, la scoperta di forme aliene intelligenti e, se possibile, il rintraccio dei Fondatori. Fra loro c’è (Scisat) che, fra le varie attività di formazione svolte sulla luna prima della partenza, entra in contatto empatico-telepatico con uno degli esseri alieni ospiti nella struttura lunare, appartenente ad una specie, i , scoperta molto tempo prima su un esopianeta, che per mutua utilità ha lasciato che alcuni suoi membri dimorassero sulla luna rhetiana per approfondire la reciproca conoscenza. Su nuove dinamiche politiche e spinte sociali stanno destabilizzando i tradizionali equilibri fra i popoli e . In uno storico incontro, infine, vengono rimossi vecchi limiti permettendo ai l’accesso a professioni e ruoli istituzionali fin ad allora preclusi. Così, si apre per la (Kazikaa) uno scenario nuovo che le permette di sottoporre la propria candidatura per la missione prossima alla partenza. Viene selezionata ed entra a far parte dell’equipaggio. La permanenza del reietto su è un problema che viene superato facilmente. Viene deciso dai vertici che (Gailmora) sia imbarcato per la spedizione e sia oggetto di studio durante il lungo viaggio. A (Scisat) e (Kazikaa) viene affidato dal comandante l’incarico di studiare segretamente il sotto ogni punto di vista. Durante il viaggio (Gailmora) apprende la lingua di e riceve rudimenti di scienze e tecnologia. Quando diviene “utilizzabile”, il comandante non esita ad aggregarlo a missioni esterne quale pedina sacrificabile. Le due scienziate apprendono tutto ciò che è possibile dal profugo sul suo mondo di provenienza. In ogni caso lavorano moltissimo sull’aspetto fondamentale che lo distingue dalla gente di , cioè l’incapacità di comunicare per mezzo di . Ma questo aspetto rivela novità sorprendenti. Si manifestano segni di cambiamento in lui, qualcosa lascia credere che il abbia iniziato a percepire qualcosa, con debolezza e in modo confuso. E, forse, proprio questa primordiale sensibilità a , ripercorrendo le allucinazioni e le situazioni che già lo avevano stimolato a lasciare la propria patria, lo ha messo nelle condizioni di fuggire. Insomma, qualcosa già serpeggiava ed ora, durante il confronto serrato e quotidiano con le scienziate, sta maturando e rivelandosi progressivamente. Si tratta di una scoperta sensazionale. Durante la navigazione, già quando si è prossimi ai sistemi di stelle obiettivo della missione perché potenzialmente ritenuti capaci di ospitare la vita intelligente, un segnale scuote il comandante e segna il destino della missione. Proveniente da uno di quei sistemi di stelle, un segnale senza alcun dubbio artificiale viene captato da . Il Comandante assegna la nuova rotta verso il pianeta in orbita della modesta stella . Durante la navigazione, nella fascia esterna di quel sistema, un ennesimo e nuovo segnale artificiale alimenta ulteriore fermento nell’equipaggio. Proviene da un punto situato nello spazio profondo ed è sprigionato da una fessurazione spazio-temporale, cioè una singolarità che crea un ponte capace di collegare istantaneamente due punti lontanissimi nell’universo. Nel tentativo di non tralasciare nulla, il Comandante, mantenendo la rotta verso , invia una navetta esplorativa verso la sorgente del nuovo segnale. Dell’equipaggio della missione fanno parte anche le due scienziate e (Gailmora). Soprattutto, ne è stata messa a capo proprio la femmina (Kazikaa) che, durante il viaggio, ha saputo emergere e farsi apprezzare dal Comandante. Ma quando la navetta è prossima alla fessurazione, l’astronave viene colpita irrimediabilmente da uno sciame di asteroidi che ne perforano lo scafo e la danneggiano gravemente. L’equipaggio della navetta esplorativa è impotente di fronte al disastro che si consuma pochi istanti prima che la fessurazione sia attraversata. Una volta oltre, l’equipaggio della navetta è irrimediabilmente solo e non riesce a spiegarsi come mai, pur avendo attraversato quella che è stata identificata come una fessurazione spazio-temporale, la navetta è rimasta nello stesso luogo. è scomparsa ma tutti gli astri di riferimento sono là, a significare che non è stato effettuato alcun balzo verso qualche zona remota. È questo è inspiegabile. Ma ancora più scioccante è l’avvistamento di strutture enormi che, incrociando nello spazio, intercettano la navetta e, lentamente, la catturano. È chiaro fin da subito all’equipaggio di essere venuti a contatto con una popolazione aliena. La navetta viene condotta all’interno di una di quelle gigantesche navi. Convinta che gli alieni vogliano stabilire un contatto, (Kazikaa) dispone che assieme a lei scendano anche (Scisat) e (Gailmora), in rappresentanza dei tre popoli di . Scendendo dalla navetta nessuno di loro poteva immaginare di trovarsi di fronte a esseri viventi con fattezze tali e quali alle loro. Finalmente, i rhetiani hanno trovato i Fondatori. Gli autori: Marco Capocasa biologo e antropologo. Svolge attività di ricerca scientifica in qualità di vice-segretario dell'Istituto Italiano di Antropologia e la libera professione di biologo nutrizionista. Si occupa dello studio delle relazioni fra strutture sociali e diversità genetica delle popolazioni umane e della condivisione del sapere scientifico in ambito antropologico e biomedico. È autore di decine di articoli pubblicati su riviste scientifiche internazionali. Ha pubblicato tre libri di divulgazione scientifica: Italiani. Come il DNA ci aiuta a capire chi siamo (Carocci, 2016), Intervista impossibile al DNA. Storie di scienza e umanità (il Mulino, 2018) e Assurdità alimentari – Dalle fake news alla scienza della nutrizione (Castelvecchi, 2023). È inoltre autore, insieme a Giuseppe Di Clemente, del romanzo di fantascienza Elbrus, edito nel 2020 per Armando Curcio Editore.Giuseppe Di Clemente laureato in Economia aziendale, è autore dei romanzi di fantascienza: Oltre il domani. Un varco per l'universo (L'Erudita, 2019) ed Elbrus (Armando Curcio Editore, 2020). Immagine di copertina: Image By stockgiu - freepik.com Read the full article
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un po' in ritardo come sempre, ho letto solo ora la sfilza di ask che ti sono arrivati però come sai su certe cose non riesco a star zitta.
che la tipa sia un troll o meno non penso si renda conto di quanto le cose che dica siano estremamente offensive, maleducate ed irrispettose per tantissime persone.
puoi essere empatica quanto cazzo ti pare, ma come Eleonora ha detto e ridetto non sarai mai in gradi di capire situazione x come la persona che la sta vivendo. riprendendo il tuo esempio sul cancro, puoi vedere la sofferenza, immaginare quanto possa essere doloroso, cercare di comprendere quanto possa far schifo vivere una cosa del genere ecc MA NON RIUSCIRAI MAI, MAI, A COMPRENDERE A PIENO. è difficile capire a pieno una persona anche quando vivi la sua stessa esperienza, perché siamo tutti diversi, quindi no, non puoi dire di capire cosa provi una persona con un tumore anche se tu puoi metterci tutta la buona volontà e facendolo con le intenzioni migliori.
