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Sto in studio da stamattina alle nove, non ho concluso niente
Troppi pensieri per rimanere concentrata
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Il giorno in cui non ho fatto niente e si è rotto tutto
11 aprile 2024.
Ore 7:30
Non ho chiuso occhio. Deboroh ha miagolato non so verso quale ora, dopodiché solita notte di merda all'insegna dei cartoni animati non desiderati. Mi allenerò senza voglia, poi spesa, poi video. Ho già fame. Devo piantarla di non mangiare nulla appena sveglia. Vabbè, ormai è andata. Ho già fatto diversi lavori, oggi devo anche risolvere la questione telefono (che ovviamente va restituito, troppo una chiavica) e vedere se posso pagare a rate qualcosa che non voglio ma è l'unica roba che c'è disponibile. Un mese per rimpiazzare telefono e bicicletta e non ci sono riuscita. Allucinante.
Ieri il video spazzatura di sottomarche è fallito, quindi basta, non ripeterò più l'esperimento. Vado, chi si ferma è perduto.
Ore 12:30
Sono del tutto sorda. Seriamente. Devo iniziare a riposarmi da palestra e riposarmi in generale. Oggi non avrei dovuto fare una ceppa. Continuo a non capire questa voglia inutile di allenarmi che tanto non porta da nessuna parte. Questa è un'altra cosa che vorrei cambiare. Non ho preso manco la pillola. Infine, tanto per gradire, si è rotta la ps4. Volevo la ps5, ma io devo sempre cambiare un telefono. Non so bene da dove far uscire i soldi, quello che faccio è il massimo che posso fare e mi sembra che già sia parecchio (guadagno più adesso di quando andavo a lavorare nella vita vera). Il fatto è che da sola non è fattibile e aiuti non ce ne sono. Comincio ad avere fame. Oggi ho segnato gli orari, la cosa funziona, mi do il tempo di fare le cose e sentire appetito. A colazione ho mangiato le gallette con un paio di burri di frutta secca, molto buono. Sono riuscita a non mangiare la marmellata all'alba e sinceramente sono contenta. Avevo fame, ma niente di proibitivo.
Ho aggiornato il blog. Nient'altro.
Ore 21
Giornata vuota. La mia vita è sempre stata solo un susseguirsi di liste di cose da fare. Ho avuto sempre la fissa di dover fare cose, di imporle persino, e che fare due volte di seguito la stessa non era cosa buona perché sennò sai che palle. Quando cerco di uscire da questa routine di hobby/impegni, rimane il vuoto. Con Alfredo non si riesce a fare niente. Da quando non lavora più (ormai 5 anni) ho smesso di giocare. All'inizio pensavo fosse una coincidenza, ma no. La realtà è che lui vive su quella playstation, che io ho sempre i minuti contati e che la libertà di stare 6 ore su un videogioco, ogni giorno, io non ce l'ho. Io, a quanto pare, ho libertà di lavorare 12, ma se faccio qualcosa di mio e basta, senza scopo, non si può fare. Perché rubo il tempo a qualcosa che neppure facciamo più. Sicuramente me lo autoimpongo, questo limite (non ricordo mi abbia mai detto robe del genere), ma di fatto quello che accade è questo: ho smesso di giocare. La playstation non è più mia. E infatti ho comprato una Nintendo, che non uso, perché non mi piace.
Sono riuscita a inserire i cartoni animati perchè sono unità brevi (e anche perché i film li avevo debellati da tempo senza neppure rimpiazzarli: piuttosto guardavo il vuoto che quella spazzatura americana). E quindi diventando un'abitudine, ormai si guardano e basta. Riesco a leggere, perché pure lì si tratta di intervalli brevi. Ma se domani volessi prendermi Dragon Dogma e giocare 24 ore (non dormire, persino, per giocare, come facevo prima)... non è più possibile. Ci fosse almeno una ragione. Tipo Questo tempo serve a questo. No, quel tempo serve a rodermi dentro, a guardare un telefono che detesto, a leggere e guardare puttanate (cosa che non posso fare nemmeno quasi mai, perché come metto un video lui ci parla sopra. Se poi tolgo il video, di nuovo silenzio per ore. Sembra quasi lo faccia apposta). Ne ho pieno il cazzo di questa vita qui. Ne ho pieno il cazzo un po' di tutto. Ma più che lamentarmi non posso fare perché non mi viene in mente nulla da fare in alternativa. ho esaurito del tutto le idee.
Stamattina alle sei avevo deciso di vedere un film. Sono le nove, prima delle nove e mezza non inizieremo a guardarlo e quello che so è che non riuscirò a guardarlo. Perché ho sonno, stanotte non ho chiuso occhio.
So che la playstation è rotta. Che il telefono è rotto. Che devo spendere altri mille euro (e questi mesi abbiamo già cambiato pc e frigorifero e aggiustato mille minchiate) di botto e la cosa mi deprime tantissimo.
Che giornata di merda.
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Ricordi sparsi del primo mese
Oggi mercoledì due agosto preparato subito alle otto, lavato e vestito, sono le dieci e sono ancora in camera
Giovedì tre agosto ho fatto il mio primo passo.
Sabato cinque agosto pomeriggio d’estate, una noia mortale, niente ginnastica, niente visita niente di niente per tutto il pomeriggio.
Serve qualcosa per lavorare manualmente ma come si fa con una mano sola? Per di più la mancina.
Martedì otto agosto usato la cyclette!
Mercoledì nove agosto prima cacca senza peretta!!!
Giovedì 10 agosto primi dieci passi
Venerdì 11 agosto ancora penso che sia un incubo da cui mi devo ancora .
Domenica tredici agosto inizia la solita domenica lunghissima. Colpo di scena, stamattina primo bidet in bagno e non più nel letto.
La telefonata a casa di stamattina mi ha fatto commuovere: chiamo Simba dal telefono e lei miagola! È sufficiente per farmi riempire gli occhi di lacrime.
Quando parla il mio vicino di letto con i suoi familiari, non riesco a sentire nemmeno quello che ho in cuffia.
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Frey Kan è un bambino curioso
Frey Kan è un bambino curioso.
I genitori sono sempre molto fieri di lui. Rispetta tutte le regole, senza mai fare i capricci. Specialmente quando si tratta di andare a letto: sempre alle nove, anche se il resto dei bambini della sua classe sono svegli fino alle dieci per guardare i cartoni. Lui non si lamenta, anche se l'indomani non è un giorno di scuola. In fondo, gli piace.
Frey sa dormire. Sembra tutto al contrario quando si dorme. Di giorno lavora, studia e si stanca a compiere tutte le sue faccende; di notte si riposa, come il papà quando lascia perdere il lavoro e parla di leggi fisiche. Di giorno c'è tanto chiasso a cui badare attenzione, tutt'attorno a lui; di notte è tutto calmo e silenzioso, come la domenica in chiesa subito dopo la comunione. Di giorno deve mantenere gli occhi bene aperti e, se proprio necessario, usare la sua mano per coprirli dalla luce fastidiosa del sole; di notte può chiudere gli occhi, ed è il turno della mano di nascondersi sotto le coperte.
Frey sa fare sogni lucidi. Lo ha imparato tanto tempo fa, così tanto che neanche si ricorda di alcunissimo sogno non lucido. Ma non fa niente, perché non serve a nulla ricordare quando puoi creare tutto quello che vuoi. A dire il vero la base è già tutta pronta quando Frey capisce di essere in un sogno. Un villaggio medievaleggiante, con bastoncini di zucchero al posto di alberi e strade di carbone edibile...
«Sì,» dichiara ad alta voce Frey, «è già successo questo dicembre. Sono in un sogno a tema Natale. Forse perché abbiamo fatto altri lavoretti a scuola stamattina.»
«Che bel bambino, vuoi forse una caramella all'arancia? Ha tanta vitamina C!», gli chiede un torreggiante elfo verde abbassandosi alla sua altezza, imperturbato, come se non avesse sentito le precedenti parole di Frey.
Frey sa parlare. Molto bene, a dirla tutta. Una volta inciampava tra le parole perché doveva essere il più veloce di tutti, ma da quando ha scoperto la dizione ha capito che è più veloce se cerca di fare, molto lentamente, attenzione ad ogni sillaba. Sa anche essere molto molto educato. A scuola gli fanno sempre i complimenti, a parte i compagni invidiosi ovviamente. Le sue maestre gli hanno fatto fare bella figura coi genitori all'incontro scuola-famiglia del primo quadrimestre, e per questo gli hanno regalato un farfallino del suo colore preferito, giallo. Frey nota di averlo addosso proprio in quel momento. Gonfia le sue guance, poi cammina via.
Frey sa andare in bici. Non ha mai imparato, perché non può sporcarsi o sbucciarsi le ginocchia, farsi male è sbagliato perché fa la bua e fa preoccupare la mamma. Quindi non può assolutamente provare, perché se prova rischia di sbagliare. Però sa andarci lo stesso, nei sogni. Frey non fa mai rumore perché non è giusto disturbare i vicini anziani che dormono o la maestra che spiega. Stacca il suo farfallino blu e lo attacca alla bici a mo' di clacson, e con un "poti poti", attraversa la parete di una casa come se non ci fosse, uscendo così dai confini del sogno così com'era.
Frey sa orientarsi. Sa seguire le indicazioni, sa leggere una bussola, sa tradurre una mappa. Conosce il significato di tutti i cartelli stradali, anche se è piccolo. Sa dettagliarti come arrivare ad ogni via della sua città, una volta con un turista ha persino fatto stupire il papà. Chiedigli una nazione, lui ti saprà dire la capitale. Sarà per questo, forse, che quel nero era per Frey una strada. È circondato di stelle mentre corre veloce con la sua bici. Riconosce la Stella Polare, ma non è nella sua direzione che sta andando- no, è altrove. Il villaggio del Natale si fa sempre più piccolo, fino a diventare un'altra stella tra le tante. Frey sa di aver già oltrepassato il confine quando vede, piccola, una figura incappucciata con degli strani baffi a forma di freccia. Non è lui ad averla creata. Farà parte della base?
Frey sa. Sa fare tante, tante cose. Non sa, però, non fare le cose.
«Ciao, Frey. Il mio nome è Uber.»
Il mondo tutto a sinistra di Frey diventa, all'improvviso, un verde sentiero, tutto prato e lontane foreste di frutti. Nel cielo c'è un coloratissimo sole, e si respira una deliziosa aria di campagna, come un misto tra erba spezzata e pecorino appena tagliato dalla forma. A destra, la notte rimane tale.
«Uber, sei parte del sogno?»
«So esserlo.»
«Che intendi?», chiede Frey, un po' spaventato.
«Io sono qui per insegnarti a scegliere, Frey.» La figura alza il suo braccio sinistro, e seguendo la sua mano, ora libera dalle lunghe maniche grigie di Uber, lo sguardo di Frey si ferma sullo spazio dietro di lei. «Per guidarti verso la scelta giusta.»
«Di quale scelta si tratta, Uber?»
Frey sa desiderare.
All'improvviso, alla sinistra di Frey brillano tra le stelle centinaia di fotogrammi in successione. Frey non ha nemmeno il tempo di percepirli, ma sa capirli. Sa pesarne il significato, sa apprezzarne il valore.
