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weirdesplinder · 1 year ago
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CICLO DELL'ECUMENE di Ursula K. LeGuin
Il Ciclo dell'Ecumene o Ciclo hainita (Hainish Cycle)di Ursula K. Le Guin è composto da un insieme di romanzi e racconti ambientati in un medesimo universo immaginario futuro.
In questo scenario, la specie umana si è diffusa in decine di pianeti e tenta di organizzarsi in una società su scala galattica.
L'origine di tutta l'umanità non è la Terra, ma il pianeta Hain (chiamato anche Il Primo Pianeta, il Vecchio Mondo o Davenant, che dista circa 140 anni luce dalla Terra) dal quale in epoche remote è partita l'esplorazione spaziale e la colonizzazione di molti pianeti, compresa la Terra. In seguito queste colonie, forse a causa dell'assenza di adeguate tecnologie di comunicazione, non solo hanno perso i contatti, ma anche la conoscenza della reciproca esistenza. Centinaia di millenni più tardi, l'Ecumene rappresenta il tentativo di ricostituire l'unità della civilizzazione umana nella galassia, dopo che un primo tenttaivo di unione denominato Lega di Tutti i Mondi era fallito anche a causa di un invasione aliena.
I rapporti tra i pianeti sono mantenuti grazie ad una tecnologia, l'ansible, che consente la comunicazione istantanea anche a distanza di molti anni luce. Mentre i viaggi interstellari avvengono solo a velocità non superiore alla velocità della luce (NAFAL, Nearly As Fast As Light), con l'inevitabile conseguenza della dilatazione del tempo per i viaggiatori, mentre navi robotizzate possono raggiungere una velocità superluminale.
Gli hainiti, avevano conoscenze genetiche che hanno usato per alteare geneticamente se stessi e anche gli abitanti delle colonie che avevano fondato, perciò ogni pianeta ha in realtà una popolazione con caratteristiche molto diverse dalle altre, nonostante le loro origini comuni, anche grazie all'evoluzione naturale che si è aggiunta alle modifiche genetiche.
Ad esempio gli hainiti hanno acquisito la capacità di controllare coscientemente la propria fertilità, altri popoli sono in grado di sognare da svegli, oppure sono ermafroditi ecc.
E l'autrice utilizza i popoli di questi pianeti per raccontarci cosa potrebbe creare l'evoluzione umana spinta da fattori ambientali così diversi e da input culturali così diversi. Questa serie è come un piccolo studio antropologico della natura umana, portato all'estremo in alcuni casi.
La lettura di questo ciclo potrebbe risultare ostica soprattutto perchè l'ordine di pubblicazione dei libri e l'ordine delle storie che narrano non coincide. Ma bisogna dire che praticamente tutti sono leggibilissimi come romanzi autococlusivi poichè ognuno ha una sua trama con un suo inizio, svolgimento e fine, e benchè siano ambientati nello stesso universo non sono strettamente collegati.
Ma vi presento comunque qui sotto l'ordine cronologico in cui andrebbero letti i 7 romanzi della serie:
Pre-ere: Periodo non trattato in alcun romanzo ma solo citato, sono i due milioni di anni, durante i quali gli hainiti hanno esplorato lo spazio, colonizzando decine di pianeti nel Braccio di Orione, tra cui la Terrra, creando una rete di mondi che si è poi dissolta.
Prima Fase: la Lega di Tutti i Mondi quanto l'ansible non esistono ancora, anche se sembrano sul punto di diventare realtà o sono appena nati (Il mondo della foresta).
I reietti dell'altro pianeta (pubblicato anche col titolo Quelli di Anarres) (1974)
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Trama: Due pianeti gemelli, Urras e Anarres, illuminati da uno stesso sole ma divisi da una barriera ideologica antica di secoli. Urras è fittamente popolato, tecnologicamente avanzato, ricco, florido, retto da un'economia liberista. Da qui sono partiti nella notte dei tempi i seguaci di Odo che hanno colonizzato l'arido Anarres, fondandovi una comunità anarchico-collettivista che non conosce concetti come proprietà, governo, autorità. In questa società apparentemente perfetta nasce Shevek, genio della fisica alle prese con un'innovativa teoria del tempo, un vero "cittadino del cosmo" che dedicherà la vita ad abbattere il muro che separa da sempre i pianeti gemelli.
2. Il mondo della foresta (1976)
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Trama: Sul pianeta Athshe, la vita è interamente condizionata dalle enormi, fittissime foreste che ricoprono quasi tutta la superficie. Qui vivono gli Athshiani, il popolo dei sognatori, e qui sono scesi gli uomini a impadronirsi del legname ormai prezioso in questo lontano futuro. Athshe è diventato una colonia della Terra, dove agli indigeni è riservato il lavoro fisico più pesante e dove uomini come il capitano Davidson e l’antropologo Ljubov si scontrano in nome di opposte ideologie. Fino al giorno in cui fra le foreste di Athshe non si leverà un dio, Selver, il sognatore capace di fondere per il suo popolo il mondo del sogno con quello della realtà. E allora gli uomini dovranno guardarsi dai loro schiavi.
Seconda Fase: La lega di Tutti i Mondi esiste già, ma non L'Ecumene, e nel terzo libro di questa fase la Lega è in crisi e risulta frammentata a causa di una razza aliena nemica gli Shing, che vengono da un mondo oltre la Lega
3. Il mondo di Rocannon (1966)
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Trama: In un mondo ai confini della Galassia, tre razze native - gli Odemiar, abitanti delle caverne, gli elfici Fiia e i Liuar, guerrieri divisi in clan vengono improvvisamente aggredite e conquistate da una flotta di astronavi provenienti dalle stelle. Lo scienziato terrestre Rocannon, che si trova in quel mondo, assiste impotente allo sterminio dei suoi amici e alla distruzione della sua astronave. Abbandonato tra popoli alieni, Rocannon guida allora la battaglia per la liberazione, scoprendo che, in breve tempo, la sua figura assume contorni leggendari e che qualcuno lo considera addirittura un dio...
4. Pianeta dell'esilio (1966)
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Trama: Su Werel, terzo pianeta del sistema di Gamma Draconis, le stagioni durano decine d'anni terrestri, e ora l'Autunno sta per finire. L'Inverno sarà una sorpresa per le generazioni più giovani, che non l'hanno mai conosciuto, e una dura prova per tutti. Ma le ostilità del clima non sono le sole contro cui gli abitanti devono combattere: ci sono anche i barbari Gaal e i mostruosi diavoli della neve. La contesa contro la natura avversa e i nemici esterni unisce le due razze umanoidi di Werel: i Nati Lontano, ultimi superstiti della colonia hainita che vivono nella città costiera di Landin, ormai isolati da oltre seicento anni dalla madrepatria, e i nomadi nativi del pianeta. È così che Jakob Agat Alterra, discendente degli "alieni" hainiti, conosce la giovane Rolery, figlia di un capo Clan nativo, e se ne innamora. Ma non sarà facile stabilire un'alleanza fra due razze che sembrano destinate all'eterna incomprensione ...
5. Città delle illusioni (1967)
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Trama: Il progresso tecnologico dell'umanità non è andato di pari passo con quello della conoscenza. Questa penuria di saggezza ha reso gli uomini miseri nella loro vulnerabilità, facilmente in balìa di esseri superiori, come gli inquietanti Shing. La Terra appare una sconfinata e arida distesa attraversata da verdi foreste, dove gli umani sopravvivono in gruppi isolati. A infrangere la placida esistenza di una piccola comunità, arriva un forestiero dalla carnagione ambrata e dagli occhi felini e privi di iride, senza ricordi né identità. Un messaggero del nemico? Un mutaforma? Un vagabondo che giunge da molto lontano? Toccherà allo stesso sconosciuto trovare le risposte che lo riguardano, nel corso di un lungo viaggio alla ricerca della memoria perduta, che lo porterà fra popolazioni guerriere, fino alla città mitica di EsToch, a ridosso del futuro.
Terza fase: i pianeti della vecchia Lega di Tutti i Mondi si sono riuniti nell'Ecumene e ora su Hain coesistono piccole società autonome, i pueblos, organizzati secondo forme sociali arcaiche, fortemente ritualizzate, e una rete di città ad alta tecnologia e bassa densità, come Kathhad e Darranda, che ospitano i "templi", i centri di informazione degli "storici", e le Scuole Ecumeniche, in cui vengono istruiti studenti provenienti da molti mondi, per diventare osservatori e inviati diplomatici dell'Ecumene.
6. La mano sinistra del buio (1969)
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Trama: Sul pianeta Inverno, coperto di ghiacci perenni e dominato da una struttura semi-feudale, l'Ecumene ha inviato un emissario, Genly Ai, incaricato di convincere gli indigeni a unirsi alla Lega. Non sarà facile per lui entrare in contatto con gli abitanti di quel mondo alieno, ancora ignoto, che trascorrono i cinque sesti della loro esistenza in uno stato ermafrodito neutro, per poi essere maschi o femmine solo nei giorni del kemmer. Per riuscire nel suo intento, l'Inviato dovrà superare differenze biologiche, culturali, psicologiche, sociali e comprendere articolate organizzazioni politiche, oltre che affrontare condizioni estreme in un attraversamento del grande Nord.
7. La salvezza di Aka (2000)
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Trama: Sutty, un'osservatrice dell'Ecumene interstellare, è stata assegnata ad Aka, un mondo dominato da un governo azienda che ha come unico fine la produzione e lo sviluppo economico. A questo scopo la monolitica Corporazione di Aka ha bandito tutti i vecchi costumi, cancellando quasi completamente la lingua scritta e le tradizioni. Per Sutty, specializzata in storia e linguistica, si tratta di un incarico senza sbocchi: come può studiare un mondo dove la popolazione sembra non avere ricordo del proprio passato? Del tutto inaspettatamente, però, Sutty riceve il permesso di lasciare la moderna città dove tutti i suoi movimenti sono strettamente controllati e risalire il fiume per cercare gli ultimi residui della cultura originaria di Aka.
Per quanto riguarda i racconti ambientati nell'universo ecumenico questi sono ancora più separati e a sè stanti che non i romanzi, tanto che l'autrice stessa non li ha mai raccolti in antologie specifiche, ma solo in antologie che contengono anche racconti facenti parte altre serie. Un'antologia che raccoglie anche tre racconti ecumenici che reputo interessanti è Fisherman of the Inland Sea del 1994, purtroppo inedita in italiano. I tre racconti sono The Shobies' Story, Dancing to Ganam e Another Story or A Fisherman of the Inland Sea e raccontano dei primi esperimenti dell'uomo con i viaggi interstellari a velocità maggiore di quella della luce.
Altri due racconti famosi sono The Day Before the Revolution che è un prequel al romanzo I reietti dell'altro pianeta, e Dowry of the Angyar (intitolato anche Semley's Necklace) prequel al romanzo Il mondo di Rocannon, che a volte sono stati inseriti come antefatti proprio in alcune edizioni dei due romanzi, o possono essere recuperati nell'antologia I dodici punti cardinali.
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A mio parere del tutto soggettivo i romanzi più belli della serie sono i tre centrali: Il mondo di Rocannon, Pianeta dell'esilio e Città delle Illusioni, che poi sono anche i primi ad essere stati scritti dall'autrice.Ma è un'opinione puramente soggettiva che si basa sul mio gusto personale in fatto di libri.