per questo è importante che "ai poteri forti" (parlo quindi di politica, medici, forze dell'ordine ecc) ci sia una rappresentanza. una persona, ad esempio, omosessuale avrà sicuramente più a cuore i diritti della comunità lgbt+ perché è una cosa che vive, stessa cosa se si parla di aborto, stessa cosa per i diritti delle persone nere e via dicendo. non tutte le persone che fanno parte di una minoranza possono stare in politica, ma questo non lo pensa nessuno con un minimo di testa, anche perché la Meloni è un esempio lampante di donna che se ne sbatte il cazzo delle altre donne (vedi il video della violenza che ha pubblicato col semplice scopo di strumentizzarla per ottenere consenso dato che l'aggressore è nero.)
detto questo chiudo qui, perché veramente mi fate salire l'acido in gola
lol, tanto l'ho bloccata, mi mandava di quei pipponi inutili insistendo di poter capire le cose.
già mi stavo per strappare i capelli ai "pure i preti possono capire le famiglie"
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I cambiamenti climatici e la depressione degli Inuit dell'Artico: malati di "solastalgia" Oltre allo scioglimento accelerato dei ghiacciai e alle temperature record, nell'Artico i cambiamenti climatici stanno causando danni psicologici alle popolazioni indigene: la solastalgia. A soffrirne, fra i tanti, sono gli Inuit del Canada che provano un forte sentimento di nostalgia da casa pur vivendo ancora a casa loro, una casa che, però, non riconoscono più poiché profondamente alterata dagli effetti del riscaldamento globale. E' proprio questa la solastalgia: l'impatto psicologico e più intimo dei cambiamenti climatici avvertito dai singoli cittadini. A documentare la dolorosa ferita psicologica patita sulla propria pelle è il Guardian che ha rilanciato le testimonianze di alcuni Inuit. (...) Le popolazioni dell'Artico fanno da sempre i conti con un ambiente e condizioni meteorologiche complessi da gestire, in particolare durante le stagioni intermedie. In pratica nei periodi in cui non non c'è abbastanza ghiaccio per usare in sicurezza una motoslitta ma c'è troppo ghiaccio nell'acqua per andare in barca. Come effetto dei cambiamenti climatici, negli ultimi anni queste stagioni sono rapidamente e costantemente peggiorate, portando con sé nuovi disagi ai residenti. Quello che in altre parti del mondo viene percepito come una modifica del clima relativamente innocua - per riprendere l'espressione di uso comune "non esistono più le mezze stagioni" - a quelle latitudini si manifesta, invece, in modo molto concreto e pericoloso. Ad esempio le improvvise fluttuazioni delle precipitazioni e della temperatura impediscono alle popolazioni di pianificare le proprie attività quotidiane e sempre più spesso mettono a repentaglio spostamenti e abitudini ancestrali. Il risvolto, oltre ad essere molto tangibile per l'intera comunità, ha anche una manifestazione psicologica individuale, molto intima. In pratica il singolo abitante, nato e cresciuto in un rapporto simbiotico con la propria terra, nel vedere l'ambiente in rapida evoluzione e in sofferenza prova in modo automatico una sensazione di dolore empatica. Per gli Inuit cultura, valori e abilità si trasmettono di generazione in generazione praticando caccia, pesca e raccolto. Dal momento in cui la crisi climatica stravolge il loro 'habitat' quindi le loro attività ancestrali, anche le tradizioni sono in serio pericolo. Provano un senso di disagio, per non dire di angoscia, quando intorno a loro tutto cambia nel giro di poche ore. Loro lo avvertono nel proprio corpo e nella propria mente, sono consapevoli e tristi, sentono che qualcosa non va ma non sempre riescono a capire, sentendosi anche impotenti nella risposta da dare al 'Sos' lanciato dalla propria terra. Secondo Cunsolo, la solastalgia potrebbe essere, in fondo, una manifestazione positiva che aiuti gli Inuit a dare forma, a mettere un nome e identificare le cause delle loro preoccupazioni. Il termine solastalgia ...è un neologismo coniato nel 2003 dal filosofo australiano Glenn Albrecht e indica il sentimento di nostalgia che si prova per un luogo nonostante vi si continui a risiedere.
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So cosa è in modo teorico il disturbo borderline, è ormai un anno intero che lo sto studiando, ma se mi dovessi dire quel qualcosa in più per farmelo capire quasi a pieno(dico quasi perché non si può capire a pieno se non lo si ha)cosa mi diresti?
Se lo stai studiando da molto probabilmente sai già che rispondere a questa domanda è piuttosto complicato, se consideri che ogni persona lo vive diversamente e possono esserci sintomi diversi. Ho conosciuto abbastanza persone con questo disturbo sia qui che in comunità da poterti assicurare che la varietà di caratteri e di indoli è davvero impressionante! Quindi mi limiterò a descriverti cos’è per me, senza la pretesa di generalizzare, nella speranza che ti sia ugualmente d’aiuto.
Per me il avere il disturbo borderline significa stare sempre in bilico. Avrai letto della famosa visione in bianco e nero: non ci vuole niente, basta un dettaglio, perché la cosa bianca diventi nera. Un esempio: quando ero anoressica, se un giorno mangiavo 499 calorie ero brava, bellissima, vittoriosa; se ne mangiavo 501, ero la più infima delle creature, feccia, nient’altro che merda. Nelle relazioni interpersonali vale lo stesso principio, e io personalmente scappo via quando la relazione mi sembra compromessa, sparisco, ti blocco e non avrai più mie notizie. Un altro modo di stare in bilico riguarda l’umore. Posso stare okay, o anche essere contenta o entusiasta, poi succede qualcosa, una parola detta con un certo tono, un’espressione facciale che non so interpretare, e crolla tutto. Con “crolla tutto” intendo che mi sento qualcosa cadere nel petto e l’unica cosa a cui riesco a pensare è che mi devo tagliare perché non so come gestire quella sensazione orribile, quindi cerco di mandarla via e l’unico modo è quello. Mi taglio quando sono arrabbiata. Ora non mi taglio più tanto grazie alla DBT che ho fatto l’anno scorso, ma il pensiero è lì fisso ogni volta che qualcuno mi dice che non sembra che stia così male o quando percepisco che ho fallito in qualcosa (università, bellezza – devo risultare bella per chiunque altrimenti sono un cesso e devo morire -, scrittura, palestra). Se è qualcun altro che mi fa arrabbiare, ho la tendenza a essere violenta e a lanciare oggetti, come piatti. Non so gestire lo stress. Sono super intensa ed empatica. Non ci vuole niente che mi vengano pensieri suicidi, penso sempre al suicidio. Pensare al suicidio mi calma tantissimo. Penso a quanto le persone che non mi hanno presa sul serio in vita sarebbero destabilizzate e sogno questa rivincita.
Quando tutto diventa troppo, il che non è occorrenza rara, non sento più niente. A volte mi derealizzo, il mondo diventa lontano, ovattato, tu sei leggera, è come se camminassi attraverso una nebbia che ti solleva un po’ dal terreno. A volte vedo il pavimento che si scioglie. Altre volte, la maggior parte, la mia testa si spegne del tutto ed è come se al posto del cervello avessi un masso. Lo sento pesante e inutile. Non c’è niente dentro.