«Questa è la tua vita futura, Frey, se sceglierai questa strada. Ti ricordi cos'hai chiesto a Babbo Natale quest'anno che i tuoi genitori ti hanno rivelato che non esiste?, un nuovo robot da cucina, così che la mamma ti possa cucinare la tua torta preferita, la crostata ai frutti di bosco. Qui te l'ha fatta. Vedi?, ha tanta crema, come piace a te. Ti ha anche dato la fetta più grande.
«E la bambina di cui ti sei innamorato, che abita vicino la scuola? Eccovi lì, con i vostri tre figli - oh, eccovi lì di nuovo, anziani, con i vostri nipoti. La mamma e il papà sono così felici con i tuoi figli. Tutti sorridono. È un ritratto davvero idilliaco, ti ricordi la parola?, in questo contesto significa più o meno "senza pensieri".
«E cos'è quello in secondo piano?, ah, già, un pianoforte a mezza coda. Ti è stato comprato in sostituzione della tastiera. Hai continuato a suonare, perché ti piace tanto suonare, giusto?, e allora il papà ha pensato di comprarti un pianoforte a parete per praticare un po' e entrare in conservatorio, poi a mezza coda per continuare. La casa è grande e spaziosa e per gli anni del liceo ci hai invitato gli amici per suonare assieme o discutere di matematica.
«Ecco, la matematica. Ti sei trasferito a Roma per il liceo, giusto per fare qualcosa che sia più alla tua altezza. Hai studiato tanto e ti sei diplomato a pieni voti. In realtà, nel mentre, ti sei anche divertito molto vincendo alcune gare di matematica. Alcuni erano invidiosi di te, ma sei riuscito a trasformarla in ispirazione con le tue parole gentili. Specialmente dopo la tua laurea, quando sei diventato un ricercatore e hai dato il nome a ben tre diversi teoremi. Alcuni giornali ti hanno chiamato il nuovo Einstein.
«In poche parole,» termina Uber, «scegli la strada a sinistra e otterrai tutto quello che hai sempre desiderato.»
Frey sa brillare. I suoi occhi sicuramente scintillano più di tutte le miriadi di stelle sotto e dietro di lui.
«E per quanto riguarda la strada a destra?», chiede.
«Non lo so.» risponde Uber, riponendo le sue mani nelle maniche.
Frey Kan è un bambino curioso.
#120 storie brevi per una vita più lunga#la storia di oggi è preziosetta. voglio bene a Frey#Frey Kan and he will#scegliete voi quale credete sia il finale della storia. Uber ha guidato anche la vostra di scelta#scrittura#scritture brevi#narrazione#narrazione breve#narrativa#narrativa breve#storia breve
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#sto preparando pacchettini di natale#da stamattina alle nove#e mamma non fa che preparare dolci#e io non faccio che aiutarla#e ora siamo entrambe stanchissime#sigh
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Il fumo, le fiamme, la polvere che ricopre la città, il panico sui volti dei sopravvissuti, il crollo. Il World Trade Center non c’è più, migliaia di persone spariscono tra le macerie, mescolate ai mobili degli uffici, ai documenti bancari, alle macchine fotografiche dei turisti. Resto inchiodato per ore alla Cnn a guardare l’orrore in diretta. Chiunque di noi avrebbe potuto trovarsi lì. Cecilia aveva tre anni quando l’ho portata per la prima volta a New York. In cima al World Trade Center, la tenevo in braccio a guardare la città dall’alto, incollata alla vetrata da dove anche i grattacieli sembravano piccoli piccoli. Ci saranno stati molti altri bambini in cima alle torri oggi, 11 settembre 2001. Manhattan colpita a morte, e non è un film. Questa volta ci sono riusciti. Il World Trade Center, lo stesso obiettivo del 1993. Allora, il piano dei terroristi era di far cadere, con una potente bomba nel garage sotterraneo, una delle torri addosso all’altra, per provocare – stimavano – ventimila morti nel cuore di New York. Qualche errore e un po’ di “sfortuna”: sei morti e un migliaio di feriti. Adesso, purtroppo, ce l’hanno fatta. Mentre il Boeing 767 della United Airlines trapassa la torre sud come in un videogioco, mi torna un vago ricordo, avevo letto qualcosa di simile. Come si chiamava quel libro? Ci sono, The New Jackals, i nuovi sciacalli. Lo cerco tra i molti volumi collezionati negli anni scorsi sul terrorismo internazionale, sul mondo islamico e sull’Afganistan. Eccolo qua: i tecnici dei servizi segreti americani avevano lavorato a lungo – si racconta nel libro – sul computer di Ramzi Youssuf, l’organizzatore dell’attentato del ’93. Alla fine erano riusciti a entrare in un file molto protetto, e avevano scoperto il Bojinka Plot. Bojinka in serbo-croato significa “esplosione”. Cinque terroristi, agendo indipendentemente, dovevano mettere bombe su altrettanti aerei di compagnie americane, la United e la Northwest, e farli esplodere in volo. Evidentemente il piano è stato elaborato, adattato nel corso degli anni. Oggi gli aerei sono stati usati come missili in attacchi suicidi su New York e sul Pentagono. Che cosa starà pensando in questo momento Ramzi Youssuf, nel carcere dove è rinchiuso da alcuni anni? “Mi accusate di essere un terrorista. Sì, lo sono,” aveva detto ai giudici americani durante il processo del 1997, “e ne sono orgoglioso. Voi avete inventato il terrorismo, e le bombe sono l’unico linguaggio che capite.” Le rovine delle torri gemelle stanno ancora fumando, e per la prima volta la Cnn pronuncia il nome che molti stanno aspettando, Osama bin Laden. “La risposta degli Stati Uniti non si farà attendere,” assicurano i portavoce della Casa Bianca nelle prime conferenze stampa. Neanche di fronte al macello, alle urla e alle invocazioni di aiuto di chi sta per morire, la specie umana è capace di fermarsi, di riflettere. Ci sono ancora persone a brandelli là sotto, non sappiamo ancora quanti stanno agonizzando tra le macerie di New York, e già c’è chi pensa a un nuovo macello. Moriranno altri innocenti. Chi sono le migliaia di sepolti sotto le torri gemelle o tra le rovine del Pentagono, qual è la percentuale di vittime civili? E qual è stata nei conflitti degli anni precedenti? Quanti innocenti sono morti a Sarajevo e a Belgrado, a Mogadiscio e a Baghdad, a Tel Aviv e a Gaza e in tutti gli altri luoghi di guerra del pianeta? Nove volte su dieci, in ciascuna delle guerre di oggi, quel proiettile o quel razzo, quella bomba o quella mina hanno colpito un bersaglio incolpevole. Sono innocenti le vittime sepolte sotto le macerie delle torri. Saranno altrettanto innocenti le vittime che già si programmano tra gli afgani, colpevoli di essere stati invasi dai miliziani di Osama bin Laden. Ci sono molti amici in casa, che vanno e vengono fino a notte fonda. I telefoni non smettono di suonare. Sono teso, stanco. La pietà per le vittime si mescola alla rabbia quando iniziano i “commenti televisivi”. Non sopporto le chiacchiere di molti politici che hanno già capito tutto, individuato buoni e cattivi, e pontificano sul da farsi. So benissimo, tra l’altro, che per molti di loro Osama fino a stamattina poteva essere indifferentemente una città del Giappone o una marca di preservativi. Eppure sono già in onda, specialisti nell’indignarsi, perfino nel piangere se conviene farlo, pronti a tutto fuorché a capire. Orgogliosi della guerra, nostalgici della prima linea, non li sfiora neppure il dubbio che la guerra sia la più grande vergogna della specie umana, una specie talmente poco sviluppata da non riuscire ancora a trovare, dopo millenni di storia, un modo per risolvere i propri problemi che non sia l’autodistruzione. Una specie violenta, che benedice la violenza individuale e di stato, che pratica la violenza come deterrente psicologico, che gode del proprio essere violenta. Una specie capace di dare dignità di pensiero a bestialità quali “alla violenza si risponde con la violenza”. Domani, ne sono certo, i politici leggeranno dieci righe su qualche quotidiano – forse un box con la mappa del terrorismo islamico – e saranno convinti di conoscerne abbastanza per poter fare dichiarazioni infuocate, lanciare anatemi, promettere vendette e, quel che è peggio, prendere decisioni politiche. “Li staneremo col fumo dai loro buchi,” tuona Bush. Non si sa chi debba essere stanato, ma questo è per lui un dettaglio. “Colpiremo i responsabili e gli stati che li proteggono.” Ci risiamo, davvero.
Gino Strada - Buskashì
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Sono le 00:45.
Sono le 00:45 e io ho letteralmente appena spento la macchina. Sono tornata a casa dal lavoro adesso da stamattina alle nove e trenta. Ho dovuto riaccompagnare a casa un collega che sta vicino a Bologna e sono passata per quella città nella cui libreria ti avevo trovato il libro vitale per la tua tesi. Io sono nei ringraziamenti della tua tesi... Cioè non è assurdo? Sono nella tua tesi ma non più nella tua vita. Tu invece continui ad essere qui anche se probabilmente non ci vuoi stare nemmeno. Sono stanca. Ho fatto davvero qualcosa di buono? Mi verrebbe da dire che l'unica cosa buona che abbia fatto sia stata lasciarti andare perché io sono un peso troppo grande da sopportare. Eppure penso, ripenso, strapenso, la mia testa non sta' mai zitta. Un anno fa oggi riaprivano le regioni. Un anno fa oggi eravamo a Milano dopo non so quanti mesi. Un anno fa oggi salivo le scale del tuo palazzo contando i gradini per farmi passare l'ansia. Adesso l'unica ansia che ho è dovuta a motivi troppo più grandi di me. Mi manchi veramente tanto sai?
Sono le 00:55 e penso a quei settantacinque scalini e che era vero quando dicevamo che abbiamo la democrazia dentro al cuore ma l'amore è una dittatura fatta di imperativi categorici ma nessuna esecuzione mentre invece l'anarchia la troviamo dentro ogni emozione.
Anche se l'unica emozione che riesco a sentire è una triste rassegnazione.
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Qui nella mia stanza devo prendermi cura dei miei capelli. Li lavo ogni mattina nel lavandino di pietra ollare dalle nove alle undici e quarantacinque. Lava lava lava lava ti farà girar la testa. Lavarmi i capelli deve essere un ballo, un ballo all’alba. Ho così tanti capelli e tanto miele han risucchiato che devo lavarli a ciocche. La stanza diventa umidiccia come una grotta marina, non si asciuga mai. Sto a piedi nudi e in un andirivieni di calate nel lavandino sondo il mistero. Le parti già lavate stanno arrotolate per terra e aspettano pazientemente. È come cercare di lavare le alghe. È scomodo e complicato ma è il lavoro che faccio nella vita.
Poi, quando l’orologio della torre scocca mezzogiorno, in un andirivieni dalla finestra li porto, ciocca per ciocca, e li lascio calare giù per tutti e cinque i piani fino a terra. Li lascio fuori a asciugare. Li lascio fuori per dare loro una vita propria. All’inizio pendono come una corda, stanno lì appesi alla finestra come vecchi cereali gialli che nessuno vuole mangiare. Poi, se soffia, come si spera, il vento, se li prende la brezza, ciocca per ciocca, giallo per giallo. Mentre li asciuga, il vento se ne impossessa; mentre si asciugano si muovono rapidamente come mille sanguinerole. Dopo, quando li riporto dentro, si stendono sul pavimento di pietra come chicchi in un granaio.