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scienza-magia · 9 months ago
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Copernicus, emissioni record di CO2 in Amazzonia
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L’Amazzonia che brucia, una sfida per Lula: record di incendi e di gas serra. I roghi devastano il polmone del mondo e aumentano le emissioni di anidride carbonica. Le dimensioni del fenomeno sono fuori dall’ordinario, anche a causa di una siccità senza precedenti. Ma il Brasile chiede alla Ue di bloccare la legge anti-deforestazione. Corrono gli incendi nell’Amazzonia e con loro corrono deforestazione ed emissioni di gas serra: in Bolivia, in Venezuela e anche nel Brasile di Lula, che ha promesso di azzerare la distruzione «netta» del polmone verde del mondo e voltare pagina rispetto ai disastri dell’era Bolsonaro. I numeri dicono quanto sia difficile passare dalle parole ai fatti. «Fuori dall’ordinario» Secondo il Servizio di monitoraggio dell’Atmosfera dell’agenzia europea Copernicus (Cams), le emissioni da incendi in Sud America, negli ultimi mesi, «sono state costantemente superiori alla media e hanno battuto record nazionali e regionali, soprattutto a causa dei gravi roghi nelle regioni del Pantanal e dell’Amazzonia». Secondo il Cams, le dimensioni del fenomeno sono «fuori dall’ordinario, anche considerando che luglio-settembre è il periodo in cui normalmente si verificano gli incendi nella regione». Le temperature estremamente elevate registrate in Sud America negli ultimi mesi, la siccità più grave da molti decenni e altri fattori climatici «hanno probabilmente contribuito ad aumentare la portata delle emissioni». L’anidride carbonica prodotta da incendi boschivi in Bolivia, a metà settembre, «rappresenta già il totale annuale più alto nel set di dati del Cams». Roghi record in Brasile Qui la siccità è iniziata a metà del 2023 ed è considerata la «più intensa e diffusa» di sempre, dal Centro nazionale di monitoraggio e allerta dei disastri naturali (Cemaden). Quasi il 60% della nazione è stato colpito in qualche misura. In Brasile, «le emissioni totali di anidride carbonica stimate finora nel 2024 sono state superiori alla media, seguendo un percorso simile a quello del record del 2007», si legge nel report del Cams. Ciò è dovuto in gran parte alle emissioni da incendi nella regione amazzonica, in particolare negli Stati di Amazonas e Mato Grosso do Sul (dove si trova la maggior parte delle zone umide del Pantanal). Qui, il totale delle emissioni di anidride carbonica è il più alto nei 22 anni di rilevazioni del Cams.
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Secondo i dati del Programma di monitoraggio degli incendi dell’Istituto nazionale brasiliano per la ricerca spaziale (Inpe), il numero di roghi divampati nello Stato di San Paolo nel mese di agosto è stato superiore a qualsiasi altro agosto, da quando è iniziata la raccolta dei dati, nel 1998. E la regione dell’Amazzonia brasiliana, che ospita circa due terzi della più grande foresta pluviale del mondo, ha subito il più alto numero di incendi da 14 anni. Il Global Wildfire Information System, un programma congiunto di Copernicus e Nasa, stima che l’area totale bruciata quest’anno in Brasile è di 34,5 milioni di ettari, quasi come la superficie della Germania, più del doppio della media per lo stesso periodo 2012-2023. Un tesoro fragile La foresta amazzonica è un ecosistema prezioso quanto fragile. È il principale polmone verde della Terra: con il suo potere di assorbire anidride carbonica e rilasciare ossigeno, è in grado di influenzare il clima del pianeta. Anni di sfruttamento hanno portato alcune sue regioni sull’orlo del punto di non ritorno, oltrepassato il quale rischiano di perdere la capacità di autorigenerarsi. I patti internazionali per fermarne la distruzione sono ormai diversi, ma poco efficaci. Un impegno ambizioso ma non vincolante è stato siglato da più di 100 leader mondiali durante la Conferenza Onu sul clima di Glasgow del 2021 (la Cop26). Lula contro la legge Ue anti deforestazione Il Governo del presidente Luiz Inácio Lula ha fatto della protezione dell’ambiente una priorità e il tasso di deforestazione è effettivamente sceso nel 2023, ma decenni di distruzione hanno creato condizioni particolarmente difficili. E persistono alcune ambiguità. La scorsa settimana, per esempio, il Brasile ha chiesto all’Unione Europea di sospendere l’entrata in vigore delle norme anti-deforestazione, che dovrebbero scattare il 30 dicembre, introducendo il divieto di importare prodotti legati alla distruzione delle foreste nel mondo. La legge si applica a un’ampia gamma di merci, compresi soia, manzo, caffè, olio di palma, gomma, cacao, legno e derivati. Il Brasile (ma lo stesso fanno Indonesia e Malesia, che ospitano a loro volta foreste pluviali) denuncia le regole Ue e sostiene che la stretta potrebbe colpire quasi un terzo delle esportazioni di prodotti tratti dalle foreste verso l’Europa (42 miliardi di euro nel 2023). Read the full article
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mariobadino · 3 years ago
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L'incrollabile volontà di fini-
L’incrollabile volontà di fini-
L’incrollabile volontà di finire ciò che si è iniziato, anche quando non lo si è esattamente iniziato: basta esserselo proposto. Ho deciso di comprare un terreno e fare un bosco. Quanti anni sono passati da allora? L’amico Paolo Summa ogni tanto mi “richiama all’ordine”, così mi rimetto a pensarci, ma devo trovare il modo di non far passare il tempo invano (un bosco, oltretutto, non cresce in…
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marquise-justine-de-sade · 5 years ago
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17 Novembre
Festa Nazionale del Gatto Nero
La (falsa) credenza che il gatto nero porti sfortuna è molto diffusa.
Questo felino è sempre stato considerato portatore di sfortuna perché si pensava che incarnasse il male. Ancora oggi, a quanto pare,purtroppo e per sfortuna di questi splendidi felini, ci sono persone che credono a questa diceria o li utilizzano per stupidi ed inutili riti, tant’è che ogni anno ne vengono sterminate alcune migliaia di esemplari.
La giornata dedicata al gatto nero è il 17 novembre per due motivi: diciassette perché è il numero che rappresenta, per i superstiziosi, la sfortuna e novembre perché è il mese in cui si raggiunge il culmine di uccisioni di mici neri: una data molto simbolica quindi per la lotta e la difesa dei nostri amici felini neri, le piccole pantere domestiche che comunque, per fortuna, sono anche amate da tantissime persone.
La diceria che il gatto nero porti sfortuna ha radici molto antiche: il colore nero è sempre stato associato alla malvagità ed inoltre i gatti neri venivano imbarcati sulle navi dei pirati, perché erano considerati più abili nel dare la caccia ai topi: vederne uno per strada significava, dunque, che una nave pirata era nei paraggi; nel Medioevo, erano invece considerati compagni diabolici delle streghe sia per il colore nero, che per la loro consuetudine di uscire di notte (come del resto, viene spontaneo dire, è la consuetudine di tutti i mici, essendo animali notturni in natura): per questo chi ne possedeva uno era condannato al rogo.
Infine il gatto nero era poco visibile al buio per via del colore e così faceva imbizzarrire i cavalli che se lo trovavano davanti nella notte, che scaraventavano perciò violentemente i cavalieri a terra.
Chiunque conosce i gatti sa che queste sono appunto solamente superstizioni infondate che oggi non dovrebbero, in teoria, avere più seguito. I gatti neri sono esattamente come tutti gli altri: affettuosi, dolci e giocherelloni, dormiglioni e cacciatori, curiosi e simpaticissimi… tutto questo ovviamente solo quando ne hanno voglia! Per il resto sono quello che sono: gatti! E per questo meritano tutto il nostro rispetto, le nostre cure e la nostra protezione, come tutti gli altri.
Anche perché,vogliamo aggiungere, ci sono tantissime(e ottime,a nostro dire) civiltà che invece hanno sempre adorato i gatti in generale, neri compresi: per gli antichi Egizi infatti, il nero era semplicemente il colore della notte ed inoltre il preferito della Dea Iside: i gatti neri erano quindi portati con ancora più alta considerazione.
In Gran Bretagna ancora oggi il gatto nero è considerato portatore di fortuna ed è anche di buon auspicio nei matrimoni.
Originaria del sud della Francia, ma diffusa anche in Inghilterra, è l’antica leggenda del Matagot. Il Matagot è uno spirito che prendeva la forma di un gatto randagio di colore nero e che vagava in cerca di padrone. Questo gatto poteva portare tanta fortuna ma bisognava trattarlo molto bene. La leggenda diceva che per propiziarselo bisognava offrirgli del pollo arrosto e poi farlo entrare in casa. Se il Matagot riceveva il primo boccone di cibo proveniente dalla stesso piatto del padrone ad ogni pasto, avrebbe fatto apparire delle monete d’oro ogni mattina.
In Irlanda il gatto nero domestico risaliva ai miti del ceppo di Natale. Questo legno proveniva dall’albero sacro di tasso ed era molto più che un mezzo per scaldarsi le ossa; evocava le dee che un tempo regnavano nel bosco magico, insieme al gatto nero, il loro benevolo parente. Quando quel legno bruciava, veniva chiamato “legno di Maria”, oltre che “legno allegro”; un’allusione alla vergine Maria, ma anche alla Madre Terra. Eroi, amanti, mendicanti e folli conoscevano il significato del legno, e così pure i medici della foresta e gli erboristi (prima donne, poi uomini) che svolgevano la loro attività mistica a tarda notte, per risanare coloro che la medicina ufficiale non riusciva a guarire.
Nell’antica Roma il gatto nero era considerato di buon auspicio: quando moriva veniva cremato e le sue ceneri sparse sui campi per dare un buon raccolto ed eliminare le erbe infestanti.
Dai fenici in poi, i gatti sono stati una presenza immancabile sulle navi. A bordo delle navi i gatti, prevalentemente neri, erano bene accolti in tutta Europa non solo per dare la caccia ai topi nella stiva ma anche come portatori di buona sorte. Iside, infatti, era anche la dea protettrice di navi e marinai e spesso le sue immagini, in forma umana o felina, venivano messe a prua.
Il gatto era considerato dai marinai lo spirito guardiano del vascello: se rimaneva a bordo, la nave era sicura; se l’abbandonava essa era destinata al naufragio. In Gran Bretagna la tradizione popolare è piena di storie su marinai che hanno rifiutato l’imbarco perché non c’era un gatto (meglio se nero) sull’imbarcazione. I gatti svolgevano anche un’altra funzione molto importante: erano fonte di affetto e di divertimento per i lunghi mesi trascorsi a bordo.
La presenza a bordo di gatti fu obbligatoria nella marina britannica fino al 1975. Le navi britanniche accoglievano soprattutto gatti neri come risulta da molte fotografie e dalla diffusione dei gatti di quel colore in terre remote che fungevano da stazioni baleniere. Addirittura, anche le compagnie di assicurazione obbligavano a tenere a bordo gatti.
I gatti navigatori oltre che su navi da guerra, da carico e da passeggeri sono molto apprezzati anche sui pescherecci. A questo proposito i pescatori giapponesi vogliono a bordo solo gatti tutti neri o tutti bianchi o tutti marroni perché si dice che portino fortuna.
Quindi che altro si può dire? Il gatto nero è semplicemente un altro magnifico esemplare di micio che ci ama e si fa amare, conquistandoci come solo i gatti sanno fare!
Dal web
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rideretremando · 4 years ago
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ELENA PULCINI,
LA FILOSOFIA CHE SALVA
Che cos’è la passione?