Tendo a vittimizzarmi molto, perché è il ruolo che ho sempre avuto nella mia vita. Getto la spugna, sono pessimista, non concludo granché perché tanto faccio schifo, non ho potenziale, non so fare niente, non valgo niente, alla gente sto sul cazzo, non ho futuro. Il che si traduce in inconcludenza e nel fatto che mi piango molto addosso. Sono terrorizzata dal fallimento, probabilmente sempre per il principio di visione del mondo in bianco e nero. Se fallisco devo morire perché sono inutile e incapace, quindi tanto vale non provarci neanche.
Ho il terrore di essere abbandonata. La mia ultima relazione risale a due anni fa. Negli ultimi periodi ricordo di aver scritto per messaggio al mio ex che mi sarei suicidata se mi avesse lasciato, che mi faceva venir voglia di morire. Una volta ho tentato il suicidio mentre ero con lui al mare perché mi aveva detto che non credeva di amarmi, ma il giorno dopo mi svegliai e lui non ha mai saputo niente.
C’è stato un periodo, anch’esso superato grazie alla DBT, in cui abusavo di farmaci, fumavo molta erba e bevevo ancora di più, perché stavo male, sempre male e non sapevo che fare. Litigavo con mia madre, con cui ho un rapporto estremamente intenso e conflittuale, uscivo di casa e mi ubriacavo da sola, anche di giorno, anche prima delle lezioni. L’erba mi amplificava l’ansia e mi faceva venire le allucinazioni, mentre l’alcol mi faceva sentire ancora più depressa, ed era come un circolo vizioso. Una volta sono finita al pronto soccorso per abuso di alcol insieme a farmaci che avevo preso prima di uscire. Ora mi hanno insegnato a controllare la mia impulsività e sta andando molto meglio.
Mi definisco “goth”. Mi vesto di nero e ascolto musica industrial rock/metal, indosso choker, guanti, platform boots, corsetti. Adesso. Potrei decidere di buttare tutto e vestirmi di rosa domani, perché non sono sicura di niente, neanche di queste cazzate. Posso avere Britney Spears e i Nine Inch Nails nella stessa playlist per lo stesso umore, perché non ci capisco niente. Non sono sicura dei miei valori fondamentali, delle mie idee, dei miei gusti, le mie opinioni sono volatili, non so che c’è qui dentro. Sento che c’è molta rabbia repressa e molto odio, mabnon so che farci. Mi piace una cosa e il giorno dopo mi è del tutto indifferente. Odio una cosa e il giorno dopo è la mia cosa preferita. Sono estremamente instabile a qualsiasi livello.
In generale, mi sento come se fossi una bambina. Ho sempre bisogno di affetto, di coccole, di comprensione, di essere tenuta stretta. Ho bisogno di stabilità e sicurezza, e sono disposta a consumarmi e spaccarmi pur di averne l’illusione.
#tutto ciò ovviamente è solo una minima parte di quello che è vivere con questo disturbo#è difficile da esemplificare e spiegare#disturbo borderline#disturbo di personalità borderline#disturbo di personalità
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Oroscopo di oggi 25 gennaio 2023: Vergine e Sagittario si sentono sbagliati
DIRETTA TV 25 Gennaio 2023 Nell’oroscopo di oggi, mercoledì 25 gennaio 2023, con un bel Sole in Acquario, sestile a Giove in Ariete, e la Luna creativa ed empatica nel segno dei Pesci, voglio essere ottimista: c’è tanta voglia di mettersi in gioco per la comunità. Il segno fortunato è quello dei Pesci, il segno sfortunato il Sagittario. 0 CONDIVISIONI Attiva le notifiche per ricevere gli…

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Liana Borghi
https://www.unadonnalgiorno.it/liana-borghi/

Liana Borghi, studiosa di fama internazionale, ha apportato contributi fondamentali alla teoria e alla pratica femminista, lesbica e queer.
Accademica, scrittrice, traduttrice, divulgatrice, senza il suo importante lavoro molti testi che hanno fatto la storia dei movimenti non avrebbero mai circolato in Italia.
Nata il 9 ottobre 1940 a Miglianico, in provincia di Chieti, suo padre Lamberto era un noto pedagogista di famiglia ebraica.
È stata ricercatrice di letteratura Anglo-Americana all’Università di Firenze fino al 2009.
Attivista, teorica femminista, lesbica e queer, è stata tra le fondatrici della Libreria delle donne di Firenze nel 1979 e dell’Associazione lesbica L’Amando(r)la.
Nel 1985 ha fondato con Rosanna Fiocchetto la casa editrice lesbica Estro, il cui obiettivo era pubblicare testi di autrici mai tradotte prima in italiano.
“Non ci interessavano le leggi di mercato, facevamo un libro e appena recuperati i soldi li investivamo di nuovo e ne facevamo un altro”.
Grazie alla loro lungimiranza e investimento personale, presero a circolare i testi di scrittrici come Adrianne Rich, Audre Lorde, Gertrude Stein, Donna Haraway e molte altre.
È stata co-fondatrice del Giardino dei ciliegi a Firenze, nel 1987, luogo di ritrovo di un ampio collettivo diventato un importante riferimento per tutte le soggettività non conformi.
Dal 1994 è stata co-responsabile della divisione lesbica di W.I.S.E. (Women’s International Studies Europe), dal 1996 socia fondatrice della Società Italiana delle Letterate, e referente per l’Università di Firenze di ATHENA, rete tematica europea Socrates di Women’s studies chiusa nel 2010.
Dal 2000 si è dedicata all’organizzazione di Raccontar(si), laboratorio estivo sui temi dell’intercultura di genere continuato come scuola estiva della SIL.
Si è spenta il 20 novembre 2021 a Livorno.
Liana Borghi è stata un’attivista per cui teoria e pratica devono procedere insieme, un’editrice transfemminista e non solo, una divulgatrice e un’agitatrice culturale del cui lavoro di emersione e contaminazione beneficiamo enormemente tutte e tutti.
Il suo desiderio instancabile di aprire spazi e connessioni, è sempre stata un’alleata della comunità trans.
Le sue molteplici attività culturali hanno favorito il dibattito pubblico attorno a tematiche come la cura del territorio, dell’abitare, delle migrazioni e del colonialismo.
Una figura illuminante, empatica, guidata da una visione intersezionale, aperta, mai escludente.
Una studiosa a cui il femminismo italiano deve molto e che non ha ringraziato abbastanza.
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Ecco le schede personaggio del venerdì per “Le vite concentriche di Pablo e Fortuna”.
Esperanza: una giovane donna di straordinaria intelligenza che ha ereditato suo malgrado la carica legislativa del padre. Abile oratrice, estroversa e pragmatica, Esperanza può apparire finanche imperscrutabile e flemmatica a causa di un segreto che la perseguita dai tempi dell’infanzia; ma sotto l’indole efficiente si cela una personalità empatica e sensibile, sempre pronta a mettere in dubbio la validità delle proprie azioni – difatti, teme più di ogni altra cosa la sua parte irrazionale, verso cui prova una sotterranea e quasi irresistibile attrazione.