Da molti anni la gente si raduna per guardarli calare e asciugarsi. Non appena l’orologio scocca mezzogiorno la gente grida: SIGNORA! SIGNORA! CALA LE CIOCCHE! Sono diventata un’attrazione turistica e non posso farci niente. I pullman turistici arrivano quotidianamente, con una registrazione dei fatti il più delle volte falsi riguardo a chi sono e cosa faccio. E poi c’è la folla degli universitari, che a quanto pare mi hanno adottata, e una donna obesa che viene tutti i giorni e con un bastone picchia i bambini che cercano di afferrare i capelli e tirarli. La gente o è molto devota o è molto disgustata. Spesso mi scrivono. Naturalmente non rispondo perché i capelli non parlano ed è ai capelli che scrivono. Giusto la settimana scorsa sono arrivate cinquanta lettere in risposta al documentario di una troupe televisiva che era venuta quel lunedì a riprendere i capelli lasciati a penzolare. Eccovi un estratto casuale da queste lettere:
Concord, New Hampshire
Cara Signora delle Ciocche, i Suoi capelli sono conturbanti e commoventi. Li amo. Non ho potuto vederLa in faccia sul nostro schermo a diciotto pollici, ma ho visto i Suoi capelli. Vedevo la Sua bella casa vittoriana. Ma stamattina lo psicologo della trasmissione ha detto che forse la chiave per spiegare il Suo fenomeno è la morte. Ha detto che i Suoi capelli lunghi sono il sintomo di una fobia della morte. Non lo sa che trapassiamo ad una vita più grande? Non lo sa che NON ESISTE una cosa come la morte? C’è solo il cambiamento. Morire è un’esperienza gloriosa per coloro cui capita e anche per coloro che resistono ancora un po’ è gloriosa, se possediamo un reale intendimento.
Sinceramente Sua, Beatrice Engle
Acton, Massachusetts
Cara Ciocchepazze, per piacere, cerchi di rendere il mondo più sano di mente non più pazzo – va già male abbastanza. Che Dio la benedica e la aiuti – lei ha bisogno di aiuto.
Senza firma.
Anne Sexton, Il libro della follia
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“Quando i figli di Teresa, la mia amica che è morta l’anno scorso, hanno detto all’amministratore che avevano affittato la casa ai profughi - o cosa sono, immigrati? boh - io li volevo denunciare tutti.
Ma come?
Questa è una palazzina rispettabile, siamo tutte vedove, tre per l’esattezza, e siamo sole. Tutte anziane, ci facciamo compagnia, chi ci difende da questi?
L’avvocato mi ha detto che non potevo fare nulla.
E quando mi taglieranno la gola? Eh?
Speranzina dice che sono esagerata, ma lei non ha l’artrosi dell’anca, lei può correre se qualcuno le vuole tagliare la gola. Che tanto la raggiungono lo stesso. Poi ridiamo, cara Speranzina che fa tanto la moderna.
Sono arrivati oggi. Tre. Neri come la pece e lunghi come il mese di maggio. Io intanto mi sono fatta aggiungere tre serrature, che non si sa mai. E non apro a nessuno, manco a Speranzina, che si arrangi lei e la sua gola tagliata, già ridiamo se la picchiano questi. Io non apro a nessuno.
Stanotte non ho dormito, avevo paura che buttassero giù la porta con una accetta da boscaiolo, come in Shining. Domani metto un cartello nel portone: IN QUESTO CONDOMINIO SONO VIETATE LE ACCETTE DA BOSCAIOLO.
Cominciamo a mettere i puntini sulle “i”, che qua siamo in Italia.
Speranzina stamattina mi ha detto che sono esagerata. Aspetta quando ti prendono la pensione, le ho detto. E in quel momento ho visto i nomi sui campanelli. Ma questi non li possono scrivere in italiano i nomi, che siamo in Italia? Mussa? Nome di gatto, di gente non battezzata. Speranzina ha detto che sono nomi africani. Vabbè, io li chiamo Gavino, Proto e Gianuario, come i martiri di Porto Torres, così ci capisco.
Al ritorno dal supermercato Proto o Gavino, che tanto sono tutti uguali, mi voleva rubare la spesa. Ho gridato: MOLLA LA SPESA GAVINO! Ma urlato forte, e l’ha mollata subito. Cominciamo bene, Speranzina, qua ci rubano la spesa e mi sono chiusa in casa. Quattro mandate. Pure la sedia, toh, che se usa l’accetta lo sento subito e tocco il salvalavita Beghelli che lo vedi se vengono miei figli. La testa come i martiri di Porto Torres vi staccano. Eh.
Pure stamattina Gianuario voleva rubarmi la spesa, ma ho urlato solo al secondo piano, che ero stanca. L’ha mollata subito, sullo zerbino. Dev’essere che il parroco gli ha raccontato la storia dei martiri. Eh, mica siamo scemi qua.
Poi hanno cominciato a cucinare alle nove del mattino. Una puzza di cipolla terribile e ho chiamato Speranzina perché chiamasse l’amministratore, che non si può cucinare queste cose in una casa perbene. E quella cretina, che vedrai uno di questi giorni le entrano a casa con l’accetta questi tre, mi ha detto che non c’era differenza con quando io preparo il sugo la domenica alle sette. Ma questa è cipolla sarda! Loro sicuramente usano una cipolla africana.
Dev’essere che mi hanno sentito e mi hanno suonato alla porta. Gavino. Con un piatto di una roba strana. Per assaggiare, mi ha detto. Ho allungato la mano e ho preso il piatto di carta. ASPETTI LI’. Gli ho ordinato. Che io sono sassarese e se un piatto entra un piatto esce. E gli ho dato due fette di torta di mele. Buongiorno e non si disturbi più Signor Gavino! Mi ha guardato strano ma ho chiuso in fretta la porta. Quattro mandate. Più la sedia per l’accetta da boscaiolo. Io di questa roba non ne mangio. Cipolla africana ci dev’essere. Il profumo è buono. Sì, l’ho mangiato. Così così, già si poteva mangiare.
Non faccio in tempo a poggiare la busta della spesa che tentano di rubarmela. Però ora hanno imparato e per evitare che io gridi me la lasciano sulla porta.
Speranzina dice che mi aiutano. Io non ne ho bisogno d’aiuto. Però oggi sul loro zerbino ho lasciato tre cipolle. Con un biglietto: cipolla sarda. Oh, questi tre riescono a far puzzare pure la cipolla sarda, stamattina alle nove c’era un prof…, una puzza di soffritto che ajò, non va bene.
Oggi Gavino mi ha suonato alla porta. Ho guardato dallo spioncino. Non aveva accetta da boscaiolo, e ho aperto poco, con la catenella. Mi ha chiesto un’aspirina per Gianuario, quello che si vede meno. E cosa ha, gli ho chiesto, qualche malattia strana? No signora…influenza. Ma la prendono l’influenza gli africani? Boh, io gliela do. E camomilla ne avete? Non sa cos’è la camomilla.
Lì esce Speranzina con la teiera pronta. Aspettà Mussa, che l’ho preparata io.
- Ma scema sei?
- Eh, quanto sei esagerata.
E entra dai boscaioli.
E riesce dopo dieci minuti. Con la gola intatta.
E siccome non esiste che lei ha visto l’appartamento degli assassini di vecchie e io no, e anche perché non mi dica che sono paurosa, ho suonato.
“Signor Gavino, tenga questo limone, che Speranzina non è mai stata brava a fare tisane”
“Caro diario,
sono passati sei mesi. Siamo ancora vive. Domani Proto parte e io e Speranzina siamo tristi. Perché questi ragazzi sono davvero bravi, educati e ci hanno aiutato molto.
Fra due giorni partono pure Gavino e Gianuario, i martiri turritani se ne vanno. Dice che ne arrivano altri, speriamo che siano bravi anche questi.
E che almeno uno sia alto ad altezza di plafoniera delle scale, come Gavino, che cambiava le lampadine dei pianerottoli senza manco la scala. Perché in un condominio di anziane uno che sia ad altezza plafoniera ci vuole sempre."
Lalla Careddu
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𝟸𝟻/𝟷𝟶/𝟸𝟶
sai, stamattina mi sono svegliata e il primo pensiero è stato:
“cazzo mi sono addormentata e l’ho lasciato solo”
prevedibile. uffa mi dispiace un sacco.
comunque oggi continuavi a venirmi in mente.
prima di tutto a pranzo, casualmente mio papà stava guardando il giro d’italia, e indovina il punto in cui erano quando mi sono messa a guardarlo anche io...pinerolo, così sono rimasta a guardarlo per un po’ perché pensavo passassero anche per villar, but non l’hanno fatto mi pare.
oggi pomeriggio invece, casualmente sul nove c’erano i campionati nazionali di ritmica, così mi sono messa a guardarli, scoprendo poi subito dopo che li stavano facendo OVVIAMENTE a torino.
ah e stamattina un mio amico su un gruppo ci ha chiesto se quando si potrà, ci andrebbe di andare in giornata a torino.
in ogni caso amo quella città, e questo è solo merito tuo.
mi hai fatto amare qualsiasi cosa, dalle sue vie, ai suoi negozi, dai suoi parchi ai suoi musei, dalle sue piazze alle sue luci di sera.
sono arrivata ad amarla più di milano, il che è stranissimo.
prima era una consuetudine girarci, era la nostra tappa fissa del sabato.
e non mi stancavo mai di girarla con te.
ora mi manca in un modo indescrivibile.
mi ricordo quando alla sera controllavamo i passi giornalieri sui telefoni, e ci spaventavano dei chilometri fatti, però eravamo felici così.
era la nostra città.
e penso che sempre un po’ lo rimarrà.
stasera comunque sono uscita,
mi fa bene truccarmi e cercare di vestirmi bene, così riesco a sentirmi perlomeno carina.
nella foto sono in tuta ma truccata (ero appena tornata a casa) giusto perché sono un controsenso umano, ma questo già lo sai.
mi piacerebbe sapere come passi tu i sabati sera da quando non sono più nel letto con te a romperti le palle.
esci ? vai fuori a cena con lei? stai a casa a guardare qualche serie tv? o magari le guardi a letto con lei ? oppure ancora stai semplicemente con qualche amico e una bottiglia di vodka su una panchina sotto le stelle ?
non lo so, però la mia curiosità mi spinge ad immaginare cose differenti.
appena ho aperto tumbrl per postare la prima cosa che ho fatto è stata caricare la tua pagina.
hai postato.
appena lo faccio anche io leggo, così me lo godo di più.
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Resoconto Giorno 94
Ho dormito molto bene stanotte, nonostante mi sia svegliata assetata e mi sia alzata per bere. Di solito ogni volta che mi sveglio trovo molto difficile riaddormentarmi, ma fortunatamente sono crollata come un coccio. Zero incubi.
Papà stamattina è venuto a svegliarmi alle nove e mezza, ma io ero già sveglia da pochi minuti. Ieri sera gli ho lasciato i soldi sul bancone per la ricarica al cellulare e stamattina è venuto ad avvisarmi di averla fatta. Poi il citofono. È venuta mia zia, la sorella di papà. Non ci vedevamo da quasi un mese se escludiamo una videochiamata. Ogni tanto ci scambiamo dei messaggini, ed anche l’altra sorella di papà me li manda a volte. Appena è entrata abbiamo detto in coro “buongioooorno” e ci siamo abbracciate forte e a lungo. Dopo lo spavento preso per il falso allarme covid sono stata io a decidere di non voler avere più contatti con gli altri. In quei giorni ero molto preoccupata di aver creato una catena lunghissima. Lei lavora per persone che si sottopongono a tamponi ogni tre giorni. Mi sono preparata la colazione mentre loro parlavano. Il fratello di papà ha subito un’operazione per il tunnel carpale, la sorella di papà invece è tornata per l’ennesima volta dal compagno, i miei cugini stanno andando bene a scuola anche se hanno piccole insufficienze, mio cugino vuole pitturare la cameretta di blu e nero e mettere tende nere. Ci hanno invitati a pranzo.