La passione è l’energia affettiva che ci motiva all’azione, è la sorgente profonda delle nostre scelte, preferenze, credenze. Non ha niente a che fare con l’ “irrazionale”, cioè con l’altro dalla ragione, a cui ha per lo più cercato di ridurla il pensiero occidentale e moderno. Attraverso le passioni (preferisco parlarne al plurale) noi conosciamo, comunichiamo, entriamo in relazione con il mondo, ci mettiamo in gioco. Certo, si tratta di energie intense, durature che pervadono l’intera personalità del soggetto; non vanno infatti confuse con le emozioni o gli stati d’animo, come la paura che insorge se un’auto sfreccia veloce mentre attraverso la strada, o come la gioia che mi investe se incontro inaspettatamente un amico che credevo perduto per sempre. Le passioni sono quelle che ci infondono una particolare tonalità emotiva e che presiedono di volta in volta alla relazione con l’altro, attraverso una dinamica aperta di reciproca trasformazione. Ovviamente questo non vuol dire che non ci siano passioni negative, persino capaci di distruggerci. Il punto è proprio questo: la qualità prismatica, ambivalente, imprevedibile delle passioni; che non solo ci impone di distinguere tra negative e positive, ma anche di capire che ci sono passioni positive, come l’amore, le quali possono annientarci e passioni negative, come la vergogna, che ci inducono a preoccuparci del giudizio dell’altro e a riaccedere a una dimensione etica. Etica è infatti la proprietà di tutte le passioni che ci spingono a tener conto dell’altro, a mettersi nei suoi panni, ad esercitare la nostra capacità di empatia. Ed è proprio l’empatia -attualmente oggetto di una importante riscoperta scientifica, ma già valorizzata dalla filosofia di Hume, Smith, o Scheler- la radice comune di quelle che propongo appunto di chiamare passioni empatiche, in quanto sono ispirate dalla capacità di mettersi nei panni dell’altro e di partecipare al suo vissuto. Una qualità emotiva che il pensiero moderno ha prevalentemente ignorato, finendo per identificare le passioni unicamente con quelle egoistiche.
Perché l’invidia è una passione triste?
Passioni tristi, che non vuol dire malinconiche, è una definizione che possiamo trarre da Spinoza, che le associa ad una condizione di depotenziamento del Sé e le oppone alle passioni “gioiose”: nelle quali al contrario egli vede l’espressione della “vis existendi”, della potenza di esistere. L’invidia è a mio avviso l’esempio più significativo delle passioni tristi, in quanto scaturisce da un senso di inferiorità che rende il soggetto incapace di tollerare il bene dell’altro (il suo talento, successo, bellezza) che viene vissuto come una sconfitta, una ferita narcisistica del Sé. Perché lei/lui sì e io no? È la domanda silenziosa e inconfessata che avvelena l’anima, e corrode la relazione, fino a pervertirsi nella nietzscheana Schadenfreude, cioè nel piacere che si prova di fronte al male e alle disgrazie dell’altro. L’invidia è una passione universale, persino i greci la conoscevano bene, ma prospera paradossalmente nelle società democratiche, in quanto è alimentata da quella che Tocqueville chiamava “l’uguaglianza delle condizioni”. È qui che essa mostra tutta la sua peculiare ambivalenza: si manifesta infatti allo stesso tempo come volontà di eccellere e intolleranza verso la sia pur minima differenza, desiderio di autoaffermazione e tendenza al conformismo, onnipotenza dell’Io e trionfo del desiderio mimetico di essere come l’altro. Non è difficile riconoscere in questi fenomeni le patologie più evidenti della nostra società narcisistica: patologie difficili da combattere perché l’invidia non si confessa mai come tale, lasciando tutt’al più trapelare quello “evil eye”, quello sguardo maligno che ci colpisce senza che ce ne accorgiamo…
Che cosa ha determinato la perdita del legame sociale?
L’assoluta egemonia di una prospettiva economicistica. Il soggetto moderno trova la sua raffigurazione nell’homo oeconomicus: motivato, come accennavo sopra, da quella che già Thomas Hobbes chiamava la “passione dell’utile”, vale a dire da passioni egoistiche, dalla realizzazione dei propri interessi, da quella brama di guadagno e di profitto che ha prodotto la progressiva atrofizzazione, o comunque rimozione, delle passioni empatiche. L’abbaglio della ricchezza e del benessere, la fantasmagoria della merce, come la chiamava Walter Benjamin, è così potente da oscurare altri moventi e obiettivi. Ed è la miccia che fa esplodere la logica seduttiva e incontrastata del capitalismo, di cui si è vista ancora troppo poco la molla emotiva: che non è solo il desiderio di beni materiali e di una vita prospera, ma anche quel desiderio di prestigio e di status che, a partire dalla modernità, viene conferito dalla ricchezza. Un desiderio che è poi a sua volta figlio dell’invidia: in una sorta di corto circuito tra passioni dell’utile e passioni dell’Io del quale, nella nostra effimera società dello spettacolo, siamo sempre più prigionieri, e al quale abbiamo sacrificato la relazione, il legame sociale, il bene comune.
“La cura del mondo” è uno dei suoi libri più significativi. La ritiene ancora possibile?
Penso che sia più che mai necessaria e urgente. Sembra incredibile ma dal 2009, l’anno in cui il mio libro è stato pubblicato, il mondo ha subito trasformazioni radicali, per non dire sconvolgenti, sintomo del fatto che velocizzazione e accelerazione non sono più parole che individuano una tendenza, ma una realtà che constatiamo ad un ritmo quasi quotidiano. E’ come se una serie di fenomeni finora ipotizzati, ma rimasti ancora in nuce, stessero esplodendo. Penso al fenomeno migratorio, certo, che assume proporzioni sempre più estese e preoccupanti, ma soprattutto al cambiamento climatico dei cui effetti siamo ormai ogni giorno testimoni. Ne è esempio inquietante questa torrida estate del 2019: il mondo sta bruciando, non solo per incendi devastanti in Siberia, Canarie, foresta amazzonica, ma per temperature così alte da sciogliere i ghiacciai della Groenlandia e mettere a repentaglio l’equilibrio ecologico del pianeta. Impossibile ovviamente fare previsioni precise, ma è certo che siamo entrati nell’era dell’Anthropocene: quella in cui tutto è prodotto dall’azione umana, e la natura, come realtà a noi esterna e autonoma, rischia di scomparire insieme alle risorse indispensabili alla vita. Abbiamo creato le condizioni per la nostra autodistruzione. Eppure non c’è ancora sufficiente consapevolezza di questo. Il genere umano è di fronte ad una sfida epocale che non sembra in grado di affrontare anche perché mette in atto meccanismi di diniego e illusorie strategie di indifferenza. La responsabilità e la cura non sono più un’opzione né solo un dovere etico, ma un meta-imperativo, un impegno concreto e ineludibile se vogliamo salvare il pianeta, le generazioni future, il mondo vivente.
Qual è la trasformazione più eclatante che ha modificato il soggetto occidentale?
È quella che ho appena evocato e che stiamo attualmente vivendo, il mistero della tendenza dell’umanità all’autodistruzione. Tendenza paradossale che sfida i paradigmi fin qui conosciuti: da quello, peculiare della modernità, di un soggetto prometeico, di un homo oeconomicus razionale e progettuale capace di foresight e proiettato nel futuro, a quello, esaltato dal pensiero postmoderno, di un soggetto edonista che si oppone all’etica del sacrificio per godere della felicità del presente. Oggi assistiamo, come direbbe Günther Anders, alla perversione di entrambi, a causa della scissione tra fare e immaginare, tra conoscere e sentire. Abbiamo un Prometeo senza foresight e un Narciso senza piacere: il primo sembra aver perso il senso e lo scopo dell’agire e procede ciecamente senza più chiedersi le conseguenze future del suo agire. Il secondo appare schiacciato sulla futilità della ricerca di un illusorio e autarchico benessere, ormai incapace di anelare alla felicità. Le sfide epocali della contemporaneità esigono perciò un nuovo tipo di soggettività, che deve ancora nascere, che si assuma la responsabilità del futuro e del destino del mondo e metta in atto strategie di cura per la ricostruzione di un mondo comune e per la difesa del mondo vivente. Ne cogliamo tracce nelle forme di solidarietà col diverso, nella lotta per la giustizia e per i diritti delle minoranze, e soprattutto nelle lotte per la difesa del pianeta che testimoniano auspicabilmente il farsi strada di una nuova consapevolezza dei rischi a cui siamo esposti e della necessità di nuove strategie.
La filosofia può limitarsi soltanto alla riflessione o può incidere in un contesto così complicato?
Oggi non abbiamo più bisogno di quella che chiamo una filosofia senza mondo, arroccata nella cittadella delle sue sofisticate riflessioni astratte, ma di una filosofia per il mondo; che in primo luogo recuperi l’originaria alleanza con la politica, intesa come preoccupazione per il destino della polis, come nella Repubblica di Platone; e che in secondo luogo sia disposta a riflettere in presa diretta con l’attualità. Insomma una “filosofia d’occasione”, per riprendere l’espressione di Anders, che sappia non solo continuare tenacemente a porre domande in un mondo che sembra annegare in una oppiacea indifferenza e nella banalità dell’ovvio, ma anche porre le domande giuste: quelle cioè che sanno opporsi alla manipolazione della verità, sempre più diffusa, per cogliere le trasformazioni in atto, individuare di volta in volta i veri pericoli, interpretare e dare la priorità agli eventi simbolicamente rappresentativi.
Che cos’è l’identità?
Non mi è mai piaciuta molto questa parola, perché contiene in sé il rischio di una fissità, compattezza, definitività, egemonia, che limita se non addirittura preclude, l’apertura, l’inclusione, il cambiamento; che non contempla in altre parole, l’idea di differenza. Basti pensare all’identità maschile che ha imposto il suo modello a livello universale relegando, nel migliore dei casi, l’identità femminile nel ruolo di un “altro” inevitabilmente subalterno. Una dicotomia che possiamo ulteriormente declinare in etero/omosessuale, bianco/nero, nord/sud ecc. L’identità è insomma facilmente esposta alla sua assolutizzazione, con effetti di dominio e di violenza. Lo vediamo oggi in particolare nello scontro, anche planetario, tra identità collettive, soprattutto quelle fondate su radici etniche e/o religiose, tese alla difesa di un Noi totalitario ed endogamico che si (ri)costituisce attraverso l’esclusione violenta dell’altro, del diverso; e sulla costruzione di capri espiatori su cui proiettare l’immagine stessa del male, sia che si tratti della contrapposizione planetaria occidente/islam, sia che si tratti di conflitti locali (come gli innumerevoli conflitti dei paesi dell’Africa, dal Ruanda al Mali ecc.). Indubbiamente i conflitti identitari sono oggi acuiti dai processi di globalizzazione, come ritorno regressivo del “locale” dentro il “globale”; fenomeno nel quale emerge comunque un bisogno di riconfinamento che fin qui è stato sottovalutato dalle forze progressiste e a cui è invece necessario - se non si vuole cadere nella trappola mortifera dei razzismi e dei populismi- dare una risposta, ripartendo da una diversa idea di comunità, compatibile con la libertà.
Di cosa è figlia la paura che attanaglia l’umano?