Esteban: fratello di Esperanza e suo braccio destro. Tanto incapace di comunicare con gli altri quanto la sorella è abile nelle relazioni interpersonali, Esteban soffre di problematiche relazionali che sfociano nell’autismo, controbilanciate da un’insolita predisposizione a mantenere la disciplina, organizzare efficacemente gruppi di lavoro e spartire in modo equo compiti e doveri. C’è chi – per ragioni quantomeno discutibili – lo considera ottuso e chi lo trova alquanto brutale; eppure, nel suo profondo, è un giovanotto di natura mite e pacifica che serba nel cuore l’ingenuità di un fanciullo. La stessa eredità onerosa di Esperanza grava sulle sue spalle.
Fidel: ex-parvenu, pseudointellettuale e imprenditore imprevidente, Fidel dispone di tutto l’occorrente per vivere una vita degna, consapevole di non essersi mai realmente guadagnato nessuna delle proprie fortune. Ossessionato dal bisogno di apportare un contributo significativo alla comunità e affidare un lascito importante alle generazioni future, è talmente abile nell’ingannare sé stesso da non riconoscere le motivazioni prettamente egoistiche alla base delle sue aspirazioni. Seppur dotato di una pervicacia non comune riguardo agli obiettivi lungamente perseguiti, non dispone delle qualità necessarie per concretizzarli; ragion per cui sfrutta il malcontento popolare allo scopo di guadagnare consensi e convertire più persone possibili alla propria causa.
Il romanzo si può preacquistare qui: https://bookabook.it/libro/le-vite-concentriche-pablo-fortuna/
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“un uomo di parte e anche un uomo di tutti”
Così recita un passaggio dell’omelia per il funerale di David Sassoli nelle parole del Cardinal Matteo Maria Zuppi, amico sin dai tempi del liceo.
“Era un uomo di parte e anche un uomo di tutti, la sua parte era quella della persona: per lui la politica doveva essere per il bene comune. Ecco perché voleva un’Europa unita con i valori fondativi, e ha servito perché le istituzioni funzionassero. Non ideologie ma ideali, non calcoli ma una visione”
Bellissima tutta questa orazione funebre, da leggere con calma.
Tanti i passaggi profondi rivolti ad una persona a lui così cara, seppur detti in un linguaggio comprensibile ed affettuoso.
“Fratelli e sorelle, (oggi come non mai è il vero titolo che ci unisce tutti per accompagnare questo caro fratello nelle mani del Signore) abbiamo ascoltato tante parole in questo saluto inaspettato, segnato dall’evidente ingiustizia che strappa un uomo nel pieno del suo vigore e attività. Oggi ci troviamo con commozione in questo luogo antico, straordinariamente bello, davanti all’orizzonte della vita, al suo limite, dove il cielo e la terra si toccano. E questo punto è sempre l’amore. La Parola di Dio raccoglie tutte le nostre parole, in fondo tutte limitate: non le cancella, anzi, le fa sue ma le illumina, le spiega anche a noi stessi, riempiendole di senso e di eternità perché la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto di Dio, l’alfa e l’omega, sono lettere di amore.
Gesù ascolta le nostre parole, le fa sue anche oggi, come ascoltò quelle di due discepoli nella prima domenica, feriti e tristi per un amico che non c’è più, per le speranze che sembravano svanire. Oggi proprio come su quella povera mensa di Emmaus così su questo altare riconosciamo Gesù, amico degli uomini, nello spezzare del pane, Lui che diviene nutrimento di solo amore, panis angelicus, pane di vita eterna. E di amore ne abbiamo bisogno tanto, in realtà sempre e in realtà tutti. Facciamo fatica a comprendere la fine, con la sua inaccettabile definitività. John Donne scrisse che “Ogni morte di uomo mi diminuisce perché io faccio parte dell’umanità”, perché “nessun uomo è intero in se stesso”. Ce lo ricordassimo sempre, per tutti, specie per quelli di cui nessuno si ricorda da vivi. E ci ricordassimo sempre il contrario che se uno salva un uomo – un uomo – salva il mondo intero.
Ci stringiamo ad Alessandra, che con David ha camminato mano nella mano dai banchi di scuola, Livia e Giulio, ai suoi fratelli e sorelle e ai tanti che lo consideravano “uno di noi”, quasi istintivamente, per quell’aria priva di supponenza, di alterità, empatica, insomma un po’ per tutti un compagno di classe! David ci aiuta a guardare il cielo – a volte così grande da spaventare, che mette le vertigini – lui che lo ha cercato sempre, da cristiano in ricerca eppure convinto, che ha respirato la fede e l’impegno cattolico democratico e civile a casa, con i tanti amici del papà e poi suoi, credenti impetuosi e appassionati come Giorgio La Pira o Mazzolari, come Davide Maria Turoldo, del quale porta il nome. Credente sereno ma senza evitare i dubbi e gli interrogativi difficili, fiducioso nell’amore di Dio, radice del suo impegno, condiviso sempre con qualcuno, come deve essere, perché il cristiano come ogni uomo non è un’isola, ma ha sempre una comunità con cui vivere il comandamento dell’amatevi gli uni gli altri: gli scout, il gruppo della Rosa Bianca con Paolo Giuntella (Sophie e Hans Scholl, i leader della Weiss Rose erano per lui le stelle del mattino dell’Europa, uccisi dai nazisti per la loro libertà, tanto che quando fu eletto presidente onorò come un debito verso di loro ponendo un’enorme rosa bianca su sfondo europeo nel parlamento perché “la nostra storia è scritta nel loro desiderio di libertà”). Con tanti ha condiviso il suo I Care, – penso ad esempio alla Chiesa di Roma del febbraio 74 e di don Luigi Di Liegro – sempre unendo fede personale e impegno nella storia, iniziando dagli ultimi, dalle vittime che “hanno gli occhi tutti uguali”, pieno di rispetto e di garbo come suo carattere. C’è chi dice che il cristiano è un signore proprio perché cristiano, anche se nulla tenente, perché ha un tesoro di amore che lo rende tale. Un povero che rende ricchi gli altri.
Il Vangelo ci parla di Beatitudine. Attenzione, non è diversa dalla felicità umana, anzi è proprio felicità piena, proprio quella che tutti cerchiamo. La beatitudine del Vangelo non è una sofferta ricompensa ultima per qualche sacrificio, ma libertà dalle infinite caricature pornografiche di felicità del benessere individuale a qualsiasi prezzo. Non c’è gioia da soli! La gioia del Vangelo unisce, non divide dagli altri e noi cerchiamo non una gioia d’accatto, ma vera e duratura.