Quando sono andati via mi sono messa a fare i servizi. Ho messo una maglia celeste di papà, carina. Ho rifatto il letto e pulito il pavimento in camera da letto. Ho pulito il bagno e il pavimento. Ho spolverato in salotto, pulito il tappeto e lavato il pavimento spostando mobili e divano. Infine ho pulito la tavola, le sedie e il pavimento della cucina. Nel frattempo papà ha sistemato cose sue e fatto il giro di telefonate al fratello e a sua zia che abitano a Sassuolo. Zio gli ha mandato la foto della fasciatura che gli hanno fatto, ha avuto sei punti. Zia ha detto che sta rispettando le regole, ma non vede l’ora di uscire per andare al cimitero. Ah, ha detto che sono brava e le fa piacere io passi del tempo con papà. Una volta finito tutto mi sono lavata e ho raggiunto papà sul divano che giocava alla formula uno alla play.
Verso l’ora di pranzo siamo andati a casa di zia. Appena sono entrata la cagnolina Wendy, che in realtà è una cagnolona, mi ha fatto le feste dolcina! Il gatto Fuffy invece sì è limitato a guardarmi. Dopo aver salutato anche i miei zii sono andata in camera di mio cugino Nicola. Ho bussato, lui ha riconosciuto la voce e ha detto “oddio”. Quando sono entrata mi ha dato un abbraccio fortiiiiissimo e lungo. Anzi, due abbracci. Gli ho lasciato un bacio sulla testa e ci siamo messi a parlare di scuola. Mi ha fatto vedere un suo compito di matematica sulle funzioni a cui ha preso l’insufficienza e gli ho fatto notare errori dove sono stata in grado di individuarli. A pranzo abbiamo mangiato la pasta con panna, zucchine e salsicce e per secondo la carne alla brrrrace, poi clementine e infine tiramisù! Aah, come antipasto zia ha preparato dei fagottini ripieni con prosciutto e crema di piselli... buonissimi. Io ne ho preso uno, mio cugino Nicola due e abbiamo diviso l’ultimo rimasto nel piattino. A tavola abbiamo chiacchierato tranquillamente di calcio, scuola, lavoro, Natale, situazione covid e formula uno. Dopo pranzo ho aiutato mio cugino con un disegno di Tecnologia armata di squadrette, righello e compasso. Alle medie ero molto brava in disegno tecnico, mi piaceva un sacco, ma in generale il disegno. Ricordo che con il mio professore di disegno condividevo la mia passione per il Giappone e la cultura orientale. Lui mi assegnava compiti e disegni relativi a questo e un giorno mi fece realizzare il disegno di un paesaggio del Giappone copiandolo da una fotografia. Mi fece stampare la foto, la tagliai a metà, ne attaccai una parte sul foglio e l’altra parte dovevo disegnala io. La resa mi piacque moltissimo.
Quando siamo tornati a casa ci siamo messi sul divano a vedere l’ultima puntata della terza stagione di Suburra. Gli ho chiesto “Allora? Che dici?” e lui ha detto solamente “Ma così non faranno un seguito”. Comunque io che ho pianto un’altra volta riguardandola? Mitica! Dopo lui si è messo a giocare al gioco della formula uno alla play e io l’ho semplicemente guardato. Ha vinto non so quante gare, è troppo bravo. Mi ha chiesto di fare un circuito, ma dopo cinque tentativi andati a male ho rinunciato... migliorerò col tempo! Abbiamo riso molto, anche da zia. Sul divano abbiamo i posti assegnati. Lui si mette sulla penisola ed io all’altra estremità con la copertina bianca a fiori. Ogni volta che mi vede con la copertina, cioè sempre, mi fa “ma non senti caldo che stanno i termosifoni accesi?” ma io la copertina non la abbandonoooo maaaaai, è più forte di me, vince lei! E poi è quella che ho da molti anni, la rimasi lì per lui prima del trasferimento. Verso le sette mi ha accompagnato a casa comunque. Ho salutato Lola con taaanti bacetti, sistemato le cose mie e lo zaino e poi ho fatto un luuungo bagno caldo lavando anche i capelli. Mamma ha cambiato shampoo e ha preso quello della Vidal, ma per me no vale proprio. Mai più. Dopo mi sono messa direttamente a letto senza cena, come ogni domenica, e ho passato il tempo su siti di shopping online e sul gioco a cui gioco con Robb. Sono un po’ stanca, ho un pochino sonno e fame, voglio chiudere gli occhi, aprirli e ritrovarmi bambina. Ritornare al giorno in cui scoprii che in realtà Babbo Natale era il mio Babbo e ringraziarlo. Si, perché papà manifestava l’affetto nei regali di Natale o nell’uovo di Pasqua della Perugina perché della Kinder non l’ho mai preferito, non con abbracci o parole. Perché a causa sua ho avuto moltissime mancanze, ma grazie a questo sono quella che sono oggi.
Abbraccio: Dimostrazione d'affetto consistente nell'accogliere o nell'attrarre l'altra persona fra le proprie braccia. Cingere qualcuno è un gesto di autentica protezione. L’abbraccio è uno di quei gesti che trasmette affetto, fiducia, protezione e lo fa attraverso una comunicazione non verbale e quindi gestuale molto profonda. L’abbraccio avvicina le persone aumentandone l’empatia e la confidenza reciproca. L’abbraccio comunica la condivisione di situazioni e stati d’animo.
29 Novembre
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Dal principio
Alloraaa
Oggi dovevo assolutamente chiamare il caro ufficio di igiene e prevenzione dell'ospedale per far sì che mi venisse affidato il numero di protocollo di isolamento fiduciario (che chiameremo PIF) che mi serve perché sono un caso negativo che vive con persone positive, questo perché lavorando e dovendo stare a casa obbligatoriamente come impone la legge ho bisogno che la mutua mi paghi questi giorni che no non sono per niente di VACANZA e senza il PIF il caro Inps non accetta la richiesta. (Se mai dovesse capitarvi prendete nota)
Quindi procedendo con ordine:
La dott.ssa già sabato mi ha ribadito assolutamente che martedì (Pasqua e pasquetta non lavorano) avrei dovuto chiamare questo ufficio e di continuare ripetutamente perché non è cosa facile. (E già qui avrei da fermarmi da ridire e farvi riflettere, ma andiamo avanti)
Oggi martedì alle 8.00 ho chiamato l'ospedale, mi danno due numeri per questo ufficio. Fino a qui tutto bene
Chiamo e una voce registrata dice che l'ufficio apre alle ore nove e chiude a mezzogiorno. 3 ore per richiedere questo PIF. Ore 9:05 parlavo già con la signora che chiameremo Pina, e che alla mia richiesta dice testuali parole "ma a lei non serve un numero di protocollo, perché è negativa" dopo averle spiegato mantenendo la calma, essendo solo le nove di mattina, che non vivo sola prosegue dicendo "ah allora si, ma il numero non deve averlo lei bensì il paziente positivo e questo viene associato a tutti i familiari" (tenete a mente questa parte signori, servirà per il gran finale) e conclude dicendo "però non ce ne occupiamo noi deve rivolgersi all'Asl e chiamare loro che faranno la tracciabilità e una volta tracciati riceverete il PIF". Tracciabilità che il nostro medico curante ha inviato correttamente per email il giorno 2 aprile dopo l'esito ricevuto. La giustificazione della signora Pina è che con tutte le persone le email purtroppo non sono viste in tempo reale e che quindi potrebbe non essere stata ancora letta e fatta la segnalazione e tutta la procedura.
(Gloria stai calma)
Premettendo che questo doveva essere già stato fatto da venerdì (ovvero da quando noi siamo rinchiusi) decido di respirare mentre la signora Pina mi detta tre numeri telefonici e con molta nonchalance esce dalla scena.
Dalle nove e undici minuti io e mia madre abbiamo continuato imperterrite a chiamare questi numeri, aspettando, vedendo i secondi e i minuti trascorrere e diventare quarti d'ora e poi mezz'ora e infine un'ora, continuando a sentir libera la linea, senza però ricevere mai un "pronto" dall'altra parte. Abbiamo continuato fino alle dieci e mezza inoltrate dopodiché stanca di questa presa per il culo, perché è una presa per il culo dato che sono numeri PUBBLICI E DOVREBBERO ESSERE REPERIBILI, decido di richiamare la signora Pina, che senza stupirmi non risponde più nemmeno lei. Provo con insistenza disturbando probabilmente la sua pausa caffè fino a quando non risento la sua graziosa voce educata e dopo averle spiegato che nessun numero funziona e aver ricevuto come risposta un: "ehh bisogna avere un po di buona pazienza signora eh, siamo pieni e se voicontinuate e tutti continuano a chiamarci e bla bla bla, tutti dicono che è per oggi...bla bla nemmeno noi riusciamo a metterci in collegamento con quell'ufficio..." decido di alzare i toni e farmi sentire che forse la signora Pina non ci sente tanto bene, ottenendo magicamente altri 3 numeri telefonici con cui provare, non uno ma ben 3 -pazzesco-
Riproviamo con questi altri 3 numeri per un totale di 6 numeri telefonici di cui...rulloooo di tamburiiiii....nessuno reperibile, tutti liberi ma nessuno che rispondeva -Questa è follia gente!
Passate le undici di mattina e sempre più allibita da tutta questa estenuante situazione decido di cercare su internet il numero di un altro ospedale vicino a noi e spiegare il mio caso, ottenendo così un altro numero telefonico per il PIF (ci credete che non era uguale a nessuno dei 6 precedenti?) e uno dell'urp che a detta loro avrebbe gestito in maniera più sbrigativa la faccenda. Chiamo nuovamente il primo dei due ma senza ottenere risposte e decido di affidarmi all'ultima speranza. All'urp risponde una signora gentile, niente a che vedere con la signora Pina, che cerca di risolvere la situazione dicendo che lei potrebbe fare la tracciabilità della mia famiglia ecc...ma che il numero di protocollo anche accelerando i tempi non sarebbe arrivato prima di due o tre gg. E aggiunge che "si per quei numeri non risponde nessuno, ha ragione, no no non rispondono proprio, hanno dei problemi per i troppi casi ma non solo, ci deve essere proprio un problema loro e adesso ci stiamo prendendo carico noi delle chiamate del SISP" in modo che vengano smaltite e prese in considerazione le richieste dei pazienti.
Posso dire che ero ancora più allibita? Ma provvedere a questo problema? Avvisare? Avvisarsi almeno tra ospedali e medici e centralini? non sanno nemmeno loro che quei numeri sono praticamente fuori uso, ho dovuto avvisare io il mio medico curante, come possono pretendere che la gente si metta in contatto? l'unico strumento per comunicare i dati e le richieste è il numero di quell'ufficio dato che non si può uscire di casa e non funzionaaaa? Prontooooooo come possono anche solo pensare che questa sia la maniera di svolgere le cose sapendo che a casa ci sono persone che dipendono da questo, che aspettano risposte, che attendono istruzioni su come muoversi e su cosa fare....