La paura non deve essere identificata tout court con una dimensione negativa. E’ infatti la passione primordiale, quella che, come ci insegna Blumenberg, ci spinge a costruire una familiarità con il mondo che ci circonda, cominciando con l’evitare i pericoli e sfuggire alle insidie. E’ dunque figlia della nostra ontologica vulnerabilità, che è ciò che definisce l’umano. E riconoscere la vulnerabilità è oggi più che mai salutare per un genere umano caratterizzato dalla perdita del limite e da una hybris narcisistica accecante. La vulnerabilità è insomma una risorsa, anche in quanto ci spinge ad interrompere la spirale di illimitatezza della quale siamo diventati inconsapevolmente prigionieri. La paura è infatti la passione del limite, il semaforo rosso, il campanello d’allarme che ci apre gli occhi di fronte al pericolo. Bisogna però reimparare ad avere paura. Oggi ne siamo evidentemente pervasi, ma di quale paura si tratta? Da un lato l’angoscia paralizzante, di cui ci parla Freud e che ritroviamo in una edizione attuale nella “paura liquida” di Bauman, che ci corrode internamente ma non sa individuare un bersaglio, scivolando da un oggetto all’altro in una sorta di perenne indeterminatezza; dall’altro, la paura persecutoria di cui parlavo prima, che proiettiamo sull’altro come nemico e origine di tutti i mali: una paura che si traduce in sentimenti violenti e distruttivi -come odio, rabbia, risentimento-, terreno di coltura di razzismi, nazionalismi, guerre religiose, atroci rivalità etniche. Presi tra questa forbice tra angoscia e paura persecutoria, finiamo per non vedere i veri pericoli, come quello che pende sul futuro del pianeta e delle prossime generazioni e ci trinceriamo dietro meccanismi di difesa (come il diniego e l’autoinganno) che ci esonerano dall’obbligo di una risposta. Reimparare ad avere paura significa dunque ritrovare la capacità di distinguere tra ciò che dobbiamo o non dobbiamo temere, tra paure giuste e paure sbagliate.
L’Altro è fuori o dentro di noi?
C’è evidentemente un altro fuori di noi: il prossimo, il diverso, l’amato, l’amico, il collega, lo sconosciuto che incontriamo nella sua concreta e tangibile corporeità. A cui si aggiunge l’altro virtuale, l’ “amico” dei social con cui chattiamo condividendo pensieri (fb) o immagini (instagram). E poi ancora c’è l’altro distante: distante nello spazio (il migrante) o nel tempo (le generazioni future). La nostra epoca produce una proliferazione delle figure dell’alterità in quanto moltiplica i luoghi –reali, virtuali o immaginari- della relazione, dell’incontro. Ma la nostra capacità di rapportarci a questa molteplicità di figure dipende molto dalla relazione che abbiamo con la nostra alterità interna: quanto più mi lascio contestare dall’altro che mi abita, dalla differenza che mi impedisce di chiudermi nella mia identità, tanto più saprò confrontarmi con l’altro esterno. Se sono in grado di riconoscere che il Sé contiene sempre un altro o meglio molti altri, sarò in grado di accettare l’altro concreto nella sua differenza, provare empatia per lo sconosciuto e persino per chi vive in territori lontani, nonché distinguere tra un’esperienza reale di relazione con l’altro da una relazione puramente virtuale, incorporea: senza tuttavia a priori negare la possibilità che persino una relazione virtuale possa diventare fonte di coinvolgimento emotivo…
Quando espelliamo l’Altro, in realtà che cosa espelliamo?
Espelliamo quella parte di noi che ci contesta dall’interno e che ci impedisce, come dicevo, di rinchiuderci nei confini asfittici di un’identità compatta che non lascia spazio alla differenza. Essere in contatto con l’alterità vuol dire mantenere viva la consapevolezza del fatto che l’identità è una struttura contingente, dovuta all’intreccio casuale di fattori che potevano anche comporsi in modo diverso, e che sono sempre passibili di cambiamento, dato l’incessante divenire dell’umano nella precarietà e nella vulnerabilità. Ed è questa consapevolezza che ci permette di riconoscere l’altro concreto nella sua stessa differenza; perché il bagaglio che egli porta con sé (di storia, cultura, suoni, colori e sapori) può diventare oggetto di curiosità, e persino di arricchimento, piuttosto che di diffidenza e di paura, come purtroppo accade sempre più spesso nelle nostre società, che chiamiamo multiculturali, ma che sono ben lungi dall’esserlo davvero. Noi, cittadini del mondo globale, siamo tutti esposti, inevitabilmente, alla reciproca contaminazione: possiamo scegliere di accettarla governando la paura e disponendoci alla reciproca solidarietà, o possiamo trincerarci nell’illusione immunitaria di chi pensa ancora di poter erigere muri.
“Essere singolare plurale” è possibile o è solo il titolo di un libro di Jean-Luc Nancy?
Temo il giorno in cui non lo considereremo più possibile. Ma indubbiamente non è un obiettivo facile anche se, come ci suggerisce Nancy, possiamo appellarci alla verità ontologica dell’essere-in- comune. Perché se è vero che l’essere è essere-con, è vero anche che la storia ci mostra un’infinita serie di tradimenti di questa nostra condizione. E allora bisogna interrogarsi sul perché: sul perché almeno in Occidente, l’individualismo ha nettamente prevalso sulla comunità e l’identità sulla pluralità. Quali motivazioni, passioni, interessi abbiano fatto sì che l’essere si mostrasse in un’unica, o prevalente prospettiva assumendo una connotazione unilaterale, impoverita se non addirittura patologica. Insomma, come sostengo da tempo, l’ontologia non basta; bisogna mobilitare interrogativi antropologici ed etici per spiegare luci ed ombre della condizione umana e individuare strategie per correggerne le patologie (tra cui, la più paradossale come abbiamo visto è la tendenza all’autodistruzione). La formula di Nancy, che ha peraltro una chiara radice arendtiana, è concettualmente efficace in quanto ci invita a valorizzare il singolo senza cadere nell’individualismo e a ripensare la comunità al di fuori di ogni organicismo, cioè all’insegna della differenza e della pluralità. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo agire non solo “come se” fosse possibile, ma creare nuove congiunture, nuovi paradigmi che siano all’altezza di questo compito.
Come si passa dall’uomo economico all’uomo reciproco?
L’homo reciprocus, la figura in positivo che ho proposto nel mio L’individuo senza passioni, è appunto uno dei possibili, nuovi paradigmi sui quali possiamo scommettere per rispondere alle patologie del sociale e alle sfide del mondo globale. E’ la risposta alla prospettiva puramente utilitaristica e strumentale dell’homo oeconomicus, che ha privilegiato la logica dell’interesse, dell’acquisizione e del profitto sacrificando o marginalizzando tutto ciò che esula da questa logica -la relazione, la comunità, le passioni empatiche, la gratuità-; provocando non solo l’erosione del legame sociale, ma precludendo uno sviluppo più pieno e più ricco dell’individuo stesso. L’homo reciprocus è colui che integra l’unilateralità del paradigma economicistico (dell’utile e dello scambio) con la dimensione del dono, inteso nel senso proposto da Marcel Mauss, di struttura della reciprocità. Ben lungi dall’essere un modello di buonismo, egli non fa altro che attingere a moventi altri i quali, come ci ricorda per esempio Amartya Sen, sono intrinseci all’essere umano tanto quanto la ricerca dell’utile. Lo mostra il fatto che il dono non è il frutto di un dover essere, ma un evento che agisce già, spontaneamente, nel sociale; e che aspetta solo di essere valorizzato e praticato, al fine non solo di ricostruire il legame sociale, ma di riaprire l’accesso ad una felicità che rischia di inaridirsi totalmente nella ricerca egoistica del benessere materiale.
Responsabilità, uguaglianza e sostenibilità sono tre parole-chiave per interpretare il futuro. Quale delle tre fa più fatica a essere coniugata?
Si potrebbe pensare che fra le tre l’uguaglianza, godendo di una lunga tradizione nel pensiero moderno, sia quella più consolidata e meno attaccabile. Ma in realtà non è così perché va ripensata e riconfermata a fronte delle inedite minacce cui la espongono fenomeni complessi come la crisi della democrazia, il populismo, l’irruzione dell’altro come diverso. Indubbiamente però le altre due sono più direttamente connesse a fenomeni inediti e al tema del futuro. E’ infatti nel contesto di un’etica del futuro resa urgente dal primo manifestarsi delle sfide globali (nucleare, ecologica) che, con Hans Jonas nella seconda metà del ‘900, emerge l’importanza del concetto di responsabilità, intesa come responsabilità per: per il mondo, la natura, le generazioni future, in una parola per l’intero mondo vivente. E ciò vuol dire che c’è un nesso intrinseco tra responsabilità e sostenibilità. Abbiamo reso il mondo insostenibile, come già accennavo sopra, a causa della nostra hybris, della nostra avidità e della nostra cecità; abbiamo saccheggiato la terra in tutti modi possibili, la crisi ecologica sta esplodendo attraverso fenomeni sempre più accelerati. Dunque, siamo noi che l’abbiamo prodotta e siamo noi che dobbiamo farcene carico, assumendo, qui ed ora, la responsabilità per uno sviluppo sostenibile. Siamo di fronte ad una scommessa senza compromessi: dall’assunzione di responsabilità dipende la possibilità di prefigurare un mondo sostenibile e dalla sostenibilità dipende il futuro della vita, o meglio di una vita degna di essere vissuta.
La differenza emotiva del femminile è una risorsa potenziale ancora inespressa pienamente?
Qui bisogna fare una premessa. Il femminismo ha molti volti perché sfaccettato e complesso è il pensiero delle donne. Penso che non tutte si riconoscerebbero tout court in questo presupposto della differenza emotiva, che io condivido senz’altro insieme ad alcune voci del femminismo (come l’etica della cura): purché però venga sottoposto ad uno sguardo critico-decostruttivo. In altre parole, è vero che le donne sono state tradizionalmente identificate con l’amore, la cura, i sentimenti, ma questo patrimonio ereditario le ha anche fortemente penalizzate: non solo confinandole nel privato e nella pura gestione dei rapporti familiari, ma anche privandole di quello che chiamo il diritto alla passione. Oggi uno dei concetti preziosi del pensiero delle donne è quello di un soggetto in relazione, che va a contestare l’idea egemone (e patriarcale) di un Sé del tutto autonomo e autosufficiente (basti richiamare l’homo oeconomicus o il soggetto cartesiano). Tuttavia, è importante addentrarsi meglio nell’idea di relazione: che non vuol dire oblatività, cura sacrificale, dedizione -le qualità su cui a partire da Rousseau è stata costruita l’immagine moderna della donna che ancora conosciamo bene- quanto piuttosto attenzione, empatia, desiderio e passione per l’altro. Se la integriamo con la potenza del pathos, la differenza emotiva delle donne può essere non solo una risorsa ma una risorsa rivoluzionaria, capace di sovvertire l’idea consolidata (maschile) di soggetto, astratta e atomistica, e di valorizzare quella capacità di relazione che può (e deve) investire non solo l’altro come prossimo, ma la comunità, la città, la natura, il mondo vivente.
A quale autore e a quali testi deve di più la sua formazione filosofica?