Debbo dire che vedendo quanto amore si è stretto in questi giorni intorno a David e alla sua famiglia capisco con maggiore chiarezza che la gioia viene da quello che si dona agli altri e che poi, solo dopo averla donata, si riceve, sempre, perché la gioia è nell’essere e non nell’avere, nel pensarsi per e non nel cercare il proprio interesse. Felici sono i poveri in spirito, chi non sa tutto da solo, chi anzi sa che non è ricco e non fa finta di esserlo tanto da non chiedere scusa o aiuto, chi impara e cerca. Beati sono gli afflitti: non chi cerca la sofferenza, ma chi non scappa dalle difficoltà, le affronta per amore e per amore piange per l’amato. Beati sono i miti, chi non cerca nell’altro la pagliuzza ma il dono che è, chi non risponde al male con il male, chi in modo amabile cerca di fare agli altri quello che vuole sia fatto a lui.
Di David credo che tutti portiamo nel cuore il suo sorriso, che è il primo modo per accogliere e rispettare l’altro, senza compiacimento, semplicemente. Qualcuno ha detto che non ha mai visto nessuno arrabbiato con David! Beati sono quelli che hanno fame e sete della giustizia, che non possono stare bene se qualcuno accanto a lui soffre, che non cambiano canale o fanno finta di non vedere o che non li riguarda se c’è una persona in pericolo in mezzo al mare o al freddo sull’uscio di casa. Hanno fame della giustizia perché non si abituano all’ingiustizia e ricordano che la giustizia di Dio è avere cura dei fratelli più piccoli di Gesù e che la sofferenza dell’altro è la mia. Beati sono i misericordiosi, chi giudica ma sempre per amore, chi cerca il bene nascosto, che pensa che c’è sempre speranza, chi sceglie di consolare piuttosto che fare soffrire. Beati sono i puri di cuore, quelli che vedono senza malizia, non perché ingenui ma perché vedono bene, in profondità, liberi dai calcoli, dalle convenienze, disinteressati perché hanno un interesse più grande, quelli che non hanno pregiudizi quando si affronta una discussione, che non hanno paura di capire la posizione dell’altro, anche se distante da lui, che non gridano ma ascoltano sapendo che sempre c’è qualcosa imparare. Beati sono gli operatori di pace, gli artigiani, cioè che non rinunciano a “fare la pace” iniziando dai piccoli e possibili gesti di cura, sporcando le mani con la vita, con le contraddizioni del prossimo, con la fatica a stringere quella del nemico che se lo fai si trasformerà in fratello. Beati sono i perseguitati per causa della giustizia, non quella che divide con freddezza la torta in parte uguali anche se chi deve mangiarla non è uguale, come rigorosamente svelava un giusto come don Milani perché per amare tutti si inizia dai tanti, (quanti!) Gianni che non hanno possibilità.
Dio proclamando le beatitudini sembra proprio dirci che ognuno ha diritto alla felicità e che lui questo vuole e che questa non finisca. Domandiamoci cosa dobbiamo dare agli altri perché essi siano felici, perché la mia è la loro. È proprio vero, come qualcuno ha detto con saggezza, che dobbiamo vedere la vita sempre con gli occhi degli altri. Per questo ringraziamo il Signore per David. È stato beato anche nell’afflizione, durante la sua malattia che ha accolto con dignità, senza farla pesare, spendendosi fino alla fine, invitando tutti a guardare lontano, vivendo con la forza dei suoi ideali e dell’amore che tanto lo ha circondato e accompagnato. Per un credente la beatitudine è obbedire alla propria coscienza e purificare le intenzioni da cui dipendono le altre scelte.
Ecco, la beatitudine piena che oggi David vive e con la sua vita ci ricorda e ci consegna. David era un uomo di parte, ma di tutti, perché la sua parte era quella della persona. Per questo per lui la politica era, doveva essere per il bene comune e la democrazia sempre inclusiva, umanitaria e umanista. Ecco perché voleva l’Europa unita e con i valori fondativi, che ha servito perché le sue istituzioni funzionassero, che ha amato perché figlio della generazione che aveva visto la guerra e gli orrori del genocidio e della violenza pagana nazista e fascista, dei tanti nazionalismi, figlio della resistenza e dei suoi valori, quelli su cui è fondata la nostra Repubblica e che ha ispirato i nostri padri fondatori. È da quella immane sofferenza – quella per cui volle che la Presidente andasse a Fossoli, uno dei tanti luoghi di sofferenza della barbaria della guerra – che nasceva il suo impegno. Non ideologie, ma ideali; non calcoli, ma una visione perché anche l’Europa non può vivere per sé stessa, perché il cristianesimo non è un’idea, ma una persona, Gesù, che passa attraverso le persone e nella storia.
Faccio mie le parole del suo ultimo saluto per Natale scorso, già molto malato, oggi che nasce lui alla vita del cielo. “In questo anno abbiamo ascoltato il silenzio del pianeta e abbiamo avuto paura ma abbiamo reagito e abbiamo costruito una nuova solidarietà perché nessuno è al sicuro da solo. Abbiamo visto nuovi muri, i nostri confini in alcuni casi sono diventati confini tra morale e immorale, tra umanità e disumanità. Muri eretti contro persone che chiedono riparo dal freddo, dalla fame, dalla guerra, dalla povertà. Abbiamo finalmente realizzato dopo anni di crudele rigorismo che la disuguaglianza non è più né tollerabile né accettabile, che vivere nella precarietà non è umano, che la povertà è una realtà che non va nascosta ma che deve essere combattuta e sconfitta. Il dovere delle istituzioni europee: proteggere i più deboli e non di chiedere altri sacrifici aggiungendo dolore al dolore. Buon Natale..il periodo del Natale è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo contro tutte le ingiustizie. Auguri a noi, auguri alla nostra speranza”. Grazie, uomo di speranza per tutti.
David Maria Turoldo scrisse una poesia che David conosceva a memoria: “Dio della vita, sei tu che nasci, che continui a nascere in ogni vita. Voce per chi muore ora: perché non muore, non muore nessuno: niente e nessuno: niente e nessuno muore perché Tu sei. Tu sei e tutto vive, è il Tutto in te che vive: anche la morte!”.
Gesù ti abbracci nella sua grande misericordia. Buona strada. Riposa in pace e il tuo sorriso ci ricordi sempre a cercare la felicità e a costruire la speranza, Fratelli Tutti”.