Mentre penso a queste cose faccio la centesima chiamata della mattina ma stavolta alla mia dottoressa in cui spiego che non mi arriverà per tempo, e mi informa di questa soluzione nonché unica alternativa, che non starò a spiegare ma che avrebbe compreso poi l'invio di una raccomandata all'Inps il mese prossimo. Decido di prenderla in considerazione se a fine giornata non avessi ricevuto notizie dall'urp.
Proprio mentre la storia sembrava giungere al termine lasciandomi comunque veramente veramente amareggiata e schifata, a mezzogiorno inoltrato, ricevo una chiamata da un numero non registrato ma che dopo tutta la mattina avevo ben memorizzato. Prendo subito la chiamata e non so se per grazia divina, se per essermi rivolta anche agli dei greci e romani, o per sfinimento ma a rispondermi con voce delicata, quasi angelica è la signora Roberta, si è il suo vero nome, del SISP, che dice "ho trovato una chiamata a questo numero, sono dell'ufficio di igiene e prevenzione mi dica come posso aiutarla?"
Le spiego tutto e alla fine riesce a svolgere le pratiche della tracciabilità e soprattutto a darmi nel giro di venti minuti massimo, il famoso PIF. VENTI MINUTI E non solo, Roberta mi spiega tutto nel dettaglio per le prossime settimane (per quanto tempo durerà effettivamente la reclusione ecc) prendendo nota anche della salute di ogni componente della famiglia e nel pomeriggio mi richiama per confermarmi l'appuntamento dei nuovi tamponi. Roberta sa svolgere il suo lavoro; e ricordate le parole che sarebbero servite per il gran finale? Ecco dimenticatele perché non è come mi aveva riferito la cara signora Pina ma appunto essendo un caso negativo io ho un numero di protocollo differente da quello dei miei familiari. Se le avessi dato retta dove sarei ora?....
E dopo aver comunicato il sacrosanto PIF alla mia dottoressa per la mutua la storia si è conclusa. (Per il momento)
Ps: Dall'urp non ho più avuto notizie, dopo oggi posso rispondere anche ad Obama.
THE END
Ora chiedo scusa davvero per la lunghezza di quanto scritto, ma questo è per far un attimo riflettere su quanto la situazione sia veramente mal gestita e disorganizzata e in che mani siamo. Ogni cosa, anche la più piccola è gestita nel caos. Ed è preoccupante, io ho riso e ironizzato sulla signora Pina e ho cercato di rendere il tutto quasi un racconto narrato, ma la frustrazione provata stamattina e le millemila chiamate sono ciò che probabilmente capita ogni benedetto giorno ad altre millemila persone. E non tutte magari sono fortunate e trovano una Roberta a fine mattinata che sa fare il suo lavoro e riesce a soddisfare il bisogno richiesto. C'è gente che attende 10 giorni prima di avere informazioni e me lo ha confermato il mio medico. E non dovrebbe nemmeno essere così, dato che quel numero spetta di diritto. Ed è triste che a un anno e mezzo dalla pandemia siamo ancora in questa situazione, se non peggio. E non ci sono giustificazioni o almeno io non le accetto più. Non dopo così tanto tempo Schifo è la parola giusta
Sono schifata e scioccata da questo menefreghismo, da queste parole illusorie e dal sistema della sanità. Il vero problema non è il virus ma l'organizzazione. Ed io non so davvero come riusciate a dormire la notte.
#monologo#ce l'ho fatta#purtroppo pura realtà#italia che muore#pensieri#oggi centralino#pronto dicaaaaa
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Di cioccolata e fantascienza
Fandom: Psychic Detective Yakumo Characters: Yakumo Saito, Haruka Ozawa, Kazutoshi Gotou, Yuutarou Ishii Pairing: Yakumo/Haruka Rating: Safe Summary: È la festa di San Valentino e Haruka ha preparato la cioccolata per tutti, Yakumo compreso. Il ragazzo, tuttavia, sembra essere parecchio popolare e questo fatto, insieme alla visita degli ispettori Goto e Ishii, le fa passare un po' la voglia di festeggiare. AO3
La festa più inutiledell’anno era sempre stataquella. Addirittura era più consumistica e commerciale delNatale. Yakumo si era sempre stupito del fatto che alla gente non venisse uno sfogo cutaneo a forza di tutto quello zucchero che si respirava nell’aria, oltre che un bel mal di pancia per i quintali di cioccolata ingerita. Non che si stesse lamentando dell’aspetto dolciario,solo… trovava privo di senso festeggiare San Valentino. Un’inutile perdita di tempo e spreco di energie. Perché solamente per quel giorno si regalava la cioccolata? Perché solo quel giorno c’erano file di liceali che dovevano lasciare i dolci direttamente nelle mani del più popolare della scuola? Perché, nonostante fossero all’università e avessero superato tutti quanti il disastroso periodo adolescenziale, certe scene non passavano mai di moda? Ma soprattutto: perché quella mattina davanti alla porta del club degli amici del cinema c’erano ammucchiati dei pacchettini del colore delle mèches di quella lì?! In fondo, non se l’era sentita di lasciarle lì in mezzo ai piedi, dove chiunque avrebbe potuto calpestarle. Un po’ di rispetto per la cioccolata! «Yakumo! Buongiorno!» Ebbene, anche quel giorno lei era arrivata a disturbare la sua tranquillità e sanità mentale. Non aveva della cioccolata da dare in giro come il novantanove virgola nove percento delle studentesse della facoltà? No, perché lei doveva far parte di quello zero virgola un percento. «Be’? Che succede stamattina?» gli chiese vedendolo assorto nei suoi pensieri. Prima che lui potesse rivolgerle un semplice sguardo, la porta del club si aprì nuovamente. «Yakumo! Non starai ancora poltrendo??» sbottò Goto entrando, seguito dal fedele Ishii. «Signor Goto, ne ha di tempo da perdere proprio oggi! Sua moglie l’ha lasciato di nuovo?» ghignò Yakumo. «Stai zitto, stupido moccioso! Haruka-chan, non sarai venuta a dare la cioccolata a questo qua?!» Haruka arrossì vistosamente a disagio, balbettando parole sconnesse per negare. «È per caso geloso?» continuò a ridersela sotto i baffi Yakumo. «Piuttosto, cosa volevi?» si rivolse ad Haruka con un cenno del capo. «Cosa? No, nulla d’importante!» rispose lei in fretta. «Non è che poi finisce come l’altra volta?» inarcò un sopracciglio in modo eloquente. «No! Davvero.» scosse la testa lei, tenendo gli occhi bassi. Yakumo non sembrò convinto, ma non indagò oltre. Rilasciò un sospiro, mentre spingeva una parte dei pacchetti colorati verso il signor Goto che lo fissò incredulo. «Li prenda. Così si sentirà meno solo.» «Tu, brutto…!!!» si irritò Goto, desiderando ardentemente di spaccargli a suon di pugni quel bel faccino che si ritrovava. «Sono tutte per te?» chiese Ishii incredulo. Anche Haruka si avvicinò incuriosita per dare una sbirciatina a quell’esplosione di sgargianti varietà sul rosa-rosso sulla scrivania del club. Quando era arrivata non li aveva proprio notati… «A quanto pare…» scrollò le spalle Yakumo. «Erano fuori dalla porta.» «Oh, non sapevo avessi tutte queste ammiratrici segrete.» commentò Haruka. «Chissà se le conosco…» avvicinò una mano per afferrarne uno. «Avranno sicuramente dei problemi di vista, poverette!» si prese la rivincita Goto, sghignazzando. «Haruka-chan!» richiamò la sua attenzione Ishii distraendola dall’intento. Rovistò nella tasca della giacca per trovarlo. «Per te.» disse. Haruka si voltò. Con gli occhi sgranati per la sorpresa del tutto inaspettata e le labbra socchiuse, fissò un piccolo pacchetto grande quanto il palmo della mano di Ishii. «Veramente…?» sussurrò basita, prendendolo. Ishii annuì convinto ma con le guance rosse per l’imbarazzo. Iniziò a sentirsi a disagio: le mani sudate stropicciavano il tessuto del completo che indossava, convinto di esser stato troppo precipitoso. «Non è nulla di che. Solo… per… perché oggi è San Valentino e… sei una ragazza così gentile che volevo ringraziarti.» si complimentò tra sé per quella mezza verità. Haruka sorrise dolcemente: «Ma non doveva disturbarsi.» Mentre lei scartava il pacchetto, Goto lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio a Yakumo che appariva tranquillo. Ah, che peccato non avere la soddisfazione di vederlo rodersi per la gelosia! «Non erano le ragazze a dare la cioccolata?» chiese Yakumo fissando la scena con scarso interesse. «Sì, sì, certo! Ma questo non c’entra niente con San Valentino. Cioè, non proprio, ecco!» si affrettò a spiegare Ishii. «Dovresti vergognarti, Yakumo.» lo punzecchiò Goto. «Avresti dovuto regalare anche tu della cioccolata ad Haruka-chan. Con tutta la pazienza che ha nel sopportarti…!» La risposta di Yakumo venne soffocata dall’esclamazione di Haruka che aveva finito di aprire il pacchetto. «Wow! Cioccolata bianca! È la mia preferita.» sorrise, facendo un leggero inchino a Ishii come ringraziamento. «Ah, meno male!» sospirò l’ispettore sollevato. Purtroppo, sbadato com’era, si era ricordato della ricorrenza soltanto quella mattina grazie a Goto che gli aveva dato l’idea, perciò non aveva avuto molto tempo per scegliere. «Signor Goto, adesso che Ishii si è dichiarato mi dice che cosa è venuto a fare qua? Dev’essere una cosa importante vista la sua fretta…» disse Yakumo, facendo agitare Ishii che ridiventò del colore della festa. «Ti sta solo prendendo in giro.» sogghignò Goto per tranquillizzarlo. «Comunque sia, per una volta hai ragione, Yakumo. Abbiamo scherzato abbastanza.» divenne serio. «Ah, aspettate! Ho qualcosa anch’io!» si ricordò Haruka. Infilando la mano nella borsa che portava per cercare, tirò fuori due pacchetti che diede a Goto e Ishii. «Per voi.» sorrise. «Ma non dovevi, Haruka-chan!» la ringraziò Goto. «Ma quant’è fortunato, signor orso.» si finse entusiasta Yakumo. «Non posso dire lo stesso di te.» si vendicò lui. «Aehm! Yakumo, la tua l’ho persa. Mi dispiace.» si scusò Haruka stranamente agitata. Il ragazzo scrollò le spalle come se non gli importasse nulla. «Bene. Allora vi lascio. Grazie ancora, signor Ishii.» salutò lei. «Di nulla. Grazie a te.» rispose Ishii. «Buona giornata, Haruka-chan!» rispose invece Goto. «Vedi di non cacciarti nei guai nel frattempo.» la salutò Yakumo. «Ehi! Cosa vorresti insinuare?» se la prese lei, ma poi sorrise pensando che lui avesse davvero un modo tutto suo di mostrarsi gentile e preoccupato. «Ci vediamo.» lo salutò, chiudendosi la porta alle spalle.