In generale, il mio percorso è stato scandito dal pensiero critico: da Rousseau, che (nonostante le sue “colpe” relative alla visione delle donne!) ha di fatto inaugurato la filosofia critica, alla Scuola di Francoforte, da Marx a Tocqueville, da Anders ad Arendt. E poi il pensiero francese del 900: dal decostruttivismo di Derrida al Collège de sociologie (Bataille), da Michel Foucault alla filosofia dell’alterità (Lévinas). E last but not least, al femminismo. Tra i testi a cui sono particolarmente grata: La democrazia in America di Tocqueville, Eros e civiltà di Marcuse, L’uomo è antiquato di Anders; senza dimenticare il Simposio di Platone, Il disagio della civiltà di Freud…
Che cos’è la politica?
La politica è la cura della polis attraverso la capacità di prendere decisioni, rispettando quella funzione di rappresentanza dei cittadini che richiede un grande senso di responsabilità. A partire dalla modernità, la politica è per così dire inscindibile dalla democrazia come forma di governo, vale a dire dalla attiva partecipazione di tutti alla cosa pubblica (res publica). E’ ciò che Hannah Arendt chiamava un “agire di concerto”, nel quale essa vedeva un vero e proprio “miracolo”; anche perché presuppone un agire insieme nel rispetto della pluralità. Ma questo miracolo -che non pare proprio esistere in nessun luogo del mondo- richiede comunque la vigile e attenta consapevolezza critica di quelle che con Tocqueville possiamo chiamare le patologie della democrazia: individualismo, indifferenza e delega, torsione autoritaria, esplodere delle passioni tristi come l’invidia o la paura del diverso, erosione del legame sociale. Non abbiamo ancora ben compreso che la politica (e la democrazia) non sono qualcosa fuori di noi, ma siamo noi: dobbiamo quindi costantemente educarci alla democrazia -come sosteneva anche un autore illuminato come John Dewey- per correggere le degenerazioni sempre possibili ed agire per il bene comune, valorizzando le risorse positive intrinseche sia ai soggetti che al sociale.
Che cosa diventa la politica se perde l’aggancio al perseguimento del bene comune?
Diventa pura gestione degli interessi egoistici dei gruppi in conflitto, lotta per la conservazione del potere, tradimento della rappresentanza, visione shortsighted, capace solo di policies, per lo più inefficaci, per affrontare la contingenza e incapace di abbracciare più ampi ideali. E’ questa purtroppo l’immagine prevalente della politica oggi in diverse parti del mondo: aggravata da forme estreme e stupefacenti di avidità e di corruzione, da manipolazioni senza scrupoli di passioni e opinioni che tendono a trasformare il conflitto in violenza, dal ritorno del carisma e del potere carismatico, riproposto in forme caricaturali e pericolose ad un tempo, e sostenuto da involuzioni populistiche spacciate per legittimità democratica. Inoltre, ignorare il bene comune oggi vuol dire rendersi colpevoli dell’indifferenza verso il futuro e i destini di un mondo che, come ho detto, è percorso da sfide inedite, ed avrebbe perciò estremo bisogno di nuove parole d’ordine e nuove pratiche.
La globalizzazione è vista come nemica da alcuni popoli perché non governata?
In realtà la globalizzazione è molto “governata”: non dallo Stato e dalla politica, certo, che mostrano sempre di più la loro debolezza di fronte alle accelerate trasformazioni globali, ma dai poteri forti -economico, tecnologico, mediatico/informatico- pilastri del capitalismo neoliberista, capaci di varcare ogni confine, ispirati solo dalla logica del profitto e pronti allo sfruttamento senza scrupoli delle risorse planetarie, naturali ed umane. Gli Stati a loro volta tendono a rispondere per lo più arroccandosi difensivamente su posizioni cosiddette sovraniste, nell’illusione di poter difendere i propri confini con politiche “illiberali” che fanno appello con tutti i mezzi possibili, inclusa la menzogna legittimata da media e social networks, all’identità nazionale. Un processo bifronte ben sintetizzato dalla formula global/local, che si adatta anche alla dimensione antropologico/culturale: da un lato omologazione, indifferenziazione, pensiero unico, dall’altro emergere (dentro e fuori dell’Occidente) di comunità regressive sempre più alimentate da logiche immunitarie e dalla costruzione di un Noi esclusivo e ostile. Basti pensare, in Occidente, all’espulsione del diverso che trova il suo culmine nella sciagurata gestione del fenomeno migratorio, o, fuori dall’Occidente, all’escalation del fondamentalismo (soprattutto) islamico, fino ai suoi estremi terroristi. Eppure, in questo scenario desolante, c’è chi avanza l’ipotesi di un’ “altra” globalizzazione: non più del mercato ma del senso, per dirla con Nancy o Edgar Morin. Una globalizzazione come processo emancipativo, nella quale cogliere la chance di pensarsi come un’unica umanità: stretta intorno alla necessità di affrontare le patologie sociali e le sfide ecologiche, determinata a combattere le disuguaglianze senza negare le differenze, capace, come propongono Jeremy Rifkin e Peter Singer, di estendere i cerchi dell’empatia fino ad includere i poveri della terra e le generazioni future. Le condizioni oggettive di questa possibilità ci sono e sono date in primo luogo da quell’interdipendenza degli eventi che ci unisce di fatto in un legame planetario. Non ci resta quindi che mettere alla prova la nostra capacità soggettiva di cogliere la chance: quella di costruire, per usare il lessico di Alain Caillé e del Manifesto convivialista che ho attivamente condiviso, una società conviviale globale.
Siamo ancora nella società liquida di Bauman o la intende superata?
Con il concetto di società liquida, Bauman coglie senza dubbio una trasformazione importante del nostro tempo, ancora decisamente attuale, che pone l’accento su una diffusa condizione di incertezza e di fragilità dovuta al franare di regole e valori consolidati, all’assenza di punti di riferimento e alla frammentazione del legame sociale. Liquida, per darne solo qualche pennellata, è la società nella quale, a differenza della prima modernità, “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” (come recita la metafora di Marx), lasciando gli individui in balia di un cambiamento permanente che rende endemica la vertigine del disorientamento. E’ la società caratterizzata dall’individualismo illimitato di cui parlavo sopra, che alla perdita del legame e del progetto, dei valori e della stabilità delle relazioni e del lavoro, risponde con la precarietà e la futilità del consumismo, del successo, dell’apparire ad ogni costo, dal teatrino dei talk shows alla ricerca dei like come conferma della propria fragile identità. E’ la società che esalta l’immediatezza e l’accelerazione a scapito dei contenuti. Tuttavia, in questo scenario ancora attuale che consacra il trionfo della precarietà e dell’effimero, vediamo rinascere forme che possiamo definire solide, sia pure in un senso nuovo, le quali affiorano inevitabilmente dal rimosso: forme regressive, come il revival di ideologie razziste, xenofobe e totalitarie a fondamento di comunità immunitarie e pateticamente esclusive (quello che ho chiamato comunitarismo endogamico); ma fortunatamente anche forme emancipative, come la rinascita di movimenti collettivi tesi alla ricostituzione del legame sociale, all’affermazione del valore della comunità e dei legami affettivi, all’assunzione della responsabilità collettiva (verso il pianeta, la natura) e della solidarietà (verso l’altro, il diverso). Non possiamo che scommettere, nel senso pascaliano, su quale di queste due forme avrà la meglio, puntando ovviamente sulla seconda.
Ormai solo un Dio o solo la filosofia può salvarci?
Se mi lasciassi sopraffare dal pessimismo, sarei tentata di aderire all’ammonimento heideggeriano. Ma se vogliamo darci una speranza, la filosofia può effettivamente venire in nostro soccorso: continuando in primo luogo a porre domande radicali e coraggiose che scuotano le coscienze in un mondo percorso da un lato da un oppiaceo individualismo e da una colpevole indifferenza, e dall’altro da ottuse regressioni verso miti identitari. Come ho già detto, abbiamo bisogno di una filosofia vitale che non tema di contaminarsi anche con altri linguaggi (letteratura, psicoanalisi, cinema) laddove il concetto e l’argomentazione non sono (più) sufficienti. Ma, come mi ha insegnato soprattutto il pensiero delle donne, la filosofia deve anche fornire risposte, prospettive, sentieri inediti, che siano all’altezza delle sfide della contemporaneità. È quello che chiamo un normativismo er-etico, che non proponga schemi astratti o retorici imperativi, ma tenda a valorizzare le risorse intrinseche sia al soggetto che al sociale; e che abbia il coraggio di lanciare nuove e rivoluzionarie parole d’ordine.
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cutulisci · 5 years ago
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Nella bella penombra del 1934 L’aria era una splendida rosa color triglia E la foresta quando mi preparavo ad entrarci Cominciava con un albero dalle foglie fatte di cartine di sigarette Perché ti attendevo E perché se te ne vieni con me Da qualsiasi parte La tua bocca è volentieri il niello Dal quale riparte continuamente la ruota azzurra diffusa e spezzata che sale A impallidire nella rotaia Tutti i prodigi s’affrettavano a venirmi incontro Uno scoiattolo era venuto ad applicare il suo ventre bianco sul mio cuore Non so come ci stava Ma la terra era piena di riflessi piú profondi di quelli dell’acqua Come se il metallo avesse finalmente scosso il suo guscio E tu coricata sullo spaventoso mare di pietre dure Roteavi Nuda In un gran sole di fuoco d’artificio Ti vedevo far discendere lentamente dai radiolari Le conchiglie stesse del riccio di mare c’ero Chiedo scusa non c’ero già piú Avevo alzato la testa perché lo scrigno vivente di velluto bianco m’aveva lasciato Ed ero triste Il cielo tra le foglie riluceva feroce e duro come una libellula Stavo per chiudere gli occhi Quando le due pareti del bosco che s’erano bruscamente divaricate si sono abbattute Senza rumore Come le due foglie centrali d’un mughetto immenso D’un fiore capace di contenere tutta la notte Ero dove mi vedi Nel profumo suonato a tutto spiano Prima che quelle foglie tornassero come ogni giorno alla vita cangiante Ho avuto il tempo di posare le labbra Sulle tue cosce di vetro
André Breton
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newsintheshell · 5 years ago
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Uzumaki, nuovi retroscena sull’anime dall’Adult Swim Con
La serie basata sull’opera horror di Jinji Ito andrà in onda nel 2021.
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Oltre all’annuncio di “Fena: Pirate Princess” e all’intervista sulla lavorazione di “Blade Runner: Black Lotus”, il primo Adult Swim Con porta anche novità riguardo all’attesa serie animata basata su “Uzumaki - Spirale”.  Il regista Hiroshi Nagahama (Mushishi, Aku no Hana) torna infatti a parlare delle opportunità e delle sfide poste dall’adattamento televisivo del manga firmato dal maestro dell’orrore Junji Ito, di seguito l’intervista sottotitolata diffusa in occasione della diretta
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La serie evento di quattro episodi, precedentemente prevista per quest’anno, sarà trasmessa nel 2021. Il cast del primo episodio è il seguente:
Kirie Goshima:Uki Satake 
Shuichi Saito:Shinichiro Miki
Yasuo Goshima:Toshio Furukawa
Toshio Saito:Takashi Matsuyama
 Yukie Saito:Mika Doi
 Azami Kurotami:Mariya Ise
 Katayama:Katsutoshi Matsuzaki
 Okada:Wataru Hatano
 Tsumura:Tatsumaru Tachibana
 Yokota:Kouichi Toochika
 Shiho:Ami Fukushima
 Ragazzo 1:Gen Satou
 Ragazzo 2:Shunsuke Takeuchi
 Ragazza:Anna Nagase
Partecipante 1:Kousuke Okamoto 
Nagahama sta dirigendo il progetto presso lo studio Drive (ACTORS: Songs Connection, Vladlove), la sceneggiatura è a cura di Aki Itami (Aku no Hana, Il piano nella foresta), mentre la colonna sonora è ad opera di Colin Stetson, il compositore dietro le musiche di “Hereditary: Le radici del male”. Alla produzione collaborano anche Production I.G USA e Adult Swim. 