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Ecco l'articolo nato dalle risposte al mio post di qualche giorno fa. È sul blog perché resti, per poterlo condividere ma anche rileggere. Perché molto, a volte, con il tempo, cambia. Se avete voglia di commentarlo, mi fa piacere. Magari anche metterlo in discussione. Se non ne avete voglia, grazie lo stesso, a me ha fatto bene scriverlo! Inizia più o meno così: "Provo a riassumere molto sinteticamente le risposte: 1 - Cerco STORIE, le buone storie sono per tutti. 2 - Per rivivere l'adolescenza. 3 - Per diventare un genitore/adulto migliore. 4 - Perché trovo la speranza che tutto possa ancora succedere. 5 - Per non dimenticare il punto di vista dell'adolescente. 6 - Perché lo scrittore coglie sfumature dell'adolescente che l'adulto ha dimenticato. 7 - Perché sono storie lineari, fresche, semplici eppure mai banali. 8 - Mi sento affine, ma anche empatica verso il mondo giovanile. 9 - Cerco: meraviglia, stupore, emozioni, autenticità, disvelamento. 10 - Ne apprezzo la delicatezza. 11 - Trovo temi esistenziali, libertà, sperimentazione. Credo che siano risposte sorprendenti. Chiunque non conosca la letteratura per ragazzi, e accade spessissimo, resterebbe molto stupito. Anche tutti coloro che parlano e scrivono di libri, ma si occupano troppo poco di romanzi per ragazzi e adolescenti, resterebbero sorpresi. Forse penserebbero che io e la mia comunità di amici siamo una brigata di matti! È uno stupore comprensibile poiché non leggono romanzi considerati per ragazzi e adolescenti. Se li leggessero non esisterebbe più la categoria per ragazzi e adolescenti." #libriperragazzi #libriperadolescenti #romanziperragazzi #libridigiulianafacchini #scrivereperragazzi https://www.instagram.com/p/CDed7gGFrhr/?igshid=11yyp4z7nyn6m
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The best of Milano Fashion Week
Gucci PE 2020
La Settimana della Moda di Milano ha avuto diversi momenti must tipo la sfilata di Gucci su una passerella “mobile”; l’offerta (insolitamente) minimalista di Prada; Marco de Vincenzo che ha scelto la Darsena come location; l’indimenticabile Jennifer Lopez che ha chiuso la sfilata di Versace in una versione rivisitata dell’iconico jungle dress, che indossò 20 anni fa ai Grammy’s facendo scalpore (qui trovate come è nata la leggenda).
L’emozione raggiunge il suo picco alla fine del Milano Fashion Week, ai Green Carpet Fashion Awards. Tra applausi e lacrime di emozione, una commossa Sophia Loren consegna il premio alla carriera a Valentino Garavani, «Un maestro, un amico, una leggenda, un uomo che ha rivoluzionato il mondo della moda ma ha avuto effetti anche sulla cultura, portando su questo pianeta passione, compassione, humor e stile». Un discorso a cui ha fatto seguito un bacio affettuoso sulla guancia. Standing ovation. Se mai ci fu un momento indimenticabile, era quello.
Sofia Loren e Valentino
Qui sotto trovate location, momenti e dettagli più significativi che la capitale della moda italiana ci ha regalato per la PE 2020
J.Lo da Versace
instagram
Set futuristico per la sfilata di Gucci PE 2020.
Frenesia di stampe pennellate. Marni PE 2020.
Da sinistra Gigi Haid, Doutzen Kroes e Candice Swanepol in stile “agente segreto” per Max Mara PE 2020
Marco de Vincenzo PE 2020
instagram
“Ogni colore una cultura, ogni colore un’identità, la loro summa rappresenta una comunità empatica.” Un arcobaleno di colori sulla Darsena. Marco de Vincenzo PE 2020
Missoni PE 2020. Bagni Misteriosi
Stampe, fiori, zig zag e pois si incontrano ma non si scontrano. Missoni PE 2020.
Salvatore Ferragamo PE 2020. Rotonda della Besana
Salvatore Ferragamo PE 2020. L’ispirazione di questo trucco è il mix di colori dei Vetri di Murano. Makeup by MAC Cosmetics
Prima sfilata co-ed per N°21
Prada PE 2020
In conclusione, citiamo Miuccia Prada: “Ho voluto dare più importanza alla persona. Cose più semplici, meno inutili.”
AMEN
The best of Milano Fashion Week published first on https://lenacharms.tumblr.com/
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/04/06/le-confraternite-e-riti-della-settimana-santa/
La Vergine Addolorata nei riti della Settimana Santa e il ruolo delle Confraternite (II parte)
Taranto, La Cascata, Giuseppe Manzo 1901
Le Confraternite e riti della Settimana Santa in Terra d’Otranto
di Vincenza Musardo Talò
Da sempre protagoniste privilegiate e impegnate a tutelare e valorizzare la devotio fidelium verso l’Addolorata, soprattutto nella lunga Quaresima, sono rimaste soprattutto le Confraternite laicali.
Anche a Taranto le antiche confraternite sono ancora cariche di una storia intimamente intrecciata alle variegate forme della pietà popolare, in particolare le confraternite dell’Addolorata e del Carmine. Fortemente legate alla storia della religiosità popolare tarantina, esse sono state protagoniste assolute dei secolari riti della Settimana Santa; riti che hanno fatto di questa nostra Città sofferente il luogo dell’anima, quasi un immenso tempio che ogni anno invita a un appuntamento obbligato tutti i cataldiani, insieme a folle anonime di visitatori devoti. E’ un impegno ormai storico quello delle confraternite joniche nel tenere viva la tradizione dei padri verso una delle più belle espressioni dello spirito della tarentinità e della sua coscienza di appartenenza.
Nel loro più generale processo storico, le confraternite sono state le prime forze laicali, organizzate e cresciute nell’ambito delle istituzioni ecclesiastiche, già al tempo dell’Europa altomedievale, quando questa – nella sua fisionomia multirazziale e con la sua rudimentale cultura – era ancora priva di una identità, che solo le comuni radici cristiane hanno poi saputo offrirle, nel trascorrere del diverse stagioni della Storia. E così, quasi una rete provvidenziale, fatta di devozione e solidarietà, i gruppi confraternali per oltre due millenni hanno coperto l’intera Europa cristiana. E là dove hanno operato nello spirito del Vangelo, promuovendo tra i confratres una perfezione di vita cristiana, esse hanno scritto pagine stupende di storia religiosa e civile, contribuendo – a partire dal lungo millennio medievale – a quel suggestivo rinascimento religioso, che spesso è risultato essere più opera della base, che dei vertici della Chiesa ufficiale[1].
Un legame che resiste e che si alimenta anche in quell’antico rapporto tra confraternita e pietà popolare, da sempre un rapporto quanto mai stretto, considerando che la confraternita – in definitiva – altro non è se non la spontanea e naturale derivazione della pietà popolare, dell’attenzione tutta cristiana dei soci nei confronti di tanti, che sono vissuti e vivono in margine alla società. Perché ogni tempo ha i suoi poveri e il volto della povertà è multiforme e non è solo quello sociale e materiale. In tal senso, le variegate associazioni laicali hanno realizzato una quotidiana azione di supporto al sociale e magistralmente hanno veicolato l’accostamento della Chiesa alla società e della società alla Chiesa.
Lo scopriamo, ascoltando la voce dei secoli, in cui è possibile cogliere l’antica e sempre viva relazione tra confraternita e devotio fidelium o religiosità popolare, a volte offesa o trascurata dalla Chiesa, perché tanto diversa dalla liturgia ufficiale, ma a fianco della quale si è sempre schierata la cultura confraternale, per tutelare e nello stesso tempo emendare o mediarne le vistose difformità.
Pertanto, una connotazione essenziale che ha caratterizzato nel tempo la fisionomia delle confraternite è fuor di dubbio l’aver svolto un ruolo sapiente di mediazione tra la pietà popolare e la complessa liturgia ecclesiastica.
Un altro momento della religiosità popolare, sempre supportato dall’opera delle confraternite, è costituito dalle feste che erano sentite (e sono) proprie dell’identità socio-religiosa di un popolo, come la festa patronale o i riti quaresimali e della Settimana Santa. Erano momenti fortemente legati alla cultura non solo religiosa di una comunità, ma il segno di una cultura liminale, sincretica, che legava sacro e profano.