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Haruka pagò tutto ed uscì dal supermarket. Sovrappensiero s’incamminò per tornare all’università per riempire il frigo, e la pancia, del ragazzo più difficile che avesse mai incontrato. Perché Yakumo era così, insensibile e difficile, così scostante da mostrarle sempre una dolcezza strana ed impacciata che le riempiva il cuore di tenerezza. Quel carattere poco amabile nascondeva in realtà la sua timidezza e la sua gentilezza. Haruka ormai lo sapeva bene. Poteva dire di conoscerlo abbastanza e sicuramente più di qualunque altra ragazza dell’università, più di tutte quelle che gli avevano lasciato la cioccolata davanti l’aula del club. Mh, forse era un po’ gelosa. Ma solo un pochino, eh! Con un sospiro portò la mano libera dalla busta della spesa sulla borsa. Nonostante la spessa stoffa riuscì a sentire gli spigoli della confezione della cioccolata che non gli aveva dato. Era rimasta davvero sorpresa nello scoprire che anche lui avesse delle ammiratrici. Be’, e come biasimarle? In fondo era un bel ragazzo. Era arrivata impreparata a quella situazione e quasi impaurita, non ci aveva minimante pensato ad un’eventualità di quel genere. Perché avrebbe dovuto dargli anche la sua cioccolata quando ne aveva così tanta che poteva permettersi di dividerla con il signor Goto? Eppure, Haruka si arrabbiò con se stessa rimproverandosi. Non era certo il tipo di ragazza che si faceva tutti questi problemi, però… La sua cioccolata non nascondeva alcun significato, no? Perché credeva che per Yakumo sarebbe stata diversa dalle altre? Puntò lo sguardo innanzi, decisa. Sarebbe tornata all’università, l’avrebbe aspettato nel caso in cui non fosse ancora rientrato, e gli avrebbe dato la cioccolata! Sospirò affranta. Stupida Haruka!, si riprese. Accelerò il passo per arrivare prima. Quando aprì la porta dell’aula del club, non si sorprese nel trovarci uno Yakumo palesemente stanco e assonnato. «Ancora in giro?» l’apostrofò con uno sbadiglio. «La spesa.» spiegò Haruka semplicemente. «Mh, potevi ricordarmelo. Dopo che ti sei impuntata tanto ieri per convincermi a venire con te.» brontolò. «Ma c’era il signor Goto.» si giustificò lei. «E poi, ce l’ho fatta anche da sola. Vedi?» mostrò fiera la busta della spesa. Yakumo si portò una mano davanti alla bocca, ridacchiando. «Dai qua.» si alzò per prenderle la busta di plastica. Haruka lo fissò rovistarci dentro e sistemare tutto nel frigo. Aveva preso acqua e bibite dolci, come succhi di frutta, e ciò che sapeva sarebbe piaciuto a lui. Non che poi fosse così difficile da indovinare: amava i dolci, anche se l’avrebbe sempre negato. Ridacchiò riportando alla mente i momenti in cui l’aveva sorpreso con il cucchiaino affondato in un budino o in una coppetta di gelato. Le faceva nascere un dolce sorriso sulle labbra e, se era giù, aveva la capacità di riportarle il buonumore. «Be’? Ti serve qualcosa?» le chiese Yakumo dopo aver finito di riporre tutto. Haruka inspirò per farsi coraggio. «In realtà sì! Io…» s’infervorò prima di interrompersi di colpo. «Io… io… niente.» balbettò. Yakumo la squadrò per nulla convinto. «Che cosa hai combinato? È da stamattina che sei strana.» sospirò lui. «Non sono strana! Sono normalissima.» rimbeccò lei. «Non è che sei stata rifiutata da quello che ti piace? Guarda che non c’è nulla di cui vergognarsi, era piuttosto ovvio…» Haruka resistette alla voglia di picchiarlo con tutta la forza e la rabbia che le aveva scatenato dentro. Ma come si permetteva quel…! «Ehi!» si infuriò. «Solo perché domani ti sentirai male per tutta la cioccolata che hai ingerito oggi, non ti fare tanto il gradasso!» «Veramente l’ho data a Nao.» rispose lui. «E in più non sono affari… Cosa?!» si fermò sconcertata. «La cioccolata. L’ho data a Nao.» ripeté Yakumo tornando ad occupare il solito posto alla scrivania del club. Un sorriso canzonatorio faticava a lasciare le sue labbra. Haruka chiuse gli occhi sconfitta e si passò una mano tra i capelli. Ah, come doveva fare con lui? Ogni volta, ogni secondo che passava in sua comagnia, riusciva a stupirla, oltre che confonderla. Sorrise. «Non ci credo! Davvero non ne hai conservata nessuna per te?» Yakumo appoggiò i gomiti sulla scrivania e il mento sulle dita incrociate in un gesto eloquente più delle sue frasi spicciole ed essenziali. Haruka ridacchiò. Era così dolce, più di ogni dolciume esistente sulla terra, più di ogni cioccolata di San Valentino. «E poi San Valentino è una festa stupida.» commentò Yakumo. «Per te sarà così, ma per altri è una festa speciale durante la quale può accadere qualcosa di magico.» rispose lei, aprendo la borsa e porgendogli il pacchetto di cioccolata. «Questa non è magia. È fantascienza.» sorrise Yakumo al suo gesto. «Non fare tanto il prezioso e accettala!» sbuffò lei divertita. «Non l’avevi persa?» indagò lui. «Sì, ma non hai appena detto che è fantascienza? Facciamo che in realtà la mia borsa sia… l’ultimo modello di materializzatore di oggetti smarriti?» fu incerta sul nome della tecnologia immaginaria. La fantascienza non era proprio il suo genere preferito di lettura o film. Yakumo protese un braccio per prendere il pacchetto quando Haruka si ritrasse. «Ehm, senti… anche questa andrà a Nao-chan?» gli chiese. «Che domande fai? Ho bisogno di zuccheri dopo una giornata passata insieme all’orso.» sbuffò lui. Haruka sentì accelerare i battiti a quella frase che nascondeva più di mille significati. Avrebbe potuto mangiare qualcosa di quello che lei aveva appena comprato e invece voleva la sua cioccolata. «L’ho fatta io, perciò non ti aspettare granché.» borbottò dandogliela. Era meglio che sapesse solo quello e non che aveva perso un intero pomeriggio per riuscire a prepararla. Ah, quanti tentativi mal riusciti aveva dovuto attraversare prima di ottenere un risultato che si potesse definire mangiabile! Yakumo non le diede corda ed aprì l’incarto. Senza degnare di uno sguardo la decorazione della scatola, tolse il coperchio e scartò il primo cioccolatino. Haruka si fece coraggio, aspettando il verdetto con i battiti del cuore a mille per l’agitazione. Nella testa un unico pensiero: La stava mangiando davvero! Stava mangiando la sua cioccolata! «È fantascientifica anche questa.» commentò poi Yakumo con una smorfia di disgusto. Haruka fece per riprendersela, rimproverandosi mentalmente della propria stupidità e testardaggine nell’aver voluto farla lei, la cioccolata, anziché comprarla, come invece aveva fatto per quella che aveva dato a Goto e Ishii. Yakumo però fu più veloce di lei e ne prese un altro. Seguito da un altro ancora. Doveva pur recuperare gli zuccheri e le calorie perse, no?
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Stamattina intorno alle 4 ho ricevuto una telefonata da un numero fisso. Mi sono svegliata di soprassalto perché per un secondo ho pensato che fosse la sveglia. Ovviamente ho rifiutato la chiamata, ma dopo neanche mezzo minuto mi richiama. Rifiuto, mi chiama di nuovo. Un po’ allibita e un po’ addormentata rispondo, e dall’altro capo sento chiamare da una voce maschile un nome che evidentemente non è il mio. Dico: “Ha sbagliato numero, non mi chiami più”, butto giù e blocco il numero.
Pensavo onestamente di avere sognato tutto, senonché mi sono accorta che fino alle 5 lo stesso numero ha tentato di chiamarmi altre nove volte. Sarei curiosa di chiamare ora e chiedere chi cercavano, e perché.
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* “Quindi sei quasi al termine, no?”
Così mi ha detto sorridendo cassiera del supermercato stamattina.
Nooo, volevo scoppiarle a piangere su una spalla, noooo signora, noooo, il termine è ancora lontanissimo, prima di marzo qua non si vedrà niente e sono una balenaaaa.
E invece sorridendo le ho risposto che partorirò a marzo e lo so che non si direbbe perché ho un pancione enorme. Lei, imbarazzata, ha balbettato che spesso i vestiti premaman fanno sembrare la pancia più grande. Poi mi ha chiesto, come fanno tutti qui, se è il primo. E io cerco di prenderlo come un complimento, perché magari dimostro di essere una giovincella mentre dieci giorni fa ho compiuto 35 anni.
Cosa è successo dall’ultima volta che ho scritto
L’ultima volta che ho scritto un post sul blog ero in partenza per l’Australia. Era un post stile il vecchio blog su Splinder di un tempo: passo di qui, mi sfogo, e me ne vado, come se questi anni non fossero passati mai dietro gli steccati degli amori tuoi (per chi non coglie, qui).
E avevo voglia di parlare d’altro, adesso, qui sopra, perché mi immagino che stare a sentire una che parla di quanto le cresce la panza non sia il massimo del divertimento (O no? Mio marito invece è elettrizzato ogni volta che gli racconto di quanti centimetri cresce. Non potreste imparare tutti a fingere l’entusiasmo come lui?).
E mi aspetto da un momento all’altro il cazziatone di Gordon.
Ma credo che un aggiornamento sia necessario, perché il precedente post era così disperato e i commenti sotto così teneri che lasciare le cose in sospeso sarebbe di grande maleducazione.
Dunque: cosa è successo dall’ultima volta che ho scritto?
E’ successo che siamo partiti. Abbiamo fatto una sosta in Qatar, mi hanno messo su una sedia a rotelle in aeroporto e mi sono vergognata come una ladra. C’è da dire che mentre mi vergognavo come una ladra ho anche riflettuto su quanto sia difficile da accettare di dipendere da qualcun altro e di non poter mai veramente guardare qualcuno fisso negli occhi con astio. Sul tema (persone in sedia a rotelle) per motivi personali sono molto sensibile e non voglio cavarmela con qualche frase di circostanza, però se non ci pensate spesso, fatelo adesso e guardatevi le gambe: è una fortuna e non un merito che funzionino. Quando tutte le cose non vanno e vi dicono “Pensa alla salute!“, non prendetelo per un commento leggero ma come un vero imperativo: bisogna pensare alla salute e ringraziare di stare bene. Punto.
In Italia a metà del quinto mese mi avevano diagnosticato una lievissima forma di diabete gestazionale perché ai medici non sembrava vero che tra le dieci sfighe più divertenti della gravidanza a me ne fossero capitate solo nove, quindi hanno pensato bene di rimediare aggiungendo anche questo carico da novanta.
L’aggettivo “lievissima” non è lì per caso, ma è il preciso grado medico con cui questa forma di diabete mi è stata diagnosticata.
Ho maledetto tutti i miei avi (“Ah, ma me la pagherete non appena ci vedremo!”) e la mia eccessiva bocca buona e poi ho scoperto che il diabete gestazionale (per chi, come me fino a due mesi fa, non sa cosa sia è una forma di diabete che compare in gravidanza, nel 99% dei casi sparisce con il parto. Capita ad una donna su sette – e quella donna dovevo naturalmente essere io – e averlo è un segnale: il bambino potrebbe essere a rischio di malattie dovute al metabolismo come obesità e diabete. Se tenuto a bada in gravidanza con una dieta specifica, si limitano i danni e spesso si eliminano proprio) ha cause molto varie: specifiche etnie come sud-est asiatico e ispanica, obesità, familiarità ed età superiore ai 40 anni.