Nella piccola cittadina di Kurouzu, un giorno cominciano a verificarsi degli strani fenomeni: il vento crea mulinelli, gli steli delle piante si attorcigliano, il fumo delle cremazioni disegna nel cielo motivi a spirale. Anche le persone subiscono improvvisi mutamenti: i capelli si arricciano, i corpi si avvitano su se stessi, qualcuno addirittura subisce disgustose trasformazioni; e, uno dopo l’altro, tutti sembrano cadere vittima di una follia isterica… Per sfuggire a questa misteriosa maledizione, la giovane studentessa Kirie Goshima decide di abbandonare il paese… Ma ci riuscirà?
Il manga, serializzato fra il 1998 e il 1999, è edito in Italia da Edizioni Star Comics raccolto in due volumi. L’opera ha già ispirato in passato un film live action, uscito in Giappone nel 2000.
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Autore: SilenziO))) (@s1lenzi0)
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liviaserpieri · 7 years ago
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“Le rivelazioni del ghiaccio, esatte”
albèdo (o albèdine) s. f. [dal lat. albedo -dĭnis: v. la voce prec.]. – 1. La parte più interna, bianca e spugnosa, della buccia del frutto degli agrumi, ricca di sostanze pectiche. 2. a. In ottica, rapporto tra il flusso luminoso globalmente diffuso in tutte le direzioni da una superficie (per es., dalla Luna e dai pianeti) e quello ricevuto da essa: sinonimo di coefficiente (o fattore) di riflessione diffusa. b. In fisica, il coefficiente di riflessione di una superficie nei riguardi di radiazioni ondulatorie o corpuscolari: per es., a. (di una superficie) per i raggi infrarossi, per i raggi α 
Rapporto fra l’intensità della radiazione riflessa da un corpo e quella con cui è stato irraggiato. Un corpo perfettamente bianco, ossia riflettente, ha albedo uguale a 1, mentre un corpo perfettamente nero ha albedo uguale a 0, ossia assorbe tutta la radiazione ricevuta. La definizione astratta è estremamente semplice, ma una definizione operativa e un’effettiva misura presentano qualche problema in più. A seconda delle caratteristiche della superficie, la direzione della luce riflessa può essere diversa, dal caso limite di una diffusione isotropa all’altro estremo di una riflessione speculare. La luminosità di un corpo planetario può dipendere fortemente dalla fase (ossia dalla geometria del triangolo Sole-pianeta-Terra), con un intenso effetto di opposizione. In generale le misure, basate su osservazioni astronomiche, sono effettuare in un definito intervallo di lunghezze d’onda della radiazione, ed è difficile stimare l’albedo bolometrica definita su tutte le lunghezze d’onda. Di solito, infine, la riflettività dipende dalla lunghezza d’onda, e le misure di albedo sono definite in base a una particolare distribuzione spettrale della radiazione incidente. Pur con tutte le difficoltà operative descritte, che richiedono definizioni precise e un’attenta analisi dei dati, sono disponibili misure o stime di albedo per molti corpi planetari. I valori sono molto diversi, e classi intere di oggetti (per es. gli asteroidi del gruppo tassonomico detto C) hanno albedo molto piccole, inferiori anche a 0,05. Ovviamente oggetti così scuri sono molto più difficili da osservare, e vengono introdotti nei dati degli effetti di selezione (a parità di dimensioni vengono scoperti più facilmente oggetti più chiari), che rendono difficile, tra l’altro, la stima del diametro di completezza.
http://www.treccani.it/enciclopedia/albedo_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/
“Le regioni più fredde della Terra, ricche di neve, oltre ad avere  poca luce ne assorbono una parte trascurabile a causa dell'albedo della neve, ma la relazione tra temperatura e albedo è in realtà più evidente nelle regioni tropicali, perché i tropici ricevono molta più luce dal Sole
Il fenomeno si mostra anche su scala minore. È esperienza comune che le persone che indossano abiti scuri d'estate sentono spesso più caldo di quelle che indossano abiti chiari”
“L'albedo di una foresta di pini a 45° nord di latitudine, che copre interamente la superficie, è di appena il 9%, tra le più basse di un ambiente naturale di terraferma. Questo basso valore deriva in parte dal colore dei pini, e in parte dalle differenti riflessioni multiple della luce in mezzo agli alberi fino all'assorbimento totale, che diminuisce la quantità di luce riflessa verso l'alto.
L'albedo di un oceano, grazie al fatto che la luce penetra nell'acqua, è ancora più bassa: circa il 3,5%, ma può cambiare parecchio al variare dell'angolo di incidenza della radiazione.
I cespugli densi stanno tra il 9% e il 14%. Un prato è attorno al 20%.
Un terreno arido ha un'albedo che dipende dal colore del suolo, e può essere basso fino al 9% o alto fino al 40%, con i campi coltivati che si collocano attorno al 15%.
Un deserto o una grande spiaggia si collocano in genere attorno al 25%, con grandi variazioni dovute ai diversi colori della sabbia.
Le strutture urbane hanno valori di albedo molto diversi, perché le strutture artificiali spesso assorbono la luce prima che essa possa raggiungere la superficie. Nelle parti settentrionali del mondo, le città sono spesso molto scure, e Edward Walker ha mostrato che la loro albedo media è di circa il 7%, con un piccolo incremento durante l'estate. Nelle nazioni tropicali, le città hanno un'albedo attorno al 12%. I differenti valori derivano direttamente da differenti materiali e stili di costruzioni.
La neve fresca appena caduta su un paesaggio uniforme ha un'albedo del 90%. Una distesa di neve compatta (ad esempio, le pianure dell'Antartide) si colloca attorno all'80%. “
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“Non tornerò mai più tra le piante
che coprono a metà la superficie dello stagno.
E’ quasi mezzogiorno; la coscienza dell’ istante
avvolge lo spazio di una luce superba.
La sera si stabilizza e l’ acqua è immobile;
spirito dell’ Eternità, vieni a posarti sullo stagno” (da Il senso della lotta)
“Non rinuncio a piacere
comincio a interrogarmi:
sono veramente vecchio?
sono veramente sincero?” (da Rinascita)
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levysoft · 2 years ago
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La nascita di Dracula
L’autore affermò che l’idea per scrivere il suo libro gli venne da un incubo causato da una cena, con lo studioso ungherese Arminius Vambery, a base di gamberi e insalata.
Addormentandosi, lo scrittore sognò un vampiro che sorgeva dalla tomba per recarsi a compiere i suoi misfatti.
Ma l’incubo di Stoker di certo non bastò per costruire la trama di questo capolavoro della narrativa gotica. È noto infatti che l’autore, sotto la guida di Vambery, si documentò scrupolosamente trascorrendo molte ore al British Museum a consultare libri e mappe fino a quando non riuscì a trovare tutto ciò che gli occorreva per scrivere il romanzo. Fece tesoro di quanto apprese sul folklore e sulle tradizioni sui vampiri e su un sanguinario personaggio realmente vissuto nel XV secolo, Vlad Tepes l’Impalatore re di Valacchia, il cui nome deriva da “Dracul”, usato dai suoi contemporanei per designare il padre, Vlad II, della principesca famiglia dei Basarab. Ma sull’origine di questo soprannome di Vlad vi sono due interpretazioni: la prima associa il nome “Dracul” con il diavolo, giacchè “drac” in romeno significa “diavolo” mentre il suffisso “ul” è l’articolo determinativo che viene aggiunto alla fine della parola; la seconda sostiene invece che il nome derivi dalla parola “drago”, l’emblema della famiglia di Vlad.
Perchè la Transilvania?
Stoker scelse la terra dove era vissuto Vlad per ambientare in modo attendibile il suo racconto, la Transilvania, “la terra oltre la foresta”, uno dei luoghi più selvaggi d’Europa. Per descrivere tali luoghi, che non aveva avuto modo di vedere, egli ricorse all’aiuto di Arminius Vambery, insegnante di lingue orientali all’Università di Budapest. Si noti che Arminius è il nome dell’amico del medico Van Helsing, uno dei personaggi del libro.
I vampiri del folklore rumeno
La storia del romanzo di basa su una credenza molto diffusa, quella dell’esistenza dei vampiri, creature terrificanti già menzionate nella letteratura greca ed egizia. Tuttavia per la creazione del conte Dracula, Stoker attinse soprattutto alle credenze del folklore rumeno. Secondo la Chiesa ortodossa orientale, la religione dominante in quel paese, chi muore maledetto o scomunicato diventa un morto vivente, o moroi, finchè non ottiene l’assoluzione da parte del sacerdote. La superstizione locale si associa a creature denominate strigoi, demoniaci uccelli notturni, affamati di carne e sangue umani. La tradizione popolare attribuisce ai vampiri la causa di epidemie e pestilenze.
Secondo le leggende rumene, alcune persone, bambini illegittimi o non battezzati, streghe e il settimo figlio di un settimo figlio, sono destinati a diventare vampiri. Questi ultimi possono assumere le sembianze di animali come il lupo e il pipistrello.
In certi villaggi, chi non mangia aglio è sospettato di essere un vampiro e infatti la miglior difesa contro di essi è quella di strofinare con l’aglio porte e finestre.
Stoker ottenne queste informazioni facendo delle ricerche al British Museum e avvalendosi delle preziose informazioni fornitegli dall’amico Vambery ma sicuramente fu fortemente influenzato dai misteriosi omicidi compiuti, in quel periodo, da “Jack lo Squartatore” e dagli 11 racconti indù sull’argomento “vampiri” tradotti da Richard Burton, altro suo amico, esploratore e letterato.
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bangtanitalianchannel · 7 years ago
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[BLOG] La terza storia: Come è stato scoperto ‘Smeraldo’?
“Oggi vi racconterò di come ‘Smeraldo’, considerato una volta ‘il fiore della leggenda’, è potuto venire al mondo.
In realtà 5 anni fa, quando ho sentito la sua storia ad un evento della Playing Cards Academy, era già fatto certo che lo ‘Smeraldo’ appare solamente nelle leggende. (Posterò riguardo al legame tra il giocare a carte e lo Smeraldo più tardi) Ma un giorno d’estate nel 2013, una notizia scioccante è arrivata fino a me. Ricordo ancora quel giorno in maniera molto vivida.  Mi stavo lavando il volto dopo essermi svegliato quando fui interrotto da una telefonata. Era un’amica che avevo incontrato all’evento della Playing Cards. Avevamo preso parte allo stesso congresso per caso ed eravamo rimasti affascinati dallo Smeraldo quindi in seguito ci eravamo tenuti in contatto. Io vivevo in North Dakota e lei a San Francisco ma avendo interessi in comune la distanza non era un problema.
Tornando al discorso di prima, ciò che mi disse è che apparentemente lo Smeraldo era stato scoperto per davvero. Per alcuni istanti non riuscii a dire nulla. Poi urlammo entrambi attraverso il telefono.
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(La foto qui sopra ritrae lo Smeraldo quando è stato scoperto. Ancora adesso mi batte forte il cuore quando guardo questa foto.)