Se guardiamo, ad esempio, al triduo pasquale, già a partire dal Giovedì santo con il rito della Cena Domini e la lavanda dei piedi, le confraternite erano protagoniste assolute, con quei dodici confratelli anziani, protagonisti della suggestiva liturgia. E poi c’è l’adorazione dell’Eucarestia all’altare del Repositorium o Sepolcro, un privilegio un tempo riservato alle confraternite del SS.mo, sia nel momento dell’ideazione che in quello dell’allestimento.
Tutti conosciamo la spettacolare e surreale scenografia di cui si adornano le Chiese del Tarantino nella sera del Giovedì santo, i cui tratti comuni sono gli apparati coloratissimi, fatti di drappi vellutati, gallonature dorate, ceri e lampade a olio, tappeti floreali. Una volta, vi erano angeli e figure azionati da congegni meccanici (le cosiddette “macchine barocche”) che si muovevano al suono di musiche celestiali, mentre non mancava mai quel caratteristico ornamento, costituito dai cosiddetti “piatti di Paradiso”, un delicato omaggio del popolo all’Ostia Santa[2]. E così, i tre giorni dei riti della Passione era giorni di fermento per tutti gli oratori delle congreghe, dove i confratelli già nel primo pomeriggio del giovedì santo, nella propria divisa, si preparavano al pellegrinaggio ai Sepolcri.
A Taranto, per un antico privilegio e dopo non facili contenziosi con altre congreghe, la confraternita del Carmine vedeva i suoi associati andare, scalzi, in pellegrinaggio alle chiese del Borgo e della Città Vecchia. E’ questo il primo dei tre importanti appuntamenti della Settimana Maggiore della chiesa tarantina. E’ inutile ribadire – oltre il profondo significato spirituale – l’intima commozione di chi incontra le poste del Carmine per le strade all’Isola, oltre il ponte e nelle strade affollate della Taranto del Borgo. I due confratelli di ogni posta se ne vanno scalzi e incappucciati col rosario in mano e quell’incedere di antichi e anonimi pellegrini, aiutati dal bianco bordone.
Una volta, nel loro mistico peregrinare, le poste erano solite incrociare dame velate di nero, galantuomini, ufficiali della Marina e donne del popolo, che giravano sino a notte nelle chiese della città, alla tremolante luce dei lampioni, una realtà tanto diversa dall’oggi. I perdùne invece sono rimasti sempre uguali. Il loro tempo pare essersi fermato.
Le confraternite erano parte integrante anche della processione della Desolata e soprattutto della processione dei misteri del Venerdì santo, uno dei riti più coinvolgenti dell’anno liturgico cattolico, quando a tutti pare di vivere una condizione dello spirito fuori dal tempo, nel mentre si esalta – in una tensione interiore altissima – la memoria antica di quel che accadde lungo la Via Crucis a Gerusalemme, a quell’uomo chiamato Gesù. E nella commossa atmosfera processionale, in ogni paese, tutte le congreghe – con la loro suggestiva presenza – invitavano gli astanti a una corale immedesimazione al dramma della Passione.
La notte del Venerdì santo, la processione calava tutti in un’atmosfera quasi surreale. Dopo l’interminabile sfilata dei confratelli incappucciati, al suono delle troccole (perchè le campane erano mute), seguivano le sconvolgenti statue dei Misteri, che si mostravano come rappresentazioni figurate della memoria, capaci di arrivare dritte al cuore di ognuno, per uno strano processo inconscio, che non conosceva differenze di cultura, età o condizione sociale.
Mai come in simile occasione il concetto di religiosità popolare ha significato la religione di tutti[3]; ancora oggi, lo studioso della religiosità popolare registra costantemente il riemergere di rituali e di segni antichi, connotativi dell’identità devozionale di una comunità, che per nessuna ragione intende omologarsi a una cultura dal volto globale. Legata ai riti della Quaresima era anche la devota pratica delle Quarantore[4], molto cara ai confratelli di ogni congrega. Infatti, leggendo e curiosando tra le cronache e i documenti degli archivi confraternali, si rinviene che tante feste dell’anno liturgico erano precedute dalla pia pratica delle quarantore, una pratica che addirittura venne inflazionata se alcuni arcivescovi, tra cui lo stesso mons. Capecelatro, con espliciti decreti dovettero limitarne l’uso alle sole feste patronali e a quelle dei santi titolari delle confraternite. Tanto per concludere che le confraternite sono state preziose custodi e punto di riferimento dei tanti volti storici della devotio fidelium e – nello stesso tempo – prezioso strumento di collaborazione nella pastorale delle parrocchie.
Non di rado, però, nei decreti di S. Visita, gli ordinari invitavano le congreghe a contenere certe esteriorità, che a volte facevano deviare i fedeli dalla Liturgia e spesso si predicava sobrietà[5]. Ma tanto sembrava non avere alcun seguito sui secolari riti della Settimana Santa tarantina
Un’ultima nota di devozione alla Vergine Addolorata è quella espressa nel culto domestico, attraverso la presenza dei cosiddetti “quadri di casa”. Erano questi delle oleografie di grande formato, in quadricromia che, debitamente incorniciate, ieri ornavano la misera casa contadina. Questi quadri avevano una forza empatica con le donne di casa, che cercavano il conforto della Vergine dolente anche nel culto domestico. Infatti, nella trascorsa civiltà contadina, l’Addolorata entrava a far parte del pantheon familiare proprio attraverso i santi in campana, quasi una presenza scontata tra le pareti familiari di ogni ceto sociale di quel tempo. Dalle origini settecentesche, questo manufatto pietistico appare prima tra i fasti delle dimore aristocratiche, quale contenitore privilegiato di preziose suppellettili o soggetti sacri, per poi trovare nell’Ottocento il suo periodo aureo, quando ogni donna che andava in sposa ne portava uno o più pezzi nel suo corredo dotale. E così, il santo – protetto dalla leggera trasparenza del vetro – diveniva strumento apotropaico e taumaturgico; la qual cosa esaltava e centralizzava il culto domestico alle madonne o ai santi in esso racchiusi. La Desolata sotto campana era la tipologia più diffusa. Spesso tali simulacri presentavano aggiustamenti figurativi e simbolici, mutuati dal soggettivo sentire religioso; arricchiti dalle mani devote delle donne di casa, che creavano delicate ghirlande floreali, tese a incorniciare la statuina interna, a cui si accompagnavano spesso alle foto dei defunti o di figli e mariti lontani, in guerra.
Era questo un modo tutto elementare di accorciare le distanza tra il sofferto immanente e l’ideale trascendente. E nel mentre, tutt’intorno alla campana, facevano corona una serie di santini[6], intagliati nel pizzo, il ripiano del cassettone diveniva un sacrario privato, un angolo di paradiso in terra, a cui non disdicevano anche le belle Vergini da camera, cioè quelle stupende oleografie a colori, che riproducevano volti dolcissimi di madonne, tra cui era preminente quello della Madre del dolore. Insomma, “un piccolo cielo che isola il mistero”, come l’arcivescovo Gianfranco Ravasi ha definito i santi in campana.