Ora io non sono del sud est asiatico né sudamericana, non sono obesa, nessuno nella mia famiglia fino al tredicesimo grado di parentela ha il diabete e ho appena compiuto 35 anni.
“Quindi??? Come si spiega?“, ho chiesto con sguardo torvo alla ginecologa.
E lei con il suo inimitabile savoir faire ferrarese ha risposto: “Ehhh. Ti è stà sfigà!“.
E a quanto pare in quella categoria ci rientro pienamente.
Ma l’ho presa bene.
Quindi cos’è successo dopo avermi detto “Sì, hai il diabete gestazionale”?
Mi hanno fatto visitare dal centro diabetico dell’ospedale, mi hanno affidato un aggeggino elettronico, delle strisce di carta sensibile e una specie di penna e mi hanno spiegato come pungermi le dita con la penna, inserire la striscia nell’aggeggino e leggere il risultato del livello di glicemia.
Il kit è così composto: quello più grosso è il misuratore della glicemia, quello snello è la penna con cui pungersi le dita e la striscetta è quella che si tocca con la goccia di sangue che dice al misuratore il livello del glucosio nel sangue. Così è se ho capito tutto giusto.
Il giorno dopo mi hanno mandato dalla dietologa che mi ha stipulato una dieta per evitare i picchi di glicemia.
La dietologa (il cui lavoro pensavo consistesse nel far dimagrire le persone) mi ha ampiamente cazziata per aver perso peso in gravidanza. “Ma non è colpa mia! Io mangio! E le assicuro che mangerei pure di più! E’ che non posso mangiare niente!!!” ho piagnucolato io. E lei ha preso la dieta che mi aveva appena consegnato e ha iniziato ad aggiungere commenti come “ben condito con olio extravergine d’oliva” o “con molto parmigiano”. E le ho voluto un po’ di bene.
Quell’attributo “lievissima” mi permetteva, secondo i medici, di misurare la glicemia solo una volta al giorno.
E così sono partita dall’Italia con le mie due valigie (ehm, veramente una sola perché avevamo fatto male i conti dei chili. “Amore, vuoi pesarle?” – “No no, sono sicuro che siano 90 chili in tutto” aveva risposto l’Orso prima di arrivare a Venezia e scoprire che i chili in tutto erano CENTOSETTE), il certificato medico e il kit per controllare la glicemia una volta al giorno.
E un chilo e mezzo di speranza che in Australia avessero altri parametri e mi dicessero: “Ma va, quelle sono pippe che si fanno gli italiani, qui sei a posto, va e mangiati un hamburger con le patatine fritte e ci vediamo al parto! See ya!“.
Questa era la midwife dei miei sogni.
Cosa mi sono lasciata alle spalle
In Italia ho lasciato le mie amiche alle prese con vari problemi di vita e lavoro, abbastanza gravi al punto che nessuna prestava particolare attenzione alla mia gravidanza. Ed è stata una fortuna che tra tutte, io (con – ricordiamolo – tutte e dieci le sfighe della donna incinta) venissi considerata “quella che stava bene” perché non avrei sopportato le mie amiche più care a controllarmi la pancia tutti i giorni.
Purtroppo però in Italia c’era anche un sacco di altra gente e tutti si sono sentiti in dovere di dire la propria sul mio stato interessante.
Col tempo ci si fa il callo e si capisce che non lo fanno per cattiveria.
Il fatto è che quando hai a che fare con un evento di vita “pubblico” come laurea, matrimonio e gravidanza, le persone sanno solo quello di te. E quindi per fare conversazione tirano fuori l’argomento. A seconda del grado di confidenza e sensibilità, in modo più o meno maldestro.
Pensavo che questa consapevolezza (non è cattiveria, lo dicono solo per fare conversazione perché non hanno altri temi) acquisita da anni mi avesse reso più zen davanti ai commenti altrui.
E invece ho scoperto di non sopportare proprio queste incursioni non autorizzate nel mio privato.
Ma perché proprio a me? Insomma, entro su Facebook ogni otto mesi, ho aspettato di essere al quarto (in alcuni casi anche al quinto) mese prima di dare la notizia non dico solo agli amici, ma pure ai miei fratelli (ed ho un rapporto molto stretto con entrambi), non divulgo sui social le foto col pancione e soprattutto non ho mai chiesto pareri a nessuno.
Ma invece chissà com’è o come non è, TUTTI si sono sentiti in dovere di elargirmene.
Questo momento di saggezza ha come testimonial il Genio delle tartarughe.
Ecco quindi in pacco promozionale natalizio le migliori citazioni.
Anzi, le in- ci –n- tazioni.
Siccome meritano un’attenta analisi, ecco il mio pensiero su ognuna di esse. (Poi alla fine vi dico i veri autori).
Ma dai? Oh, grazie, davvero, se non me l’avessi detto tu non me ne sarei mai accorta. Ma dici sul serio?
Ecco, lo so da sola che non è una malattia. Questa frase vorrebbe spingere la donna gravida a fare esattamente le stesse identiche cose di prima, con l’unica differenza della pancia.
Sono consapevole che là fuori ci siano un sacco di donne incinte che non hanno alcun problema a fare le maratone e le scalate in montagna, io purtroppo, però, non sono una di queste.
Perché a gravidanza appena iniziata mi hanno detto “Stia a riposo” e non come consiglio generico, ma come imperativo medico, e dopo due mesi mi hanno detto di evitare: percorsi lunghi in macchina, buche, biciclette e rapporti sessuali. Dopo altri due mesi mi hanno detto che mi era vietato anche stendermi a pancia in su e saltare.
Ho trascorso settimane in cui ogni mattina l’unico posto dove andavo era l’ospedale (ho visto nell’ordine: ginecologa, tantissime infermiere dei prelievi, neurologo, cardiologa, ostetrica, altri ginecologi – un totale di otto diversi, e non per volere mio o perché fossi schizzinosa -, diabetologa, dietologa, medico di base specializzato in ginecologia, ostetrica australiana, dentista, vario personale medico incaricato di informare, prevenire, aiutare, fare le ecografie etc… ) e ad ottobre ho fatto dieci giorni consecutivi in ospedale tutte le sacrosante mattine.
Mi hanno trovato problemi fuori dall’utero, alla placenta, al sangue… e mi devo sentire dire “Beh, ma non comportarti da malata, la gravidanza non è mica una malattia“!?
Ma per piacere, non sarà stata una malattia per te, non sarà una malattia per tante donne ma visto che frequento spessissimo gli ospedali, mi manca il fiato se sto in piedi più di venti minuti, non posso fare attività fisica per ordine medico, devo pungermi le dita quattro volte al giorno, mangiare solo cibi prestabiliti sei, e assumere cinque diversi tipi di integratori in momenti diversi della giornata, beh, scusa se un po’ sfigata mi ci sento e se non prendo e vado a saltare alla corda dopo 5 chilometri di corsa.
(E tutto questo lo dico da persona miracolosamente SANA, che non ha mai avuto problemi seri di salute prima e che spera che tutto questo una volta partorito sia solo un ricordo).
Magari prima di sparare frasi così pressapochiste informatevi sulla salute della persona che avete davanti.
Reazione mia: sorriso e “Sì, non è una malattia ma io l’ospedale così spesso non l’avevo mai visto“.
Che domanda cretina. “Che sia sano” è stata la mia risposta, ma secondo te con tutte le scadenze quotidiane di medicinali e altre palle a cui devo stare dietro, il sesso del nascituro mi preme? La mia priorità è fare in modo che esca sano, ed è per questo che sto attenta a tutte queste cose.
E allora insistono: “Eh ma qualche preferenza ce l’avrai…”
Reazione: “Preferisco che sia sano. O sana. O sani. O sane. E che sia bello come la mamma e intelligente come il papà o bella come il papà e intelligente come la mamma“.
Ah ah ah ah ah.
Dunque, io mi vanto sempre del fatto che non ho avuto traumi grossi nella vita: i miei genitori stanno assieme da 40 anni, sono in salute, non ci sono stati lutti in famiglia quando ero bambina, sono sana (o almeno così credevo, prima della gravidanza), vado d’accordo con i miei fratelli, e ho un gruppetto di amiche solidamente costruito e mantenuto negli anni. Sono sposata con la persona che ho iniziato a frequentare più di nove anni fa, sono disoccupata ma per fortuna non ho l’ansia di arrivare a fine mese, ho studiato quello che mi piaceva, spesso sto simpatica alla gente.
Detto questo, veramente il parto sarà il momento più orribile della mia vita?
Ah sì?
A dodici anni il ragazzo di cui ero follemente innamorata mi ha fatto ubriacare per approfittarsene, per questo per ben sei anni non sono riuscita ad avere nessun tipo di relazione con ragazzi (tutto sotto controllo per me adesso e a lui, beh, la vita l’ha rimborsato con gli interessi).
A sedici anni sono stata seguita per giorni da un maniaco (riconosciuto come tale in città, quindi non stalkerava solo me, eh) che aspettava che uscissi dal bar dove lavoravo e facessi i duecento metri di strada a piedi prima che mi venissero a prendere. Un giorno si è presentato anche nel prato davanti a casa mia (abitavo a 15 km dal bar) e mi ha spinta e strattonata per convincermi ad andare dietro il cespuglio con lui. Sono scappata via, ho preso correndo il telefono dentro la borsa e ho implorato mamma di uscire e venirmi incontro.
Più avanti sono stata fidanzata ufficialmente e serissimamente per tre anni con un bravissimo ragazzo buono e caro, sogno di ogni mamma di figlia femmina, che in realtà era un mentitore seriale. Aveva inventato una doppia vita ma quando (dopo due anni) non ce l’ha più fatta a fingere, ha confessato e a me è crollato il mondo addosso. Perché io ci avevo creduto.
Dopo un anno sono finita in una relazione cupa con un manipolatore che un po’ alla volta mi ha tagliata fuori da tutto quello che mi rendeva felice, mi ha levato affetti, amicizie, passioni (ce la ricordiamo ancora “Scegli o me o il blog“!?) mentre continuava felicemente a incontrare a cadenza settimanale la sua ex. Era pure un tirchio di prima categoria. Sono dimagrita di dieci chili nel periodo in cui stavamo assieme, e all’apice della follia mi ha pure chiesto se volessi andare a convivere: io, lui e l’ex. (Anche lui lautamente rimborsato dal fatto che ora è sposato proprio con l’ex).
Nel frattempo avevo come unico coinquilino un ragazzo marocchino che in una notte di troppo alcol mi ha confessato la passata vita da marinaio e di aver ammazzato delle persone, e che per questo motivo era scappato dal Marocco.
Quando ho deciso di andarmene si è arrabbiato così tanto che ha iniziato a picchiare il mio ragazzo dell’epoca e io ho dovuto chiamare la polizia perché mi sono spaventata a morte quando si sono avvicinati pericolosamente al cassetto dei coltelli, con tutto il condominio che si affacciava dalle scale per vedere cosa stesse succedendo, visto che io continuavo a piangere e urlare.
Sono stata derubata cinque volte. Una di queste pure delle chiavi di casa quando abitavo in Francia. Ho aspettato sulla panchina che la notte finisse per bussare a casa dei padroni di casa e chiedere umilmente di poter salire al mio appartamento.