In quel periodo ‘amtest(amare_0)’ era un famoso viaggiatore conosciuto su Instagram. Un giorno postò una foto dei fiori che aveva scoperto per caso mentre viaggiava nel nord dell’Italia. ‘amtest(amare_0)’ in realtà non sapeva molto dello Smeraldo, pensò solo che fossero dei fiori insoliti ma bellissimi che aveva incontrato per caso nel suo viaggio. Tuttavia alcune persone su Instagram videro la foto e si accorsero della similarità con lo Smeraldo e la notizia si diffuse come l’incendio di un bosco. 
Storici del luogo hanno rivelato informazioni precise: l’antico nome del luogo dove erano stati scoperti i fiori era “La Città di smeraldo”.
Secondo gli storici il luogo era un prospero villaggio durante il periodo medievale ma dopo che la Morte Nera si era diffusa rapidamente, fu abbandonato e divenne la foresta che vediamo oggi. Successivamente molti esperti delle accademie di fiorai e delle accademie di biologia provenienti da tutto il mondo furono mandati sul posto e tutti confermarono pubblicamente che il nuovo fiore doveva essere lo Smeraldo.
In quel periodo, la scoperta dello Smeraldo incuriosì tutta Europa e America. Ogni paese cercò di far crescere il proprio Smeraldo ma il fiore può sbocciare solo nella Città di Smeraldo. Nessuno riuscì a farlo crescere altrove. Ci sono vari motivi per cui l’impresa sembra impossibile ma nessuno di questi è stato rivelato. Ancora adesso, gli Smeraldi crescono solo ed esclusivamente nei campi nel nord dell’Italia e vengono esportati in piccole quantità in Europa, America e in alcune parti dell’Asia.
Siete curiosi di sapere quanto fantastico sia lo Smeraldo, il fiore capace di generare tanto clamore? Vi racconterò la sua storia nel prossimo post.”
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©lynch) | Trans ©ktaebwi
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mariobadino · 3 years ago
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Confesso
Non so, alla fine molte delle cose che mi propongo non le faccio. Tendo a perdere un sacco di tempo nelle mie giornate che, pure, mi paiono convulse. Ci sono scadenze, e spesso non ci bado. Ci sono scusanti, che sono i salvagente a cui mi aggrappo. E, se dalle questioni personali passo ai grandi temi che mi stanno a cuore, dalla quotidianità ai progetti, ecco che si ripete un’altra volta lo…
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mezzopieno-news · 5 years ago
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IL LEONE ASIATICO NON È PIÙ A RISCHIO D’ESTINZIONE
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Il leone asiatico o Panthera leo persica è anche chiamato leone indiano e vive in natura solo nella Foresta di Gir, nello Stato indiano del Gujarat il più ad ovest del sub-continente indiano. Questa specie era diffusa dalla Grecia al Bangladesh ma all'inizio del 1900 la sua popolazione era stata ridotta sull'orlo dell'estinzione, così che solo una ventina di animali erano rimasti in vita nell'India occidentale. All’inizio del secolo scorso il viceré di Junagadh decise di proteggerli e avviò una campagna che ha portato oggi alla salvezza di questa specie. La sua popolazione è più che raddoppiata negli ultimi 40 anni e circa 600 leoni asiatici vivono nel Gir National Park oggi rispetto ai 411 del 2010.
Stotra Chakrabarti, ricercatore dell’Università del Minnesota, ha dichiarato: “Negli ultimi 5 anni la popolazione dei leoni è cresciuta del 126% al di fuori anche dell'area protetta di Gir, in concomitanza con una crescita di circa il 19% della popolazione umana in Gujarat”. 
Considerato un tempo, un trofeo molto ambito, questo leone è stato cacciato per secoli dai nobili indiani. Oggi diversi programmi di conservazione avviti negli anni stanno mostrando i loro frutti. Gli esperti forniscono protezione, conservazione dell’habitat, formazione, esperienza e supporto ai programmi di conservazione dei leoni asiatici nella foresta di Gir. Un monitoraggio GPS è stato sviluppato con una combinazione di software, materiali di formazione e standard di pattugliamento per stabilire sistemi di controllo, monitorare le popolazioni e i movimenti della fauna selvatica e identificare minacce come il bracconaggio o le malattie. 
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Fonte: Zoological Society of London; Wildlife Institute of India; International Union for Conservation of Nature and Natural Resources - 13 novembre 2020
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.             ╰ 𝐨𝐦𝐠, 𝐚 𝐧𝐞𝐰 𝐭𝐞𝐬𝐭 !                 📚 𝖼𝗎𝗋𝖺 𝖽𝖾𝗅𝗅𝖾 𝖼𝗋𝖾𝖺𝗍𝗎𝗋𝖾 𝗆𝖺𝗀𝗂𝖼𝗁𝖾               📅 𝗃𝗎𝗇𝖾 𝟢𝟪, 𝟫:𝟥𝟢 - 𝟣𝟣:𝟥𝟢 𝖺.𝗆.               🔗 #𝖽𝖺𝗇𝗀𝖾𝗋𝗈𝗎𝗌𝗁𝗉𝗋𝗉𝗀                         ・・・   𝐚𝐫𝐠𝐨𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨: approfondimento teorico (orale) e pratico con un esemplare di occamy.                         ・・・    Non era stata una nottata pacifica quella che Agape Urquhart si era ritrovata ad affrontare, quindi, occhiaie nascoste al meglio dal trucco e una strana ansia a solleticarle lo stomaco (insomma, perché dovevano cominciare proprio con una delle due materie che meno sentiva affini?!), fu senza la solita spavalderia che si recò in perfetto orario al limitare della foresta, laddove si sarebbe tenuto l'esame finale di Cura delle Creature Magiche.  Appena furono giunti tutti, il professor MacFarlan diede inizio alle danze: gli studenti del sesto anno avrebbero dovuto esporre tutto ciò che avevano studiato circa gli Occamy e, se se la sentivano, nutrire i cuccioli che l'uomo aveva portato con sé. Poteva farcela, dunque: nulla di così trascendentale.  Attese il suo turno ripetendo mentalmente l'argomento e scegliendo i loci su cui si sarebbe focalizzata di più per ottimizzare tempo e nozioni, in modo da puntare al massimo ― come sempre, del resto.  « Urquhart, Agape. »  Fu pronta a farsi avanti non appena udì il docente nominarla ed era già pronta a sputare fuori il fiume di parole che aveva accuratamente pre-confezionato, peccato che ci fosse un 𝐦𝐚: lo sguardo cadde sull'esemplare presente in quel momento, e flash della notte precedente le fecero perdere la concentrazione. Dannato cervello. Fortunatamente, il professore richiamò la sua attenzione e la corvonero si costrinse a fissare soltanto lui, onde evitare di bloccarsi nuovamente.  « Mi scusi, » iniziò, la mancina che lisciava il tessuto della gonna leggera. « stavo organizzando il discorso. La creatura che ci troviamo di fronte in questo momento è un Occamy, ed è maggiormente diffusa in Estremo Oriente e India. Come possiamo notare, è bipede, piumata ed ha il corpo di un serpente. In età adulta può raggiungere ben quattro metri di lunghezza, ma risponde alla descrizione di "giustospaziosa": insomma, assume la grandezza dello spazio che la contiene ― se necessario, infatti, può diventare addirittura piccolo quanto un vermicolo. Caratterialmente si presenta come schiva, ma aggressiva nel caso in cui le ci si avvicini irrispettosamente o si vadano a toccare le uova - tra l'altro molto preziose, in quanto il guscio è fatto d'argento puro e liscio. Pertanto, l'Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche ha ritenuto giusto assegnarle una classificazione XXXX, tipica delle creature che richiedono le attenzioni di una conoscenza specialistica: su questa scia, è stata assegnata all'elenco di Materiali Commerciabili di classe B, rari e pericolosi, e sono quindi soggetti a stretto controllo da parte del Ministero della Magia. »  La parte più semplice era andata. Prese un respiro un po' più profondo e mosse dei passi in direzione del contenitore dove erano stipati diversi nutrienti per diverse specie, il naso si arricciò prontamente non appena si sporse per dare una rapida occhiata.  « L'Occamy si nutre di topi, uccelli, persino scimmie. Tuttavia, » si fece coraggio e infilò la mano in quel cesto delle schifezze, disgustata all'idea di ciò che stava per toccare. Ugh, dannata indole da secchiona. « Ha una spiccata predilezione per gli insetti. »  Si avvicinò cautamente all'esemplare, e sempre con la stessa attenzione lasciò lo scarafaggio che aveva scelto poco distante dalle sue fauci. Attese che quello prima lo studiasse e poi lentamente si avvicinasse, per poi lasciarsi andare ad un sospiro di sollievo quando lo divorò ― chissà se per l'esame conclusosi positivamente o perché finalmente poteva andare a disinfettarsi le mani fin quasi a far scomparire il primo strato di pelle!
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Siamo ad Andhra Pradesh, in una delle regioni più aride dell’India ad un’ora dalla popolosa città di Bangalore. Qui affonda le sue radici l’albero più grande dell’intero pianeta riconosciuto come tale anche dal Guinnes World Record. Thimmamma Marrimanu è un esemplare rarissimo di banyan, il ficus benghalensis, le cui ramificazioni hanno formato una vera e propria foresta di alberi che si estende per quasi 20000 metri quadrati. L’albero di banyan è stato aggiunto per la prima volta al Guinness dei Primati nel 1998 e riconfermato nel 2017 come l’esemplare vegetale più grande al mondo. Il suo riconoscimento globale è avvenuto anche grazie al lavoro del giornalista Sathyanarayana Iyer che ha diffuso le informazioni su Thimmamma Marrimanu. Secondo gli esperti l’albero ha 660 anni. Il banyan fa parte della famiglia del gelso ed è originario del sub continente indiano. L’albero si allunga verso l’esterno in ogni direzione, ecco perché a guardarlo sembra un boschetto o una piccola foresta. Le sue radici, oltre 4000, sono districate sottoterra privando le altre piante vicine di acqua e sostanze nutritive che servono a lui per la sua immensa crescita che non si arresterà fino a quando non troverà più terreno fertile per espandersi. Thimmamma Marrimanu è considerato l’albero nazionale dell’intero Paese e la sua costante espansione è vista come un simbolo della vita eterna, soprattutto per la religione indù. La fama dell’albero però si è diffusa in tutto il mondo trasformando il banyan in icona di fertilità, vita e risurrezione. Secondo un’antica leggenda, l’albero più grande del mondo sarebbe nato nel 1433 dalla pira funeraria utilizzata per la cremazione di un uomo. Oggi, al di sotto del tronco principale di Thimmamma Marrimanu pellegrini di tutto il mondo lasciano icone religiose o stringono dei nastrini attorno ai rami in segno di preghiera e di profonda riverenza spirituale. L’aspetto imponente del banyan e la sua caparbia espansione lo hanno trasformato nel simbolo dell’eternità universale, ma non solo. Le sue radici ascendenti e i rami discendenti rappresentano per molti una metafora poetica di questo mondo e della vita. L’albero di banyan – Fonte 123rf https://ift.tt/3dGaAHu L’albero più grande del mondo si trova in India e simboleggia l’eternità Siamo ad Andhra Pradesh, in una delle regioni più aride dell’India ad un’ora dalla popolosa città di Bangalore. Qui affonda le sue radici l’albero più grande dell’intero pianeta riconosciuto come tale anche dal Guinnes World Record. Thimmamma Marrimanu è un esemplare rarissimo di banyan, il ficus benghalensis, le cui ramificazioni hanno formato una vera e propria foresta di alberi che si estende per quasi 20000 metri quadrati. L’albero di banyan è stato aggiunto per la prima volta al Guinness dei Primati nel 1998 e riconfermato nel 2017 come l’esemplare vegetale più grande al mondo. Il suo riconoscimento globale è avvenuto anche grazie al lavoro del giornalista Sathyanarayana Iyer che ha diffuso le informazioni su Thimmamma Marrimanu. Secondo gli esperti l’albero ha 660 anni. Il banyan fa parte della famiglia del gelso ed è originario del sub continente indiano. L’albero si allunga verso l’esterno in ogni direzione, ecco perché a guardarlo sembra un boschetto o una piccola foresta. Le sue radici, oltre 4000, sono districate sottoterra privando le altre piante vicine di acqua e sostanze nutritive che servono a lui per la sua immensa crescita che non si arresterà fino a quando non troverà più terreno fertile per espandersi. Thimmamma Marrimanu è considerato l’albero nazionale dell’intero Paese e la sua costante espansione è vista come un simbolo della vita eterna, soprattutto per la religione indù. La fama dell’albero però si è diffusa in tutto il mondo trasformando il banyan in icona di fertilità, vita e risurrezione. Secondo un’antica leggenda, l’albero più grande del mondo sarebbe nato nel 1433 dalla pira funeraria utilizzata per la cremazione di un uomo. Oggi, al di sotto del tronco principale di Thimmamma Marrimanu pellegrini di tutto il mondo lasciano icone religiose o stringono dei nastrini attorno ai rami in segno di preghiera e di profonda riverenza spirituale. L’aspetto imponente del banyan e la sua caparbia espansione lo hanno trasformato nel simbolo dell’eternità universale, ma non solo. Le sue radici ascendenti e i rami discendenti rappresentano per molti una metafora poetica di questo mondo e della vita. L’albero di banyan – Fonte 123rf Questo albero è il più grande esemplare al mondo e si trova in India. Fa ufficialmente parte del registro dei Guinnes World Record e per tutti è considerato l’albero della vita eterna.