Note
[1] Uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno confraternale, il Meersseman, a ragione considera queste associazioni laicali come la terza colonna della Chiesa, dopo il clero diocesano e gli Ordini religiosi. Cfr. G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, voll. 3, Roma 1977, passim. In effetti, questi sodalizi laicali hanno costantemente svolto un ruolo di rilievo nella storia della Chiesa, prima col trasformare lo stile stesso della convivenza civile tra i soci, e poi generando in ognuno di loro, una mentalità evangelica, osservata nel saper rispondere in concreto ai bisogni del popolo di Dio, specie là dove la condizione sociale ne mortificava la dignità o si mostrava dolorosamente carente; G. Duby, L’Anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Torino 1976.
[2] Erano, questi piatti, dei vasi di piantine di grano e leguminose varie, dal particolare colore pallido, diafano, perchè i chicchi di grano, seminati in un misto di terra e tufo sottile venivano fatti crescere al buio, nelle case dei confratelli, situati spesso sotto il letto grande, nel tempo della quaresima. Poi, il giorno del Giovedì santo, si portavano in chiesa, abbelliti con nastri colorati e si collocavano a corona e ornamento del Sepolcro, aperto alla devozione dei fedeli, per tutta la sera, sino alla mezzanotte, e parte del Venerdì Santo.
[3] Tanto accadeva già da secoli nell’intero Regno di Napoli. Ad esempio, è dato sapere che anche le nobildonne napoletane, al passaggio dei drammatici gruppi statuari dei misteri, si commuovevano e si scomponevano, dando in pianto e alte grida, così come facevano le popolane. E, sempre a Napoli, la regina-moglie di Carlo III di Borbone, obbligava al lutto stretto tutta le dame di corte nei giorni del triduo pasquale, così come usavano fare pure le donne nelle case dei pescatori di S. Lucia o nei quartieri spagnoli, affollati di una umanità elementare.
[4] Simile pratica di devozione si osservava sin dal IV secolo a Gerusalemme, dove le Quarantore si tenevano per commemorare la durata di tempo che il Corpo di Cristo trascorse nel Sepolcro, dall’ora nona del venerdì santo all’alba radiosa della domenica di resurrezione. Poi, a partire dall’età moderna, al tempo di S. Carlo Borromeo, le Quarantore assunsero valenza penitenziale ed espiatoria. Si riporta, infatti, che proprio a Milano, nella Quaresima del 1537, quando la città già consegnatasi a Carlo V, stava per essere attaccata dal re di Francia, Francesco I, il quaresimalista del Duomo, un cappuccino la cui parola aveva uno straordinario carisma sui fedeli, propose al popolo l’adorazione eucaristica per quaranta ore continue, come il mezzo più efficace per allontanare il re straniero da Milano. D’accordo il cardinale Borromeo, nel Duomo fu allestito un altare monumentale, alto 1dodici gradini, abbellito di fiori e con centinaia di lampade, mentre in cima, su un trono maestoso, si collocò l’ostensorio.
La prima ora di adorazione fu fatta dal santo cardinale, venuto all’altare in abito di penitenza, le altre ore furono tenute invece dal popolo e da tutte le confraternite milanesi, i cui associati giungevano ordinatamente dai diversi oratori, in devota processione, scalzi, con corona di spine, le discipline e una torcia accesa. Terminate le Quarantore nel Duomo, si tennero poi in tutte le altre chiese della città ambrosiana e sempre le confraternite si tirarono dietro il popolo dei fedeli. E non fu vana questa devota pratica, perchè – dicono le cronache del tempo – i due sovrani fecero una tregua e il re di Francia lasciò definitivamente Milano. Da qui, la devozione delle Quarantore si diffuse in tutti gli stati cattolici, con una adesione corale dei fedeli, tanto che i pontefici accordarono diverse indulgenze, tra cui è nota quella di Pio VII – che nel 1807 – riconosceva come privilegiati, per il solo tempo della divina esposizione, tutti quegli altari dove si teneva l’esposizione del Santissimo.
[5] In genere erano le processioni ad essere motivo di severi decreti di riordino da parte dei vescovi e non solo in fatto di precedenze, ma dettati anche perché, là dove convivevano più confraternite, era difficile contenere l’esuberanza di questi percorsi devozionali. Certo, non può ignorarsi, specie nel Mezzogiorno d’Italia, quanto le processioni siano un patrimonio inalienabile della religiosità popolare, una facies ancora intatta e capace di sollecitare la pietà dei fedeli. Basti ricordare, ad esempio, le processioni patronali o meglio quelle penitenziali già descritte della Settimana Santa. E non potrebbe essere diversamente, se ricordiamo che non pochi sodalizi, nei secoli del basso Medioevo, si sono originati proprio dai gruppi itineranti dei Laudari e dall’esercizio delle processioni penitenziali dei Flagellanti, fenomeni intesi come la presa di coscienza collettiva del peccato; mentre la cultura della penitenza alimentava la preghiera corale, il digiuno e la disciplina, a cui si univa l’espressione di un altro profondo legame fra confraternite e pietà popolare: ossia il sentimento della carità fraterna, tradotto in una delicata quanto utile attività assistenziale, dalla marcata impronta sociale. Lo stato sociale e il volontariato di cui oggi si parla tanto – l’hanno inventato le associazioni laicali, con l’assistenza, la condivisione e il pio esercizio della carità dei confratelli verso i loro simili più bisognosi.
[6] A. Spamer, Das Kleine andachtsbild vom XIV. bis zum XX. Jahrhundert, Monaco 1930; A. Sasso, La Passione di Cristo nei santini, Vicenza 1987; V. Musardo Talò, Contenuti ascetico-spirituali nelle preghiere dei santini della Croce in AA.VV., La Croce, simbologia nelle piccole immagini devozionali, Manduria 1992; Eadem (a cura di), Il francescanesimo nella devozione dei santini, Lecce 1993.
#confraternite salentine#riti della settimana santa in Puglia#Vincenza Musardo Talò#Spigolature Salentine#Tradizioni Popolari di Terra d’Otranto
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'Resilienza' . A Civita sembra che il tempo si sia fermato, sembra che le cose stiano allo stesso posto da centinaia di anni. Ma questa visione superficiale non è la realtà. Tanto l’interno della terra quanto l’interno dei suoi abitanti hanno più movimenti e cambiamenti che nel mondo normale. Il muro vuole essere una rappresentazione di questa forza interna, di ciò che è possibile vedere al di là della superficie, e al tempo stesso è un invito per chi guarda a costruirsi attivamente, attraverso l’utilizzo di un filtro, una immagine empatica di quello che ha di fronte. Il caso sta decidendo la nuova geografia dei luoghi e dando dimostrazione di un conflitto tra la natura, la storia e la civilizzazione. Ma i muri, le architetture, le persone e la natura stessa hanno dentro una resilienza che instancabilmente si riappropria dei caratteri originari e autentici per rifondare le regole del territorio e della comunità. . #cvtastreetfest Foto. #alessia_di_risio
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