In Cappadocia tre ragazzi che ospitavano tramite il Couchsurfing me e la mia coinquilina, con la scusa di farci vedere il paesaggio ci hanno portato in macchina di notte in montagna su un sentiero sterrato non illuminato, lontano da ogni centro abitato, e tutti e tre avevano una bottiglia di vodka pura a testa. Ci hanno provato e solo il muro della paura e la bontà divina ha fatto in modo che tornassimo a casa sane e salve e che loro si scusassero dell’ardire.
Sono svenuta mentre mi trovavo da sola a casa in Svezia, dopo pochi mesi che ci eravamo trasferiti. Ho perso i sensi e mi sono accasciata al suolo lentamente, per mia grandissima e baciata fortuna, perché l’Orso era in Italia e se avessi sbattuto la testa mi avrebbero trovato dopo tre giorni.
Mi sono persa, di notte, in Svezia, in periferia, sotto la neve che cadeva, con il cellulare scarico, senza parlare lo svedese e nessuno voleva aiutarmi.
La mia nonna preferita è morta il giorno del mio compleanno. Nessuno ha voluto dirmelo, così io non sono riuscita ad arrivare in Italia in tempo per il funerale.
Ho avuto per due anni una classe di ventisette alunni di cui tredici avevano delle diagnosi gravi e vari problemi comportamentali. Sono sopravvissuta senza fare un esaurimento, ma uno degli ultimi giorni un alunno (alto due metri, dalla stazza imponente) ha minacciato il mio collega (basso e mingherlino) spingendolo al muro con violenza. Per difenderlo mi sono messa in mezzo. Per legge non si possono toccare i ragazzi e quindi ho cercato solo di allargare la distanza tra me e loro e di parare i colpi. E’ arrivata la polizia e dopo le due settimane canoniche di sospensione siamo stati obbligati a reintegrarlo in classe.
Ho avuto un attacco di panico, da sola, in casa, in Svezia, dopo aver dato le dimissioni. Mi è mancato il respiro e non riuscivo più a muovere neanche un muscolo. L’Orso stava tornando da una trasferta e mi ha trovata a terra, incapace di parlare.
No, certo, però è il parto l’esperienza più orribile che mi possa capitare.
Reazione: Mavaccagher.
Bene, per fortuna che sei arrivato tu a spiegarmi la vita, perché la sessione di due con la nutrizionista, la visita con la diabetologa, il piano medico stilato apposta per me con la dieta dall’ospedale, la sessione di quattro ore con la nutrizionista specializzata in diabete gestazionale evidentemente sono tutte delle sciocchezze e perdite di tempo. Perché tanto, basta mangiarne un boccone o berne un pochino che tanto male non fa.
Reazione: “Sì, invece sarà proprio questo boccone a farmi male. E se non ci credi, puoi tranquillamente leggere le sei pagine di dieta dettagliata su misura che mi porto appresso”.
E sai cosa c’hai avuto? Un grande, grandissimo, enorme culo. Io no, perché se supero i 45 grammi di carboidrati a pasto il mio corpo non riesce a spezzare il glucosio e questo potrebbe dare dei problemi al nascituro, e come credo immaginerai, non è un rischio che voglia correre.
Reazione: “Beata te!”
E quali sarebbero? Non posso bere, non posso mangiare niente che non sia proteine, non posso muovermi, non posso neanche fare l’amore.
Reazione: “Ahahahahahahah!”
Meglio se non commento proprio e passo direttamente alla reazione.
Reazione: “Ma vai a quel Paese!”
Ogni volta che siamo a Milano io ho i miei piccoli rituali. C’è un autobus che prendo sempre, una strada che mi piace percorrere, un bar in particolare dove mi piace andare a prendere il caffè, dei negozi dove mi piace entrare a bighellonare. Ogni volta cerco di inserire qualcosa che non ho ancora visto: un museo, una chiesa…
E così, a fine settembre ci trovavamo a Milano e io di giorno avevo fatto i miei bravi due forse tre chilometri a piedi, per andare nel mio solito bar (e prendere un cappuccino decaffeinato stavolta) e a vedere (senza speranza alcuna di trovare la taglia balena) i soliti negozi. Come sempre.
Quando sono tornata a casa dall’Orso ero dolorante.
Ma come!? Ho trascorso tutta la serata a spiegare che avevo fatto esattamente le stesse cose di sempre, addirittura più lentamente, com’era possibile che mi facesse male il nervo sciatico? (Anche questa grande scoperta della gravidanza, io manco sapevo dove abitasse il nervo sciatico, PRIMA) Com’era possibile? Interrogavo con veemenza l’Orso. E lui ad un certo punto ha sorriso, mi ha abbracciata e mi ha detto: “Non è colpa tua“.
E io me lo ripeto come un mantra tutte le volte che mi trovano qualcosa che non va o che mi fa rientrare in quella piccolissima percentuale di donne che ha una particolare sfiga in gravidanza… non è colpa mia. Punto.
Soluzione:
Oscar Wilde: mia suocera; Virginia Woolf: chiunque; Ennio Flaiano: amica storica; Gualtiero Marchesi: chiunque; Oriana Fallaci: mia madre; Carlo Cracco: amiche che hanno già partorito; Jim Morrison: sempre mia madre; Bob Marley: mio marito.
Ma ecco, vedo che non sono l’unica…
Come mi sono organizzata
La settimana scorsa questo amabile oggettino qui sopra rappresentato mi ha svelato un’amara verità.
La mia circonferenza giro ombelico è di UN METRO.
E con questa panza, signori miei, non sono mai stata in vita mia.
Ho quindi delle difficoltà a muovermi, girarmi, farmi spazio in treno…
Così mi sono attrezzata: abbiamo preso un appartamento con l’ascensore. Poi mi sono iscritta al servizio di spesa a domicilio di due supermercati. Ce ne sarebbe pure uno sotto casa ma è caro e poi dovrei portarmi le buste da sola, ma stiamo scherzando?
Ho liquidato i sensi di colpa per l’ambiente con il fatto che il fattorino del supermercato fa parecchie consegne in un giorno, quindi il suo consumo di carburante e incremento del traffico sono comunque ridotti rispetto alle venti macchine private che si muoverebbero per la città per fare la spesa… giusto?
In questo mio stato ingombrante mi ritrovo anche da sola, perché l’Orso è dovuto partire per una trasferta imprevista di un paio di settimane, domani tornerà ma dopo pochi giorni dovrà ripartire per un mese.
In Italia le nostre famiglie sono tutte in allarme: “Non puoi stare da sola all’ottavo mese!” è la frase che ho sentito ripetere più spesso negli ultimi tempi.
Innanzitutto, io non sono da sola: ho una bambina dentro la pancia!
Poi: c’è l’ambulatorio medico a cinquanta metri, e la fermata dell’autobus per l’ospedale dietro casa.
A proposito, appena arrivata ho subito preso contatti con l’ospedale dove, dopo lunghissime e approfondite ricerche, avevo scelto di partorire e lì mi ha visitato una midwife (ostetrica è la traduzione, ma sarebbe una via di mezzo tra una ginecologa e un’ostetrica, dal momento che per esercitare deve farsi 13 anni di università). Dopo aver guardato i miei esami italiani, mi ha chiesto: “E così hai il diabete gestazionale, eh?”. Eh sì, ma una forma lievissima, mi sono affrettata a specificare. “Bene, noi qui diamo per buoni i tuoi esami italiani, ci fidiamo, non c’è bisogno di rifarli. Quindi lunedì vieni a fare la sessione informativa sul diabete gestazionale”.
Ma come!? Ma non dovevate essere tutti scialli qui? Ma questo non era il momento in cui mi mettevi in mano una sausage pie e un fish and chips e mi dicevi cià, ci vediamo in spiaggia?
E quindi malvolentieri sono andata a questo incontro di quattro ore in cui ci hanno spiegato (a me e altre cinque fortunelle) come si usa un nuovo aggeggino che fa le stesse cose di quello che mi avevano dato in Italia e che tipo di dieta seguire per evitare che il livello di glicemia si alzi troppo.
E ta dà, invece di misurare una volta sola, qui devo misurarlo QUATTRO volte al giorno.
Mi sono sentita come in quel racconto di Buzzati su quel paziente che finisce in clinica per sbaglio e poi viene spostato con una scusa o con un’altra al piano inferiore, dove si trovano i malati più gravi, e continuamente viene spostato al piano successivo… e lui si dispera e non sa più come spiegare che non ha niente, che è tutto un errore ma i medici lo prendono per pazzo… Ecco. Uguale.
Poi, per evitare di trasformarmi in divano (anche perché chi mi rialza, poi!?) mi sono iscritta a vari corsi di yoga premaman e pilates premaman. Il dottore mi ha detto che non posso mantenere la stessa posizione a lungo, non posso sdraiarmi e non posso saltare e che – per l’amor di Dio – devo smettere immediatamente appena noto che qualcosa mi fa male o mi affatica.
Praticamente il mio sogno di persona pigra trasformato in realtà: vado in palestra ma appena non c’ho voglia dico “Non me la sento” e tutti sono comprensivi e fanno sì con la testa senza giudicarmi, anzi, preoccupandosi pure!
A chi non fa tenerezza una balena esausta?
A livello pratico in casa ho messo tutte le tazze e i piatti a portata di braccio e ogni tre metri c’è una sedia, perché, purtroppo, a fare qualsiasi cosa mi stanco molto. (E infatti questo post lo sto scrivendo dal 5 novembre).
Ma perché vuoi stare da sola quando potrebbe venire qualcuno della tua famiglia dall’Italia?
Perché!?
Perché?
Perché quel qualcuno sarebbe stato mia suocera. (Con cui vado molto d’accordo, sia chiaro, ma un mese è proprio luuuuungo.)
A cosa penso / What have you done?
L’altro giorno mentre stavo in vasca (perché una delle gioie che non mi hanno levato è il bagno – sì, per quanto debba farlo in acqua tiepida e senza getti diretti alla pancia- ) è partita questa canzone natalizia che inizia chiedendo in modo impertinente: “And so this is Christmas, and what have you done?“.
E io ho pensato che pochi giorni fa ho compiuto 35 anni. Quest’anno ho abitato in Spagna, Inghilterra, Cile, Italia e Australia. Mi sono abilitata e sono rimasta incinta.
A 16 anni se me l’avessero chiesto: “Dove ti vedi a 35 anni? Cosa farai a 35 anni?” avrei risposto qualcosa come “In viaggio, in giro per il mondo” oppure altri giorni avrei risposto “Sposata con un uomo che amo e mi ama e con dei figli”.
Non avrei mai pensato che sarei riuscita a realizzare tutte e due.
Buon Natale!
(A chi non fa tenerezza una balena esausta in versione natalizia?)
So, you are nearly due, huh?* * "Quindi sei quasi al termine, no?" Così mi ha detto sorridendo cassiera del supermercato stamattina.
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è passata un'altra settimana così in fretta così piena di cose che non ho avuto il tempo e non ho voluto trovare tempo per fermarmi a pensare su quello che sto vivendo tutto va e basta non so più cosa ho intenzione di essere ma nel dubbio cerco di essere tutto quello che mi capita voglio riprendere però a scrivere di tutte le piccole cose che mi accadono per non dimenticare niente tipo che la mia camera è davvero un porcile e non so dove mettere i piedi perché mi è arrivato il pacco da casa stamattina alle nove e non ho avuto tempo per sistemare le cose ho fatto mille volte le scale per controllare le lavatrici giù ho mangiato solo schifezze e dormito tre ore ma ora mi lavo ed esco e non penso non penso che casa è lontana e mi manca un po'
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