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giuannemancasardus · 5 years ago
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Il Parco Nazionale del Golfo di Orosei e Gennargentu non esiste, ma è vivo e vegeto il territorio descritto sulla carta. L'area protetta è stata istituita nel 1998 ma l'opposizione della popolazione locale ha congelato l'ente.
Fatta la doverosa premessa, consigliamo vivamente una visita nell'area del Parco (che come istituzione non esiste) che si conserva in ottima forma, offre decine di servizi di turismo sostenibile e garantisce un'esperienza ad alto tasso di natura.
Un territorio che grazie alla sua morfologia selvaggia si è conservato integro. Sia la parte montana che quella marina che si integrano creando un sistema unico. Una montagna sul mare, grazie al Supramonte, massiccio calcare, che si tuffa nelle acque cristalline del Golfo di Orosei.
La superficie dell'area è pari a 73.935 ettari e si divide tra la provincia di Nuoro e quella di Ogliastra. Sono compresi 24 comuni, la maggior parte montani.
Altri, come Dorgali, con il borgo di Cala Gonone, o Baunei sulla costa orientale, includono coste e spiagge tra le più importanti e belle della Sardegna.
La costa
Per circa 40 km non presenta insediamenti umani, solo: insenature cristalline, piccole spiagge bianche, grotte marine e rocce a strapiombo sul mare.
Le spiagge: Cala Luna, Cala Sisine, Grotta del Fico, Cala Mariolu, Cala Biriola e Cala Goloritzè, dominata da un imponente obelisco naturale alto 114 metri. Paradiso dei climbers di tutto il mondo che qui possono unire il fascino di scalare la montagna, ma con vista mare.
flora e fauna
Il Gennargentu è il regno del Leccio che domina incontrastato dai 1.200 metri di quota sino al mare e che in alcune aree del Supramonte è tanto fitto da non permettere ai raggi del sole di penetrare. Un tempo era questo il manto uniforme della montagna.
A testimoniare il rigoglioso passato rimangono alcune foreste primarie residue, che conservano ancora i patriarchi della foresta, grandi monumenti vegetali come i tassi millenari di Tedderieddu in territorio di Arzana, considerati i più vecchi del mondo. Oltre i 1.200 metri cominciano i boschi di roverelle.
Sui pochi corsi d'acqua residui gli ontani formano foreste a galleria, mentre sui versanti della montagna si trovano agrifogli di altezze stupefacenti. Attorno, tutto il campionario della macchia mediterranea evoluta, ginepri, filliree, corbezzoli, lentisco, euforbie, rosmarini e tanti agrifogli che d'inverno si coprono di bacche rosse.
La varietà di nicchie ecologiche è davvero straordinaria. Ogni ambiente ha le sue specie e centinaia sono le specie endemiche preservate dall'insularità e dalla inaccessibilità del luogo.
Il fiore violaceo dello zafferano, specie endemica sarda, spunta nelle radure dei boschi insieme alle rosee peonie la cui fioritura primaverile si accompagna a quella delle orchidee selvatiche. Il ribes sardo, presente in una vallata dei monti di Oliena, è un endemismo del Gennargentu, oggi in forte pericolo di estinzione.
E' la terra del muflone che trova il suo habitat favorevole nella macchia alta della montagna. Sono quasi estinti il cervo e il daino, ma reintrodotti con interventi di ripopolamento da parte dell'Azienda Foreste.
ll cinghiale è presente pressoché ovunque, nella specie incrociata con il cinghiale maremmano, mentre il cinghiale sardo, molto più piccolo e meno prolifero, è in fase di reintroduzione. La volpe è ancora abbastanza diffusa, mentre si va riducendo la presenza di martore, ricci e lepri, facile bersaglio di caccia.
La montagna conserva quei caratteri dell'isolamento e dell'insularità che favoriscono la crescita di specie endemiche. Molte specie di insetti, rettili, mammiferi e uccelli sono esclusive della Sardegna, come la bellissima farfalla Papilio hospiton, che volteggia attorno alle piante di ferula (utilizzata per costruire lo sgabello dell'ovile), su cui depone le larve.
Sulle creste del Gennargentu e del Supramonte nidifica l'aquila reale di cui è segnalato l'avvistamento di almeno 8-10 coppie, mentre ormai incerta appare la presenza dell'aquila del Bonelli, specie molto rara in tutto il bacino del Mediterraneo.
Sono invece diffusi l'astore, il falco pellegrino, la poiana e lo sparviero. Il falco della regina, con un discreto numero di esemplari, è per lo più concentrato nel Golfo di Orosei.
Numerosi anche gli anfibi tra cui si segnalano il geotritone sardo, facile da incontrare nelle grotte e l'euprotto sardo, una salamandra endemica che abita nei torrenti dalle acque pulite.
Nel mare di Orosei da tempo non si segnalano avvistamenti della foca monaca. Costretta a fuggire dallo sviluppo del turismo, privata del suo tranquillo habitat, è oggi quasi scomparsa. Nelle fredde acque di Cala Goloritzè depone le uova il più grosso nudibranco del Mediterraneo, Tethys fimbria, il cui corpo trasparente è ricoperto di macchie scure.
Le acque del Golfo di Orosei sono ancora molto ricche: si trovano occhiate, saraghi, corvine, cernie, murene e aragoste.
I porti di approdo sono Cala Gonone o Santa Maria Navarrese. Le basi per cui partire per esplorare il golfo in barca, ma chi si ferma in queste zone può concedersi anche degli itinerari montani. Nelle due località sono infatti presenti numerose cooperative che organizzano escursioni verso il Canyon di Goroppu (il più profondo d'Europa),
il villaggio nuragico di Tiscali (nascosto all'interno di una montagna), le grotte di Ispinigoli (con al centro una delle stalattiti/stalagmiti più alte d'Europa). Si può anche scegliere di arrivare a piedi, impossibile in auto, alle spiagge di Cala Luna e Cala Sisine. Sono itinerari che permettono di unire mare e montagna. Indispensabile poi l'escursione a piedi per Cala Goloritzè, monumento naturale in cui è vietato l'approdo.
COORDINATE
CALA GONONE 40°16',81 N 09°38',36 E
PER CONTATTARE IL PORTO VHF canale 16 (08,00-14,00) E-mail: [email protected] Telefono: 0784-93261
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impiegatopigro · 6 years ago
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Manifesto del contadino impazzito
Amate il guadagno facile, l’aumento annuale di stipendio, le ferie pagate. Desiderate sempre più cose prefabbricate. Abbiate paura di conoscere i vostri vicini, e di morire, e avrete una finestra nel pensiero.
Nemmeno il vostro futuro sarà più un mistero, la vostra mente sarà perforata in una scheda e messa via in un cassetto.
Quando vi vorranno far comprare qualcosa vi chiameranno. Quando vi vorranno far morire per il profitto ve lo faranno sapere.
Ma tu amico, ogni giorno, fa’ qualcosa che non possa entrare nei calcoli. Ama il Creatore, ama la terra. Lavora gratuitamente. Conta su quello che hai e sii povero, ama qualcuno anche se non lo merita.
Non ti fidare del governo, di nessun governo. E abbraccia gli esseri umani. Nel tuo rapporto con ciascuno di loro riponi la tua speranza politica.
Approva nella natura ciò che non capisci e loda quest’ignoranza, perché ciò che l’uomo non ha razionalizzato non ha distrutto. Fai le domande che non hanno risposta. Investi nel millennio. Pianta sequoie. Sostieni che il tuo raccolto principale è la foresta che non hai piantato e che non vivrai per raccogliere.
Afferma che le foglie quando si decompongono diventano fertilità. Chiama questo “profitto”. Una profezia così si avvera sempre.
Poni la tua fiducia nei 5 centimetri di humus che si formeranno sotto gli alberi ogni mille anni. Ascolta il suono con cui si trasformano i cadaveri: metti l’orecchio vicino e ascolta i bisbigli delle canzoni a venire. Aspettati la fine del mondo.
Sorridi, il sorriso è incalcolabile, sii pieno di gioia. Finché la donna non si svilisce di fronte al potere, dai retta alla donna più che l’uomo.
Domandati: questo potrà dar gioia alla donna che è contenta di aspettare un bambino? Quest’altro disturberà il sonno della donna vicina a partorire?
Vai col tuo amore nei campi. Stendetevi tranquilli all’ombra, posa il capo sul suo grembo… e vota fedeltà alle cose più vicine alla tua mente.
Appena vedi che i generali e i politicanti riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero, abbandonalo. Lascialo come segnale per indicare la falsa traccia, la via che non hai preso. Sii come la volpe, che lascia molte più tracce del necessario, alcune nella direzione sbagliata.
Pratica la resurrezione”. 
_______________________________ Questa è roba vecchia. Che circola da prima che internet diventasse la più diffusa e ufficiale e unica fonte di divulgazione di tutto quanto l’uomo possa aver mai prodotto.
Avevo vent’anni e recitavo come un mantra queste parole. Avevo vent’anni, i capelli lunghi, ero innamorato e avevo speranza e prospettiva.
Ascolto l’eco di questo mantra, oggi, che torna a chiamarmi.
Ho quasi cinquant’anni è ho voglia di cambiare tutto nella mia vita. Ho quasi cinquant’anni, e se anche i capelli non ci sono più, sono innamorato. In maniera diversa, nuova. E ho voglia di sporcarmi le mani con la terra, col lavoro. Di andare a correre con le volpi nei prati.
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